|
Karl Marx ✆ Darren McAndrew
|
Enrico Galavotti |
Dai brevi appunti1 di Marx, che evidentemente quando si
accingeva a leggere un testo di economia politica la prima cosa che andava a
vedere erano le considerazioni sulla legge del valore, si evince immediatamente
come A. Wagner, nel suo Manuale di
economia politica, non avesse capito il nocciolo fondamentale del I libro
del Capitale, ch'era lo sfruttamento
del lavoro altrui intrinseco a tutte le leggi del capitalismo. Stesso giudizio
negativo Marx lo esprime anche nei confronti di J. K. Rodbertus e di A. E. F.
Schäffle, tedeschi come Wagner.
Ciò che differenziava gli economisti inglesi da Marx era la
loro superficialità, ma ciò che differenziava gli economisti tedeschi da lui
era la loro astrattezza. E infatti Marx più volte lo dice nelle Glosse: il valore, il valore di scambio,
il valore d'uso non sono "soggetti"; l'unico vero soggetto è la
"merce". Marx non voleva fare il "filosofo dell'economia in
generale" ma il "fenomenologo critico dell'economia politica borghese
e del capitalismo in particolare". Ecco perché, scrivendo
il Capitale, era partito con la descrizione della merce. Se si parta dalla merce si arriva a capire che, nel
capitalismo, tutto è anzitutto "merce", non anzitutto
"denaro", anche se ovviamente non può esserci merce senza denaro (senza
denaro c'è solo "valore d'uso", "autoconsumo"). È
importante ribadire il primato della merce, in quanto nella storia le civiltà
fondate sugli antagonismi sociali conoscevano il primato del
"denaro", senza però conoscere quello della "merce", che
invece è tipico del capitalismo, dove infatti anche chi lavora, la sua
stessa forza-lavoro, è mercificata.
I tre elementi del tutto nuovi del Capitale Marx li spiega a Engels in una lettera dell'8 gennaio
1868:
1. a differenza di ogni economia del passato, la quale
considera come dati a priori i frammenti particolari del plusvalore con le loro
forme fisse di rendita, profitto, interesse, nel mio libro viene trattata per
prima cosa la forma generale del plusvalore, in cui tutto questo si trova
ancora indistinto, per così dire in una soluzione [cioè il plusvalore viene
trattato indipendentemente dalle sue forme particolari: profitto, interesse e
rendita, proprio perché lo sfruttamento gli è intrinseco];
2. a tutti gli economisti senza eccezione è sfuggita la cosa
semplice che, essendo la merce un che di duplice di valore d'uso e di valore di
scambio, anche il lavoro rappresentato nella merce deve avere carattere duplice
[concreto e astratto, ed è proprio in quello "astratto" che si cela
lo sfruttamento tipico del capitale];
3. il salario è rappresentato per la prima volta come forma
fenomenica irrazionale di un rapporto che si cela dietro a questa forma (sia
nel salario a tempo che in quello a cottimo)... [in quanto non può mai essere
dato un salario corrispondente al lavoro, anche se formalmente il capitale
pretende di farlo].
E in quella lettera Marx indicava anche una possibile
soluzione per uscire da queste contraddizioni fondamentali del capitalismo: "realmente, nessuna forma sociale può
impedire che, in un modo o nell'altro, sia il tempo di lavoro disponibile della
società a regolare la produzione. Ma finché questa regolazione non si attua
mediante il controllo diretto, consapevole, del tempo di lavoro da parte della
società - il che è possibile solo con la proprietà comune -, bensì mediante il
movimento dei prezzi delle merci...", le cose non cambieranno mai.
Dunque se "merce" vuol dire "scambio di
equivalenti" (merce contro denaro), essa vuol dire anche che in questo
scambio i contraenti sono entrambi liberi, giuridicamente e
quindi formalmente liberi. Se Marx fosse partito dal denaro, non sarebbe
stata chiara questa realtà di schiavitù sociale mascherata da
una libertà giuridica.
Nel capitalismo lo scambio non serve anzitutto per mantenere
la schiavitù sociale (anche per questo, benché la
"schiavitù fisica o personale" sia formalmente abolita), quanto
piuttosto per accrescere il capitale, cioè per valorizzare il denaro.
Lo scambio, nella società borghese, non avviene perché c'è "schiavitù"
(come in quella greco-romana), ma perché c'è la "libertà", una
libertà fittizia, in quanto serve soltanto, in definitiva, a valorizzare il
capitale investito, grazie allo sfruttamento della forza-lavoro, che dà alle
merci un surplus di valore non pagato, estorto in forza della proprietà privata
dei mezzi produttivi.
Sotto questo aspetto il "valore" di una merce non
può stare anzitutto nel fatto d'essere "scambievole", anche se
certamente una merce, essendo prodotta per essere venduta, finché non entra in
un mercato ha un valore non riconosciuto (gli economisti borghesi direbbero che
il suo prezzo è nullo).
Marx aveva perfettamente ragione quando sosteneva che il
valore di scambio è solo "la forma fenomenica del valore", essendo la
sua sostanza frutto di un'estorsione. Quando la merce entra nel
mercato, gronda già di sangue e sudore - quello del lavoratore -, ed è
questo il suo valore economico, che è anche e anzitutto sociale. Nella
società borghese, una merce non è anzitutto "valore d'uso" per chi
l'acquista né "valore di scambio" per chi la vende, ma è
"valore", cioè lavoro non pagato.
Il prezzo della merce è indipendente dal suo valore, come il
valore è indipendente dal modo come viene gestito, tant'è che - si potrebbe
aggiungere alla tesi marxiana - nel cosiddetto "socialismo reale" il
plusvalore non era estorto da capitalisti privati ma dallo Stato sociale,
che non aveva neppure bisogno di un mercato. Anche in quel socialismo i
lavoratori erano giuridicamente liberi, ma socialmente restavano schiavi di uno
Stato poliziesco che li imboniva sul piano ideologico, facendo loro credere di
costruire un sistema alternativo al capitalismo. Mentre cioè nei paesi
capitalisti l'illusione della piena libertà è data dal potere d'acquisto
della moneta, nei paesi socialisti autoritari era data dall'ideologia.
***
Il prezzo di una merce è dato da fattori più economici
che sociali o, se si preferisce, più finanziari che economici.
Nelle Glosse Marx fa l'esempio
del grano: "se per un cattivo raccolto sale il prezzo del grano, sale
dapprima il suo valore, poiché una data quantità di lavoro si
è realizzata in un prodotto minore; poi sale ancor più il suo prezzo
di vendita. Quanto più il grano viene venduto al disopra del suo
valore, tanto più altre merci, nella forma naturale o nella forme di denaro,
vengono vendute al disotto del loro valore, e questo anche
se non scende il loro prezzo in denaro [questa differenza, posta da
Marx, tra valore e prezzo è impossibile capirla se non si capisce la differenza
tra lavoro concreto elavoro astratto]. La somma di
valore rimane la stessa [proprio perché esiste una media del valore data
dal lavoro astratto], quand'anche fosse aumentata l'espressione in denaro di
questa somma complessiva di valore".
Marx in sostanza si era annotato che se si guardano solo
i prezzi (come in genere fanno gli economisti borghesi, che non a
caso non vedono il plusvalore ma solo il profitto), non si capisce la natura
dello sfruttamento intrinseco al capitale: al massimo si può
costatare la speculazione (che in effetti si verifica quando una
merce molto richiesta scarseggia sul mercato). E aggiunge, molto giustamente,
prevedendo quasi i limiti di quello che nel secondo dopoguerra verrà chiamato
dai keynesiani il Welfare State, con cui si doveva porre rimedio ai
disastri delle guerre mondiali frutto della logica dellaissez faire, e con cui
si volle trovare un'alternativa al cosiddetto "Stato socialista di tutto
il popolo", che se anche esistesse uno "Stato sociale"
(espressione usata da Schäffle in Capitalismo
e socialismo, del 1870, e attribuita erroneamente a Marx), in caso di
cattivo raccolto del grano, non sarebbe assicurata sin dall'inizio sia la
produzione che la distribuzione dello stesso, sottraendola agli
"usurai", proprio perché la definizione di "Stato sociale"
è una contraddizione in termini, in quanto nessuno Stato capitalistico è in
grado di opporsi alla legge del valore (neppure se mettesse delle "tariffe
sociali" sui beni di prima necessità).
Insomma mentre nella definizione di "prezzo"
entrano in gioco molte componenti, in quella di "valore" la
principale è una sola: lo sfruttamento della forza-lavoro (ovvero
l'intensità e la durata di questo sfruttamento), cosa che nessun
economista aveva capito prima di Marx, anche se molti avevano capito la natura
dello sfruttamento del lavoro come forma di arricchimento per il capitalista.
In particolare quello che non si era capito era che nello
sfruttamento il valore di una merce non può mai essere un equivalente del
lavoro impiegato per produrla. La merce contiene un plusvalore, cioè un
valore supplementare che non viene pagato, proprio perché
il salario è stabilito prima della produzione, sulla base
di un certo tempo del lavoro. Finché c'è salario c'è sfruttamento del lavoro. È
vero che il salario si può contrattare, ma fino a un certo punto, poiché
l'eccedenza di forza-lavoro (dovuta alla mancanza di proprietà privata), gioca
a favore del capitalista, che può imporre unsalario minimo di sopravvivenza (quel
salario - si può aggiungere - che andrà oltre la soglia della sopravvivenza in
seguito allo sfruttamento imperialistico della periferia coloniale dei paesi
occidentali).
"Il capitalista -
scrive Marx - appena ha pagato
all'operaio l'effettivo valore della sua forza-lavoro [qui Marx vuol dire
"quello stabilito per contratto"], si appropria
del plusvalore con pieno diritto... Nel valore, non 'costituito' dal
lavoro del capitalista, c'è una parte di cui egli può appropriarsi
'legalmente', cioè senza violare il diritto corrispondente allo scambio delle
merci".
Per quale motivo nei rapporti schiavili del mondo
greco-romano non ci poteva essere "plusvalore" nella forma borghese?
Proprio perché non c'era salario, che presuppone l'esistenza di due
persone libere sul mercato del lavoro, di cui una proprietaria e l'altra
nullatenente. Là dove il lavoratore è socialmente e giuridicamente schiavo, lo
schiavista non ha interessi particolari a sviluppare tecnologia e macchinari
per contenere il costo del lavoro, per supplire alle rivendicazioni salariali,
per intensificare lo sfruttamento senza aver bisogno di ricorrere alla
coercizione fisica.
Essendo diventato il lavoratore un soggetto giuridicamente
libero (e ha potuto diventarlo liberandosi prima dello schiavismo poi del
servaggio feudale), il capitalista ha necessità di porre fra sé e il salariato
dei mezzi macchinari per realizzare lo sfruttamento del lavoro (che in tal caso
non è proprio sfruttamento della "persona" quanto piuttosto della sua
"forza-lavoro"). Questo significa che il capitalismo è basato
sullo sdoppiamento tra realtà di fatto (la non proprietà dei mezzi
produttivi da parte del lavoratore) e un'astrazione formale (la libertà
giuridica universalmente riconosciuta, indipendentemente dalla propria origine
sociale).
Responsabile di tale dicotomia non è il capitalista in sé ma
la cultura borghese ch'egli rappresenta, la quale, a sua volta, per
come è venuta formandosi, è figlia prima della teologia cattolica, poi di
quella protestante. Cosa che Marx qui non dice e che
nel Capitale si limitò a brevissimi cenni, lasciando però capire che
su questa strada si dovessero fare ancora molti studi. E se si fossero fatti
(evitando che il loro sviluppo fosse patrimonio dei soli intellettuali
"borghesi" come p.es. M. Weber e W. Sombart), avremmo sicuramente
saputo accogliere con maggiore intelligenza questi lasciti marxiani.
Soprattutto si sarebbe capita l'importanza di questa sua affermazione, che
racchiude la vera alternativa al capitalismo: "Nelle comunità primitive,
dove ad es. i mezzi di sussistenza vengono prodotti e ripartiti in comune tra i
componenti della comunità, e il prodotto comune soddisfa direttamente i bisogni
vitali di ciascun membro della comunità, di ciascun produttore - il carattere
sociale del prodotto, del valore d'uso, sta nel suo
carattere comunitario" (e non - si potrebbe aggiungere - nel fatto
che diventa "valore di scambio" sul mercato).
In un'altra lettera scritta a Engels il 25 marzo 1868, Marx
considerava "straordinariamente importanti" i libri di G. L. Maurer,
poiché in essi trovava conferma una sua tesi secondo cui in Europa,
originariamente, vi era stata una proprietà comune, sociale, di
derivazione asiatico-indiana, e non la proprietà privata di ogni singolo
coltivatore. Prima di espropriare questi contadini liberi era stato distrutto
il comunismo primitivo. "Cose evidenti non sono esaminate neanche
dalle menti più notevoli - dice Marx facendo anche autocritica - a motivo di
certa cecità dovuta a pregiudizio (judicial blindness)". Si resta
"sorpresi di trovare nelle cose più antiche le cose più recenti".
Insomma, e per concludere, quando Wagner, Rodbertus e
Schäffle dicono che la merce ha un valore d'uso sociale o che esistono
"beni statali" (come la salute, l'istruzione ecc.) che non possono
essere qualificati come "merci", non si rendono conto che nello Stato
capitalistico tutto è mercificato, ivi incluse le loro lezioni
accademiche.
Nota
1 Le Glosse si trovano in un quaderno di estratti
degli anni 1881-82, che porta il titolo di Oekonomisches en
general (X). La traduzione si trova in Marx, Scritti inediti di
economia politica, Editori Riuniti, Roma 1963. Probabilmente è l'ulti mo suo
scritto di carattere economico.