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Foto: Yann Moulier-Boutang
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La crisi che scuote il mondo intero da cinque anni pare
non voglia calmarsi. Il discorso convenzionale pone sul banco degli accusati la
separazione progressiva tra una cosiddetta economia reale, buona e produttiva,
e una finanza semplicemente parassitaria, tagliata fuori da ogni connessione
col mondo concreto. Da parte tua, sebbene non sottostimi per nulla il dominio e
il ricatto esercitati dai mercati e dagli operatori finanziari, rifiuti ogni
distinzione così netta. Pertanto, ritieni che non ci si possa più limitare a
invocare un fantasmagorico ritorno al reale. Potresti spiegare perché le cose
non son così semplici come sembrano?
Davide Gallo Lassere intervista
a Yann Moulier-Boutang | In
effetti bisogna distinguere la parte finanziaria dell’economia reale, dalla
parte non finanziaria dell’economia reale. Entrambe sono pienamente reali. Del
credito, che è la sostanza della moneta la cui forma consiste nella più o meno
grande liquidità o esigibilità (le famose forme della massa monetaria M1, M2,
M3), genera immediatamente delle possibilità d’investimento, dei salari, degli
acquisti di beni e servizi, degli impieghi. Ciò che succede è che la parte
finanziaria dell’economia reale diventa via via più gigantesca a mano a mano
che l’economia diventa più complessa, e che si accrescono l’interdipendenza e
la mutualizzazione degli impegni contrattuali o legali e regolamentari.
Per 150
miliardi di dollari quotidiani di PIL mondiale e altrettanto di commercio di
beni, si hanno 1500 miliardi di transazioni che coprono il rischio di cambio e
3700 miliardi di transazioni su delle promesse concernenti il futuro, i famosi
prodotti derivati.
Questo era l’ordine di grandezza nel 2009 e malgrado la
scomparsa della metà dei2000 Hedge Funds (fondi di piazzamento
dei capitali a rischio) la scala è rimasta la medesima. La verità è che affinché
ciò che taluni chiamano “l’economia reale” diventi realtà bisogna che la
finanza attivi questo armamentario impressionante. L’economia starebbe meglio
senza una finanza che tanti a sinistra descrivono come un parassita inutile che
si potrebbe tranquillamente appendere a testa in giù? Diffidiamo del sofisma
già denunciato da Kant secondo il quale la colomba volerebbe meglio nel vuoto.
Non si tratta di negare l’evidenza, ossia che i finanzieri sanno trarre
dall’ipertrofia della sfera finanziaria una posizione di forza nella fetta di
reddito che si accaparrano. Questa è una costante nella storia del capitalismo
mercantilista, industriale, finanziario e oggi cognitivo. Ciò che merita di
essere pensato e pesato sono le trasformazione dell’economia in blocco (sfera
finanziaria e non finanziaria). Innumerevoli analisi sulla
finanziarizzazione dell’economia nella globalizzazione (quest’ultima
globalizzazione, preceduta da altre tre nella storia dell’Occidente)
considerano soltanto un lato del problema: le ripercussioni (essenzialmente
negative) del gonfiamento della sfera finanziaria su ciò che chiamano la sfera
dell’economia reale, spesso ridotta a quell’industria che promuovono al rango
di sola realtà, unica creatrice di ricchezza (come l’agricoltura in Quesnay). È
senz’altro vero che è molto attraente, in un sistema che erige la
massimizzazione del profitto all’alfa e all’omega, guadagnare il 30% l’anno
tramite i soli piazzamenti finanziari (per esempio la speculazione
immobiliare), quando guadagnare il 15% in imprese diventa una prodezza (una
prodezza tuttavia pretesa dai fondi pensione), mentre il 5% nelle PMI risulta
essere la banale realtà corrente. Questi effetti secondari non risolvono la
questione dell’ipertrofia senza precedenti della finanza. Ho cercato di
mostrare altrove che la crescita della liquidità e del potere di esercitare un
effetto leva da parte della finanza (il passaggio da 5 o 9 del corso del
credito per 1 di attivi sotto forma di fondi propri, a più di 30) traduceva
nella sfera finanziaria qualcosa che non ha nulla a che vedere con la
speculazione, né con un meccanismo autoalimentato in stile bolla, né con gli animal
spirits dell’homo oeconomicus, ma che riguarda una trasformazione reale
dell’economia.
Condivido questo principio con Christian Marazzi, anche se
non sono affatto d’accordo con le conclusioni che ne tira o con la sola
imputazione alla precarizzazione del lavoro salariato. A differenza della
grande maggioranza degli “economisti atterriti”[1] stimo che la ratio
prudenziale (oggetto degli accordi di Basilea III con il passaggio dalla ratio
Cook a quella MacDonough) traduca il grado crescente di interdipendenza delle
transazioni e delle economie e che la mutualizzazione del rischio stia dietro
tutte le forme di prodotti derivati. Il problema non consiste dunque nel
sopprimere le forme sofisticate di divisione del rischio né il ruolo della
finanza, ma nel controllare quest’ultima tramite delle istanze giuridiche e
istituzionali che vanno dagli Stati agli organismi internazionali o meglio
sopranazionali, ma anche alle comunità custodi dei beni comuni. È la mediocrità
della comprensione del ruolo della finanza di mercato e dei meccanismi di
creazione monetaria da parte dei cittadini e dunque dei politici che eleggono
(ignoranza largamente alimentata dalla finanza stessa che può così approfittare
di una posizione privilegiata di potere, agendo al di sopra delle leggi) che
nutre l’indecisione pietosa degli Stati, la loro paura del ricatto in salsa “too
big to fail”, la loro ossessione da piccoli bottegai nel gestire i conti
pubblici.
Questa ipertrofia della finanza corrisponde infatti al
passaggio dalla produzione di ricchezza centrata sullo sfruttamento della
forza-lavoro manifatturiera e subordinata a livello salariale allo sfruttamento
immediatamente sociale, globale e complesso della forza inventiva e
dell’intelligenza collettiva in rete, ciò che chiamo la pollinizzazione umana
dell’interazione. Questa nuova sfera dell’economia dei complessi immateriali
(non codificabili in diritti di proprietà intellettuale) è mille volte più
produttiva (in senso realmente economico) della vecchia sfera dell’economia
politica. Questo nuovo continente di esternalità positive della cooperazione
umana è oggetto di un’abile captazione da parte di ciò che denomino il
capitalismo cognitivo, il quale deve creare delle piattaforme di
pollinizzazione (le reti sociali, i motori di ricerca, il cloud) per
rivelare gli immateriali più profittevoli ed estrarre (data mining, datamapping)
l’intelligenza, l’innovazione. Se la ratio di 30/1 della finanza di mercato
pone un problema evidente (che finisce con lo sbattere contro il muro, se non
si prolunga attraverso una gigantesca piramide di Ponzi come nella speculazione
immobiliare), la ratio di 30/100 non pone alcun problema. In linea con ciò che
la comprensione della creazione monetaria ci insegna già da molto tempo. Il
problema della denuncia della nocività della finanza non è il suo moralismo (le
buone intenzioni contano più del cinismo spesso delittuoso o persino criminale)
ma il suo lato arretrato e del tutto reazionario: non avendo compreso la
mutazione del capitalismo e dell’economia tout court, si aggrappa
alla vecchia ratio prudenziale e all’industria, ritenuta rispecchiare senza
menzogne la realtà. In quanto, per questa vulgata, la ricchezza non si crea che
nella trasformazione della materia, che nella produzione; la circolazione,
l’immateriale, invece, non sono che delle pericolose illusioni, delle droghe.
La crisi attuale,
dunque, non decreta la fine di un capitalismo cognitivo nato-morto. Al
contrario…
La crisi attuale e il suo svolgimento costituiscono una
delle mute (nel senso della pelle del serpente) del drago capitalistico
attraverso la quale il capitalismo cognitivo regola senza pietà i suoi conti
con il suo vecchio avatar industriale. È nella e grazie alla crisi deisubprimes che
le imprese giganti dell’immateriale (quasi tutte americane di nuovo, perché la
vecchia Europa e il vecchio Giappone non hanno capito la rivoluzione
californiana del capitalismo) hanno conquistato la vetta del capitalismo
borsistico mondiale tenendo l’automobile sempre più a distanza e ratificando
ciò che molti di noi avevano teorizzato, il modo del postfordismo. Il
declassamento radicale del capitalismo industriale è stato innanzitutto nutrito
dalla sua ingovernabilità sociale nelle fabbriche, poi dall’emergenza
dell’economia dell’immateriale e infine dall’urgenza della transizione
ecologica. Ora, il capitalismo si gioca tutto su quest’ultimo punto (come la
nuova dinastia cinese): o si dimostra capace di fornire delle risposte
intelligenti alla sfida ecologica, alla maniera dei tipi dell’IBM nella
pubblicità, oppure sbatterà veramente contro il muro. E qui la Cina è
paradigmatica: questo paese ha risposto alla sfida dell’uscita dalla povertà
diventando la fabbrica del mondo ed effettuando in 35 anni in concentrato ciò
che il capitalismo industriale ha impiegato due secoli e mezzo per realizzare
nei paesi sviluppati. Ora però si trova di fronte a una sfida temibile: i
problemi ecologici raggiungono ormai delle dimensioni tali per cui
l’avvelenamento alimentare, la rarefazione dell’acqua (vecchio problema),
l’erosione dei suoli (27.000 km quadrati distrutti ogni anno), l’inquinamento
chimico, la secca impossibilità di perseguire i tassi di motorizzazione
occidentali, la speculazione immobiliare, la bulimia energetica, lo
sfruttamento forsennato del carbone, rappresentano le minacce più serie al
“mandato dal cielo” attribuito al partito comunista. E qui, a dispetto
dell’“armonia” confuciana, la quale non è nient’altro che l’accettabilità o la
legittimità del potere, un movimento di “rettificazione dei nomi”, come diceva
Confucio, potrebbe nascere in tempi brevi. Si stima che la performance cinese
in materia di crescita (10% all’inizio, poi 7% e ora 6%) dovrebbe essere
amputata tra il 5 e il 6% di distruzione del capitale ecologico. In fin dei
conti la Cina offre una sintesi straordinaria dei problemi universali del
pianeta.
Non è la finanza in quanto tale che cozza contro il muro, il
solo muro esistente consiste nell’avvenire dell’umanità nella biosfera
terrestre. Il capitalismo cognitivo costituisce la sola forma di sopravvivenza
del capitalismo tout court. Per l’interesse generale del capitalismo,
rispondere alla sfida ecologica rappresenta il suo biglietto di sopravvivenza.
Un tempo parlava di sviluppo economico in stile società del Nord. Oggi deve
continuare a parlare di sviluppo alla Cinese, ma, al tempo stesso, non è più
possibile, come all’epoca del Rinascimento, della Rivoluzione industriale e del
Fordismo, far finta che le risorse naturali siano illimitate. Lo si dice fin
dal tempo dei Romani che la martingala del potere è fatta di panem et
circenses. In effetti si sarebbe dovuto aggiungere: e di natura ad libitum.
Oggi, a giudicare dalla quasi insurrezione nelle grandi metropoli brasiliane
(classi creative, precari delle nuove fabbriche quali sono le università e i
servizi della circolazione e della rete), i giochi e il pane non bastano più.
Sulla scala planetaria, la rapida realizzazione della
transizione energetica, della lotta contro la distruzione dei suoli, dell’uso
intelligente delle risorse rinnovabili finite, della gestione dell’ecosistema
globale fragile al fine di evitare un impoverimento della biodiversità e della
noodiversità delle culture, suppone l’affettazione di almeno l’1% del PIL per
trent’anni, come mostrato dal Rapporto Stern. Ora, lo vediamo attraverso Kyoto
passando per il flop di Copenhagen fino al vertice recente di Varsavia che la
crisi finanziaria e la decelerazione della crescita trasformano questi
obiettivi in principi svuotati metodicamente della loro sostanza tramite un
sussulto della ricerca forsennata di energia a basso costo (perforazioni a
grande profondità, gas di scisto e petrolio bituminoso, sfruttamento delle
terre finora inviolate come la Groenlandia, l’Oceano Artico, l’Alaska), tramite
un rifiuto astioso dell’ecologia da parte dei governi canadese, australiano,
russo. Mi pare evidente che senza i servizi della finanza di mercato
disciplinata e canalizzata da delle finanze pubbliche rinnovate, non si
potranno creare le liquidità necessarie all’indispensabile programma ecologico.
Se si guarda attentamente a ciò che sta accadendo nell’ala funzionante e
intelligente del capitalismo, quella sensibile alla sua propria accettabilità
sociale e consapevole che il “mandato dal cielo” è revocabile, dalla Clinton
Initiative alle innumerevoli altre fondazioni, fondi etici e di
responsabilità sociale dell’impresa, la direzione è chiara.
Un discorso del genere
non corre dunque il rischio di risultare occidentalo-centrico…
No! Non ho infatti parlato che de “l’Europa dai malandati
parapetti”. La trilogia finanza, ecologia e moltitudine che rifiuta di essere
governata in un sistema che obbedisce ancora quasi totalmente alla stretta
norma mercatistica, dall’agro-industria in senso largo alla subordinazione
salariale, è globale. La contestazione di un potere riposante sul pane, i
giochi (calcistici in particolare) e sulle risorse naturali sfruttabili a
proprio piacimento, cresce secondo configurazioni specifiche nel Quarto Mondo,
nei BRIC, nel cosiddetto mondo sviluppato, antico o nuovo che sia, ma
l’equazione che si pone all’Impero (se con Impero intendiamo una forma digovernance trans-sovrana
e largamente transnazionale) è la stessa. Quanto all’argomento del carattere
ancora minoritario degli impieghi nel digitale o nelle nuove tecnologie nel Sud
e nei BRIC, rispondo con due cose. La minorità o la maggioranza non hanno
giocato alcun ruolo quando Marx ha studiato la classe operaia delle grandi
fabbriche di Manchester, in quanto quest’ultima non rappresentava che 250.000
persone in Inghilterra contro 4 milioni di domestici! Mi si diceva nel 2002 che
il capitalismo cognitivo e Internet costituivano un fenomeno ultra-minoritario,
siccome non esistevano che pochi abbonati al Web e siccome i cellulari non
concernevano che il 10% della popolazione nei paesi molto sviluppati. Si sa che
cosa è avvenuto non solamente in Francia, negli Stati Uniti ma anche in Cina,
dove ci sono più di 450 milioni di persone che sottoscrivono abbonamenti per la
connessione.
Quanto all’Europa, se
si potesse magicamente piazzare Keynes a Bruxelles, quale New Deal potremmo
escogitare per il presente? Una politica di stimolo della domanda effettiva non
può certo più permettersi di rimanere generica, senza strizzare l’occhio ai
grandi apparati militari e industriali. A differenza di quanto reputava il Sir
di Cambridge, il “cosa”, il “come” e il “perché” contano anche di più del
“quanto”. Quali forme potrebbe allora assumere un keynesismo dell’immateriale,
un keynesismo verde? Un keynesismo nel quale i limiti naturali e le dimensioni
di razza, genere e classe giochino un ruolo più importante rispetto al semplice
volume della produzione?
Avevo proposto negli anni ’80, quando ero un giovane
assistente di economia di Jean-Paul Fitoussi, la formula “Keynes a Bruxelles”.
L’intuizione era corretta, anche se la BCE non esisteva ancora come bastione
borbonico da assalire. Più che mai (e si può ringraziare la crisi brutale del
2008 per aver portato alla luce la dimostrazione di questa evidenza teorica)
una politica di crescita intelligente (che realizzi il programma di Lisbona 2000)
presuppone, prima ancora che ci si metta a discutere del suo contenuto e di un
programma keynesiano, la caratterizzazione della dinamica dominante della forma
istituzionale capace di sorreggerla. Credo che un programma keynesiano a
Bruxelles abbia bisogno di appoggiarsi su un salto istituzionale. Tuttavia,
abbiamo già una resistibile ascesa dello spettro (benvenuto) di Keynes con ciò
che chiamo il trionfo del federalismo rampante, il quale sta battendo la coppia
confederalista e sovranista. Quando le istanze della crescita non sembravano
ancora essere coinvolte malgrado la prima crisi energetica del 1974 e del 1980,
l’allargamento continuo dell’Unione Europea permetteva al vecchio miracolo del
recupero della CEE a sei di riprodursi. Un mercato comune suscitava dei
recuperi del livello di vita impressionanti (la miglior carta da visita della
UE). Ma questa Zollverein(unione doganale) europea ha dovuto passare dal
SME alla moneta unica e a una federalizzazione monetaria con dietro la
prospettiva dell’integrazione politica e la costituzione di una potenza
federale europea, malgrado tutti i messaggi di scoraggiamento e diSchadenfreude (malignità)
dei profeti di un crollo dell’euro e dell’Europa. Fino a quel momento non
esisteva che una sola istituzione pienamente federale in Europa, la Corte di
Giustizia del Lussemburgo, una vera Corte Suprema, la quale espone un diritto e
un ordine costituzionale che s’impongono alle costituzioni interne di ogni
Stato membro (Sentenza Costa, 1965) e una istituzione federale puntinata, il
Parlamento Europeo, federale perché eletto con il suffragio universale, ma
ridotto a un ruolo consultativo, senza cioè alcun reale potere legislativo (non
dovendo rendergli conto né la Commissione né il Consiglio). Di fianco a queste
due istituzioni, c’erano due politiche veramente federali, le quali consumavano
tutto sommato l’essenziale delle risorse del magro budget comunitario: le
politiche strutturali di aiuto alle regioni (e agli Stati) il cui livello di
vita si situava sotto il 90% del reddito medio dell’insieme dell’Unione e la
Politica Agricola comune. Le altre istituzioni comunitarie manifestavano
piuttosto un regime ibrido (la Commissione) o del tutto confederale, come il
Consiglio messo in piedi da Giscard d’Estaing, nel quale regnava la regola
dell’unanimità, ossia del diritto di veto accordato a ogni Stato membro.
Ciononostante a partire dal 1974, se ogni allargamento rinviava
l’approfondimento del grado di integrazione e di abbandono della sovranità
“nazionale”, la pressione esterna (l’abbandono della convertibilità del dollaro
nel 1971, il regime di cambi flessibili, la lotta contro l’inflazione tramite i
costi, la crisi petrolifera, la pressione migratoria) davano lentamente quanto
sicuramente alla luce un “federalismo rampante”, come l’ha nominato con orroreThe
Economist: il serpente monetario per evitare le disparità di cambio caotiche
con il dollaro delle differenti monete nazionali; l’estensione delle questioni
d’interesse comunitario, preambolo della loro inclusione nelle questioni di
competenza comunitaria che spettano alla Commissione; o, ancora, la costruzione
di un pilastro di cooperazione rinforzata attorno agli accordi di Schengen.
Tutti questi processi allungavano il ruolo diretto della CEE senza passare
ulteriormente per l’intermediazione degli Stati. La seconda tappa decisiva è
stata la caduta dell’Urss e l’unificazione tedesca seguita all’allargamento
verso Est. Come terza tappa, l’esplosione della Jugoslavia e la guerra del
Kosovo hanno posto sul piatto le questioni di politica estera, con il ruolo
dominante, in un’Europa ancora largamente confederale, del tandem
franco-tedesco e con la necessità assoluta delle cooperazioni più o meno
allargate. Queste tappe hanno condotto alla creazione dell’Unione Europea
tramite i trattati di Amsterdam e di Maastricht. Il risultato più importante di
questo stravolgimento è stata la creazione di una terza istituzione federale,
la BCE, incaricata di condurre all’euro. Dal Zollverein si passava
così alla moneta unica, come se qualche Bismarck invisibile stava organizzando
l’unificazione europea erigendo come nemico prioritario da sconfiggere la
versione ultra molle e britannica di una semplice associazione di libero
scambio e, in seguito, la versione di una confederazione allentata di nazioni
sovrane, come la confederazione del Sacro Impero attorno all’Austria. Lo scacco
dell’adozione del Trattato Costituzionale nel 2005 a causa del rifiuto di due
Stati su venticinque ha condotto alla toelettatura degli aspetti più
simbolicamente federalisti (la bandiera, l’Inno) del trattato, mentre
l’essenziale è rimasto, facendo innervosire non poco i Britannici:
l’allargamento considerevole dei campi di competenza comunitaria, il passaggio,
per numerosi ambiti, all’adozione di una maggioranza del 60%, il ruolo ormai
sempre più inaggirabile del Parlamento, oltre a qualche concessione ai
confederalisti, come l’istituzionalizzazione di un Consiglio con la
personificazione politica dell’Unione sotto la forma di un Presidente del
Consiglio e di un ministro degli affari esteri – sebbene questa “concessione”
apra le porte a una responsabilizzazione de facto dell’esecutivo
dell’Unione di fronte al Parlamento Europeo.
Infine, la crisi del debito sovrano degli Stati, conseguenza
del salvataggio del sistema finanziario dal tracollo dei prodotti finanziari di
tipo subprimes, ha segnato una tappa decisiva nella via del federalismo
rampante e una sorta di colpo di Stato, un vero e proprio 18 Brumaio: la BCE,
di fronte all’incapacità degli Stati del Consiglio di prendere rapidamente
delle contromisure forti di sostegno agli Stati membri in difficoltà, la BCE,
istituzione federale, ha preso il potere (ciò che nega ufficialmente, ma anche
se corrisponde alla realtà). Ha preso il potere in un triplice modo: si è
affrancata dalla tutela “nazionale” (francese poi tedesca), delineando
velocemente una posizione comune; ha aggirato i poteri formali che le erano
stati attribuiti dai trattati, giustificando il ricorso a dei metodi “non
convenzionali” a causa di una situazione di eccezione; e, infine, ha operato
una svolta a 180° per quanto concerne la sostanza della sua politica. Quando
l’eccezione, però, dura da più di sei anni (a partire cioè dal settembre 2007),
ci si trova di fronte a un cambiamento di regime provocato da un colpo di
Stato. L’istituzione federale concepita come custode del tempio monetarista,
come incarnazione, in teoria, di un virulento polo anti-keynesiano (crescita
della massa monetaria rigidamente controllata, stabilità dei prezzi, inflazione
al 2% e nulla più) si è mangiata il suo cappello friedmaniano iniettando un
volume di liquidità semplicemente impensabile fino a quel momento. È
intervenuta prima sulla solvibilità delle banche, poi su quella degli Stati per
salvare l’euro, accompagnando ogni provvedimento con un messaggio
inequivocabile da parte del banchiere centrale. Così a partire dal 2008
Jean-Claude Trichet non ha cessato di esortare il Consiglio ad assumersi le sue
responsabilità politiche (cioè di modificare i trattati per permettere alla
Banca Centrale, esattamente come la Fed o le altre banche centrali mondiali
garanti di una moneta, di aver la responsabilità ufficiale della solvibilità
del sistema finanziario ma anche dei tesori degli Stati membri, costituendo un
Tesoro federale e, dunque, potendo gestire un deficit budgetario europeo). Di
fronte ai piccoli passi in avanti, seguiti da altrettanti passi indietro, da
parte del Consiglio e della Commissione, la BCE ha varcato il Rubicone
riacquistando i buoni del tesoro emessi dagli Stati in difficoltà, benché sul
mercato secondario, onde evitare la palese violazione dei trattati. Le
dimissioni dei falchi della Bundesbank, l’adozione a maggioranza
schiacciante di misure accomodanti, l’appoggio non dissimulato della BCE
all’Unione bancaria, all’instaurazione di fondi di stabilità in cambio di un
inizio di unione budgetaria, la minaccia di Mario Draghi, di fronte alla
speculazione sugli spread e al rischio annesso di esplosione
dell’euro, di brandire l’arma nucleare della creazione monetaria illimitata, tutti
questi fatti mostrano che il federalismo non striscia più discretamente, ma sta
prendendo i comandi dell’Europa. Davanti alle continue posticipazioni del
Consiglio – il quale ha dimostrato il carattere fondamentalmente ingovernabile
di un’Unione di 500 milioni di abitanti tramite un meccanismo federale in cui
il Regno Unito e la minuscola Repubblica Ceca pretendevano di impedire l’azione
agli altri 23 stati membri – la BCE ha dato una prova della sua forza. Si è
dimostrata il garante più sicuro dell’espressione e dell’esecuzione
dell’interesse generale europeo. Questo 18 Brumaio avrà delle conseguenze
prodigiose di cui gli osservatori non hanno ancora colto a pieno la portata. In
quanto, alla stregua di Ben Bernanke rimpiazzato dalla Signora Yellen, nell’ottobre
2013 ha proseguito la politica di facilità e ha segnalato che, fino a quando il
tasso di disoccupazione rimarrà troppo elevato, la politica monetaria
accomodante, oh quanto (ci troviamo con dei tassi d’interesse reale negativi),
proseguirà. Ora, la BCE di Mario Draghi ha abbassato il tasso di base allo
0,25% e ha invocato esattamente la stessa giustificazione: il regime di
eccezione (paragonato al dogma monetarista) durerà fino a quando vigerà il
rischio di deflazione e di un livello di disoccupazione troppo elevato. Siamo
così passati in dieci anni da una BCE “tedesca” a una BCE quasi keynesiana. La
marcia forzata verso l’Unione bancaria e l’Unione budgetaria riprende: un
discorso ufficiale fatto di austerità fino a quando non si ha una gestione europea
dei deficit, un tesoro ufficiale, deglieurobonds, fino a quando, cioè, ci si
trova in circostanze eccezionali.
Ciò che costerna o mi atterrisce, per fare il verso ai miei
colleghi “atterriti”, è il ritardo degli uomini politici europei “nazionali”
nel comprendere ciò che la finanza ha capito da tempo ormai sotto la pressione
della crisi: senza una revisione completa dell’edificio istituzionale europeo e
di una sua trasformazione da una federazione dissimulata e piena di vergogna a
una federazione rivendicata e più chiara, nessuna ripresa. La malattia in cui
languisce l’Unione non è economica, ma politica. Ecco le condizioni per un
programma keynesiano a Bruxelles. Per una sua traduzione concreta in nuove
proposte in stile New Deal, poi, si potrebbe cominciare con un
reddito di esistenza o di cittadinanza o di pollinizzazione, come si
preferisce, alimentato da una tassa su tutte le transazioni monetarie
nell’Unione, una tassazione sui flussi di dati (i big data), modulata in
funzione del PIL e corretta da un coefficiente di recupero. Un aumento del
budget europeo fino al 12% del PIL globale, la possibilità di creare un deficit
budgetario globale istituendo deglieurobonds per finanziare i programmi di
grandi infrastrutture fisiche, ma soprattutto immateriali.
Hai fatto cenno al
reddito di base. Secondo te, questa rivendicazione potrebbe stabilizzare il
capitalismo cognitivo e riconciliarlo con un’economia fondata sulla conoscenza?
Contrariamente a ciò che pensano i miei amici e colleghi
Andrea Fumagalli e Stefano Lucarelli, non vedo una grossa contraddizione tra un
elevato reddito di base incondizionato (900 euro a testa in Francia), il quale
permetterebbe la rifusione di tutto il sistema dello Stato Provvidenza (la
disoccupazione, le pensioni, la protezione sociale) – non dunque un miserabile
e complementare Reddito di Solidarietà Attiva (450 euro) concepito
come un sostegno ai salari bassi – e lo sviluppo del capitalismo cognitivo.
Affinché quest’ultimo capti facilmente una parte importante delle esternalità
positive della rete e dell’interazione umana intercettate da dei dispositivi
digitali e affinché faccia lavorare durevolmente la forza inventiva di geeks, hackers e
altri precari delle classi creative e dell’intelligenza della moltitudine, sono
necessarie delle piattaforme di pollinizzazione, degli alveari, ci vuole
dell’api-economia, dell’economia dell’ambiente, altrimenti finisce col
trasformarsi in un parassita o in un vampiro dei nuovi beni comuni digitali.
Dopo l’era dei conquistadores del continente delle esternalità, come
per lo sfruttamento della forza-lavoro proletaria sotto il capitalismo
industriale, giungerà il momento della battaglia per il plusvalore relativo e
non più assoluto. Le major del capitalismo cognitivo dovranno
imparare a pagare delle imposte finanziando la pollinizzazione sociale (ciò che
fanno poco, se tiene in considerazione il cambiamento di scala dei profitti
immagazzinati), dovranno imparare a retribuire in natura o in denaro i clickworkers.
Del resto, il loro paternalismo moderno che consiste nell’impadronirsi, senza
colpo ferire né remunerazione alcuna, dei dati personali contenuti neimegaserver dei big
data sta incontrando dei limiti nell’organizzazione delle fughe (i wikileaks di
Julien Assange e di Snowden), nella resistenza dei cybernauti e dei
cybercittadini. Per difendere la costituzione di beni comuni digitali, di dati
pubblici, la loro protezione, etc. l’open source costituisce una
falsa soluzione, la quale si base su un principio di terra nullius dove
le imprese possono venire a saccheggiare l’inventività sociale e umana alla
stregua di quelle case farmaceutiche o di quelle multinazionali dei sementi che
praticano una biopirateria sfrenata degli ecosistemi complessi. Ora, una delle
acquisizioni della teoria postcoloniale e delle recenti sollevazioni dei popoli
indigeni consiste nell’aver ottenuto dalle corti costituzionali della maggior
parte dei paesi di colonizzazione la ricusazione del principio di terra
nullius e l’apertura della via a un indennizzo delle grandi spoliazioni
delle loro terre comunitarie.
Concluderei ponendoti
un’ultima domanda. Dopo la crisi, com’è evoluta la tua tesi sul ruolo della
finanza nella gestione delle esternalità?
Il mio amico Antoine Rébiscoul, scomparso nel 2010, aveva
una formula geniale. Mi diceva: “in fin dei conti, la finanza è il governopar
défaut delle esternalità”. Ho meditato a lungo questa frase. E
l’affiancherei a un’altra formula altrettanto formidabile enunciata dalla mia
amica economista Antonella Corsani, nelle discussioni appassionate che avevamo
avuto a proposito delle esternalità a partire dal 1997. Alla fine, azzardava
con audacia, il deficit della spesa pubblica è la misura delle esternalità non
estinte dal mercato e necessarie. Nulla di strano, dunque, se, nel momento in
cui uniamo le due frasi, la finanza di mercato e il deficit budgetario
“sovrano” si incontrano, per così dire! L’impotenza crescente degli
Stati-nazione nel finanziare le loro spese di produzione, di mantenimento delle
esternalità positive della società-polline consiste nello fatto che lo scarto
gigantesco che esiste tra il continente effettivo, reale della pollinizzazione
e l’orizzonte ridicolmente ristretto del mercato e della merce implica delle
spese gigantesche (salute, educazione, ricerca, beni comuni tradizionali e
digitali), mentre le ricette fiscali continuano a essere calcolate a partire
dalla vecchia economia industriale. La crisi è strutturale. La contabilità
della ricchezza deve essere cambiata, in quanto, fino a quando ciò non avverrà,
fino a quando cioè gli economisti mainstream e i cosiddetti
eterodossi continueranno a sostenere che nessuna ricchezza si crea nella
circolazione, il solo modo di misurarla come una promessa e un futuro già
attivo consiste nel considerare i meccanismi di valutazione della finanza di
mercato, la quale incorpora le immobilizzazioni immateriali nel good will finanziario
costituendo unproxy. Con tutto il corteo di mali, di instabilità, di
speculazione, di profezie auto-avverantesi per nulla differenti dalla
chiromanzia che schernisce.
Nota