Riccardo Bellofiore | In questo
articolo mi interrogherò sul rapporto di continuità/discontinuità tra Marx e
Hegel. Inizierò con una rassegna personale idiosincratica delle posizioni più
importanti che hanno influenzato la mia posizione. A seguire, prima ricorderò
le critiche principali di Marx a Hegel, poi alcuni momenti del vivace dibattito
all’interno dell’International Symposium on Marxian Theory (ISMT).
Sosterrò quindi che è proprio l’idealismo assoluto di Hegel che ha reso il
filosofo di Stoccarda così importante per la comprensione del ‘rapporto di
capitale’. Lo farò ricordando la lettura, a suo modo hegeliana, che Colletti dà
del valore di Marx a cavallo tra anni Sessanta e Settanta. Userò pure il
rimando a Backhaus e alla sua dialettica della forma di valore, e a Rubin e
alla sua interpretazione del lavoro astratto, autori che aiutano ad
approfondire il discorso di Colletti in una prospettiva a mio parere
convergente.
Presenterò a questo punto la mia
posizione personale. Il movimento che va dalla merce al denaro, e poi al
capitale, deve essere inteso come un doppio movimento. Il primo movimento, più
evidente ne Il Capitale, ricostruisce la ‘circolarità’ del Capitale
come Feticcio Automatico e come Soggetto. È qui che per Marx è stato
massimamente utile il metodo ‘idealistico’ di Hegel e il circolo del
‘presupposto-posto’. Il secondo movimento, sotterraneo ne Il Capitale,
è un movimento ‘lineare’, e fonda tutto il discorso marxiano nella lotta
di classe nella produzione come momento ‘dominante’ della totalità
capitalistica. È qui che incontriamo la rottura radicale di Marx con Hegel,
e comprendiamo la fondazione materialistica della critica
dell’economia politica.
Devo avvisare che nella comprensione
di Marx un ostacolo non da poco è costituito dal fatto che questo autore sia
stato lost in translation, perso nella ‘traduzione’. Ciò è vero
alla lettera: in qualsiasi lingua si incontrano problemi, ma – come dimostrerò
– la situazione è particolarmente grave in inglese, dunque nella lingua veicolo
della discussione internazionale. Senza un controllo attento dell’originale
tedesco abbiamo spesso, nel dibattito anglosassone, in particolare tra gli
economisti marxisti di quella lingua, un dibattito sul nulla.[1] È vero
però anche, come dirò, per quel che riguarda la lettura concettuale di Marx:
che questa sia di taglio hegeliano, ricardiano (come è di fatto anche per gli
economisti marxisti che si vogliono critici del neoricardismo), o
postkeynesiano (inclusa la teoria del circuito monetario).
La questione che tratto è tutto meno
che filologica, e spinge a una rilettura di Marx come complementare a una
ricostruzione della critica dell’economia politica oggi, e a una ripresa del
nesso teoria-pratica. Il tema mi obbliga a entrare su un terreno filosofico che
non mi è proprio: debbo quindi confidare nella pazienza del lettore, che saprà
raddrizzare ciò che avrò espresso in modo incerto e a tentoni.
Tre modi di guardare alla dialettica
Negli ultimi decenni il rapporto tra
Hegel e Marx è stato messo nuovamente al centro del dibattito. È emersa una
nuova interpretazione per cui la dialettica sistematica, e per
alcuni persino la logica della contraddizione, assume un ruolo
fondamentale nella critica dell’economia politica marxiana. A dir la verità, è
stato Marx stesso a sottolineare l’importanza della sua seconda lettura
della Logica di Hegel poco prima di scrivere i Grundrisse.
Un autore come Helmut Reichelt (1995) sostiene che Marx avrebbe ‘nascosto’ il
suo metodo dialettico ad ogni nuovo manoscritto dopo il 1857-1858. Per lui, ma
non solo per lui, l’autocomprensione metodologica di Marx rimane indietro
rispetto a quello che è il suo contributo positivo. Può essere utile tornare ad
alcune delle posizioni in questo dibattito.[2]
Cominciamo dal significato del
termine ‘critica’ nella critica dell’economia politica di Marx. Alfred Schmidt
ha sottolineato come per Marx non ci siano fattisociali che possano
di per sé essere studiati nei confini disciplinari tradizionali. Il vero
oggetto della conoscenza è il fenomeno sociale nella sua interezza,
e dunque il capitale come totalità. Ciò non deve essere inteso come
se le condizioni empiriche della produzione fossero gli oggetti immediati di
conoscenza. Marx invece procede con una critica delle categorie e delle teorie
borghesi. Tenendosi, per così dire, vicino alle premesse teoriche dell’economia
borghese, Marx rivela le contraddizioni tra queste premesse e la realtà sociale
(nel pensiero), e dunque anche le contraddizioni oggettive con la medesima
realtà sociale. Marx non fa della dialettica un’ontologia in senso forte, e non
annulla l’oggetto reale nel processo ideale di conoscenza, come farebbe invece
Hegel (Schmidt 1968, pp. 95-96).
La teoria e il suo contenuto
oggettivo sono intrecciati, ma non sono la stessa cosa. Questo è il motivo per
cui il metodo della ricerca è formalmente diverso dal metodo
di esposizione. Il metodo della ricerca, spiega Schmidt, ha a
che fare con un materiale preso dalla storia, dall’economia, dalla sociologia,
dalla statistica etc., attraverso l’analisi dell’intelletto. Il metodo
di esposizione invece deve dare unità concreta a questi dati isolati.
L’esposizione [Darstellung] procede dall’essere immediato
all’essenza mediata, che è il fondamento dell’essere.
La realtà essenziale deve ‘apparire’ [erscheinen], ma
l’essenza è distinta dalla sua manifestazione fenomenica. Anche se persino le
categorie più astratte hanno una determinata dimensione storica, il percorso
logico è comunque diverso – e per certi versi è persino opposto –
da quello storico.
Questi punti sono approfonditi in Storia e struttura (Schmidt
1971): “Per Hegel, come per Marx, la realtà è processo: totalità ‘negativa’. Quest’ultima
si presenta nell’hegelismo come sistema della ragione, vale a dire come
ontologia chiusa rispetto alla quale la storia umana degrada a derivato, a mero
caso di applicazione. Marx, invece, pone l’accento sull’irriducibilità e
apertura del processo storico, che non si fa ingabbiare in una logica
speculativa alla quale ogni essere obbedirebbe in eterno. La ‘negatività’
diviene qualcosa di limitato nel tempo e la ‘totalità’ si trasforma
nell’insieme dei moderni rapporti di produzione (p. 45). Vi è un primato
cognitivo del momento logico su quello storico, senza la comprensione teorica
del capitale non si saprebbe dove cercare i presupposti storici della sua
nascita: ma ciò non fa delle categorie il fondamento esistenziale della realtà
che esse mediano. Tale critica a Hegel non cancella il debito nei confronti
dell’idea hgeliana di sistema. Il concreto non è ciò che sta di
fronte all’intelletto umano, ma ‘unità del molteplice’, sapere che, pur avendo
come base necessaria il metodo ‘analitico’, sfugge grazie alla dialettica alla
dicotomia fattuale/mentale: di qui l’universale, la produzione sociale, come un
universale-concreto. Il metodo del salire dall’astratto al concreto è
però solo il modo in cui il pensiero si appropria il concreto
concettualmente, non il suo processo di formazione. D’altra parte, Marx si
confronta con un sistema rigorosamente deduttivo e non procede
storiograficamente “perché la forma del capitale da lui sviluppata produce
essa stessa le sue condizioni di esistenza” (p. 64, corsivo mio).
Schmidt insiste soprattutto sul
ruolo gnoseologico della dialettica, mostrando la connessione
interna di oggetti e concetti, ma apre anche a una sorta di legame
‘ontologico’ debole tra Hegel e Marx. Roberto Finelli (2004) chiarisce che l’
‘apparenza’ [Erscheinung], nel momento in cui ‘espone’ [Darstellung]
l’essenza, fondamentalmente la distorce. Il metodo de Il
Capitale è quello del circolo del presupposto
posto.[3] Incontriamo qui un secondo ruolo della dialettica, più forte
di quello semplicemente metodologico: quello dell’attiva ‘dissimulazione’
dell’essenza interna da parte della apparenza esterna. Questo porsi del
presupposto deve essere inteso in termini strettamente hegeliani: il capitale è
infatti un Soggetto invisibile, in una sorta di perenne
movimento incircolo. Il valore che valorizza se stesso è una totalità
‘chiusa’, dove il lavoro è ridotto a forza-lavoro. Nessun elemento sfugge al
potere di questo Soggetto totalizzante. La realtà capitalistica è letta da
Finelli come un mondo di un’astrazione meramente quantitativa e
non-umana, che progressivamente universalizza se stessa e finisce per cancellare
la dimensione della concretezza. La logica della dissimulazione propria
di questo Soggetto onnicomprensivo ci impedisce di parlare propriamente di una
logica della contraddizione.
Se la posizione di Schmidt sottolinea
la coppia essenza/apparenza, quella di Finelli approda alla circolarità
totalitaria del capitale. È possibile scorgere un altro ruolo della
dialettica come ‘concretizzazione’: un movimento di esposizione ‘sistematica’ [Darstellung]
che muove da categorie ‘semplici’ e astratte verso concetti più ‘complessi’ e
concreti. In questa terza posizione sulla dialettica, ogni
categoria va ridefinita a ogni stadio successivo del discorso teorico, e si
incontrano non una ma molte ‘trasformazioni’. Incontriamo nuovamente un
‘circolo’, perché la comprensione di ciò che è più complesso e concreto deve
retroagire sui concetti più semplici e astratti. Vi è peraltro la possibilità
di leggere questa deduzione dialettica in un modo più forte, sfociando in
una quartaposizione, dove la dialettica marxiana viene intesa come
un movimento progressivo degli stessi concetti. La dialettica si colloca nello
spazio tra Darstellungcome organizzazione sistematica della
conoscenza e Darstellung generazione del capitale stesso come
soggetto (o piuttosto, come si dirà e come già si è alluso, del Capitale come
Soggetto).
Marx contro Hegel
È in questo quadro che possiamo
collocare il dibattito sul rapporto tra Marx e Hegel che si è svolto
all’interno dell’ISMT[4]. Prima di affrontarne alcuni termini è però opportuno
mettere le carte sul tavolo, e dichiarare apertamente ciò che il lettore avrà
certamente già intuito. Se si ritiene che la dialettica sistematica in Marx
abbia a che fare soltanto con l’esposizione
concettuale delle categorie – se si aderisce, cioè, alla terza
posizione ricordata più sopra – il metodo hegeliano può esser ritenuto
compatibile con una sorta di metafisica ‘realista’: in questo caso, si deve
contestare la lettura marxiana di Hegel come idealista estremo, per cui le
categorie finirebbero con il ‘creare’ la stessa realtà[5] Se si ritiene al
contrario che la dialettica sistematica in Marx abbia a che fare con il fatto
che il capitale è in qualche modo davvero una realtà ‘ideale’
che si sostiene da sé, la lettura marxiana di Hegel come idealista estremo non
sembra invece porre alcun problema. La questione è rilevante perché la maggior
parte delle letture hegeliane di Marx fatte da marxisti vanno contro l’esplicita critica
di Hegel da parte di Marx. Possiamo ricordare le tre critiche principali mosse
da Marx a Hegel.
La prima è la critica del 1843
ai Lineamenti di filosofia del diritto, dove l’attacco a Hegel è
per aver identificato essere e pensiero. Il regno empirico viene trasformato in
un momento dell’Idea, e la ragione pretende di trasformare se stessa in
soggetti reali, particolari e corporei. L’astrazione viene resa sostanza –ipostatizzazione,
ovvero l’universale diventa un’entità che esiste di per sé. Allo stesso tempo
abbiamo la riproduzione di una feuerbachiana inversione di soggetto e
predicato: il concetto universale, che dovrebbe esprimere il predicato di
un qualche soggetto, diviene lui stesso il soggetto, e il soggetto predicato.
Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, Marx sostiene
analogamente che Hegel, per prima cosa, ha identificato oggettivazione
e estraneazione, tanto che che superare l’estraneazione vorrebbe dire
superare l’oggettivazione. Sostiene poi anche che Hegel ha identificato
oggettività e alienazione, dato che l’essere posto come oggettivo non può
sfuggire all’alienazione: quest’ultima è una fase necessaria
dell’auto-coscienza, che riconosce nell’oggetto nient’altro che
un’alienazione-di-sé. Da un lato, Hegel attribuisce vera realtà
soltanto all’Idea, dall’altro, vede nella realtà empirica
nient’altro che un’incarnazione momentanea dell’Idea stessa. Si tratta di
una critica che torna ancora ne Il Capitale. Ciò che è interessante
è che Marx vede l’origine di questo rovesciamentocosì tipico
(secondo la sua lettura) di Hegel nella realtà stessa:
l’estraneazione degli individui nella società, e
l’estraneazione dello Stato dalla società.
Una seconda critica è
nell’Introduzione ai Lineamenti fondamentali della critica dell’economia
politica 1857-1858. Hegel confonde l’ordine del sapere conl’ordine
della realtà. Il ‘concretum’ come sostrato è sempre presupposto, ma è
necessario prendere in considerazione il doppio movimento tra
l’astratto e il concreto. Il modo di ricerca riguarda la transizione dal
concreto della materialità sensibile, che viene appropriata analiticamente,
alle forme logiche astratte, che devono essere esposte in modo sequenziale e
sintetico. Marx è completamente d’accordo con Hegel sul bisogno di salire
dall’astratto al concreto. Il sapere non è più una semplice descrizione: è
un’esposizione [Darstellung] genetica, l’esibizione e comprensione della
costituzione effettuale dell’intero. Il ‘concreto’ è sintesi di molte
determinazioni, unità del molteplice: è un risultato. Hegel ‘salta’
però la prima metà di questo circolo epistemologico, dove il concreto è
il punto di partenza nella realtà, cioè,
nell’osservazione e nella ‘rappresentazione’ [Vorstellung].
In questo modo, sostiene Marx, Hegel
“cadde nell’illusione di concepire il reale come risultato del pensiero, che si
riassume e si approfondisce in se stesso, e si muove spontaneamente […] Per la
coscienza – e la coscienza filosofica è così fatta, che per essa il pensiero
pensante è l’uomo reale, e quindi il mondo pensato è, in quanto tale, la sola
realtà – il movimento delle categorie si presenta [erscheint] quindi
come l’effettivo atto di produzione.” (Marx 1857-58, pp. 27-28) Al contrario,
“[i]l soggetto reale rimane, sia prima che dopo, saldo nella sua autonomia
fuori della mente. […] Anche nel metodo teorico, perciò, la società deve essere
sempre presente alla rappresentazione come presupposto.” (Marx 1857-58, p. 28).
La critica di Marx a Hegel in questo caso è che quest’ultimoconfonde l’ordine
del sapere con l’ordine della realtà.
La terza critica di Marx è nella
“Postfazione” alla seconda edizione del 1873 del Primo Libro de Il
Capitale. Marx definisce il proprio metodo dialettico come l’opposto di
quello di Hegel, dal momento che per lui “l’ideale non è altro che il materiale
trasferito e tradotto nella testa umana” (Marx MEOC XXXI, p. 21). Senz’altro,
la dialettica “nella comprensione positiva dello stato di cose esistente
include simultaneamente anche la comprensione della negazione di esso, la comprensione
del suo necessario tramonto, perché concepisce ogni forma divenuta nel fluire
del movimento, quindi anche dal suo lato transeunte, perché nulla la può
intimidire ed essa è critica e rivoluzionaria per sua essenza.” [Marx MEOC
XXXI, p. 22]. Purtroppo in Hegel la dialettica sta sulla testa, ed è quindi
necessario che venga capovolta, “per scoprire il nocciolo razionale entro il
guscio mistico” [Marx MEOC XXXI, p. 22].
Alcune posizioni nel dibattito
dell’ISMT
Vi è accordo tra tutti gli autori
dell’ISMT sul fatto che Marx sia un ‘dialettico sistematico’, ovvero che
proponga l’articolazione di categorie per concettualizzare un tutto
concreto esistente. Per Roberto Fineschi, Geert Reuten e Tony Smith c’è un
altro punto di accordo: le critiche di Marx contro Hegel sarebbero mal
poste.[6]
Per Tony Smith (1990) la dialettica
sistematica aiuta nella chiarificazione riflessiva delle categorie usate
nelle scienze sociali empiriche, e ci permette di svelare il ‘feticismo’
capitalistico. Inoltre, dato che distingue tra ciò che è ‘necessario’ e ciò che
è ‘contingente’, la dialettica sistematica fonda una politica
rivoluzionaria perché punta verso la trasformazione delle categorie
fondamentali. Marx non si è reso conto che la sua critica si appuntava
esclusivamente sulla terminologia un po’ stravagante di Hegel e sul suo
indulgere in un pensiero rappresentativo, quale è per Smith a volte quello del
filosofo di Stoccarda secondo il nostro autore (per cui Hegel “muddled things
considerably by continually resorting to picture-thoughts [il riferimento qui è
alla Vorstellung] within his own systematic philosophy” (p. 11).
Sul metodo però non c’è un disaccordo di fondo tra i due autori.
Per comprenderlo “we have first to consider what a category is. It is a
principle (a universal) for unifying a manifold of some sort or other
(different individuals, or particulars). A category thus articulates a
structure with two poles, a pole of unity and a pole of differences. In
Hegelian language this sort of structure, captured in some category, can be
described as a unity of identity in difference, or as a reconciliation of
universal and individuals” (p. 5). La dialettica prende avvio da un’unità semplice, immediata
e inadeguata, un’universalità ‘astratta’; segue un momento dove la differenza
viene enfatizzata. La negazionedell’unità semplice si sviluppa
facendo emergere una differenza reale. Questo porsi dialettico della differenza
dà luogo ad un’unità-nella-differenzacomplesso che incorpora il momento
della differenza, ed è dunque una negazione della negazione. Il
movimento dialettico si muove attraverso un ‘porsi’ e ‘superarsi’ delle contraddizioni –
che non sono nient’altro che la tensione tra ciò che una categoria è in
modo inerente e ciò che essa è esplicitamente. La
‘verità’, il risultato così raggiunto, può essere considerata una categoria di
unità semplice, dal punto di vista di una prospettiva successiva. È un nuovo
punto di partenza determinato. Il movimento va così avanti con una
deduzione interna, immanente, necessaria nel processo di concretizzazione.
L’Hegel di Smith non nega perciò affatto l’indipendenza del processo reale, né
la presenza nella realtà di un residuo irriducibile di contingenza. Il
movimento delle categorie non corrisponde a una autogenerazione del reale, anche
se le ‘transizioni’ di cui quel movimento è intessuto sono in effetti
auto-agite – nel senso che il movimento concettuale viene giustificato dal
contenuto oggettivo di ogni categoria. Lo Spirito Assoluto, l’Idea, non sono
qui certamente un Soggetto metafisico in Hegel: Marx aveva torto nella sua
critica.
Peraltro Marx adotta la stessa
struttura nel suo metodo ‘genetico-strutturale, ‘storico-logico’. L’accento
viene messo qui su strutturale: con il contenuto determinato in un
modo ‘intrinseco’ e ‘oggettivo’ (solo) logicamente. Il
Capitale è costruito architettonicamente su una logica
sistematico-dialettica. La strategia di Smith sembra essere quella di non
vedere nient’altro che Hegel nell’Introduzione del 1857-8 di Marx,
e di individuare il punto di intersezione tra i due ne Il Capitale letto
in corrispondenza all’hegeliana Logica dell’Essenza. Ci sono tre strutture
ontologiche (formali) fondamentali nella Scienza della Logica di
Hegel. L’Essere [Sein] è una ‘unità semplice’, che aggrega entità isolate e auto-sufficienti.
L’Essenza [Wesen] – il ‘principio d’unità’ che le lega insieme –
sussume queste entità; in effetti può anche ridurre diverse unità a mere
apparenze, lasciando un rischio di frammentazione, e mantenendo laseparazione tra
i due poli. Il Concetto [Begriff] è invece una struttura logica dell’
‘unità-nella-differenza’ che media in modo armonico i diversi
individui e l’unità comune. Marx, secondo Smith, segue questo secondo livello
della Scienza della Logica, senza stabilire una corrispondenza ed
una omologia troppo strette.
La merce, prosegue Smith, è lavoro
astratto.[7] Il feticismo permea la merce – ‘feticismo’
significa che la socialità non può presentare se stessa come ciò che realmente
è, una relazione all’interno della società, ma piuttosto appare soltanto
come una relazione tra cose. La socialità non può che apparire in
una forma alienata. Detta altrimenti: la logica della socialità è opposta alla
logica (ugualmente valida, ma più superficiale) propria del valore/denaro. Lo
sviluppo di questa linea di pensiero porta Smith ad affermare che il capitale è
uno pseudo-soggetto, nient’altro che le
potenzialità creative collettive del lavoro vivo. L’autovalorizzazione del
capitale non è nient’altro che l’espropriazione di queste
potenzialità.
L’approccio di Reuten ha qualche
somiglianza con quello di Smith, e si basa su un’approfondita critica
dell’empirismo. Nei Grundrisse Marx sperimenta l’uso della
Logica del Concetto di Hegel (cioè, la Logica Soggettiva), ma abbandona questo
tentativo ne Il Capitale, seguendo piuttosto la Logica
dell’Essenza. Partendo da una caratterizzazione astratta della totalità Reuten
e Williams (1989) indicano come il porre come fondamento quel punto di partenza
si accompagni a una concretizzazione concettuale graduale della
totalità. Fondare le condizioni di esistenza a livelli
sempre più concreti richiederà il continuo superamento dell’opposizione dei
momenti in nuovi momenti necessari e in nuovi concetti, ma in qualche punto
vedrà anche l’introduzione di momenti contingenti. Quando l’esposizione ha
ricostruito la totalità come un tutto interconnesso e ha
compreso l’esistente come realtà effettuale, i fenomeni
concreti verranno mostrati come manifestazione fenomenica delle determinazioni
astratte che riproducono e allo stesso tempo convalidano il
punto di partenza. Per Reuten le contraddizioni non sono ‘risolte’ al
livello della necessità, nel capitale come soggetto (come per il Concetto di
Hegel), ma solo temporaneamente, in momenti contingenti,
che sono però pur sempre momenti dell’‘essenza’ del sistema.
Per Reuten e Smith, la forma del
valore e le sue trasformazioni sono la ‘struttura’ dove i lavori separati e privati sono
erogati e in un momento successivo resi sociali nello scambio.
Entrambi gli autori ricostruiscono il capitalismo all’interno di una sorta di
olismo macro-sociale, dove il tutto fonda e limita i comportamenti
microeconomici individuali. La dialettica si riduce a fondazione
filosofica, con un primato dell’epistemologia.
Fineschi (2011, ma si veda anche Fineschi
2001) ritiene che Marx abbia usato metodologicamente la Logica
del Concetto, dove l’Essere e l’Essenza non sono nient’altro che il Concetto
mentre è nel suo ‘sviluppo’. Ciò malgrado, come dirò, alcuni dei suoi giudizi
sono vicini a quelli di Reuten e Smith. Fineschi vede ne Il Capitale un’articolazione
di quattro livelli di astrazione. Dopo una sorta di primo livello
base (circolazione semplice come ‘presupposto’), il secondolivello
è la generalità/universalità, che mostra come il capitale ‘diviene’
nella produzione e nella circolazione. Nelle stesure ultime
de Il Capitale Marx ha incluso nel capitale come
totalità anche i ‘molti capitali’ e l’accumulazione.
Il terzo livello è la particolarità, che ha che
fare con l’uno/molti capitali nella concorrenza. I molti capitali
vengono ora definiti come capitali particolari nella loro dinamica di
auto-valorizzazione. Il quarto livello conclusivo è la singolarità.
Qui incontriamo il capitale portatore di interesse, dove l’universalità
del capitale esiste come un capitale particolare realmente esistente, ed è
dunquesingolare.
Un punto di convergenza con Reuten e
Smith sta in ciò: che Fineschi limita il debito di Marx nei confronti di Hegel
al solo livello metodologico. Lo ‘schizzo’ della struttura U-P-S che precede
non può evidentemente rendere giustizia all’interpretazione di Fineschi.
Condivido la tesi (sua e di altri) che la dialettica sistematica per Marx abbia
a che vedere anche con lo sviluppo concettuale.
L’argomentazione di Marx è ‘stratificata’ su due livelli distinti per Fineschi:
la Logica I è ‘puramente’ logica, la Logica II è caratterizzata
dall’inserimento di dimensioni storiche. Lo sviluppo reale
pre-esiste, e ‘fissa’ il concetto empirico storicamente determinato che viene
scelto come punto di partenza, e da cui il movimento dialettico dei concetti
‘si sviluppa’. Il punto di partenza non è dunque la forma valore (come in
Arthur), né la dissociazione dei lavori (come in Reuten e Smith), ma la ‘merce’
come forma cellulare del capitale, caratterizzata da una duplicità o doppiezza interna
di valore d’uso e valore. La Dastellungweise è qui, di
nuovo, soltanto il modo di ‘esposizione’ di un contenuto
(determinato), ovvero il processo dialettico interno
dell’auto-sviluppo meramente logico delle categorie che lo
riguardano. Grazie a questo metodo noi siamo in grado di
vedere come il capitale ponga, e produca come proprio risultato, ciò che
all’inizio era soltanto presupposto. Tale circolo del presupposto-posto, mi
pare, non ha alcuna valenza ‘ontologica’, come credo sia in Finelli. Un altro
punto di convergenza con Reuten e Smith ne discende immediatamente: Fineschi,
come loro, non può non trovare erronea la lettura di Hegel proposta da Marx.
Incontriamo qualcosa di radicalmente
diverso in Patrick Murray e Chris Arthur. Entrambi vedono chiaramente
l’importanza dell’accusa di idealismo mossa da Marx a Hegel. Murray (1988, pp. 216-217, corsivo mio) sostiene nettamente che “if we
examine Hegel’s characterization of the ‘concept’ … and compare it to Marx’s
description of capital … it seems clear that the absolute,
self-realizing logic of the Hegelian concept resembles the movement of capital”.[8] Marx
ha condiviso con Hegel un approccio basato su una logica immanente nella
teoria: ma Hegel pone la logica prima dell’esperienza,
all’opposto di Marx. Hegel ha identificato i processi nel pensiero e i processi reali,
laddove Marx ha insistito su un mondo oggettivo dall’esistenza indipendente.
Oltretutto, le astrazioni di Hegel erano ‘generali’; quelle di Marx erano
‘determinate’. Ancora più importante: l’opposizione di essenza e
apparenza non può essere mediata, come sostiene Hegel, ma deve
essere sradicata (uprooted è il termine inglese
impiegato da Murray), come gli replica Marx. Il ragionamento di Marx è
inestricabilmente connesso con le dinamiche gemelle di ipostatizzazione e inversione:
il che rimanda al Capitale, in quanto Soggetto ‘automatico’, in
quantoSoggetto che racchiude e domina [übergreifende]
l’intero processo, sostanza che si muove da sé e che si attiva da sé. Il valore
è una sostanza ‘cosale’, che in quanto capitale si tramuta realmente in Soggetto.
La logica del capitale (e non soltanto la logica de Il Capitale) è la
logica di Hegel (in quanto logica dell’idealismo assoluto), a causa di un isomorfismo tra
il ‘capitale-feticcio’ come totalità e lo ‘svolgersi’ dell’Idea. Qui ci
troviamo, come è chiaro, ben oltre una lettura meramente metodologica della
dialettica sistematica. Murray non manca inoltre di sottolineare, con forza,
l’implicazione religiosa di questo discorso: la critica del carattere
di feticcio del capitale e della reificazione si
muove esplicitamente in parallelo alla critica dell’alienazione,
del Cristianesimo e dello Statoche troviamo nel
giovane Marx.[9]
Arthur (2002) insiste sulla tesi che
il debito di Marx nei confronti di Hegel non è di carattere meramente
epistemologico. Non si tratta semplicemente dell’adozione di una logica
immanente della scienza, costruita sulla convinzione che l’esposizione [Darstellung]
debba mostrare la necessità logica per cui la duplice natura della merce si
esteriorizzi e dispieghi nell’economia politica capitalistica in forme sempre
più complesse. C’è anche questo naturalmente. La teoria ha di fronte
una totalità esistente, e se si limitasse ad analizzarne i momenti isolati
la conoscenza che ne deriverebbe sarebbe limitata e distorta. Dunque, i
momenti devono essere collocati nel tutto, con una progressione sistematica
delle categorie che ci permetta (come in Smith) di apprendere domini-oggetti di
complessità crescente, dato che la progressione stessa è guidata (come in
Reuten) dalla considerazione che ogni categoria analizzata risulta, per così
dire, deficitaria in termini di determinazione rispetto alla successiva. È
precisamente questa ‘mancanza’ che va superata – il limite delle
categorie ad ogni stadio della progressione concettuale – e che dà l’impulso a
una ‘transizione’, a una determinazione successiva di categorie, in una
sequenza di ‘arricchimento’ di ogni categoria e al tempo stesso di movimento
verso il ‘concreto’. Tutto ciò, scrive Arthur, è particolarmente rilevante
perché – come il riferimento allo scambio monetario universale che conduce
all’equivalente universale e al denaro mostra molto chiaramente – il sistema
capitalistico è – in parte – realmente intessuto di rapporti
logici. Il capitale effettivamente è anche una
realtà ideale.
C’è però un’altra metà della storia. Per Arthur Hegel è importante per Marx non nonostante, ma
proprio a causa della sua ontologia idealistica:
‘capital is a very peculiar object, grounded in a process of real abstraction
in exchange in much the same way as Hegel’s dissolution and reconstruction of
reality is predicated on the abstractive power of thought. It is in this sense
that it may be shown that there is a connection between Hegel’s “infinite” and
Marx’s “capital”.’ (p. 8) Vi è un isomorfismo tra la Logica di
Hegel e il Capitale. Qui il riferimento è, come in Fineschi, alla
Logica del Concetto, ma in un senso molto più forte, al punto che per Arthur l’omologia del
Capitale con l’Idea è esattamente la ragione per criticare la realtà del
capitale come una realtà invertita nella quale astrazioni
autoriproducentesi dominano gli esseri umani. Il punto da comprendere bene è
che affinché la sostanza del valore si tramuti effettivamente nella spirale del
Capitale – come valore che crea più valore, come denaro che si accresce in più
denaro – è necessario che il valore/denaro come capitale cessi di essere una
realtà meramente ideale ed entri nel regno
‘non-ideale’ della trasformazione dei valori d’uso, dunque nei ‘laboratori
nascosti’ della produzione, sussumendo (non soltanto formalmente, ma anche
realmente) il ‘lavoro’ quale sua viva ‘alterità interna’ (essendo la natura la
sua ‘alterità esterna’). Il capitale è definito dalla sua opposizione al
‘lavoro’, categorialmente irriducibile al capitale stesso nella sua
integralità, anche se il primo ha trovato certamente i modi per atomizzare il
secondo, impedendone spesso la mobilitazione. Questo genere di ‘risoluzione’
della sua contraddizione interna di base, anche se temporanea e contingente
(come direbbe Reuten), può caratterizzare un’intera epoca e un intero modo di
produzione. Ciò nonostante, il capitale rimane ‘limitato’, e può sempre essere
rovesciato: il lavoro rimane un contro-soggetto, virtualmente sempre
presente, anche se empiricamente non è effettivo se non in modo parziale.
Come i miei scritti, a partire dalla
fine degli anni Settanta, testimoniano, l’approccio che ho indipendentemente
sviluppato è molto vicino a quello di Arthur,. La ragione è presto detta.
Un’influenza chiave per me è stato Lucio Colletti, soprattutto tra la fine
degli anni Settanta e l’inizio degli anni Settanta: in particolare la sua
innovativa (e, come dirò, rubiniana) lettura della teoria del valore, dalla sua
introduzione a Bernstein agli ultimi due capitoli del suo Il marxismo e
Hegel. Di quest’ultimo volume, in particolare, l’ultimo capitolo, “L’idea
della società «cristiano-borghese»”, ha molti parallelismi con le
argomentazioni successivamente sviluppate da Murray e Arthur. Ma prima di
andare più a fondo in questo tema, vorrei sgombrare il campo da ciò che penso
possa essere un possibile (falso) problema: il tema della natura dell’idealismo
di Hegel, e ancora di più la questione se Marx sia stato o meno ingiusto nella
sua critica al filosofo di Stoccarda. La mia opinione è simile a quella di
Suchting (1997) in un suo articolo inedito sulla Scienza della logica di
Hegel come logica della scienza. Hegel ha colto, meglio di ogni altro prima di
lui e di molti dopo di lui, le caratteristiche fondamentali della ricerca
scientifica moderna. Il suo metodo era nondimeno fondamentalmente idealista.
Non sono però un conoscitore di Hegel, e potrei sbagliarmi. Per quanto
tali questioni possano essere rilevanti in se stesse, esse sono irrilevanti per
la problematica che sto trattando in questo lavoro. Quello che è importante per
il mio filo di discorso è che la Scienza della Logica di
Hegel fu essenziale per il Marx maturo proprio perché il suo
idealismo riflette la natura ‘idealista’ e ‘totalitaria’ della
circolarità capitalistica del capitale, in quanto denaro che genera (più)
denaro. Per dirla in modo esplicito: anche se l’Hegel di Marx non fosse il
‘vero’ Hegel, è l’Hegel ‘falso’ che conta davvero per leggere Il Capitale.
Allo stesso tempo la tesi di un’omologia stretta tra Hegel e Marx non può
essere intesa in senso troppo rigido ed estremo. Più che fondarsi in una
duplicazione formale della struttura U-P-S che riprodurrebbe una corrispondenza
uno-a-uno tra i tre volume de Il Capitale e La Scienza
della Logica, l’omologia sulla quale insisto nelle pagine che seguono è
costruita (e dissolta!) nei primi cinque capitoli del Libro Primo, dove il
Capitale come Soggetto è plasmato sull’Idea Assoluta come Soggetto.
Lucio Colletti: il paradosso del
Capitale
Ricordiamo per sommi capi alcuni
momenti della riflessione di Lucio Colletti su Marx e Hegel. L’idealismo
assoluto di Hegel, per Colletti 1969a, equivale alDio che diventa reale nel
mondo, alla Sua presenza nelle istituzioni civili e politiche della
modernità borghese, e queste stesse realtà storiche sono degli oggetti mistici.
Per quanto strano ciò possa sembrare, scrive, è questo il punto dove l’opera di
Marx e quella di Hegel coincidono al punto di sovrapporsi l’una
all’altra. Così come le istituzioni del mondo borghese sono incarnazioni
sensibili del sovrasensibile, o in altri termini esposizioni
positive dell’Assoluto, così ne Il Capitale la ‘merce’ ha
un carattere ‘mistico’ – è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza
metafisica e di capricci teologici, per citare direttamente Marx. Queste
espressioni non sono figure retoriche, sostiene Colletti, sono anzi talmente
rilevanti che è difficile discernere l’autentico significato del pensiero di
Marx senza di esse.
Marx vede nella realtà
capitalistica un mondo rovesciato: “La differenza è solo che,
mentre nel divenire sensibile del sovrasensibile Hegel vede l’attuarsi di Dio,
Marx (il quale ovviamente ragiona ormai fuori dall’orizzonte cristiano) vede il
farsi presente e reale di forze alienate e estraniate dall’umanità,
a cominciare dal capitale e dallo Stato stessi (p. 423)” Il lavoro umano
astratto è come l’uomo astratto della Cristianità. Il valore – unità sociale
divenuta un oggetto – conduce al paradosso di un rapporto sociale come
relazione che si pone per sé indipendentemente dagli individui a cui si
dovrebbe riferire e per i quali dovrebbe essere una mediazione. È un rapporto
sociale divenuto cosa che si impone agli individui come una divinità, anche se
in realtà è il loro stesso potere sociale estraniato. L’estraneazione di questo
rapporto, la sua reificazione, “questo suo darsi un’esistenza
indipendente in un oggetto o valore d’uso (che figura appunto come ‘corpo’ del
valore” (p. 428) è al cuore dell’analisi di Marx del denaro, e del
denaro-capitale.
Laddove la produzione viene svolta da
lavoro privato individuale, quest’ultimo diventa sociale solo
quando prende la forma del suo opposto, il lavoro universale
astratto: “il cristiano e la merce sono fatti allo stesso modo: corrispondendo
all’ ‘anima’ e al ‘corpo’ del primo, il ‘valore’ e ‘valore d’uso’ dell’altra.”
(p. 429) La merce è un ‘valore d’uso’, una ‘cosa’, che nasconde in se
stessa un’oggettività non-materiale, il ‘valore’: “come il
cristiano, è unità del finito e dell’infinito, unità degli opposti, essere e non-essere insieme”
(p. 429). È lo stesso Marx che sottolinea come la merce sia,
e allo stesso tempo non sia, un valore d’uso. Dietro al valore di
scambio relativo si cela un valore reale ‘assoluto’ o intrinseco,
che esiste – scrive ancora Colletti – nelle cose stesse che sono messe in
rapporto nello scambio – ovvero, abbiamo qui una ipostatizzazione del
‘valore’: “Marx, horribile dictu, accetta l’argomento che il
‘valore’ è un’entità metafisica, e solo si limita a osservare che un’entità
scolastica è qui la cosa, cioè la merce stessa, e non il
concetto con cui lui, Marx, ha descritto come la merce è fatta! […] Questa
società delle merci e del capitale è, dunque, la metafisica, il feticismo, il
‘mondo mistico’: essa, ben prima che la Logica stessa di
Hegel!” (p. 431).
Il mondo delle merci e del capitale è
un mondo ‘mistico’, e lo è persino più di quello della Logica di
Hegel: punto esclamativo. A questo singolare iper-hegelismo giunge
l’anti-hegeliano Colletti: ineluttabile sbocco della sua nuova lettura della
teoria del valore-lavoro iniziata nel 1968. Sappiamo che tra il 1974 e il 1976,
dopo una fase problematizzante, il filosofo si ritrarrà terrorizzato da questa
conclusione, fuggendo a gambe levate e sostanzialmente annullando il proprio
pensare nella ripetizione ossessiva dello scongiuro secondo cui con la
dialettica non si fa scienza (mentre, giuste le conclusioni precedenti, solo con
la dialettica si dà conoscenza di questo mondo). Sappiamo inoltre
che i critici di Colletti hanno anch’essi puramente e semplicemente rimosso
questo episodio, che è invece di estremo interesse: e sulle prime il nostro
autore, invece che trarne la conclusione della presenza di una scissione letale
tra un Marx filosofo e un Marx scienziato, come farà dal 1974, si interroga
sulla tensione positiva che può darsi nell’autore del Capitale tra
economia politica e critica dell’economia politica, tra scienza e rivoluzione.
Una conferma spettacolare di quanto
importante fosse questa linea di pensiero per Colletti è stata la pubblicazione
postuma, a gennaio 2012, di alcune lezioni dei primi anni Settanta su Il
Capitale, Libro Primo, dove questa lettura ‘hegeliana’ di Marx è molto
evidente. Il titolo di queste lezioni è, non a caso, Il Paradosso del
Capitale. La caratterizzazione della realtà del capitale come paradossale è
un tema comune con Backhaus, e ci tornerò. Si veda, per esempio, alle pp. 72-73
(corsivo mio): “Qui il discorso di contenuto e il discorso di metodo si coprono
interamente: pensate a quella celebre proposizione che è nel poscritto alla
seconda edizione del Capitale: Hegel trasformò il pensiero in soggetto
‘indipendente’. Il pensiero, che è evidentemente sempre il pensiero dell’uomo,
cioè una caratteristica, una prerogativa dell’ente umano, Hegel lo distacca
dall’uomo e ne fa un soggetto a sé stante. Quella trasformazione del predicato
in soggetto, quella sostantificazione dell’astratto, quell’alienazione o
estraneazione è al centro sia della riflessione di metodo che dell’analisi di
contenuto del Capitale.” [è stato corretto un refuso] Se le merci
sono delle entità metafisiche, osserva il filosofo romano, “non bisogna
avere un concetto ingenuo e superficiale di metafisica, come se le metafisiche
siano cose inesistenti.”
Il discorso di Colletti non potrebbe essere più chiaro. La ‘merce’
in quanto materializzazione di lavoro, cioè valore, ha un’esistenza
immaginaria, puramente sociale. Con il capitale e con lo Stato,
‘rappresenta’ [Darstellung] un processo di ipostatizzazione nella
realtà. Per capire ciò, si deve studiare tenendo Il Capitale nella
mano destra e La Scienza della Logica in quella sinistra (o
viceversa!). L’universale astratto, che dovrebbe essere una proprietà del
concreto, diventa un’entità auto-sussistente e un soggetto attivo, mentre il
concreto e il sensibile diventano soltanto una forma della manifestazione
fenomenica dell’universale-astratto – il predicato del suo stesso predicato
sostantificato. Nell’ultima pagina de Il marxismo e Hegel se
ne trae la conclusione: “Questo rovesciamento, questo quid pro quo,
questa Umkehrung, che, secondo Marx, presiede alla Logica di
Hegel, presiede anche, e ben prima di essa, ai meccanismi ‘oggettivi’ di questa
società, a cominciare già dal rapporto di ‘equivalenza’ e dallo scambio delle
merci.” (p. 282). Per Colletti, insomma, la logica dialettica di Hegel non è
nient’altro che ‘il metodo specifico dell’oggetto specifico’, e questo – si
badi - non a dispetto ma in forza del suo idealismo assoluto. La
critica filosofica a Hegel e la critica al capitale, ne Il Capitale così
come nei Grundrisse, sono una cosa sola.
Pur con il suo fastidio per la Scuola
di Francoforte, è lo stesso Colletti che introduce Il concetto di
natura in Marx di Alfred Schmidt, allievo di Adorno e Horkheimer. E
che lo cita positivamente quando il filosofo tedesco, nel suo lavoro giovanile,
scrive che “[t]ra Kant e Hegel, Marx assume una posizione difficilmente
definibile. La sua critica materialistica alla identità hegeliana di soggetto e
oggetto lo riconduce a Kant … Anche se, mantenendo la tesi kantiana della
non-identità di soggetto e oggetto, Marx ribadisce però la posizione
postkantiana che non trascura la dimensione storica e vede soggetto e oggetto
entrare in sintesi e relazioni mutevoli.” (in Schmidt1962, p. xi). E ancora,
sempre Schmidt apprezzato da Colletti: “Marx, d’accordo con Hegel, respinge
riflessioni gnoseologiche antecedenti all’indagine dei contenuti concreti del
sapere, ma al tempo stesso, in quanto materialista, non può accettare la
conseguenza che Hegel trae dal rifiuto della teoria della conoscenza:
l’identità di soggetto e oggetto.” (p. xii) Come pure cita positivamente Helmut
Reichelt (riprenderò questa sua citazione in conclusione), e manda sue allieve
a studiare da Hans Georg Backhaus: e siamo di nuovo nell’orbita adorniana,
visto che i due sono stati suoi allievi. Schmidt, Backhaus e Reichelt sono le
figure chiave all’origine della Marx Neue-Lektüre, che dalla critica dialettica
della società di Adorno discende, ma che rispetto al maestro prende
maledettamente più sul serio la critica dell’economia politica.
In una intervista a “Rinascita” del
14 maggio 1971 su Marx, Hegel e la Scuola di Francoforte, Colletti
ribadisce: “La logica di Hegel, con il suo scambio di soggetto e oggetto,
riproduce la logica stessa del capitale, e la ipostatizzazione, le astrazioni
indeterminate sono, prima ancora che astrazioni indeterminate di chi riflette
(da un certo punto di vista) sulla realtà della società capitalistica,
astrazioni presenti nella realtà capitalistica stessa […] il rapporto
Hegel-Marx torna a proporsi in una forma più complessa , anche se questa forma,
ripeto, non significa affatto che sia possibile ricondurre Marx entro il quadro
della filosofia hegeliana” (in Cassano 1973, p. 296). E poche righe dopo
aggiunge. “Per me non si è mai trattato di negare l’importanza del pensiero di
Hegel. La mia polemica, anche quella attuale, non si è mai indirizzata a Hegel
come tale: si è indirizzata piuttosto a un certo marxismo […] C’è una tradizione
marxista, la tradizione che è andata sotto il nome di ‘materialismo
dialettico’, che ha finito, in primo luogo, col distorcere il senso di tutta
una serie di proposizioni hegeliane volgendole a un significato che era
completamente estraneo all’intenzione di Hegel; e in secondo luogo, ha finito
con l’eludere l’elemento profondo di novità che Marx ha rappresentato nei
confronti di Hegel.” (p. 297). Dopo aver rilevato che “se il marxismo si libera
di quel tanto di residuo naturalistico e positivistico che forse qua e là si è
depositato anche in alcune parti del Capitale di Marx, ne
risulta esaltata l’importanza del fattore coscienza – la coscienza di classe,
intendo – ai fini della mobilitazione rivoluzionaria”, Colletti arriva
addirittura a spendere qualche parola positiva persino sulla stessa Scuola di
Francoforte, che per lo meno “ha avuto il merito di riproporre con forza
l’accento sull’importanza dell’elemento soggettivo ai fini del maturarsi e
risolversi del processo storico” (p. 301).
Hans-Georg Backhaus: le ‘forme
impazzite’ e l’oggettività irrazionale del capitale
Ritengo che il giudizio di Colletti
secondo cui la critica a Hegel e la critica al capitale sono una cosa sola sia
in buona sostanza corretto, anche se il linguaggio rivela ingenuità e qualche
imprecisione.[10] Hans-Georg Backhaus giunge a delle conclusioni molto
simili nel suo articolo “Il ‘rivoluzionamento’ e la ‘critica’ dell’economia
politica compiuti da Marx: la determinazione del loro oggetto come totalità di
forme impazzite”.[11] Il regno delle Verrückte Formen (le
forme ‘impazzite’, ma anche ‘spostate’, ‘deviate’, dove si allude non solo alla
follia ma anche ad una sorta di dislocazione spaziale, e ad una inversione che
è in qualche misura una perversione) è già lì, fin dall’inizio, al principio
de Il Capitale, non compare solo nel Libro Terzo. La forma non
ancora sviluppata del valore di scambio è già una mistificazione della
realtà: ed in ogni caso, è l’apparenza delle cose così come sono (è
una ‘manifestazione (fenomenica)’, unErscheinung e non una
parvenza, uno Schein – torneremo su questo più avanti nel
capitolo). È perciò la realtà capitalistica stessa ad
essere paradossale, non il linguaggio che la descrive.
Secondo Backhaus, Hegel è all’origine
del ‘rivoluzionamento’ della teoria sulla merce/denaro/capitale da parte di
Marx, proprio per la sua ‘esposizione’ (Darstellung) strutturata
dialetticamente. Tuttavia Hegel è soltanto un primo passo, perché il filosofo
di Stoccarda non fu in grado di ‘sviluppare’ il carattere duplice delle merci
(che vide molto chiaramente in inediti ignoti a Marx) nel carattere duplice del
lavoro. Questo carattere doppio del lavoro naturalmente era un punto chiave
dell’ultimo capitolo di Marxismo e Hegel di Colletti, come
altre citazioni avrebbero potuto mostrare. Ed era un tema già cruciale nell’Introduzione
a Bernstein del 1968. La questione era stata anticipata e approfondita
da Isaak Ilijč Rubin, al tempo del tutto sconosciuto in Occidente: ci torneremo
tra poco. D’altra parte, prosegue Backhaus, Hegel riproduce a suo modo un
limite dell’economia politica e dello stesso Ricardo: la cecità verso la
‘genesi’ del valore; e ciò benché il suo apparato categoriale fornisse tutti
gli strumenti concettuali per adempiere questo compito.[12]
Le due idee fondamentali dello
sviluppo dialettico di Marx nella teoria del valore sono molto semplici, per
Backhaus (2009, pp. 456-457). Prima si trova una contraddizione nella
merce stessa: quella di essere nello stesso tempo ‘valore
d’uso’ e ‘valore’ – sensibile e soprasensibile. Secondo, si
mostra che soltanto nel suo essere denaro la merce è davvero una merce.
La vera domanda che dà la cifra della critica dell’economia politica marxiana
nasce da qui: com’è che la cosa-valore (in quanto merce, denaro,
capitale), il Fetisch, viene costituita da una
base umana? Ovvero, com’è che una sostanza sociale e
sovra-individuale quale è il valore, si sviluppa in una forma che presenta se
stessa come qualcosa che va oltre e al di là degli essere umani? Il rapporto
tra forma e sostanza, o tra essenza e apparenza, deve essere pensato come
una connessione interna necessaria, come una non-identità
che è allo stesso tempo un’identità. L’essenza deve apparire (ancora
un Erscheinung), ma questa apparenza è anche una distorsione: tutto
appare rovesciato. Dal momento che nello scambio generale, le ‘cose’ si
presentano in una connessione non-materiale, le merci nascondono un modo
d’esistenza ‘fantasmatico’. Per Backhaus, così come per Colletti, questo
oggetto peculiare deve essere analizzato con una scienza peculiare: una
scienza il cui metodo è diverso da, e addirittura opposto a,
quello normalmente usato nelle scienze naturali o nelle scienze dello spirito.
Come già Colletti (2012, p. 76), anche Backhaus (2009, pp. 486-487) rimanda
alla critica di Marx a Bailey: le ‘sottigliezze’ di Marx dipendono dalla struttura
paradossale della cosa stessa. L’essenza deve manifestarsi fenomenicamente,
ma questa manifestazione fenomenica non è l’essenza, dal
momento che questa apparenza [Erscheinung] è un ‘rovesciamento’ e una
‘inversione’. Il fenomeno, o ‘forma’, è un velo materiale che distorce e
che nasconde ciò che nello stesso tempo paradossalmente rivela.
Backhaus fa però un passo avanti importante rispetto a Colletti, come
mostra bene un saggio a noi disponibile in inglese: “Between Philosophy and
Science: Marxian Social Economy as Critical Theory” (Backhaus 1992). Per Marx –
tanto per il Marx giovane che per il Marx maturo: Backhaus, come Colletti, è un
‘continuista’ in merito all’evoluzione del pensiero di Marx – la concezione
secondo cui l’oggettività economica, l’oggettività di valore è una ‘seconda
natura’, sovrasensibile e non ‘fatta dagli esseri umani’, è al tempo stesso una
illusione, più propriamente una illusione oggettiva (gegenständlicher Schein).
Le forme
economiche sono forme ‘impazzite’, ‘deviate’, ‘spostate’ – nel senso anche di
uno spostamento dal loro luogo naturale. Si tratta di una trasposizione e una
proiezione del sensibile nel sovrasensibile. Se l’economia conosce solo
il risultato di questo ‘impazzimento’ e ‘spostamento’, la
‘critica’ dell’economia ha il compito di esporre la genesi delle Verrückte
Formen, la loro ‘origine umana’: disvelando in ciò che è immediato per gli
esseri umani delle forme alienate da sradicare. È nella fusione dell’inversione
soggetto-oggetto con il problema del concetto di capitale il filo rosso che
unisce le problematiche del giovane Marx con quelle del Marx maturo. Di qui,
per così dire automaticamente, il primato del qualititativo sul quantitativo
nel discorso marxiano.
Seguendo Adorno, si deve comprendere
che la teoria del valore in quanto denaro e in quanto capitale si colloca nella
terra di nessuno tra filosofia e scienza empirica. Per Backhaus, soltanto il
principio del valore-lavoro, e non quello del valore-utilità, è in grado di
spiegare l’esistenza del valore come ‘oggettualizzazione’ dell’essere umano
come ente ‘generico’ (un altro tema che potrebbe essere sviluppato con un
riferimento a Colletti, e a una sua critica, in positivo). Gli esseri umani si
trovano ‘di fronte’ le proprie forze generiche, come forze collettive,
come totalità alienata che li domina. Un pensiero, questo, il cui sviluppo
approda alla concezione del capitale sociale come totalità autonoma,
come Soggetto totalitario e reale, ‘astratto’ e ‘indifferente’ agli
individui:Capitale che ‘abbraccia’ e ‘domina’ nel suo automovimento e nella
sua autonomia. Backhaus riconduce l’origine di questa riflessione a
Feuerbach, e qualifica la trasformazione della dialettica di Hegel operata da
Marx come una dialettica ‘economico-antropologica’.
Le ‘apparenze’ economiche vanno
intese non come oggettivazioni dell’autocoscienza ma come oggettualizzazioni
di un soggetto ‘terreno’, delle forze generiche dell’essere
umano.[13] Ancora seguendo Adorno, occorre riprendere l’idea hegeliana che
lo Spirito è sempre ‘soggettivo-oggettivo’, tenendo però conto del compito
(ancora da svolgere) di articolare il punto dove si ferma Hegel, secondo cui il
momento finale dell’unità soggetto-oggetto è il prodotto della reificazione
dell’autocoscienza, con l’orizzonte aperto (ma non risolto) da Marx, secondo
cui quell’unità è il prodotto delle forme sociali del lavoro degli esseri
umani: forme che nel capitalismo (di nuovo Adorno) si cristallizzano in una
‘oggettività irrazionale’. Il valore è materiale, oggettivo, e al tempo stesso
illusorio, soggettivo. Nello sviluppo di questo tema che gli è proprio e unico
Marx rimane, a giudizio di Backhaus, allo stadio del ‘frammento’.
Il rapporto fondativo con Adorno della Neue Lektüre è
stato rimarcato in anni a noi più vicini da Reichelt: “had not Adorno
repeatedly put forward the idea of a ‘conceptual in reality itself’, of a real
universal which can be traced back to the abstraction of exchange, without his
questions about the constitution of the categories and their inner relation in
political economy, and without his conception of an objective structure that
has become autonomous, this text would have remained silent — just as it had
been throughout the (then!) already one hundred years of discussion of Marx’s
theory of value.” (Reichelt 2008, p. 11).
In una battuta: più che Das Ganze ist das Wahre, vale
l’opposto: Das Ganze ist das Unwahre.
Isaak Ilijč Rubin: l’astrazione del lavoro come proceso
La prospettiva di Colletti “è
singolarmente vicina a quella avanzata quasi cinquant’anni prima da Rubin”
osserva Silvano Tagliagambe (1978, p. 157). Lo stesso Backhaus confessa la
vicinanza tra alcune sue posizioni e quelle dell’economista russo, letto però
troppo tardi perché quest’ultimo potesse avere un’influenza diretta sulla sua
elaborazione.
Della sua opera più importante, Saggi
sulla teoria del valore di Marx, uscita in prima edizione nel 1923, abbiamo
una traduzione in italiano nel 1976 della terza edizione del 1928
(traduzione parziale: e dall’inglese,1973, non dall’originale
russo.[14] Una quarta edizione, ignota in Occidente, è stata tradotta in
giapponese,[15] ma non differisce significativamente dalla
terza.[16] La versione disponibile in inglese (tradotta anche in francese
1977, e prima in tedesco 1973) è però amputata di una significativa
introduzione, e di una appendice contenente le risposte ai critici. I
considerevoli mutamenti apportati dalla terza edizione alla seconda del 1924,
così come il contesto originale del dibattito attorno all’opera di Rubin, sono
stati assenti dalla discussione seguita alla sua pubblicazione in altre lingue:
anche se una spia delle questioni discusse è in un articolo del 1927 su “Lavoro
astratto e valore nel sistema di Marx”, che fu in parte rifuso in capitoli
della terza edizione, e che è stato tradotto in inglese nel 1978 (ne esiste una
precedente traduzione in tedesco del 1975).
La posizione che Rubin contesta è
quella che legge il lavoro astratto come spesa fisiologica di
energia: è probabilmente per contrastare questa tesi, presente con forza nel
dibattito sulla rivista “Pod znamenem marksizma” (“Sotto la bandiera del
marxismo”), che Rubin pubblicò il suo libro, proponendo di contro
un’interpretazione sociologica della teoria di Marx, e
riconducendo la teoria del valore alla teoria del feticismo. In questa
prospettiva il lavoro astratto è inteso come realtà “puramente” sociale,
definizione a cui i critici imputeranno che essa comporterebbe recidere del
tutto i ponti con la dimensione materiale del processo di
produzione e una collusione con la posizione ‘idealistica’ sociale,
neokantiana, di cui Franz Petry fu esponente di rilievo.
Nel passaggio dalla prima alla
seconda edizione Rubin aveva sostanzialmente proceduto per estensione,
prolungando l’analisi qualitativa del lavoro astrattoin
una analisi quantitativa del lavoro socialmente
necessario (trattando anche del lavoro qualificato, del lavoro
produttivo e improduttivo, dei prezzi di produzione). Il lavoro socialmente
necessario non era definibile in modo esclusivamente ‘tecnologico’, e nella sua
fissazione si doveva tener conto della concorrenza come del rapporto del valore
al bisogno sociale (alla domanda). Sarà proprio questa seconda edizione a
scatenare la discussione, con reazioni particolarmente accese. Rubin reagisce
agli attacchi ritornando sui nodi controversi, anche con profonde innovazioni
categoriali: in particolare, modificasostanzialmente i capitoli
12 (su contenuto e forma del valore), completamente riscritto, e 14 (lavoro
astratto), notevolmente accresciuto e ripensato come approfondimento della
propria posizione; e inoltre inserendo in appendice una lunga ‘risposta ai
critici’, limitandosi agli interventi per lui più pertinenti (Shabus, Kon,
Dashkovskii).
In questa temperie sta anche un
saggio di Rubin del 1924, sempre in “Sotto la bandiera del marxismo”. dedicato
a Rapporti di produzione e categorie materiali, che confluirà nel
capitolo 3. È questo articolo che secondo Tagliagambe costituisce il punto di
inizio della controversia, e la ragione è chiara. Per l’economista russo “la
struttura logica dell’economia politica come scienza esprime la struttura
sociale del capitalismo. È l’orgine sociale delle categorie a costituire la
‘connessione interna’” (Tagliagambe 1978, p. 155): gli economisti volgari (ma
qui, aggiungeremmo noi,la stessa economia politica classica) studiano soltanto
la forma economica estraniata, oggettiva e reificata: ma la materializzazione
dei rapporti di produzione “esprime il fatto che le cose svolgono un
particolare ruolo sociale, quello di ‘intermediario’ o ‘supporto’
dei rapporti di produzione.” Una posizione del genere andava a opporsi, per
così dire, naturalmente alla tesi che ‘riduceva’ il lavoro astratto a
fisiologico, e i rapporti sociali a rapporti materiali. Era questa, per
esempio, la posizione di A. Kon (inLezioni di economia politica, parte
prima: teoria del valore, teoria della moneta, teoria del plusvalore, Edizioni
di stato, uscito all’inizio del 1928).
Nel suo libro Kon vedeva
nell’astrazione del lavoro una generalizzazione mentale dai
lavori concreti, un’astrazione nel pensiero che conduceva a un
lavoro ‘generale’. In questo senso il lavoro astratto è una categoria ‘logica’,
che poteva dar luogo direttamente a una misurazione (in
termini energetici, o in altri da individuare) della spesa fisiologica
di lavoro, risolvendo di conseguenza anche il problema della misurazione
quantitativa della grandezza di valore. Una tesi analoga era stata
sostenuta anche da A.A. Voznesenskii nel suo articolo su “Sotto la bandiera del
marxismo” del dicembre 1925, Come comprendere la categoria di lavoro
astratto. Rubin vedeva piuttosto all’opera un’astrazione reale specifica
di una particolare epoca storica, e nella dimensione fisiologica unpresupposto
metastorico del lavoro astratto (come peraltro dichiarava apertamente
sulla stessa rivista nel giugno del 1926 I. Dashowski in Lavoro
astratto e categorie economiche). Il lavoro astratto che crea valore è, per
Kon, a un tempo lavoro sociale (come sostenuto anche da S.
Shabus in Problemi del lavoro sociale nel sistema economico – una
critica dei Saggi sulla teoria del valore di Marx di I.I. Rubin volume
anch’esso comparso all’inizio del 1929 per le Edizioni di stato: lavoro
astratto e lavoro sociale, o lavoro economico, sono una categoria
unica).
In questi autori, commenta Takenaga
(2007), il lavoro astratto non è la sostanza del valore. L’uno e l’altra non
sono storicamente specifici, legati essenzialmente allo scambio di merci, come
è per Rubin, che replicherà sostenendo che per i suoi critici il lavoro non si
duplica ma si triplica: lavoroconcreto, lavoro astratto in
quanto fisiologico, e lavoro sociale. Nella seconda edizione
l’economista russo aveva rigettata frontalmente e come del tutto erronea la
riconduzione del lavoro astratto alla dimensione fisiologica. Sulla base di un
confronto tra il primo capitolo del Capitale (dove nei primi
due paragrafi è indubitalmente presente la riconduzione della sostanza e
grandezza di valore alla dimensione fisiologica, mentre è solo nel terzo
paragrafo che compare la forma di valore), e Per la critica
dell’economia politica (dove è invece assente il metodo della
‘riduzione’, dal valore di scambio al valore al lavoro, oggetto delle facili
critiche di Böhm-Bawerk), Rubin scriveva nella secona edizione: “non vi è
dubbio che lo stesso Marx ha dato adito a malintesi, non distinguendo
chiaramente e nettamente l’analisi del lavoro in quanto contenuto del valore da
quella della sua forma, e in particolare dando al contenuto la denominazione di
‘valore’ in generale, il che è all’origine della contraddizione che appare tra
le fasi di Marx: da una parte, il ‘valore’ in generale esiste logicamente come
se fosse indipendente e anteriore alla ‘forma di valore’, dall’altra parte, la
‘forma di valore’ viene affermata come fondamentale, per così dire il carattere
chiave della economia di scambio. Senza la ‘forma di valore’, il ‘valore’ si
trasforma in semplici erogazioni di lavoro, categoria ‘logica’” (Takenaga 2007,
p. 8). Tra i malintesi dei ‘fisiologisti’, scrive Rubin nel 1924, sta proprio
l’idea che il lavoro in quanto tale sia qualcosa di assoluto che si
materializza nei prodotti prima e indipendentemente dallo scambio.
Le obiezioni dei critici hanno però
il merito di mettere in rilievo il rischio, nel Rubin della seconda edizione,
di impugnare la teoria della forma di valore (e poi della natura di ‘feticcio’
assunta dalla manifestazione fenomenica del valore) contro la
dimensione essenziale del valore stesso. Inutile ricordare che a questo
esito, paradossalmente più fedele al Rubin della seconda edizione che al Rubin
della terza che fu effettivamente tradotta, è poi approdata quella che a torto
viene identificata come la “scuola di Rubin”, almeno dagli anni Ottanta: tra
questi, in particolare, alcuni seguaci di Backhaus, Michael Eldred, Marnie
Hanlon, Lucia Kleiber, e Volkberth M. Roth). Da questo rischio Rubin si smarca,
grazie anche a uno studio attento della critica di Marx a Bailey nelle Teorie
sul plusvalore (critica che gioca un ruolo importante nella lettura di
Marx che l’economista russo presenta nella propria Storia del pensiero
economico pubblicata nel 1926 tra la seconda e la terza edizione, e su
cui tornerà con uno studio dell’Istituto Marx-Engels di Mosca intitolatio
appunto Marx e Bailey). Ciò è già evidente nel suo articolo del
giugno 1927 su Lavoro astratto e valore nel sistema di Marx che
– ci ricorda ancora Takenaga – costituisce il cantiere da cui, con revisioni e
aggiustamenti, riprende l’80% del rinnovato capitolo 12.
Marx, per un verso, critica il
nominalismo di Bailey, sostenendo che il valore non è identificabile al valore
di scambio come si dà concretamente in ogni atto di scambio; critica però
anche, per l’altro verso, il ‘sostanzialismo’ di Ricardo, che esaurisce il
valore nel suo contenuto, o sostanza, restando cieco alla forma di valore, e
dunque poi anche al denaro. Mentre l’economia politica segue un metodo
‘analitico’, muovendo dal valore di scambio al valore al lavoro come sua
sostanza, ciò deve essere proseguito, come fa Marx, da una movenza ‘sintetica’
o ‘dialettica’, che va dal lavoro come punto di partenza al valore al valore di
scambio: per far ciò la critica dell’economia politica si deve chiedere perché il
lavoro si debba esprimere in quella forma, dunque anche quale è
il lavoro che viene esibito da quella forma. Il valore è esposizione e
espressione di una specifica forma sociale del lavoro. La forma di valore,
distinta dal suo contenuto, come forma sociale del prodotto è una proprietà
astratta della merce che non si è ancora materializzata in oggetti determinati,
non ha ancora acquisito forma concreta. Lo farà nel valore di scambio come
denaro, forma concreta e indipendente del valore.
Il capitolo 14, dedicato al lavoro
astratto, fu il più contestato. Lì stanno i cambiamenti più sostanziosi: non
tanto repliche ai critici, quanto avanzamento e al tempo stesso revisione della
propria posizione, che aveva il limite di essere stata presentata in forma
preliminare e poco approfondita nella seconda edizione. Nell’argomentazione
originaria di Rubin, infatti, il lavoro astratto veniva presentato come lavoro
‘privato’ che il momento, per così dire puntuale, dello scambio avrebbe reso
sociale. La replica degli avversari fu che in qualsiasi forma di ripartizione
sociale del lavoro, e non solo in quella capitalistica, vi è bisogno di una
‘riduzione’ della forma di lavoro a unità comune (Dashovskii), e che il lavoro
così organizzato è da ritenersi già sociale nel momento della produzione
immediata.
Nella prefazione alla terza edizione
Rubin dichiara di aver “tagliato via i passaggi che hanno dato ai miei critici
motivo per attribuirmi punti di vista che non condivido affatto” (Takenaga
2007, p. 14). La mossa del cavallo di Rubin è di concedere ai critici che ogni
in economia in cui vi è divisione sociale del lavoro non si può non procedere a
un eguagliamento sociale del lavoro, ma che questo
eguagliamento non va confuso con il lavoro astratto, che è
una espressione storica particolare di eguagliamento. In
una comunità socialista l’organismo devoluto al piano eguaglia i
lavori individuali, ma tale eguagliamento èsecondario e
supplementare rispetto alla socializzazione e distribuzione
del lavoro. In una economia mercantile è l’opposto, il
lavoro non è immediatamente sociale, lo diventa solo attraverso l’eguagliamento
via equiparazione dei prodotti del lavoro. In entrambi i casi vige il
presupposto del lavoro fisiologicamente eguale, ma in un caso (comunità
socialista) il lavoro è socialmente eguale direttamente nel processo produttivo
grazie al piano, nell’altro (economia mercantile) diventa sociale in quanto
eguale, con una equiparazione nella forma di lavoro astratto nello scambio di
cose.
Evidentemente, si incontra qui
l’altro nodo di controversia suscitato dal capitolo 14. La rimostranza dei
critici era che Rubin avesse formulato una teoria del lavoro astratto come
integralmente ‘creato’ nel mercato finale delle merci.[17] Di nuovo, la
seconda edizione dava più di un sostegno a questa imputazione: “Solo nel
momento in cui i prodotti del lavoro sono portati sul mercato e si confrontano
con innumerevoli altri prodotti che compaiono sul mercato stesso per essere
eguagliati l’uno con l’altro in certe proporzioni, i produttori mercantili
sentono effettivamente e completamente l’azione del mercato (cioè l’attività
lavorativa degli altri produttori), e corrispettivamente esercitano sugli altri
l’azione uguale e contraria […] sino a che il produttore si occupa del suo
lavoroconcreto particolare, questo lavoro rappresenta un lavoro privato.
Diviene sociale solamente nell’atto di scambio sul mercato,
cioè sotto forma di eguagliamento di generi estremamenti diversi di prodotto di
lavoro, solamente sotto la forma di lavoro astratto … il
lavoro astratto emerge solamente nell’atto reale dello scambio di mercato … Il
lavoro astratto si produce soltanto nello scambio … Il lavoro astratto è creato
nello scambio.” (Takenaga 2007, p. 14, alcuni corsivi aggiunti).
Nella prefazione alla terza edizione
Rubin indica, tra ciò che non condivide e che gli viene invece attribuito,
proprio “la preominanza dello scambio sulla produzione” e “la collocazione del
lavoro astratto nella fase dello scambio” (Takenaga2007, p. 14). Qui più che di
mossa del cavallo si può parlare di una riformulazione radicale che ammonta a
una diversa, più convincente, teorizzazione del lavoro astratto. Rubin
ridefinisce lo scambio (anche sotto lo stimolo, non
riconosciuto, della critica di Shabus, almeno secondo Takenaga) in una duplice
accezione, come fase particolare del circuito economico (che
viene prima e dopo fasi di produzione in senso stretto) o come forma
specifica della produzione di una società di mercato che racchiude in sé la
totalità della produzione e dello scambi,o come fasi che si alternano e si
susseguono: definisce insomma lo scambio come la forma sociale
della riproduzione. In questa situazione, dice Rubin, i produttori
‘privati’ che devono vendere sul mercato sono obbligati a tener conto in
anticipo, nella sfera della ‘rappresentazione’, nel momento stesso della
produzione immediata dei concorrenti: devono cioè mettere i loro prodotti in
relazione a quantità di valore (denaro) prima dello scambio in
senso stretto, e dunque devono anche procedere ad un eguagliamento anticipato dei
lavori concreti a lavoro astratto (alcuni autori come Reuten e Williams hanno
definito qualcosa del genere come una pre-validazione nella
produzione immediata).
In questo nuovo modo di vedere le
cose, il lavoro astratto è già presente in forma latente nella
produzione immediata (anche se la riduzione dei lavori concreti a lavoro
astratto è ‘provvisoria’ e ‘ideale’), in attesa di attualizzarsi sul
mercato finale. Senza scambio finale non vi sarebbe lavoro astratto, ma il
lavoro astratto è presente in potenza nei processi lavorativi
capitalistici. L’astrazione del lavoro è dunque un processo, e il
valore si attualizza nell’unità di produzione e circolazione.
Non mi è possibile entrare in questa
sede negli aspetti quantitativi della posizione di Rubin, e dunque accennare
alla sua analisi del lavoro socialmente necessario e del lavoro qualificato,
chiarendo in che misura le variazioni del lavoro concreto del ‘lavoratore
collettivo’ che produce merci (ove intervengono aspetti fisiologici, materiali
e tecnologici) condizionino la misurazione in denaro dello stesso lavoro
astratto. Né posso prolungare il discorso rilevando come la pubblicazione del
libro di Rubin negli anni Settanta consentirebbe di collocarlo proficuamente nel
dibattito di allora. È un discorso che ho svolto altrove: la visione
processuale dell’astrazione del lavoro da parte di Rubin costituisce un deciso
passo in avanti rispetto a Colletti, e al tempo stesso converge con gli
sviluppi altrettanto decisivi della teorizzazione del filosofo romano che
furono apportati dal Napoleoni ‘marxiano’ dei primi anni Settanta, a partire
dal chiarimento che l’ipostatizzazione e inversione soggetto-predicato si
riproducono nel capitalismo sul mercato del lavoro (forza-lavoro) e nella
produzione immediata (lavoro vivo). Napoleoni mostra inoltre come in Marx la
deduzione del lavoro astratto dallo scambio (mercantile) vada articolata con la
deduzione del lavoro astratto dal capitale in quanto lavoro vivo prestato dal
lavoratore salariato (il riferimento è ai Grundrisse). Napoleoni
chiarisce ancora che nel lavoro astratto come lavoro immediatamente privato e
solo mediatamente sociale è intrinseca una dimensione ‘concorrenziale’: i
lavori privati che si scontrano sul mercato sono da intendersi come i ‘molti
capitali’, e da qui discende tutta la teoria dell’extraplusvalore e
dell’estrazione di plusvalore relativo. Di qui basterebbe un passo per
comprendere come il lavoro astratto, che è ‘in divenire’ nella produzione
immediata, una volta soggetto alla sussunzione non solo formale ma anche reale
del lavoro al capitale, diventa lui il soggetto che dalla produzione
si realizza nella circolazione; e come a questo stadio dello
sviluppo storico-sociale, dove le dimensioni concrete vengono al lavoro dal
capitale, ormai non solo il valore ‘conta’ come lavoro (astratto), ma
esso è nient’altro chelavoro astratto. L’astrazione reale si
fa praticamente vera. Impossibile infine intervenire sul come
questa prospettiva possa riconnettersi, tenuto conto degli scritti di Augusto
Graziani, ad una rivendicazione della teoria del valore nella teoria
macrosociale e monetaria dello sfruttamento.
Non posso però esimermi dal tirare le
file del discorso su Rubin sulle due questioni su cui questo mio scritto interviene,
entrambe al fondo politiche. La prima cosa da dire, e su cui insiste
Tagliagambe, è che di questa diatriba poco si capirebbe se non la si collocasse
nelle discussioni in URSS sulla pianificazione. La posizione antagonista a
quella rubiniana è che dietro la teoria del valore vi sarebbe un contenuto
valido per ogni società, fondato sulla tecnicità fisica e la materialità – il
marxismo delle forze produttive, insomma. “Le forme sociali non vanno
pertanto ridotte al livello della produzione materiale efondate su
di esso […] Funzioni e forme sociali, allora, non competono alla cosa in sé,
considerata da un punto di vista astrattamente materiale, ma alla cosa in
quanto parte di un determinato contesto sociale”.[18] (Tagliagambe 1978,
159-160) Ancora Tagliagambe che commenta Rubin: “impostazione materialistica
non è necessariamente quella che si fonda su oggetti materiali, ma
può essere anche quella che descrive correttamente i contenuti con cui ha a che
fare, cioè riesce effettivamente a fornire una conoscenza del
proprio oggetto d’analisi” (Tagliagambe 1978, p. 165); con la prima
impostazione costretta di conseguenza a confondere funzioni tecniche delle
cose con le loro funzioni sociali. La linea di Rubin aveva una
conseguenza immediata: non esauriva il problema della trasformazione e
modernizzazione strutturale col binomio macchina-apparato statale. Semmai,
Rubin chiedeva alla programmazione “un quadro organico e chiaro del tessuto
della società che consentisse di operare scelte ponderate, che fossero in sintonia
con l’effetta ‘richiesta’ sociale, degli obiettivi e delle finalità dello
sviluppo delle forze produttive”, qualcosa che l’accelerazione staliniana
semplicemente cancellò dal quadro.
In un contributo successivo alla
terza edizione, non considerato da Takenaga (ma di cui vi sono larghi estratti
in Tagliagambe) – Lo sviluppo dialettico delle categorie nel sistema
economico di Marx, ancora in “Sotto la bandiera del marxismo”, febbraio1929
- la situazione è esposta con lucidità: “Una forma sociale scaturisce da
un’altra più semplice sotto l’influenza del mutamento delle forze produttive
materiali. Essa non sorge però in uno spazio vuoto né sorge
immediatamente come semplice riflesso passivo dello stato determinato raggiunto
dalle forze produttive, al di fuori di ogni legame con le forme sociali e
rapporti di produzione tra gli uomini.” (Tagliagambe 1998, p. 172) A
Bessonov, che gli rimprovera di dedurre una forma dall’altra come circolo
vizioso e vede in ciò un esempio di pensiero scolastico, Rubin rimprovera
un’impostazione non dialettica, e aggiunge: “Il mio critico dimentica che sotto
ogni forma sociale si nascondono i rapporti di produzione di molti milioni di
uomini” (Tagliagambe 1998, p. 172). “La natura specifica dell’economia
mercantile capitalistica risiede nel fatto che i rapporti sociali tra persone
non si stabiliscono solo con riferimento ma mediante le
cose stesse. È ciò che dà ai rapporti di produzione tra persone una forma
‘materializzata’, ‘reificata’, e genera il feticismo della merce, la confusione
tra aspetti tecnico-materiali e socio-economici del processo produttivo,
confusione eliminata dal nuovo metodo sociologico di Marx … Tale metodo esige
da noi che ad oggetto d’indagine, anziché cose ossificate, isolata l’una
dall’altra, si assumano processi fluidi, dinamici, legati l’uno all’altro”.
(Tagliagambe 1998, p. 173 e p. 176)
La seconda questione che volevo
ricordare è già emersa sotterraneamente dalle parole di Rubin (e ulteriori
citazioni potrebbero approfondire il punto) nelle recensioni precedenti, e cioè
il rapporto Marx-Hegel. La polemica su Rubin si intreccia alla controversia in
ambito filosofico tra ‘meccanicisti’ e ‘dialettici’, su cui ancora Tagliagambe
è una miniera di citazioni. I dialettici, contro la posizione ‘riduzionistica’
per cui i fenomeni più complessi possono essere ridotti ai più semplici che ne
costituiscono la base, si schierarono con Rubin. L’economista russo, preso
nella tenaglia della grande svolta del 1929, pagò con il carcere e la vita la
sua ‘eresia’. Su Marx tra Kant e Hegel era intervenuto Rubin nella terza
edizione con parole che vale la pena di citare: “nella nostra considerazione
metodologica il concetto di lavoro astratto precede direttamente quello di
valore, e deve essere posto come base (contenuto e sostanza) del secondo. Non
si deve dimenticare, a questo proposito, che sul problema del rapporto tra
forma e contenuto Marx assume il punto di vista di Hegel contro quello
di Kant. Quest’ultimo considerava la forma come qualcosa di estrinseco
rispetto al contenuto, che aderisce dall’esterno ad esso. Per Hegel, al
contrario, il contenuto non è un in sé a cui si aggiunga dal di fuori la forma;
ma è piuttosto il contenuto stesso che nel corso del proprio sviluppo, si dà la
forma già latente in esso. È questa la premessa essenziale, comune al
metodo di Marx e di Hegel, e opposta a quello di Kant. Da questo punto di vista
si deve dire che la forma di valore si sviluppa necessariamente dalla
sua sostanza. È per questo che dobbiamo assumere il lavoro
astratto, in tutte le proprietà sociali caratteristiche di una economia
mercantile, come sostanza o contenuto del valore” (Tagliagambe 1998, pp.
94-95, corsivi miei.
Raggiungiamo qui di nuovo la
problematica per cui, pur essendo il valore attualizzato nello scambio finale
delle merci, il movimento marxiano va dalla produzione immediata alla
circolazione sul mercato finale delle merci, dal contenuto (come forma
‘latente’) alla forma. Il che è evidentemente possibile solo se quel contenuto
è, per così dire, previamente ‘conformato’ da una ante-validazione
monetaria (come a me pare si dia con il finanziamento monetario della
compravendita di forza-lavoro, sulla base di certe aspettative sull’andamento
della produzione e del mercato), e si tiene conto del condizionamento che
impone una pre-validazione nella produzione, che anticipano
la validazione finale sul mercato (il ciclo, o circuito
monetario, parallelo alla sequenzialità del lavoro astratto). È il tema che
riemergerà negli anni Settanta, ed è un tema anch’esso, a ben vedere, politico:
perché la riscoperta della centralità del lavoro e della produzione come luogo
‘contestato’ fu imposta alla riflessione da ben reali lotte dentro i processi
capitalistici del lavoro. Lotte che problematizzavano il rapporto tra
forza-lavoro e lavoro vivo come era stato pensato dai vari marxismi, e che
imponevano di ricondurre il problema della ‘costituzione’ della realtà cosale
capitalistica alla natura conflittuale e potenzialmente antagonistica del
‘laboratorio segreto della produzione’. Ma di questo più avanti
Marx ‘perso nella traduzione’
Possiediamo a questo punto la gran
parte degli elementi che ci possono consentire di proporre un quadro, sia pure
approssimativo, del procedere dialettico dell’argomentazione all’inizio
de Il Capitale. Prima di procedere oltre devo però prima render
conto al lettore di alcune convenzioni che adotterò riguardo alla traduzione di
alcuni termini hegeliani che strutturano il discorso di Marx.[19]
Schein ha a
che vedere con i fenomeni di superficie quando vengono considerati in
se stessi come essenziali: in quanto tale si tratta spesso di una parvenza,
illusoria e ‘volgare’. Hegel scrive nella Scienza della Logica:
“L’essenza che proviene dall’essere par che gli stia di contro. Questo essere
immediato è anzitutto l’inessenziale. Ma in secondo luogo esso è più che
semplicemente inessenziale; è essere privo di essenza, è parvenza (Schein).
In terzo luogo questa parvenza (Schein) non è un che di estrinseco,
altro rispetto all’essenza, ma è la sua propria parvenza. Il parere dell’essenza (Scheinen des Wesens) in lei stessa è la
riflessione (Hegel 1812, pp. 437-38)”. Riporto il commento di Suchting: “In the
first main sub-division of the Doctrine of Essence it is the Essence that has
ontological superiority, as it were. The surface is a Schein in
the two-fold sense of the word in German: it is a reflection, but
also a mereseeming. Indeed it is a mere seeming just because it
is a mere reflection: insofar as it is taken to be a reality itself (as
it is in the Doctrine of Being), but is in fact wholly a product of the
Essence, it is only a semblance, a mere illusion of reality.” (1986, p.
38: corsivo mio). La traduzione opportuna per il verbo,erscheinen, è
‘sembrare’.
Erscheinung ha a
che vedere con questi stessi fenomeni di superficie per come ‘appaiono’ o
‘manifestano’ se stessi. È la manifestazione fenomenicanecessaria
dell’essenza, il modo attraverso cui quest’ultima non può che apparire a
livello fenomenico; ma in Marx essa è allo stesso tempo una
manifestazione spostata delle leggi essenziali, da cui la
‘deviazione’ delle Verrückte Formen. Qui la traduzione opportuna mi
pare essere ‘apparenza’ o ‘manifestazione (fenomenica)’. Hegel scrive:
“L’essenza deve apparire (erscheinen) […] in quanto è fondamento, si
determina realmente, mediante la riflessione sua che toglie se stessa o rientra
in sé. In quanto inoltre questa determinazione, o l’esser altro della relazione
fondamentale, si toglie nella riflessione del fondamento e diventa esistenza,
le determinazioni della forma hanno qui un elemento di sussistenza
indipendente. La loro parvenza (Schein) si compie diventando apparenza o
fenomeno (Erscheinung). […] Il fenomeno (Erscheinung) è quello
che è la cosa in sé, cioè la sua verità. Questa esistenza soltanto posta, riflessa
nell’esser altro, è però parimenti l’oltrepassar se stessa per entrare
nell’infinità. Al mondo del fenomeno (Erscheinung) si contrappone il
mondo riflesso in sé, il mondo che è in sé e per sé.” (Hegel 1812, pp. 537-538) Ancora una volta il commento di Suchting è
utile: “The course of the argument through this first sub-division of the
Doctrine of Essence … is, in brief, an exposition of the difficulties in the
way of giving any account of Essence independently of its Schein.
The culmination of the first sub-division is the category of ‘Matter and
Form’. The world is now conceived of as fully manifest ‘matters’ partly
constituted by their inter-linked ‘forms’. What was previously Schein now
becomes the essential moment … Schein becomes Erscheinung – ‘Appearance’
– when it is grasped in the real network of its relations.” (Suchting
1986, pp. 38-39)[20]
L’ ‘essenza’ manifesta
fenomenicamente se stessa in virtù di una ‘esposizione’, di una
‘presentazione’: una Darstellung. Questo termine è spesso tradotto
con ‘rappresentazione’. Anche se in passato ho usato io stesso
‘rappresentazione’, ora preferisco ‘esposizione’ – proprio perché è meno un
termine del linguaggio ordinario ed è più tecnico, aiutandoci a comprendere il
tessuto dialettico del sistema di Marx. Rende anche più facile comprendere
perché questa ‘presentazione’ non sia in ore-lavoro ma in denaro.
La Darstellung è l’esposizione processuale del sistema che
è necessaria dal punto di vista della ricostruzione logica del tutto. Se
ciò che viene esposto, viene riconosciuto come risultato di un complesso
processo di mediazione, allora è una ‘apparenza’, una ‘manifestazione
fenomenica’; altrimenti è una ‘parvenza’, un’ ‘illusione’. È Vorstellung che
corrisponde a rappresentazione, mentale o concettuale: è un’anticipazione
‘ideale’, il modo attraverso cui gli agenti percepiscono le forme
capitalistiche. Interpreto Ausdrücken in un senso più forte di
quanto normalmente venga fatto, ovvero come ‘esprimere’, inteso come un movimento
che dall’interno (come realtà ‘latente’ o ‘potenziale’) va
verso l’esterno (la forma ‘oggettualizzata). È il processo ‘genetico’
che ‘costituisce’ la Darstellung.[21]
Come cercherò di sostenere tra poco,
nella critica dell’economia politica marxiana, quale che sia l’interpretazione
corretta di Hegel, la Darstellung non può essere ridotta
esclusivamente “all’esposizione del sistema nella sua stringenza
concettuale”, ovvero alla sua “autoesposizione rispecchiata nella mente del
filosofo che fa scienza e che contempla la cosa stessa nel suo farsi” come
scrive Fineschi (in Marx 1867, p. 1323).
Marx dopo Hegel: il ‘carattere di
feticcio del capitale’ e la sua differenza dal ‘feticismo’
Ricostruiamo dunque la dialettica di
valore, denaro e capitale. La ‘merce’ presenta se stessa [Darstellung]
sin dall’inizio come un’entità duplice: è un ‘valore d’uso’, un
prodotto con una qualche utilità, e ha un ‘valore di scambio’, una relazione
quantitativa con altre merci. Sembra che la nozione di un valore ‘intrinseco’ o
‘assoluto’ sia quindi una contradictio in adjecto, ma questa è
appunto una mera illusione [Schein]. Dietro questa prima definizione di
‘valore di scambio’ dobbiamo scoprire il ‘valore’: la vera ‘duplicità’ è
infatti tra valore d’uso e valore. Questa duplicità all’interno della
merce che è un risultato del processo di produzione, corrisponde a una
duplicità nel lavoro che l’ha prodotta. Anche il dispendio di
forza-lavoro – o il lavoro vivo eseguito dai lavoratori – può
essere visto come doppio: come lavoro ‘concreto’,
perché produce merci in quanto valori d’uso; e nello stesso tempo come lavoro
‘astratto’, perché le produce come valori. Si noti che i valori d’uso e i
lavori concreti non sono omogenei, e dunque sono incommensurabili. Il valore,
al contrario, è una gelatina[Gallerte] di lavoro ‘puro e
semplice’, un cristallo esito di un ‘congelamento’[22]: un ‘ammontare’ (una
dimensione quantitativa, dapprima non definita come ‘somma’ specifica)
omogeneo, che in quanto tale è commensurabile. Il riferimento a un
processo di congelamento dà l’idea che il lavoro oggettualizzato[gegenständlich][23] rimandi
alla dimensione dinamica del lavoro vivo come fluido.
Quest’idea del valore come congelamento ‘oggettualizzato’
del lavoro vivo degli esseri umani nel suo lato ‘astratto’ – valore come sostanza la
cui grandezza può essere misurata in unità di tempo (secondo una qualche media
sociale, cioè in tempo di lavoro socialmente necessario) – è, va
detto, molto problematica. Per questo Marx inizia a ragionare
sulla forma del valore a partire dal terzo capoverso del primo
paragrafo del primo capitolo. Qual è il problema? ‘Valore’, nel modo in
cui è stato concepito fino a ora, è soltanto un ‘fantasma’. Si deve
ancora spiegare come quest’entità puramente sociale –
il ‘valore’ quale è definito nei paragrafi 1 e 2 – acquisisca
un’esistenza materiale; e un’esistenza persino prima dello
scambio finale sul mercato delle merci, almeno secondo Marx. A questo punto del
ragionamento, prima dello scambio, abbiamo di fronte soltanto lavori concreti ‘incorporati’
in valori d’uso definiti, gli uni e gli altri incommensurabili. Né
i lavori concreti né i valori d’uso possono essere sommati gli uni con gli
altri. Marx mostra che alla duplicità concettuale all’interno della
merce (valore d’uso/valore) deve corrispondere un ‘raddoppiamento’
effettivo e pratico nella realtà (merce/denaro). L’analisi di Marx
delle forme prese dal valore (le Erscheinungsformen) ricostruisce
la logica della costellazione in cui i lavori di tutte le
merci vengono esposti da una merce ‘esclusa’che mette
in scena il ruolo dell’equivalente universale – il
processo della Darstellung, insomma. Quando questo ruolo diventa
abituale per, e fissato in, una merce per via necessariamente (anche) politica,
l’equivalente universale è denaro.
Il ‘denaro come merce’ è prodotto di
lavoro: Marx assume che sia l’oro. Una volta che una merce definita è stata
isolata come equivalente universale, il ‘fantasma’ si è dimostrato in grado
di prendere possesso di un corpo. L’intonazione gotica non è
retorica, un vezzo stilistico. Il denaro è al contrario, letteralmente, un
‘valore incarnato’ [verkörperter Wert] nel valore d’uso dell’oro. Si
noti che in generale, il lavoro è ‘incorporato’ nelle merci soltanto in
quanto lavoro concreto, non in quanto lavoro astratto – a
dispetto di quasi tutte le attuali traduzioni in ogni lingua che usano
‘incorporazione’ con troppa disinvoltura (Cantimori addirittura traduce verkörperter
Wert con lavoro incorporato: è una svista, ma significativa). Per
quanto riguarda il lavoro astratto, Marx scrive che si tratta piuttosto di
lavoro ‘contenuto’ [enthalten] nelle merci. Dal momento che il denaro in
quanto merce è valore incorporato, il lavoro astratto contenuto nelle
merci scambiate contro denaro si espone in lavoro concreto incorporato nell’oro.
In altri termini, l’ ‘esposizione’ [Darstellung] del
lavoro astratto delle merci richiede l’ ‘incorporazione’ [Verkörperung] del
lavoro concreto nell’oro come denaro. Il ‘valore di scambio’ si è a
questo punto sviluppato in una secondadefinizione. Non è soltanto
il rapporto di scambio tra due merci qualunque ma piuttosto la quantità di
ognuna di esse che viene scambiata per una certa quantità di denaro.
Si noti bene ciò che il denaro è per
Marx. Non è soltanto l’equivalente universale che valida ex post il
lavoro astratto che è ‘immediatamente privato’ e solo ‘mediatamente sociale’ (vermittelte
gesellschatliche Arbeit). Il denaro è anche e soprattutto l’ ‘incarnazione individuale’
[Inkarnation] del valore che viene dal lavoro sociale – anche qui il
riferimento, questa volta non gotico ma cristiano, e più specificamente
cattolico (perché per Marx abbiamo a che fare con una vera e propria transustanziazione) non
è affatto retorico. Il lavoro che produce oro in quanto
denaro è l’unico lavoro privato che è, allo stesso tempo, lavoro immediatamente
sociale. In questi primi capitoli, quando Marx parla di unmittelbare
gesellschaftliche Arbeit [appunto, lavoro immediatamente sociale] si
riferisce sempre esclusivamente al lavoro concreto che produce
il denaro come merce e che espone il lavoro astratto che produce le merci che
vengono vendute sul mercato. Il lavoro astratto invece è un gesellschaftliche
Arbeit [lavoro sociale] solo in quanto ‘mediato’ nello scambio di
cose,[24] attraverso quella ‘reificazione’ che è sempre connessa al
‘carattere di feticcio’ [Fetischcharakter] del denaro (e poi del
capitale). Marx (MEOC, XXXI, pp. 165-66) scrive:
A questi
ultimi, perciò, le relazioni sociali dei loro lavori privati si manifestano
fenomenicamente [erscheinen] come ciò che esse sono, cioè, non
come rapporti immediatamente sociali di persone nei loro lavori stessi, bensì
come rapporti cosali [sachliche] di persone e rapporti sociali di cose [Sache].
Il carattere di feticcio –
la natura ‘oggettuale’, cosale e alienata della realtà sociale
capitalistica – ha a che fare con un Erscheinung. Quello che è
ingannevole, una parvenza o Schein, è attribuire proprietà
sociali alle cose come se fossero loro attributi naturali: questo è ciò che
Marx chiama propriamente Fetischismus, feticismo. Tale attribuzione
non è però falsa se le cose vengono considerate all’interno del
rapporto sociale di capitale, qui invece le proprietà sociali
‘attaccate’ alle cose si rivelano drammaticamente effettive nel loro ‘potere’
sugli esseri umani.[25]
A questo punto, nell’esposizione di
Marx, la gelatina di valore si è tramutata in oro come denaro sul mercato. Il
denaro è una crisalide. Si noti anche che il lavoro speso dai
produttori individuali, quindi la ‘socialità’ del loro tempo di lavoro nella
produzione non può essere postulata. Marx insiste che il denaro sia una
forma impazzita, spostata, o deviata,
attraverso cui la socialità viene determinata nello scambio universale (si
rammenti che lo scambio diviene universale solo col capitale). La circolazione
dissimula e rovescia, espone e esprime. Come
conseguenza il lavoro totale [gemeinsame Arbeit], che deve essere
considerato innanzitutto come l’insieme dei lavori individuali
concreti, non può essere assunto come sociale senza che sia preso in
considerazione questo processo monetario, questa ‘deviazione’.
Attraverso questa ‘equivalenza’ [Gleich-seitzung]
dei lavori astratti che producono merci con il lavoro concreto che produce il
denaro come cosa Marx ha posto – per il momento solo qualitativamente –
la possibilità di tradurre le grandezze monetarie in grandezze di lavoro.
Questa Aequivalenz viene sancita dallo scambio nel
mercato. Marx, in ogni caso, insiste sempre che la commensurabilità non
va dal denaro alla merce, ma semmai nella direzione opposta. L’esposizione
del valore delle merci nel valore d’uso del denaro come merce è un movimento
dall’interno all’esterno: è un’espressione del contenuto nella
forma (il verbo tedesco è ausdrücken). L’unità di
produzione e circolazione è costituita da un movimento che va dalla produzione allo scambio
sul mercatofinale delle merci.
Le merci non diventano
commensurabili tramite il denaro perché sono già commensurabili in
anticipo, come gelatina di lavoro vivo umano in astratto, dato che
queste oggettualizzazioni di lavoro vivo sono grandezze di denaro ‘ideale’,
anticipate dagli agenti – un processo che riguarda la Vorstellung.
È importante comprendere che in questa equivalenza tra merci (il plurale è
essenziale) e denaro, che corrisponde sostanzialmente a un’equalizzazione, il
denaro (l’equivalente universale) è passivo, sono le merci ad
essere attive. Questo è il motivo per cui Marx definisce la
‘materializzazione’ in oro del valore delle merci una Materiatur,
un termine inusuale nello stesso tedesco a lui contemporaneo, per significare
che il materiale che rappresenta il valore deve possedere qualche
caratteristica particolare che lo rende atto a esprimere adeguatamente il, e a
essere una ‘forma della manifestazione fenomenica’ del, valore.[26] Per
Marx, l’oro come denaro mondiale è proprio questo: un Wertkörper,
un “corpo di valore” che è allo stesso tempo una materiaturauniversalmente
riconosciuta di ricchezza astratta.
La posizione di Marx qui mi sembra
essere stata compresa lucidamente dal secondo Rubin: è il contenuto
stesso che fa nascere la forma, così che nel mercato finale delle merci
abbiamo a che fare con una attualizzazione, un ‘venire ad essere’
di qualcosa che è latente nella produzione. Ciò è naturalmente
possibile soltanto perché nella produzione la materia è già stata manipolata in
modo tale da farne un ‘contenuto’ adatto affinché la ‘forma’ del valore gli dia
la sua impronta. Il riferimento – come ho mostrato nei miei lavori precedenti,
e ricordato in precedenza – richiede un’ante-validazione monetaria attraverso
il finanziamento alla produzione e una pre-validazione all’interno
del processo di lavoro capitalistico: l’una e l’altra in un universo di
autentica incertezza, irriducibile al rischio.
Si tratta di una sequenza
logica fragile. La giustificazione che dà Marx della sua
prospettiva è che la ‘circolazione di merci’ universale dev’essere sempre
pensata come intrinsecamente monetaria. Warenaustausch e Zirkulation per
lui hanno senso soltanto in un’economia monetaria di
produzione com’è il capitalismo. Lo ‘scambio’ non può essere concepito come uno
‘scambio di prodotti’ simile al baratto (cioè, come un unmittelbare
Produkten-austausch).[27]Le merci entrano sempre nel mercato con un prezzo
che gli sta ‘appiccicato’: il loro nome-denaro. Grazie alla forma-prezzo assunta
dal valore, si presume che le merci siano trasformate in una certa quantità di
(oro come) denaro già prima dello scambio
effettivo. Il prezzo della merce come quantità di denaro ‘ideale’ è una
‘rappresentazione mentale’ (una Vorstellung) – qualcosa di
anticipato e nominale – dell’oro come denaro ‘reale’. Di conseguenza è
sempre possibile tradurre questa misura ‘esterna’ della grandezza di valore di
ogni merce in termini di denaro – secondo le aspettative dei produttori sulle
variabili nominali, prima dello scambio – in una misura immanente in
quantità di tempo di lavoro.
Vediamo di capire come Marx determina
il ‘valore del denaro’, cioè l’inverso dell’ ‘espressione in denaro del tempo
di lavoro [socialmente necessario]’. Secondo Marx, la determinazione
quantitativa del valore del denaro è fissata nel punto di produzione
dell’oro, quando l’oro è immesso per la prima volta nel
circuito monetario. L’oro viene scambiato in prima battuta come semplice
merce contro tutte le altre merci. Questo scambio non
è monetario in senso stretto. Il tempo di lavoro (privato) richiesto per
produrre l’oro è reso eguale alla quantità di lavori (privati) che producono le
altri merci con cui l’oro è scambiato, così che la stessa quantità di tempo di
lavoro è congelata nell’uno e negli altri. Qui abbiamo ancora a che fare – Marx
è chiaro a riguardo – con un baratto non-mediato (il tedesco
qui è preciso: unmittelbarem Tauschhandel). Non è ancora la
‘circolazione’, circolazione di merci, che è sempre mediata dal denaro.
Adesso siamo in grado di vedere come
la Forma denaro, che origina dalla forma dell’equivalente
universale (Forma C), ‘supera’ la forma semplice (osingolare) del
valore (Forma A) e la forma totale (o dispiegata) del
valore (Forma B). Per il tramite dell’equivalente universale le merci
‘esprimono’ ora il loro valore in una forma semplice, ovvero, in
una merce singola, come avveniva con il polo della forma di
equivalente nella Forma A, ma in una forma non piùcasuale. Di
conseguenza, di contro a tutte le altre merci, il lavoro concreto che
produce l’oro come denaro espone il lavoro astratto che è contenuto in tutte le
altre merci. La forma dell’equivalente nella Forma C è però unitaria e in
comune, è cioè la stessa per tutte le merci, grazie al rovesciamento della forma
relativa dispiegata di valore propria della Forma B. Di
conseguenza nella Forma C abbiamo la posizione dell’eguaglianza qualitativa attraverso
la singola merce ‘esclusa’, come nella Forma A, e possiamo
determinare la grandezza quantitativa del valore del
denaro, come nella Forma B, ma attraverso la comparazione
universale di questa merce ‘esclusa’ con il mondo delle merci. “Le merci adesso
espongono il proprio valore 1) in maniera semplice, perchéin una
merce unica e 2) in maniera unitaria, perché nella stessa
merce. La loro forma di valore è semplice e in comune, dunque è universale.”
(Marx MEOC XXXI, p.76) Questo non è altro che un
sillogismo hegeliano fattosi effettuale.
Soltanto dopo che è
entrata nel mercato in questo modo, come ‘prodotto immediato di
lavoro’, alla fonte della sua produzione (per essere scambiata con altri
prodotti di lavoro di uguale valore), l’oro funziona da denaro.[28] L’oro
come denaro entra nella ‘circolazione’ propriamente detta, cioè, nello scambio
monetario universale delle merci. Da questo momento il suo valore è sempre già
dato. In questa prospettiva teorica, la connessione tra valore e
lavoro è data attraverso il denaro come merce. Questo può ora avvenire
secondo una sequenza (logica). Il valore prima dello scambio è già
denaro ideale con un contenuto di lavoro dato: è una grandezza determinata di
lavoro contenuto. Questa ‘sostanza’ è attualizzata nella circolazione quando
il denaro ‘ideale’diventa denaro reale. Con l’esposizione [Darstellung]
del valore delle merci da parte del denaro non soltanto il lavoro concreto che
produce oro come denaroconta come (l’unico) lavoro
immediatamente sociale, ma assistiamo anche a un movimento che dall’interno va
verso l’esterno.
All’interno dello scambio nel
mercato finale delle merci il lavoro ‘oggettualizzato’ è astratto perché,
quando sono esposti in forma di valore, i prodotti dell’attività del lavoro
umano manifestano se stessi come se fossero una realtà ‘indipendente’ ed
‘estranea’, separata dalla loro origine nel lavoro vivo. Più che di
‘alienazione’ si deve parlare di ‘reificazione’ e ‘feticismo’. Reificazione,
perché le relazioni sociali necessariamente prendono l’apparenza[Erscheinung]
materiale di uno scambio tra cose – il che rimanda, evidentemente, al carattere
di feticcio. Feticismo, perché i prodotti del lavoro hanno laparvenza [Schein]
di essere provvisti di proprietà sociali, come se queste fossero conferite loro
per natura.[29] Queste caratteristiche, e questa distinzione tra
‘carattere di feticcio’ e ‘feticismo’, riappariranno ancor più chiaramente in
altri due momenti del circuito capitalistico.[30] Nel mercato del lavoro,
gli esseri umani diventano ‘personificazioni’ delle merci che vendono, capacità
lavorativa o lavoro ‘potenziale’: la forza-lavoro è
la merce di cui i lavoratori sono una mera appendice. All’interno
della produzione, lo stesso lavoro vivo, o lavoro ‘in divenire’ –
organizzato e modellato dal capitale come ‘valore-in-processo’, e inserito in
sistema organizzativo e tecnologico ben preciso, dedito alla creazione di
valori d’uso, e specificamente disegnato per permettere l’estrazione di
plus-valore – è il vero soggetto astratto di cui i lavoratori concreti
che lo mettono in atto sono solo dei predicati.
Ne Il Capitale e
nel Capitolo sesto inedito tutto ciò lo si vede nel modo più
chiaro, nel discorso di Marx sulla ‘produttività del capitale’ (corsivi di
Marx; sottolineature e grassetti miei; la traduzione è stata leggermente
modificata in un punto):
Poiché il
lavoro vivo – all’interno del processo di produzione – è già incorporato (einverleibt) nel
capitale, tutte le forze produttive sociali del lavoro si espongono come
forze produttive [del capitale], come proprietà inerenti al capitale,
proprio come nel denaro il carattere universale del lavoro si manifestava [erschien],
nella misura in cui costituiva valore, come proprietà di una cosa.” (Marx
MEOC XXXI, p. 1006)
Il
rapporto diventa però più complicato e parventemente [scheinbar] più
misterioso, in quanto, con lo sviluppo del modo di produzione specificamente
capitalistico, queste cose – questi prodotti del lavoro, sia come valori d’uso
che come valori di scambio – non solo si levano in piedi di fronte al
lavoratore e vi compaiono come “capitale”, ma si espongono alla forma sociale
del lavoro come forme di sviluppo del capitale e, di conseguenza, le forze
produttive del lavoro sociale così sviluppate si espongono come forze
produttive del capitale. Come tali forze sociali esse sono, di fronte al
lavoro, “capitalizzate” (Marx MEOC XXXI, p. 1009)
“le forme
sociali del loro lavoro – sia soggettivamente sia oggettivamente, ovvero la
forma del lavoro sociale loro proprio – sono rapporti costituiti in modo del
tutto indipendente dai singoli lavoratori; sussunti sotto il capitale,
i lavoratori diventano elementi di questi costrutti [Bildungen] sociali,
che tuttavia non appartengono loro. Tali costrutti compaiono di fronte ai
singoli lavoratori come figure [Gestalten] del capitale stesso,
come combinazioni che appartengono ad esso – in maniera distinta dalla loro capacità
di lavorare presa singolarmente –, che da esso sorgono e che in esso sono
incorporate [einverleibte]. E ciò assume una forma tanto più
reale, quanto più, da un lato,la loro stessa capacità di lavorare viene
modificata da queste forme, al punto che, nella sua autonomia – quindi al di
fuori di questo contesto capitalistico – essa diviene impotente, la sua
autonoma capacità di produzione viene spezzata; e quanto più,
dall’altro, con lo sviluppo del macchinario, le condizioni di lavoro si
manifestano [Erscheinen]anche tecnologicamente come dominanti il
lavoro e, al contempo, lo sostituiscono, lo reprimono, lo rendono
superfluo nelle sue forme autonome. Nell’ambito di un tale processo – in cui i
caratteri sociali del loro lavoro compaiono di fronte a loro, per così dire,
capitalizzati, così come nel macchinario, per esempio, i prodotti visibili del
lavoro si manifestano [Erscheinen] come dominatori del lavoro –, succede
naturalmente la stessa cosa con le forze della natura e con la scienza – il
prodotto dello sviluppo storico universale nella sua quintessenza astratta
–; esse compaiono di fronte ai singoli lavoratori come potenze del
capitale. Esse si separano, di fatto, dalla qualifica e dalla
conoscenza del singolo lavoratore e – per quanto considerate alla
loro fonte siano di nuovo prodotto del lavoro – si manifestano, dovunque
entrino nel processo lavorativo, come incorporate [einverleibte] nel
capitale. Il capitalista che impiega una macchina non ha bisogno di capirla
(vedi Ure[189]). Ma nella macchina la scienza realizzata si manifesta (erscheint),
di fronte ai lavoratori, come capitale. E, di fatto, tutti questi impieghi –
fondati sul lavoro sociale – della scienza, della forza della natura e dei
prodotti del lavoro in grandi masse si manifestano (erscheint) di
fronte al lavoro soltanto come mezzi di sfruttamento del lavoro, come mezzi per
appropriarsi di surplus-lavoro e, di conseguenza, come forze che appartengono
al capitale. Naturalmente, il capitale impiega tutti questi mezzi solo per
sfruttare il lavoro, ma per sfruttarlo, deve impiegarli nella produzione. E
così lo sviluppo delle forze produttive sociali del lavoro e le condizioni di
questi sviluppi si manifestano (erscheint) come azione
del capitale, nei confronti della quale non è solo il singolo lavoratore che si
rapporta passivamente, ma sono esse che hanno luogo in opposizione a lui.”
(Marx MEOC XXXI, pp. 1010-1011)
È chiaro che tutto il discorso
di Marx non si basa sulla parvenza [Schein] ma sulla manifestazione
fenomenica [Erscheinung] del capitale nell’esposizione [Darstellung].
Questo punto di vista può essere criticato solo se guardiamo questa realtà
‘paradossale’ dal punto di vista della sua fonte: il lavoro vivo
che viene dallo ‘sfruttamento’ (dall’uso, o consumo) dei
lavoratori come portatori vivi di forza-lavoro. Questo è il discorso (critico e
rivoluzionario) sulla costituzionedel capitale come Feticcio
‘automatico’ diventato Soggetto.
Un’altra nota riguardo alla
traduzione è qui necessaria. Quando ne Il Capitale Libro 1
Marx usa Arbeit, lavoro, intende sempre lebendige Arbeit,
lavoro ‘in movimento’. Quando il lavoro viene ad essere infine oggettualizzato nel
valore della merce – quando cessa di essere un fluido e viene congelato nella
gelatina – si è trasformato in lavoro ormai morto. Se guardiamo
alla produzione e circolazione capitalistica da quest’ultimo punto di vista,
dal reificato, rimaniamo inevitabilmente intrappolati in uno
scenario ricardiano, muto rispetto al processo di reificazione –
come è vero oggi, non solo per tutti i neoclassici e neoricardiani, ma anche
praticamente per tutti i marxisti.
Marx oltre Hegel: la ‘costituzione’
della relazione di capitale
Per essere effettivamente
auto-fondato, il valore deve essere prodotto dal valore. Il lavoro morto non
può però produrre più lavoro morto. È necessario che il capitale nella
produzione ‘internalizzi’ l’attività che può trasformare meno
lavoro morto in più lavoro morto: il lavoro vivo degli esseri
umani. Questo accade solo quando i lavoratori come portatori
viventi di forza-lavoro, e quindi come lavoro vivo potenziale,
diventano una merce (speciale) comprata e venduta sul mercato (del lavoro).
Abbiamo già detto che le merci, in quanto valori, sono una ‘oggettualità’
fantasmatica. Nessuno sa come trovare questo valore, fino a che esso non assuma
forma autonoma e separata dalle stessi merci:
il denaro. È soltanto quando l’opposizione all’interno della
merce è diventata unosdoppiamento nella realtà – quando il
valore in quanto contenuto viene duplicato dal valore in
quanto forma – che le categorie ontologiche di Hegel divengono
effettuali, e il ‘valore che genera valore’ diventa omologo
all’Idea Assoluta. Il fantasma del valore non
soltanto deve diventare una crisalide in quanto
denaro: questo denaro-crisalide, che ‘espone’ il valore, deve anche essere
capace di tramutarsi in farfalla – in ‘ valore
auto-valorizzantesi’. Su scala sistemica ciò può avvenire soltanto se dietro la
farfalla ‘idealistica’ si cela la ‘materialità’ del capitale come vampiro.
Come scrive limpidamente Marx, il capitale non è nient’altro che un “mostro
animato che inizia a ‘lavorare’ come se avesse amor in corpo”.[31] Sarebbe
appropriato descrivere questa realtà mostruosa usando quella
che oggi è un’espressione in voga, cioè definendo l’economia capitalistica come
un’ economia zombie.[32]
‘Lavoro’ è categoria molto complessa
– una debolezza perfino dei migliori teorici marxiani è il fatto di utilizzare
questo termine in modo non qualificato.[33]‘Lavoro’ deve essere articolato in
tutta la sua ricchezza. Grazie alla compravendita sul mercato del lavoro,
‘forza lavoro’ e ‘lavoro vivo’ sono diventati realmente,
effettualmente, la forza lavoro del capitale e il lavoro
vivo del capitale (qualcosa che non deve essere scambiato per
mera parvenza). Allo stesso tempo la forza lavoro non può che essere
‘appiccicata’ ai lavoratori come esseri umani, in relazione sociale tra di
loro nella produzione immediata. I lavoratori vengonoinclusi nel
capitale (lavoro morto) come un altro interno (lavoro vivo) –
per prendere a prestito una felice espressione di Chris Arthur – senza che
questa ‘alterità’ possa mai essere cancellata del tutto. Questa seconda
‘incorporazione’ è molto diversa rispetto a quella che abbiamo incontrato in
precedenza, quando il valore nella merce ci si era rivelato un fantasma che,
per esistere ‘materialisticamente’ e non ‘metafisicamente’, doveva ‘prendere
possesso’ di un valore d’uso, e quindi del corpo del ‘denaro come merce’ – è
una vera e propria transustanziazione.[34] Il verbo che Marx
impiega a proposito della seconda incorporazione non è perciò verkörpern ma
(come nei passi che ho appena citato) ein-verleiben: il riferimento
è all’inclusione dei lavoratori (come portatori viventi di
forza-lavoro, e quindi come agenti che devono erogare lavoro umano vivo come attività) dentro
il corpo del capitale (ovvero all’interno della la configurazione
capitalistica dei valori d’uso, della ‘materia’, nei processi di lavoro, così
che la struttura tecnologica e organizzativa del processo lavorativo diventi
‘contenuto’ adeguato per la riuscita valorizzazione del capitale monetario).
Prima avevamo a che vedere con una ‘possessione’ e una ‘incarnazione’, e infine
con il vampiro – un rimando, se si vuole, a Castle of Otranto di
Horce Walpole e una anticipazione del Dracula di Bram Stoker. Ora,
con una internalizzazione nel corpo ‘meccanico’ del capitale – un rimando, se
si vuole, al Frankenstein di Mary Shelley.[35]
Il Capitale di Marx come valore
auto-valorizzantesi conferma la sua omologia con l’Idea Assoluta di Hegel. Tuttavia
la sua natura di morto vivente dipende da una condizione sociale. Il Capitale
deve vincere la lotta di classe nel ‘terreno contestato’ della produzione:
come un vampiro deve ‘succhiare’ la vita dai lavoratori per poter tornare in
vita come zombie. I lavoratori, d’altra parte, possono resistere
alla loro incorporazione quale momento interno del capitale: una barriera od
ostacolo ‘sormontabile’ [Schranke] può diventare un ‘limite’
insormontabile [Grenze], il conflitto può mutarsi
in antagonismo. Il punto chiave è chenon è possibile ottenere
lavoro se non ‘estraendolo’ dalla forza lavoro: non è possibile
usare la forza lavoro senza ‘consumare’ il corpo dei lavoratori, come portatori
viventi di forza-lavoro. Il Capitale produce soltanto grazie
a questo ‘consumo’ molto particolare, che individua una
‘contraddizione’ molto particolare – qualcosa che i proponenti
della peanut theory of value, secondo cui il profitto può derivare
da input diversi dal lavoro, hanno ridicolmente frainteso. In ciò sta,
a mio parere, il fondamento ultimo della teoria del valore lavoro, ciò che
rende legittimo ricondurre l’intero neo valore che è stato aggiunto nel periodo
a nient’altro che erogazione di lavoro vivo da parte di esseri umani, portatori
viventi della forza-lavoro.
Insomma: il ‘lavoro’, anche se è
senza dubbio lavoro del capitale, allo stesso tempo non è tale fino
in fondo. Non può che rimanere, in un senso basilare, un
lavoro dei lavoratori. Se non ci sono esseri umani, non c’è nessun
portatore vivente di forza lavoro. Non può esserci dunque nessun nuovo valore
aggiunto nel periodo, e di conseguenza nessun plus-valore. E se non c’è
plusvalore, non c’è neppure capitale. La contraddizione ‘interna’
alla merce, tra valore e valore d’uso, conduce necessariamente, passando
per denaro e forza-lavoro, a una contraddizione di classe ‘esterna’
ed irriducibile tra il capitale complessivo e un lavoro vivo potenzialmente
contro-produttivo (ancora Chris Arthur).[36] Quello che rende la
contraddizione fondamentale, e in ultima istanza inconciliabile, non è un
conflitto distributivo, ma il fatto che tanto la natura stessa
del lavoro così come la sua organizzazione sono imposte ai
lavoratori ‘dall’esterno’. Come scrive in modo convincente Massimiliano Tomba,
il consumo dei corpi (e delle menti!) dei lavoratori non ha
nessun risarcimento possibile.
È inevitabile concludere che là dove
Marx si congiunge con Hegel, lì la sua distanza da Hegel è al suo punto
massimo. Quando l’ontologia hegeliana sembra riuscire completamente a
farsi materiale nella realtà del capitale, si chiarisce che essa dipende in
maniera cruciale da una condizione sociale, dal successo del capitale nello
‘sfruttare’ e nel ‘comandare’ lavoro. Anche se il ‘lavoro’ è incorporato nel
capitale, il capitale non può che continuare a dipendere da
quest’ultimo. La ‘circolarità’ del Capitale – il circolo ontologico del
presupposto-posto – possiede come suo segreto inconscio il
processo ‘lineare’ da cui origina, il vampiresco ‘succhiare’ lavoro vivo in
eccesso rispetto al lavoro necessario per riprodurre i lavoratori. Come ha
scritto felicemente Raffaele Sbardella (1998): il Capitale è l’Astrazione
in Movimento. È questa una totalità dove le relazioni sociali
antagonistiche tra capitale e lavoro (sul mercato del lavoro e nel processo di
lavoro capitalistico), prima delle relazioni tra produttori capitalistici sul
mercato finale, sono al centro. È senza dubbio vero che questa totalità
viene ridefinita ad ogni diverso livello dell’argomentazione de Il
Capitale. Ma, assunta data la domanda effettiva,[37] l’analisi
macromonetaria di classe dell’estrazione di lavoro vivo e la sua ripartizione
tra la classe capitalistica e la classe lavoratrice rimangono inalterate. È
questa che non può che essere l’invariante delle molte
trasformazioni che si susseguono nell’esposizione dialettica de Il
Capitale. Invariante, epperò dipendente dall’esito ‘concreto’ della lotta
di classe nel processo di produzione immediato.
La totalità del capitale può darsi
esclusivamente in funzione di un rapporto sociale di produzione specifico, e
quella totalità non può mai essere data per scontata, come se si
riproducesse meccanicamente. È il potenziale antagonismo costitutivo di questo
rapporto sociale di produzione che ‘apre’ la totalità del capitale, e in un
certo senso la ‘rompe’.
Conclusioni
Prima di fornire qualche ulteriore
evidenza testuale a quanto ho appena sostenuto, mi si consenta di concludere la
mia argomentazione chiedendomi per quale motivo il dibattito è stato dominato
da un discorso tutto centrato sulla circolarità del capitale,
che ciò avvenisse in chiave hegeliana (circolo del presupposto posto) o in
chiave ricardiana/neoricardiana (produzione di merci a mezzo di merci), o
ancora keynesiana/postkeynesiana (produzione di denaro a mezzo di denaro). Perché
è stato lasciato da parte il Marx ‘gotico’ e si è oscurato il fondamento del
capitale come totalità nella sua ‘costituzione’ di rapporto sociale di
produzione, cioè nell’antagonismo di classe (nella lotta di entrambe le classi)
riguardo all’estrazione di lavoro vivo? La linearità dello
sfruttamento capitalistico non nega, evidentemente, né il circolo del
presupposto-posto, né la produzione di merci a mezzo di merci, né la produzione
di denaro a mezzo di denaro. Non nega il capitale come processo circolare. Fa
però comprendere ciò che dal loro punto di vista è quanto
meno opaco: che la produttività del capitale non è
nient’altro che sfruttamento in un senso molto più fondamentale del
solito. E impedisce di acquietarsi nella visione di un lavoro (s)oggetto meramente passivo:
lo sfruttamento è estrazione di tutto il lavoro vivo da
portatatori viventi di forza-lavoro, ‘liberi’ soggetti (con la minuscola) di
una potenzialecontro-produttività. È questa realtà sociale unica che
sta dietro la circostanza che il lavoro diretto (l’oggettualizzazione di lavoro
vivo) eccede il lavoro necessario alla riproduzione della forza-lavoro.
Quello che è sicuro, quasi 150 anni
dopo la prima edizione del primo libro de Il Capitale, è che
‘tradurre’ Marx in Ricardo ha fatto perdere l’essenzialedialettica
sistematica hegeliana che invece è di vitale importanza per la critica
dell’economia politica. È altrettanto chiaro che nessuna lettura hegeliana è
però capace di cancellare da un sedicente marxismo ortodosso la presenza di un
discorso analiticamente ricardiano, che rimane esterno a quella
fondazione filosofica. È interessante notare che entrambi i
discorsi (uno che viene da Hegel, l’altro che viene da Ricardo) rimangono
intrappolati all’interno dell’universo del Capitale come Feticcio, e non
riescono mai a mettere a tema la costituzione di quel
feticcio. L’uno e l’altro confondono il lavoro ‘diretto’ (il lavoro presente,
ormai morto nel prodotto) e il lavoro ‘vivo’ (l’attività che si oggettualizza
in quel lavoro diretto). L’uno e l’altro perdono la ‘fluidità’ e l’
‘antagonismo’ che sono presenti in modo cruciale nei capitoli erroneamente
degradati a ‘storici’ (e che prendono quasi due terzi del Primo Libro de Il
Capitale!).
Mi si lasci avanzare un’ipotesi,
prendendo ancora una volta spunto da Wal Suchting. Nell’articolo ancora inedito
su Hegel che ho già citato (Suchting 1997), Suchting propone una lettura
della Scienza della Logica basata sulla teoria e
l’interpretazione dei sogni di Freud. Il mio suggerimento può essere espresso
lungo linee analoghe. Freud distingue: (i) il ‘contenuto manifesto’ di un sogno
così come viene riportato da chi sogna, che può sembrare assai bizzarro e
strano; (ii) il ‘contenuto latente’ nell’inconscio, che è inaccettabile per il
sistema Io/Super-Io; (iii) la ‘censura’, che viene operata da quel sistema;
(iv) il ‘lavoro onirico’, che trasforma il contenuto inaccettabile in un
contenuto accettabile. A mio parere, il contenuto manifesto di
molta della critica dell’economia politica di Marx è la presentazione secondo
una dialettica sistematica hegeliana che corrisponde all’esposizione del
Capitale come Feticcio e come Soggetto. È il lato della Darstellung nella
critica dell’economia politica di Marx. Il contenuto latente è
la genesi del Capitale come Feticcio, quindi il discorso sul
valore come ‘fantasma’, sul denaro come ‘crisalide’, sul capitale come
‘farfalla’ e ‘vampiro’ insieme, che conducono a vedere nel
processo di lavoro capitalistico un ‘mostro animato’. È, nella critica
dell’economia politica di Marx, il lato della Konstitution,
della costituzione. Il sistema Io/Super-Io di Marx è Ricardo: Marx,
il teorico della classe operaia, era convinto che avrebbe dovuto/potuto
superare il più rigoroso teorico borghese sul terreno della scienza,
della scienza come ‘analisi’. Da qui, la censura ricardiana.
Il risultato della censura è particolarmente evidente nel Libro Primo, con
il lavoro onirico che sfocia nella rimozionedelle
parti logico-teoretiche dove la totalità non può che essere ‘aperta’ facendo
entrare il conflitto, l’antagonismo, le lotte sociali e politiche (e anche una
sorta di histoire raisonnée). La conseguenza è che queste parti
sono state come messe da parte, in capitoli che possono sembrare, e non
sono, meramentestorici.[38]
Se rimaniamo all’interno di questa
suggestione freudiana[39], l’interpretazione deve, per prima cosa, scoprire il
contenuto latente nascosto tramite le ‘associazioni libere’ e, poi, deve ricostruire quali
erano i principi che governavano il lavoro onirico. Lascio il secondo compito
al lettore. Riguardo al primo invece, una lettura di tre lunghe citazioni di
Marx è un buon inizio. Darà anche un po’ di carne alla lettura di Das
Kapital portata avanti in queste pagine. I corsivi sono miei; per una
ulteriore messa in evidenza ho talvolta aggiunto una sottolineatura; e per non
far mancare niente, e per chiarire l’essenzialità del passaggio, a volte c’è
persino un grassetto …
La prima citazione è dal capitolo 4
de Il Capitale, Libro Primo. Marx presenta il movimento del presupposto-posto come ontologia
del Capitale in quanto Soggetto automatico:
Le forme
autonome, le forme di denaro che il valore delle merci assume nella
circolazione semplice, solo mediano lo scambio di merci e scompaiono nel
risultato finale del movimento. Nella circolazione D–M–D entrambe, merce e
denaro, funzionano invece solo come diversi modi d’esistenza del valore stesso,
il denaro come suo modo d’esistenza universale, la merce come suo
modo di esistenza particolare, per così dire solo come
mascherata (verkleidete). Il valore passa costantemente da una
forma all’altra senza perdersi in questo movimento e così si
trasforma in un Soggetto automatico [ein automatisches Subjekt] Se
si fissano le forme fenomeniche[Erscheinungsformen]
particolari che il valore che si valorizza assume di volta in
volta nel ciclo della propria vita, si ottengono gli enunciati: capitale è
denaro, capitale è merce. Di fatto, però, il valore diviene qui il
Soggetto di un processo [In der Tat wird der Wert hier das
Subjekt eines Prozesses] in cui, sotto il costante ricambio delle forme di
denaro e merce, esso modifica la propria stessa grandezza, quale plusvalore
respinge sé da sé quale valore originario, valorizza se stesso. Poiché il
movimento, in cui aggiunge plusvalore, è il movimento suo proprio,
la sua valorizzazione è dunque autovalorizzazione. Ha ricevuto la
qualità occulta di porre valore in quanto è esso
valore. Figlia bambini sani o, almeno, depone uova d’oro.” (Marx MEOC XXXI,
pp. 170-1, traduzione modificata in un punto)
Come il
Soggetto che riconduce ad unità [übergreifende Subjekt] un
tale processo in cui esso ora assume ora dismette la forma di denaro e la forma
di merce, ma che in questo cambiamento si conserva e si amplia, il valore ha
bisogno soprattutto di una forma autonoma attraverso la quale venga constatata
la sua identità con se stesso. E questa forma la possiede solo nel denaro. È
esso a costituire quindi il punto di partenza ed il punto finale di ogni pro-
cesso di valorizzazione. Era 100 sterline, adesso è 110, ecc. Ma il denaro
stesso vale qui solo come una forma del valore perché esso ne ha due. Se non
assume forma di merce il denaro non diviene capitale. Qui, dunque, il denaro
non compare polemicamente di fronte alla merce come nella tesaurizzazione. Il
capitalista sa che tutte le merci, per quanto cenciose possano apparire o per
quanto fetide possano essere, sono in Fede e Verità denaro, ebrei circoncisi
nell’intimo, e per di più mezzi miracolosi per fare dal denaro più denaro.
(Marx MEOC XXXI, p. 171)
“Se nella
circolazione semplice, di fronte al loro valore d’uso, il valore delle merci
ottiene al massimo grado forma autonoma di denaro, qui esso si espone repentinamentecome una
sostanza in processo, automoventesi, per la quale merce e
denaro sono entrambi mere forme. Ma c’è di più. Invece di esporre rapporti di
merci, esso entra, per così dire, in rapporto privato con se stesso. Esso
distingue sé, in quanto valore originario, da sé in quanto plusvalore, come Dio
Padre si distingue da sé come Figlio di Dio ed entrambi hanno la stessa età e
costituiscono di fatto una sola persona.” (Marx MEOC XXXI, p. 171,
traduzione modificata in un punto)
Un punto richiede un
approfondimento particolare, il significato di übergreifende. In
inglese viene tradotto come ‘fattore attivo’ (Moore e Aveling), ‘dominante’
(Fowkes), ‘comune a tutte le forme particolari’ (Ehrbar). Fineschi lo rende con
“che riconduce all’unità”. Alla presentazione della nuova traduzione del primo
libro de Il Capitale da parte di Fineschi, Giorgio Cesarale
scriveva (corsivi miei): “[l]a costituzione logica del concetto di capitale
riproduce in larga parte la struttura del concetto hegeliano: entrambi sono,
infatti, concetti universali che raggiungono un autoriferimento a sé solo
assorbendo e incorporando la loro alterità. Entrambi sono concetti,
cioè, la cui universalità non è astratta, ma racchiude al suo
interno momenti differenti. La totalità del concetto in Hegel e del concetto di
capitale in Marx può essere pensata solo come la differenza in sé
stessa, differente dai differenti e dunque come identità con sé. Si
potrebbe dire che è proprio la figura dello Übergreifen, del comprendere/sopravanzare ad
accomunare il concetto di capitale marxiano al concetto hegeliano. La struttura
dell’Übergreifen dice che qualcosa è in quanto si manifesta nel suo
contrario. In Hegel il concetto è un universale che si
manifesta tuttavia nel suo opposto, nel particolare, così come in
Marx il capitale è, in quanto si manifesta nel suo opposto, nel lavoro.”
(Cesarale 2003, corsivi miei)
Queste traduzioni e note concettuali,
benché del tutto corrette, credo colgano soltanto un lato del significato della
parola. A mio parere, Marx ha adoperato questo termine con un accento doppio.
Il primo era, come in Hegel, quello dell’overgrasp, un comprendere che è
un sopravanzare, potremmo dire una ‘sovra-comprensione’. A overgrasp,
un neologismo in inglese (come lo è sovracomprendere in italiano), ricorrono in
effetti i traduttori in inglese della prima parte dell’Enciclopedia delle
scienze filosofiche in compendio (Hegel 1830). Si coglie così
l’aspetto del processo di Aufhebung per cui la comprensione
speculativa comprende e sopravanza l’opposizione dei momenti nel loro stadio
dialettico, producendo qualcosa di nuovo nel momento in cui include l’opposto.
Come l’universalità ‘sovra-comprende’ i particolari e gli individuali, allo
stesso modo attraverso cui il pensiero ‘sovra-comprende’ ciò che è altro dal
pensiero, così il Subjekt che si sviluppa in un Geist include
l’oggettività e la soggettività nella sua comprensione, e la sopravanza. Il
termine mi pare alluda anche a un sopravanzare come ‘sovrastare’ o ‘prevalere’,
avvicinandosi a ‘dominare’. L’ambiguità che ne consegue illustra bene, mi pare,
le intenzioni di Marx nell’usare übergreifen.
Il lettore attento avrà riconosciuto
i temi che abbiamo già trovato in Colletti e Backhaus, che ho cercato di
sviluppare secondo una mia prospettiva. Un altro acuto interprete di questa
problematica marxiana è Helmut Reichelt. Nel suo libro del 1970 quest’autore
sottolinea come formulazioni quali quelle appena citate confermino che Marx,
piuttosto che ‘civettare’ con Hegel, fu in verità obbligato a
impiegare un argomentazione strutturata dialetticamente per una costrizione
‘oggettiva’ “nel IV capitolo egli descrive il valore ed il suo movimento in
quanto capitale, come il ‘Soggetto automatico’ e il ‘Soggetto prepotente’ di un
processo in cui il valore modifica la sua stessa grandezza al continuo mutare
della forma-denaro e della forma-merce […] esiste una identità strutturale
del concetto marxiano di Capitale e del concetto hegeliano di Spirito. […]
Hegel costruisce in base a questa totale inversione [Verkehrung]
[ovvero, dilatando il Concetto ad Assoluto] una filosofia che mostra sorprendenti
parallelismi con il sistema marxiano e che in parte costitusce
immediatamente per Marx unmodello metodico. Hegel anticipa sul piano
filosofico ciò che Marx decifra come il segreto della società borghese:
l’inversione di una realtà derivata in un Primo [Ersten]. […]
L’idealismo hegeliano, per il quale gli uomini obbediscono ad un Concetto
dispotico è sostanzialmente il più adeguato a questo mondo invertito (dieser
verkehrten Welt) di quanto non lo sia una qualsiasi teoria nominalistica
che vuole accettare l’Universale (das Allgemeine) come qualcosa di
soggettivamente concettuale (subjektiv-begrifliches). Esso è la società
borghese come ontologia […] Sotto questo aspetto il concetto di
esposizione (Darstellung) assunto da Hegel si manifesta così in una
nuova luce”.[40]
E ancora: “Anche se non lo dice così
chiaramente, possiamo tuttavia supporre che per metodo dialettico Marx non
intendesse un metodo di valore sovratemporale ma piuttosto un metodo che
è tanto cattivo o tanto buono quanto la società a cui corrisponde.
Esso è valido soltanto dove un universale si impone a spese
dell’individuale. In quanto dialettica idealistica esso è
lo sdoppiamento filosofico della inversione reale (die
philosophisce Verdopplung der realen Verkehrung); in quanto
dialettica materialistica è il metodo della revoca (Method
auf Widerruf) che dovrà scomparire insieme con le sue proprie
condizioni di esistenza” (le citazioni sono prese da Reichelt 1970, p. 92,
p. 94, p. 97-98: i corsivi sono miei, sono state inserite delle
maiuscole)”.[41]
La seconda citazione che presento
viene da Il Capitale, Libro Primo, capitolo 5, e ci dà l’idea di
dove venga al capitale la misteriosa abilità occulta di aggiungere valore a se
stesso:
“Il
capitalista paga per es. il valore giornaliero della forza-lavoro. Il suo uso,
come quello di ogni altra merce per es. di un cavallo che ara per una giornata,
gli appartiene dunque per la giornata. Al compratore della merce appartiene
l’uso della merce e, dando il proprio lavoro, il possessore della forza-lavoro
dà di fatto solo il valore d’uso da lui venduto. Il valore d’uso
della sua forza-lavoro, dunque il suo uso, il lavoro, è appartenuto
al capitalista dall’attimo in cui è entrato nella sua officina. Grazie alla
compera della forza-lavoro il capitalista ha incorporato [einverleibt]
il lavoro stesso come vivo fermento nei morti elementi
costitutivi del prodotto che parimenti gli appartengono. Dal suo punto
di vista, il processo lavorativo è solo consumo della merce
forza-lavoro da lui comprata che egli tuttavia può solo
consumare in quanto le aggiunge i mezzi di produzione. Il processo lavorativo è
un processo fra cose che il capitalista ha comprato,
fra cose che gli appartengono. Il prodotto di questo processo
gli appartiene, perciò, proprio allo stesso modo in cui gli appartiene il
prodotto del processo di fermentazione che avviene nella sua cantina.” (Marx
MEOC XXXI, p. 205).
“In quanto
il capitalista trasforma denaro in merci che servono da costituenti materiali
di un nuovo prodotto, ossia da fattori del processo lavorativo, in quanto egli incorpora
forza-lavoro vivente [lebendige Arbeitskraft einverleibt] nella
loro morta oggettualità, egli trasforma valore – lavoro
passato, oggettualizzato, morto – in capitale, valore che si valorizza, mostro
animato che inizia a ‘lavorare’ ‘come se avesse amor in corpo.” (Marx MEOC XXXI
p. 214 (traduzione modificata in un punto)
Vediamo chiaramente la tensione tra
i due lati della medaglia – una tensione che viene di solito smorzata dalla
traduzione, in questo caso anche di Fineschi, che traduce come ‘lavoro vivo’
(l’attività di attualizzazione della forza-lavoro) quello che nell’originale è
forza-lavoro vivente (i lavoratori, cioè, che sono portatori della
forza-lavoro, e che compiono davvero, loro, quell’attività). Una verità
è che il ‘lavoro’ dei lavoratori è ormai del capitale. Ma c’è un’altra verità,
ed è che il ‘lavoro’ non può che essere lavoro degli stessi lavoratori.
Il riferimento al lievito ‘vivo’ e al ‘consumo’ dei lavoratori, e l’insistenza
sulla ‘forza-lavoro vivente’ che è ‘incorporata’, ‘inclusa’ nel mostro animato,
evidenzia che vi è una contraddizione di classe irrisolta, ‘aperta’, nascosta
nel Feticcio che si fa Soggetto e si pretende Automatico. La ‘censura’
ricardiana rischia di ridurre la forza-lavoro a una merce come ogni altra, facendo
del lavoro vivo una specie di ‘esito’ automatico per il capitale una volta che
abbia comperato la forza-lavoro; ed è una censura che va nello stesso senso
della lettura hegeliana di Marx (questo è molto chiaro in Lukàcs, Storia
e coscienza di classe). Si tratta di una mossa rischiosa: riduce Il
Capitale a marxismo della forza-lavoro, e la lotta di
classe a uno sparo nel buio.
Seguendo Colletti 1969b, il saggio
“Marxismo: scienza o rivoluzione?”, con qualche torsione di significato,
possiamo dire che il punto di vista del ‘padrone’ – secondo cui è il capitale a
essere produttivo – non è soltanto un punto di vista soggettivo. Corrisponde
a come stanno le cose realmente: almeno fino a quando i lavoratori sono un
ingranaggio nel meccanismo, e dunque fino a quando la forza-lavoro viene
convertita senza problemi in lavoro vivo. Ma il punto di vista
scientifico e rivoluzionario di Marx è che è possibile
provare che quella ‘verità’ borghese è nondimeno falsa, socialmente e
politicamente. Lo si può fare solo se si parte da un punto di vista che esprime
un’altra realtà: quella secondo cui il capitale è il
prodotto del lavoro vivo, che a sua volta non è nient’altro chel’attività
dei portatori viventi di forza lavoro. Il punto di vista che mette in
rilievo la potenziale contro-produttività dei lavoratori, e riesce dunque a
fondare la teoria del valore-lavoro. Abbiamo insomma a che vedere con due ontologie
antagonistiche.
In questo modo di vedere, contro
tutti i marxismi, va rivendicata una ispirazione marxiana in cui
l’interpretazione e ricostruzione de Il Capitale non può
essere separata da un discorso, teorico e politico, secondo il quale le visioni
circolari (hegeliane e ricardiane) del capitale vanno
falsificate in pratica. Per riprendere, a mio modo, una felice espressione
di Massimiliano Tomba: la contraddizione tra capitale e ‘lavoro’ nel processo
di ‘costituzione’ “sta alla dialettica così come la miccia sta alla
dinamite”.[42] (Tomba 2010, p. 221)
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Note
[1] Lo
studio di Marx richiede una lettura della sua opera che faccia sempre un
raffronto con l’originale tedesco e la traduzione in altre lingue. Questo è
quello che ho fatto con il mio gruppo di lettura de Il Capitale che
ho tenuto a Bergamo a partire dal gennaio 2005. È soprattutto alla discussione
di questo gruppo che devo essere grato. In un altro senso le
mie tesi vanno indietro nel tempo e si richiamano al mio primo incontro con
Marx, alla fine degli anni Sessanta e agli anni Settanta, quando molta della
letteratura secondaria più importante (Backhaus, Iljenkov, Krahl, Reichelt,
Rosdolsky, Rubin, Schmidt, Tuchscherer, Vygodskiy, Zéleny, e molti altri) era
disponibile in italiano o in inglese. In quel tempo il riferimento marxiano
alle categorie hegeliane veniva sottolineato molto bene da C. Pennavaja nelle
sue note di traduzione alla pubblicazione in italiano del primo capitolo e
dell’appendice della prima edizione del Primo Libro de Il Capitale)
e da F. Coppellotti (nella sua traduzione di Reichelt 1970). Già allora erano
noti i limiti delle traduzioni disponibili in italiano: un lavoro che poi è
stato continuato e approfondito da R. Fineschi che ha appena pubblicato
un’importante e rigorosa nuova traduzione de Il Capitale nella
nostra lingua, di cui mi avvarrò largamente. Il mio riferimento (eretico!) a
Colletti, Napoleoni e Rubin è talmente ovvio che non merita di essere
sottolineato. I miei altri debiti intellettuali sono troppo numerosi per essere
menzionati senza far torto a qualcuno. Mi limito perciò a ringraziare per le
discussioni e gli scambi avuti negli anni: C. Arthur, G. Ceserale, C. Corradi,
H. Ehrbar, R. Finelli, R. Fineschi, M. Heinrich, P. Murray, T. Redolfi Riva, G.
Reuten, T. Smith, W.A. Suchting, M. Tomba. Un grazie particolare a Pietro
Bianchi e Tommaso Redolfi Riva che mi hanno aiutato a mettere a punto questa
versione, a partire da un contributo in inglese (Bellofiore 2013) a cui ho
apportato numerose modifiche e integrazioni.
[2] Nella tassonomia che segue,
le varie posizioni non sono sempre mutuamente esclusive: talora è questione di
accentuazione di un elemento sull’altro. Più avanti in questo articolo metterò
in discussione alcune ambiguità ed errori nelle traduzioni (soprattutto in
inglese) di alcune categorie di base di Marx (derivate da Hegel). In questi
primi paragrafi, mi limiterò a inserire tra parentesi il termine tedesco per
quei nomi o verbi che sono più da tenere in considerazione per la discussione
nei paragrafi conclusivi dell’articolo, cercando di impiegare il più possibile
la terminologia degli autori che discuterò, quand’anche la reputassi inadeguata
alla luce delle considerazioni successive.
[3] Ho sentito usare per la
prima volta questa formula in italiano da Finelli stesso, credo nei primissimi
anni Ottanta, a un incontro sindacale: lo sguardo degli astanti si perse nel
nulla, io vi trovai invece un punto importante, anzi essenziale, per la
migliore comprensione di Marx. L’interpretazione di Finelli mi ha influenzato
molto, in particolare il suo libro del 1987: così tanto che abbiamo persino
firmato un articolo insieme in inglese (Bellofiore-Finelli 1998: lo stesso filo
di discorso lo si ritrova in Bellofiore 1996), anche se non sono convinto che
Finelli ne condivida integralmente i passaggi al di là di alcune formulazioni
del primo paragrafo (questo mio contributo sta infatti in stretta relazione di
continuità oltre che di integrazione con il testo congiunto che risale in
realtà al 1994). In quel primo scritto in inglese per rendere la formula che
personalmente appresi da Finelli (anche se certo il tema non era ignoto alla
discussione italiana tra hegeliani e marxisti, come mi fece notare Fineschi)
impiegammo l’espressione the circle of presupposition-posit. Più
avanti gli ho preferito positing the presupposition. Come il
lettore di questo articolo vedrà, se pazienterà nella lettura, da un lato
insisto sull’importanza cruciale di questo metodo, dall’altro mostro però il
suo retroterra idealistico, e affermo che per sfuggirne, il metodo del
presupposto posto va articolato con quella che definisco la problematica
della costituzione (un punto che è di fatto già presente nel
contributo co-firmato da Finelli). Per un articolo in inglese rappresentativo
della posizione più recente di questo autore si veda Finelli 2007. Sono in
larga parte d’accordo con la critica che gli rivolge Arthur 2007. In verità, se
il metodo del presupposto posto viene collocato sulla sfondo della problematica
della costituzione, esso viene, per così dire, sradicato e rovesciato, al punto
che la ripresa di Hegel da parte di Marx si trasforma in verità in una radicale
critica del secondo al primo.
[4] Una antologia di testi dalle
pubblicazioni ISMT per il lettore italiano è Bellofiore-Fineschi 2008. Per una
più generale introduzione critica al dibattito dell’ISMT si veda Redolfi Riva
2013a. Di questo autore si veda anche, sui temi di questo mio scritto ma
limitatamente al solo dibattito italiano, si veda Redolfi Riva 2013b.
[5] Si veda la critica di Smith a Rosenthal: “Hegel’s ‘idealism’
consists simply of the claim that thought can grasp the ‘objective and
intrinsic’ content of its object. There is an ontological assertion here: the
object has a ‘real nature,’ that is, an intelligibility distinct from how it
appears in ordinary and immediate experience. And there is an epistemological
assertion: our thought is in principle capable of apprehending this real
nature.” (Smith 2002, p. 225)
[6] Come dirò in seguito, Murray è progressivamente giunto vicino a
questa posizione.
[7] Smith definisce il lavoro astratto come lavoro che ha
dato prova di essere socialmente necessario. A mio
parere, il lavoro astratto è piuttosto un lavoro chedeve ancora provare di
essere stato speso nell’ammontare socialmente necessario.
[8] Qualche pagina dopo Murray aggiunge: “Just as Marx rejects as
illusory the presupposed independence from sensuous actuality that he finds in
Hegel’s philosophical logic, so, too, does Marx denude the concept of capital
of its seeming independence from natural objects and living human labor.” (p. 219)
Questo è un tema su cui tornerò alla fine di questo articolo, affrontando la problematica
della ‘costituzione’.
[9] Nel suo libro Murray aveva
comunque sollevato alcune riserve sulla critica di Marx a Hegel: tali
qualificazioni erano confinate però nelle note. P. es, nella nota 5, alle pp.
248-49, Murray mette in discussione l’ipotesi di Marx che la logica di Hegel
sia una costruzione a priori sovrapposta all’empiria. Simile presa di distanza anche nella nota 20 a p. 239. Nella nota 19 a
p. 239, commentando l’accusa di Marx a Hegel di applicare una logica
prestabilita negli scritti di filosofia del diritto, Murray scrive: “Whether or
not a closer study of Hegel could defuse Marx’s criticisms is, I believe, still
an open question.” Col tempo i dubbi di Murray sulla interpretazione di Hegel fornita da
Marx paiono essersi accresciuti.
[10] Lo potrà giudicare il
lettore stesso comparando l’interpretazione che daremo di questi snodi alla
fine di questo saggio. Il limite maggiore di Colletti tuttavia è un altro, a
mio parere: il fatto che egli si accontenti di fermarsi alla dialettica di valore
e forma-valore, assumendo (correttamente) che le sue conclusioni
verrebbero confermate nel momento in cui la dialettica si occupasse
esplicitamente del capitale, ma senza mostrarlo davvero. Cercherò di fornire un
abbozzo di questa conferma nell’ultima parte di questo capitolo. Cercherò anche
di chiarire come la dialettica marxiana porti a comprendere il Capitale come un
Feticcio Automatico che è anche un Soggetto a un tempo onnicomprensivo e
dominante; ma al tempo stesso porti a criticarlo attraverso l’indagine genetica
della sua ‘costituzione’.
[11] Con Tommaso Redolfi Riva ho
curato la traduzione in italiano di una selezione dei più importanti articoli
di Backhaus – dagli anni Sessanta fino alla metà degli anni Novanta. Vi sono
inclusi l’articolo seminale su La dialettica della forma di valore e
i Materialien zur Rekonstruktion der Marxschen Werttheorie in
quattro parti– le ultime due puntate sono le più importanti, in qualche misura
appassionanti. Sapevo sin dalla metà degli anni Ottanta da Emilio Agazzi delle
sue traduzioni, ma pensavo fossero ormai irreperibili: Redolfi Riva è invece
riuscito a scovarle, e ha puntualmente verificato e aggiornato le traduzioni.
Farò riferimento essenzialmente agli ultimi due articoli inclusi nel nostro
volume. La nostra selezione include anche un articolo che non è nell’edizione
tedesca e di cui l’originale è andato perso.
[12] Come preannunciato,
affronterò questo tema nell’ultima parte di questo lavoro.
[13] In altri scritti ho
mostrato come questa tesi può essere mantenuta solo chiarendo che la
‘genericità’ dell’essere umano è un risultato della storia, e che
essa si dà in forma contraddittoria nel capitalismo: non vi è più alcun
riferimento ad una astorica Gattungwesen, con cui è effettivamente
compromesso il discorso di Feuerbach, e con lui quello giovane Marx. Qui
i Grundrisse svolgono il ruolo di cerniera di una lettura a
ritroso dal Capitale ai Manoscritti del 1844.
Mi pare che possa forse essere così inteso lo
stesso Backhaus quando dice che il terminus ad quem di questo
discorso è il capitale: “only in this way the ‘positive moments of the Hegelian
dialectics’ [ovvero il programma di distruzione delle determinazioni alienate
del mondo materiale] can be saved”. Lo sviluppo concettuale del valore è
concepito da Marx come nient’altro una teleologia negativa.
[14] Le informazioni che seguono
e alcune citazioni sono tratte da Tagliagambe (1978) e da Susumu Takenaga
(2007).
[15] “Un exemplaire de cette
édition a été récemment tout à fait par hazard découvert dans la bibiothèque de
l’Institut des sciences économiques auprès de l’Université de Hitotsubashi à
Tokyo. Cet exemplaire se trouvait parmi les livres que Prof. Ichiro Nakayama,
disciple de Schumpeter à l’époque où il était encore en Europe, avait
collectionnés en Europe avant ou pendant la 2ème guerre mondiale et qu’il
avait dédiés à la bibliothèque de l’université dont il était professeur.” (p.
6). L’edizione giapponese della quarta edizione è a cura di Susumu Takenaga.
[16] Se non per una breve
premessa e per l’aggiunta all’appendice contenuta nella terza di un saggio di
risposta alle critiche di Bessonow.
[17] Un appunto, questo, che è
stato rivolto anche a Lucio Colletti, per la sua idea, comune a Rubin, che
l’astrazione reale del lavoro si svolge quotidiniamente nello scambio: è una
critica a mio parere ingiustificata. La critica è appropriata per il marxismo
della forma valore nella sua formulazione estrema, come si ritrova in Michael
Eldred e i suoi coautori, la c.d. scuola di Konstanz-Sydney: autori che non a caso
hanno abbandonato la teoria del valore-lavoro.
[18] Anticipando quanto diremo
più avanti, mi pare che al di là della aperta distinzione terminologica che
manca, sia ciò nondimeno acutamente percepita da Rubin la distinzione tra
‘carattere di feticcio’ e ‘feticismo’ di cui dirò più avanti. Lo stesso si
potrebbe dimostrare, testi alla mano, a proposito di Colletti.
[19] Come già anticipato, nella
rassegna delle varie interpretazioni di Marx e Hegel che abbiamo presentato
sinora ho preferito mantenere le convenzioni di traduzione scelte dagli autori
analizzati (o dalle traduzioni che ho potuto consultare quando non avessi
accesso agli originali). Allo stesso tempo, per permettere al lettore
interessato di gettare un ponte tra la parte di rassegna e quella più personale
di questo articolo ho spesso inserito tra parentesi l’equivalente tedesco dei
vari nomi o verbi impiegati. In questo paragrafo devo molto ai contributi di
Pennavaja e Coppellotti degli anni Settanta a cui ho fatto riferimento, ma
anche in modo decisivo al rigoroso lavoro filologico condotto da ultimo da
Roberto Fineschi. Gran parte di ciò che dirò, lo confesso, è patrimonio comune
tra i filosofi. Non lo è, sfortunatamente, tra gli studiosi di Marx in
generale, e tra gli economisti in particolare. Si potrebbe perfino formulare
una legge per cui più un autore tende verso l’ortodossia ed è disposto a
dedicarsi a battaglie esegetiche, meno legge Marx anche in originale. Utili
glossari o commentari che entrano nelle questioni relative alla traduzione che
tratto qui sono: Inwood 1992, Ehrbar 2010, Heinrich 2008; e appunto Fineschi
2012. Si vedano anche, in Hegel 1830, il Glossario
ma anche l’ “Introduction: Translating Hegel’s Logic” di Geraets e
Harris e “Some minority comments on terminology” di Suchting.
[20] Si vedano anche le osservazioni di Ehrbar 2010 su Schein e Erscheinung:
“In Hegel’s logic, Schein is the immediate being which
may or may not reveal the essence (which is the truth of the being).
It is often translated as ‘show’. There is also the other concept of Erscheinung which
is an immediate being that has evolved to the point where it does
reveal the essence. Most of the time when Marx uses Schein or scheinen he
means a show which is not Erscheinung or erscheinen”
because otherwise he would have used the words Erscheinung or erscheinen themselves.”
È dunque
giustificato tradurre con ‘sembrare’ invece che ‘apparire’ o ‘manifestare’
(fenomenicamente), laddove Marx invece usa questo termine per situazioni dove
l’essere immediato non rivela la sua essenza o la travisa. Un altro libro utile
che fornisce ulteriore materiale in difesa della distinzione tra Schein e Erscheinung è
Meaney (2003). Una prova di quanto sia problematico non tenere in
considerazione la distinzione fondamentale tra Schein e Erscheinung viene
data da una domanda posta a chi scrive da un membro dell’ISMT, Fred Moseley,
che intende ‘apparenza’ sempre e comunque come ‘falsa’ apparenza. Moseley mi
chiese come interpretatassi un passo di Marx del capitolo 2 de Il
Capitale, Libro Terzo, che secondo lui faceva chiarezza sul fatto che:
“Marx ha mostrato che l’apparenza è falsa, ma i capitalisti ci
credono lo stesso” (e-mail del 17 settembre 2011). Riporto il passaggio in
questione, mantenendo la traduzione inglese impiegata da Moseley, aggiungendo
tra parentesi il tedesco nei punti rilevanti:
“In point of fact,
profit is the form of appearance [die
Erscheinungform] of surplus-value, and the latter can be sifted out from
the former only by analysis. In surplus-value, this relationship is laid
bare. In the relationship between capital and profit, i.e. between
capital and surplus-value as it appears [erscheint]
on the one hand as an excess over the cost price of the commodity realized in
the circulation process and on the other hand as an excess determined more
precisely by its relationship to the total capital, capital appears [erscheint] as a relationship to itself, a
relationship in which it is distinguished, as an original sum of value, from
another new value that it posits. It appears [il tedesco qui non fa riferimento
né a scheinen né a erscheinen] to consciousness as if
capital creates this new value in the course of its movement through the
production and circulation processes. But how this happens is now mystified,
and appears [scheint] to derive
from hidden qualities that are inherent in capital itself “. (Marx 1994,
p. 139)
Come il tedesco tra parentesi mette
in chiaro, la questione è molto più complicata, e dobbiamo arrivare a
conclusioni molto più sfumate di quelle di Moseley. Marx sta dicendo che, dato
che per come avviene la generazione di plusvalore, essa dà luogo ad una
realtà mistificata, si generalizza la falsa idea che
l’auto-valorizzazione del valore abbia a che vedere con qualità nascoste del
capitale stesso, una ‘parvenza’ (questo è ciò che in seguito chiameremo
‘feticismo’). Ma la relazione del capitale con se stesso, quel modo alla Hegel
per cui il saggio di profitto appare come un eccesso che il capitale produce
oltre e in aggiunta al proprio valore – questa è per Marx una
‘apparenza’, una forma necessaria di manifestazione. Non è
‘falsa’, nè è una parvenza. È al contrario come
l’essenza deve manifestare se stessa in quanto fenomeno
(questo ha a che vedere con ciò che in seguito chiamerò il ‘carattere di
feticcio’ del Capitale come Soggetto, distinguendolo dal ‘feticismo’). È
un Erscheinung, non un Schein. La mancanza di
distinzione di Moseley è rappresentativa della confusione che si trova negli
economisti marxisti che non vogliono approfondire i seri problemi di traduzione
che affliggono Il Capitale in inglese, e che ripongono
eccessiva fiducia nelle traduzioni dal Capitale in lingua
inglese. È naturalmente vero che, a una considerazione più profonda,
l’apparenza si rivelerà essa stessa ‘falsa’: ma per chiarirne le ragioni si
richiede precisamente il discorso sulla ‘costituzione’ che ricostruirò più
avanti in questo scritto, così come anche richiede
l’interpretazione/ricostruzione dell’approccio di Marx in termini macrosociali
e macromonetari così come l’ho esposto (ancora, in polemica con Moseley) in
Bellofiore 2004.
[21] Una traduzione diversa ma a
mio parere assolutamente accettabile è quella di impiegare ‘presentazione’
per Erscheinung, anche se in questo caso il termine non dovrebbe
essere usato per Darstellung. L’aspetto positivo di questa scelta è
la possibilità di evitare ‘apparenza’ per Erscheinung (come in
effetti fa rigorosamente Fineschi), dato che è ambiguo e che viene spesso letto
come falso o illusorio da parte di molti interpreti (si veda sopra, Moseley).
L’ho evitato perché renderebbe talora la lettura molto faticosa. Mi si consenta
di aggiungere a margine che la traduzione perfetta non esiste,
e che la sua ricerca è una chimera. Alcune sfumature in una lingua non possono
essere colte in un’altra lingua (tra l’altro, a me pare che sia Marx sia Hegel
a volte giochino con il significato quotidiano delle categorie più astratte).
Inoltre, alcune categorie sono state, per così dire, ‘messe a fuoco’
storicamente: siamo infatti noi che interroghiamo il testo con
nuove domande, e possono chiarirsi nuovi significati. C’è anche un inevitabile
elemento di arbitriarietà nelle scelte di traduttore. La cosa importante è
mantenere coerenza nella resa dei vari termini, e l’esplicitazione del loro
significato concettuale in una premessa o postfazine alla traduzione, evitando
la tipica usanza delle traduzioni anglo-sassoni di impiegare parole diverse per
la traduzione della medesima categoria in tedesco, a seconda di quello che si
suppone essere il significato del termine nel contesto del singolo passaggio
(magari, spesso, con ragione). Questo è il motivo per cui le traduzioni di Marx
in inglese, anche le migliori, a volte assomigliano a un sofisticato esercizio
di fantascienza. Questo è il motivo per cui le traduzioni francesi, spagnole o
italiane sono decisamente migliori, anche qualora afflitte da seri problemi: i
loro errori sono ricorrenti. Non c’è bisogno di ripetere quanto sia scandaloso
che Marx non venga tradotto, come è normale per i grandi pensatori del passato,
con il testo originale a fronte.
[22] L’impiego del termine Gallerte andrebbe
approfondito. Come rileva
Keston Sutherland (s.d.): “Gallerte is
now, and was when Marx used it, the name not of a process like freezing or
coagulating, but of a specific commodity […] Marx’s intention is not simply to
educate his readers but also to disgust them […] The sixth volume of the
popular encyclopaedia Meyers Konversations-Lexicon, published in
Leipzig in 1888, provides the following entry. Gallerte (also Gállert,
old German galrat, middle Latin galatina, Italian gelatina),
the semisolid, tremulous mass gained from cooling a concentrated glue solution.
All animal substances that yield glue when boiled can be used in the production
of Gallerte, that is to say, meat, bone, connective tissue,
isinglass, stag horns etc.”. Anche in questo caso è vero che “Marx does
not simply use the word Gallerte as literary flavouring
to his theory [...] On the contrary, it changes the meaning of other passages
in the text.” Il limite di Sutherland è che egli sembra porsi soltanto dal punto di
vista del consumo di merci, e non dei portatori viventi della forza-lavoro.
[23] “‘Objektiv’ allude
al carattere oggettivo, che non dipende dal soggetto, di un processo.
‘Oggettuale’ e derivati sono invece assai frequenti, in particolar modo nei
primi capitoli: il termine indica letteralmente ‘lo stare di fronte’ della
cosa. Il verbo vergegenständlichen, usato spesso in relazione
all’azione del lavorare, significa ‘rendersi oggettuale’, ‘farsi oggetto’ che sta
di fronte” (Fineschi in Marx MEOC XXXI, p. 1329)
[24] Questi termini non
dovrebbero essere confusi col lavoro ‘socializzato’ [vergesellschaftete
Arbeit], che qui non trattiamo (né nelle formazioni non capitalistiche, né
nella ‘fabbrica’ capitalistica), o col lavoro ‘totale’ [gemeinsame Arbeit],
di cui si fa un cenno nel testo.
[25] Hans Ehrbar ha colto questo punto molto bene nella sua
traduzione/ commento a Il Capitale on-line: “Usually, Fetischcharakter
der Ware is translated as ‘commodity fetishism’. However, a more
accurate translation would be ‘fetish-like character of the commodity’. Marx
distinguishes between ‘fetishism’, which is a false “story” guiding
practical activity, and ‘fetish-like character’, which is a
property in fact possessed by social relations. Commodities have a
fetish-like character, while members of capitalist society often display
fetishism (systematized in ‘bourgeois economics’)’ (Ehrbar 2010, corsivo mio) I
suggerimenti di Ehrbar sono stati approfonditi in un articolo molto interessante
di Guido Schulz (2011): “The term ‘fetish character’ describes the regulating
social power that objectified value relations gain under capitalism. It
is a social power achieved by virtue of a process of autonomisation of
reified social relations. Accordingly,the false belief that social
properties ascribed to fetish bearing things are natural and inherent to
these represents a fetish-induced illusion (my emphasis). Marx
designates this illusion as ‘fetishism’.”
[26] Devo questa interpretazione del termine a Frieder Otto Wolf,
in una conversazione orale.
[27] Contrariamente alle note
critiche di Aglietta-Orléan e di Benetti-Cartelier, la teoria del valore di
Marx non si basa affatto su una qualche hypothèse de nomenclature,
come sarebbe per Walras o Sraffa. Al contrario, Marx appartiene a buon diritto
a quella che Schumpeter ha chiamato analisi monetaria: l’approccio
dove la moneta (in Marx, il denaro: l’importante distinzione marxiana tra
denaro e moneta, cancellata nella lingua inglese, non può essere trattata in
questo mio testo nelle sue implicazioni) viene introdotta subito, e fa parte
delle fondamenta dell’edificio teorico. La differentia
specifica di Marx è che la sua ‘teoria monetaria del valore lavoro’ è
l’unica teoria del valore dentro l’ ‘analisi monetaria’(anche se ci
sono stati, e ci sono, dei tentativi che vanno in quella direzione, in Keynes e
poi in alcuni post-Keynesiani). È un grande merito di Backhaus (2009) l’aver
sottolineato in modo convincente che la teoria del valore-lavoro di Marx è,
innanzitutto, una critica di tutte le teorie del valore nel capitalismo a lui
precedenti in quanto non-monetarie. Questa critica è valida anche
per la teoria economica successiva (da cui i limiti, non soltanto degli
economisti neo-classici, ma anche di quelli neo-ricardiani). Detto questo,
Backhaus – anche se all’interno di una sana attitudine di recupero di
Marx contro Marx – non sembra rendersi conto a sufficienza
della debolezza consistente nella dipendenza di Marx da una teoria del ‘denaro
merce’, e per ragioni che sono intrinseche alla propria teoria del
valore-lavoro (che non riguardano cioè affatto i tecnicismi della teoria
monetaria, né sono riconducibili del tutto al contesto storico nel quale
scriveva). In effetti, Backhaus non fa alcun commento sulla discutibile
argomentazione marxiana che si basa sul baratto per poter determinare il valore
del denaro e assumerlo come un dato (a questo punto, come dico nel testo, le
merci hanno appiccicata loro già nel prezzo ideale una ‘somma’ quantitativamente
definita di denaro, dunque oro, dunque tempo di lavoro rappresentato in
oro/denaro). Anche se il discorso marxiano può essere difeso al livello della
circolazione semplice, non è più accettabile (se non forse come ipotesi
provvisoria) quando si passa alla produzione e circolazione capitalistica. Su
questo rimando alla mia introduzione in Backhaus 2009.
[28] Si noti che Marx non scrive
‘merce’ ma prodotto immediato di lavoro.
[29] Benché oro e argento
non siano per natura denaro, il denaro è per natura oro e argento, scrive Marx
(Marx MEOC XXXI, p. 102), citando se stesso da Per la critica
dell’economia politica. Il punto rimanda in modo palese alla distinzione
tra feticismo e carattere di feticcio. Ma è legato anche al significato
speciale che Marx dà all’aggettivo natürwuchsig, l’
‘oggettualità’ cosale che appare ‘naturale-spontanea’, anche se è piuttosto il
risultato di un’attività umana.
[30] Schulz 2011 giustamente osserva: “the central features of the
fetish character of the commodity and fetishism reappear in other
forms of bourgeois production, namely money and capital. These
features do even appear in greater clarity in money and capital than
they do in the simple commodity.”
[31] Il passo è citato nella sua
interezza nel paragrafo conclusivo.
[32] “‘Capital is dead labour which, vampire-like, lives only by
sucking living labour, and lives the more, the more labour it sucks.’ Marx’s
analogy unravels the vampire metaphor. As everyone knows, the vampire is dead
and yet not dead: he is an Un-Dead, a ‘dead’ person who yet manages to live
thanks to the blood he sucks from the living. Their strength becomes his
strength. The stronger the vampire becomes, the weaker the living become: ‘the
capitalist gets rich, not, like the miser, in proportion to his personal labour
and restricted consumption, but at the same rate as he squeezes out
labour-power from others, and compels the worker to renounce all the enjoyments
of life.’ Like capital, Dracula is impelled towards a continuous growth, an
unlimited expansion of his domain: accumulation is inherent in his nature”. (Moretti
1982, p. 73)
[33] Va da sé che capita anche a
chi scrive di scivolare talora nel medesimo errore!
[34] “Per esercitare
praticamente l’azione di un valore di scambio, la merce deve spogliarsi del
proprio corpo naturale, trasformarsi da oro solo rappresentato in oro
effettuale, benché questa transustanziazione le possa risultare più ‘amara’ di
quanto sia al ‘concetto’ hegeliano il passaggio dalla necessità alla libertà”
[Marx MEOC XXXI, p. 116). Visto che Marx contesta la legge di Say, questo
miracolo (che comporta il passare per la merce da denaro ideale a denaro reale)
è necessario, ma la sua riuscita è casuale.
[35] Dracula (unlike Vlad the Impaler, the historical Dracula, and
all other vampires before him) does not like spilling blood: he needs blood. He
sucks just as much as is necessary and never wastes a drop. His ultimate aim is
not to destroy the lives of others according to whim, to waste them, but to use
them. Dracula, in other words, is a saver, an ascetic, an upholder of the
Protestant ethic. And in fact he has no body—or rather, he has no shadow. His
body admittedly exists, but it is ‘incorporeal’—‘sensibly supersensible’ as
Marx wrote of the commodity, ‘impossible as a physical fact’, as Mary Shelley
defines the monster in the first lines of her preface. In fact it is
impossible, ‘physically’, to estrange a man from himself, to de-humanize him.
But alienated labour, as a social relation, makes it possible. So too there
really exists a social product which has no body, which has exchange-value but
no use-value. This product, we know, is money.” (Moretti 1982, p. 73)
[36] Sul punto si veda quanto dico in Bellofiore 1996, in una ripresa che
è anche una critica di Lucio Colletti. La tesi di
Marx è che il capitale può essere prodotto e riprodotto in quanto sussiste
una separazione reale interna al lavoro salariato. Esso è, a
un tempo, capacità lavorativa acquistata dal capitale
variabile, e lavoro vivo che dà luogo all’intero neovalore prodotto.
In questo senso è vero, con Colletti , che il lavoro (salariato) è per Marx,
insieme, parte del capitale (se si guarda alla quota del
lavoro morto che riproduce la forza-lavoro, al capitale variabile),
e tutto il capitale (se si guarda al lavoro vivo che dà
origine al neovalore, e perciò al nuovo capitale). A quella
separazione reale non corrisponde tuttavia, come ha creduto Colletti, alcuna
contraddizione dialettica, per cui la medesima categoria, il lavoro, avrebbe
come predicato due determinazioni logicamente esclusive (A, non-A), l’essere a
un tempo il tutto e la parte, violandosi così il principio di non
contraddizione. L’espressione ‘lavoro’ infatti riveste due significati
differenti quando, da un lato, è inteso come quota parte del capitale, e,
dall’altro lato, è inteso come l’origine dell’intero capitale. Nel primo caso,
si tratta del lavoro come forza-lavoro; nel secondo caso, del
lavoro come attività. Lungi dall’essere identificabili, le due
accezioni denotano dati di fatto distinti, entrambi positivi, esistenti e reali
fuori dal pensiero. Dati di fatto talmente distinti, si può aggiungere, da
intervenire addirittura in luoghi diversi, e in fasi successive, del ciclo del
capitale. La forza-lavoro viene ceduta nelmercato del lavoro,
e trova il corrispettivo reale della sua retribuzione nel mercato delle
merci; il lavoro vivo valorizza nel processo di lavoro
capitalistico. È vero, d’altra parte, che in quanto la capacità
lavorativa e la prestazione effettiva di lavoro non possono essere disgiunti
dal loro legame con la figura del lavoratore in carne e ossa , portatore
vivente della forza-lavoro – in quanto dunque il lavoro in atto realizza la
‘potenza’ della forza-lavoro, a sua volta inseparabile dal lavoratore – si può
ben dire che quelle due determinazioni realmente separate siano ‘unite’ da un
‘nesso interno’. In questo senso è lecito parlare di
‘contraddizione reale’. Se il lavoratore, contro il ‘giusto’
diritto del capitale di consumare a suo piacimento il valore d’uso che ha
acquistato, fa valere la circostanza che il lavoro è il suo lavoro
– che l’avvenuta vendita di ‘lavoro’ (ma in realtà, più precisamente, di
forza-lavoro) sul mercato del lavoro nonsignifica, per così dire
automaticamente, prestazione di lavoro nella quantità e qualità adeguata – la
contraddizione ‘esplode’. La separazione reale cui fa riferimento Marx, non può
mai compiersi fino in fondo: rimane sempre allo stato tendenziale.
È su questa dinamica ‘contraddittoria’ – della spinta all’estrazione del
massimo possibile di lavoro vivo dalla forza-lavoro da parte del capitale, per
un verso; e della resistenza antagonistica da parte del lavoro come classe, per
l’altro verso – che Marx eleva la compatta architettura dei tre libri del Capitale.
[37] La categoria di Marx nel
capitolo 10 de Il Capitale, Libro 3, è in verità definita come la
‘domanda ordinaria’.
[38] Il mio punto di vista è che
il processo deduttivo, interno alle determinazioni del concetto di merce o di
capitale, è costretto a un certo punto ad uscire da se stesso e
a ricorrere ad un qualcosa che sta fuori da esso, ma che tale ‘apertura’ della
totalità, tale rimando alla storia e ad una dimensione ‘empirica’ (e in ultima
natura politica), sono imposti per così dire dalla stessa strutturazione logica
della argomentazione, come anche dalla stessa natura dell’oggetto di
conoscenza. Ciò avviene senz’altro nei casi del passagio dall’equivalente
universale al denaro (cioè alla circostanza che sia l’oro a ricoprire quel
ruolo). Ma poi anche con riferimento alle due merci speciali (la forza-lavoro,
la giornata lavorativa, il capitale portatore di interesse, e così via). E deve
essere, secondo me, esteso alla deteminazione politica della stessa domanda
ordinaria (effettiva). Qualcosa del genere mi pare sia stato sostenuto, per la sola
deduzione della merce e del denaro, da Cesare Luporini (1974, pp. 241-243) in
“Marx secondo Marx”, e affermato da lui, giustamente, come essenziale alla
dimensione della ‘criticità’ de Il Capitale. Ovviamente questo
apre, e non chiude, la questione della articolazione delle due dimensioni.
[39] Suchting 1997 suggerisce
anche, in modo del tutto appropriato, un’analogia bachtiniana, secondo cui gli
enunciati devono essere compresi come spezzoni di un ‘dialogo’ tra diverse
‘voci’, in un contesto definito. È chiaro che gli interlocutori impliciti
principali del ‘dialogo’ marxiano erano soprattutto Hegel e Ricardo. Gli
interpreti hanno il compito di ricostruire quel dialogo. È
evidente che dall’una e dall’altra prospettiva – quella freudiana e quella
bachtiniana – ogni battaglia condotta con la mera esegesi testuale, o con un
approccio esclusivamente filologico, che pretenda di ricondurci a un Marx
incorrotto, e che si reputi indipendente dal ruolo attivo del lettore, è del
tutto futile e inconcludente.
[40] Moishe Postone (2011, p. 8), anche lui dopo aver citato dal
quarto capitolo, scrive qualcosa di analogo: “Marx explicitly characterizes
capital as the self-moving substance that is Subject. In so doing, he
implicitly suggests that a historical Subject in the Hegelian sense
does indeed exist in capitalism” (p. 8, corsivi miei). E ancora: “the
social relations that characterize capitalism are of a very peculiar
sort – they possess the attributes that Hegel accords the Geist […]Marx’s
Subject is like Hegel’s: it is abstract and cannot be identified with any
social actors; moreover, it unfolds temporally independent of will.’ (p. 9).
Sfortunatamente, il punto di vista più generale di Postone nei suoi lavori, di
grande utilità, è però viziato dal fatto di dare poco rilievo agli aspetti
monetari del sistema marxiano, come anche dalla sua cecità rispetto al
processo fondamentale di ‘costituzione’ del capitale nei processi
capitalisti di lavoro come luoghi ‘contestati’. Di conseguenza, la critica di
Postone allo standpoint of labour è convincente solo a metà,
perché perde la dimensione dentro e contro essenziale per una fondazione
materialistica della critica del produttivismo, che consenta un rapporto
positivo con il pensiero verde sulla questione della natura e con il pensiero
femminista sulla questione di genere.
[41] Smith (1993) cita Backhaus,
Reichelt, e Schmidt, come tre interpreti che hanno messo in evidenza il
rapporto tra la teoria del valore marxiana e la dialettica hegeliana.
Sfortunatamente, il filosofo statunitense non conduce un confronto dettagliato
(e nemmeno superficiale, se è per questo) con questi autori. Non sembra nemmeno
trovare molto di interessante in Colletti come interprete del rapporto tra Marx
e Hegel. Nel corso degli anni ho imparato molto da Smith, ma la sua lettura del
capitale come pseudo-soggetto – un concetto che, lo confesso, non
trovo particolarmente illuminante – mi fa rammaricare che non abbia preso
seriamente questo filone interpretativo.
[42] Leggo nel medesimo senso
una frase all’apparenza opposta di Alfred Schmidt: “La specificità del metodo
del Marx maturo […] consiste nella verifica, ottenuta per via logica,
della forza esplosiva della dialettica storica.” (Schmidt 1971, p. 82)