Marx assume qui – dalla tradizione lockeana – la definizione “classica”, laica e liberale della proprietà privata. È la definizione propria dell’individualismo possessivo. Macpherson (come noto) ha ampiamente studiato l’individualismo possessivo: in questa
prospettiva l’individuo era considerato libero nella misura in cui fosse proprietario della propria persona e delle proprie capacità, l’essenza dell’uomo consisteva nel non dipendere dalla volontà altrui e la libertà era funzione di ciò che individualmente si possiede. (Non molto diversa, sia detto per inciso, era la concezione della libertà Harrington e in Winstanley, autori per altro ai quali volentieri ci richiamiamo poiché il telos collettivo del loro ragionamento incentivava un progetto comunista).
La società consiste dunque di relazioni di scambio tra proprietari. La società politica diviene una macchina progettata al fine di difendere la proprietà privata e di mantenere una ordinata relazione di scambio. Se allarghiamo lo sguardo e poniamo Hobbes, come giustamente fa Macpherson, al centro teorico dell’individualismo possessivo – laddove esso è sviluppato in termini universali – eccoci allora ad apprezzare la definizione della libertà individuale (e quindi la definizione della proprietà come traduzione economica della libertà stessa) con grande rigore elaborata da questo: “The Value, or WORTH of a man, is as of all other things, his Price ; that is to say, so much as would be given for the use of his Power …” (Leviathan, ed. 1651, c. X, p. 42).
Si sa tuttavia quanto oggi il lavoro sia profondamente cambiato rispetto alla definizione dell’individualismo possessivo: sarà cambiato anche il concetto di proprietà privata? Meglio, in che senso, in che verso dovremmo trasformare la critica della proprietà? Per rispondere, vediamo prima come cambia il lavoro e per evitare ingenui riferimenti a fonti critiche italiane (che sempre in Italia risultano – chissà perché – fastidiosi) rileggiamo Robert Castel, Manuel Castells e innumerevoli altri, ben riassunti da Luc Boltanski e Eve Chiappello (Le Nouvel esprit du capitalisme – 1999), un libro dove si analizzano conclusivamente le nuove forme del lavoro produttivo oggi. Esso si realizza e valorizza in un mondo di reti comunicative e di connessioni informazionali sempre più evidenti; si lavora, conseguentemente, in forme sempre più flessibili e mobili, precarie dal punto di vista salariale – e la dimensione lavorativa viene sempre più segnata dall’indeterminazione dei tempi e degli spazi, dall’inquietudine e dell’anomia. Quanto alla valorizzazione, essa si realizza attraverso flussi cooperativi, dove linguaggi e affetti sono sussunti nei processi materiali della produzione ed il lavoro (il c.d. capitale variabile) si scambia sempre più frequentemente con il macchinario (il c.d. capitale fisso). Che è come dire: la qualità del lavoro è segnata da figure sempre più singolari che si combinano in maniera cooperativa con il capitale costante, poiché si appropriano autonomamente di frazioni o di tempi, di usi o di funzioni del capitale fisso. Il lavoro è dunque cambiato in maniera radicale da come era stato descritto e da come ontologicamente si poneva nell’epoca dell’individualismo possessivo. Le forme del rapporto tra attività e proprietà sono dunque anch’esse radicalmente mutate? Certo. Che cosa resta allora, ontologicamente, del concetto di proprietà privata?
Val la pena di sottolineare che non è la prima volta che tale modificazioni si danno: già in epoca industriale (quando cioè l’archeologia dell’accumulazione originaria sfiorisce e s’impone, con il moderno, l’egemonia della grande industria) il rapporto fra il lavoro e proprietà privata si era profondamente modificato. Man mano le teorie imprenditoriali, manageriali dell’industria avevano spostato il concetto di proprietà verso una funzione gestionaria. Il realismo americano dell’inizio del XX secolo aveva seguito con molta chiarezza queste modificazioni.
Con l’ultima modificazione, di cui con Boltanski si è detto, la trasformazione del concetto di proprietà (in quanto collegata a quella di lavoro) diviene ontologicamente estrema – e non si comprende come della definizione hobbesiana (ed in parte di quella marxiana) non si riconosca la definitiva obsolescenza – ed una sopravvivenza puramente ideologica. Si sottolinei tuttavia l’insuperabile vantaggio che – pur nel superamento del suo concetto di lavoro – il discorso marxiano mostra nei confronti dell’hobbesiano. Marx infatti non tiene stretta solo l’idea di libertà e di proprietà ma – leggendo dinamicamente il concetto di quest’ultima – connette anche l’idea di lavoro e quella di proprietà, permettendoci così di procedere ben oltre l’individualismo possessivo. Avanziamo dunque, anche noi, sul terreno della definizione della proprietà tenendo presente l’equazione marxiana lavoro-proprietà.
Il mutamento del lavoro (al quale ci siamo riferiti con Boltanski) rinnova dunque fondamentalmente l’interrogazione sul concetto di proprietà privata. Esso si presenta su un terreno ambiguo sul quale gli elementi dell’attività materiale ed immateriale (il lavoro fisico e quello intellettuale), le dimensioni individuali e sociali, le qualità singolari e cooperative si scambiano confusamente nei processi produttivi (tanto più in quelli di sfruttamento) – e dove (come abbiamo ricordato) financo porzioni di capitale fisso sono di volta in volta appropriate dalla forza-lavoro o strappate (estratte) dal comando padronale alla metamorfosi del lavoro produttivo. Inoltre indipendenti processi di soggettivazione funzionano all’interno di queste trafile dell’accumulazione capitalista inducendovi originali eccedenze e/o innovazioni.
A questo punto c’è da chiedersi se il concetto di proprietà privata abbia ancora ontologicamente senso. In realtà, il rapporto tra lavoro e proprietà sembra ormai costituito, nella società a rete, quando le mura della fabbrica cedono, quando il lavoro si raffigura tendenzialmente come relazione di servizio e le connessioni produttive si distendono nella metropoli, quando il valore è astratto dall’intero livello produttivo-sociale – bene, la proprietà privata sembra essere divenuta concetto contingente, privo di necessità: sono infatti la moneta, quindi il capitale finanziario e l’azione pubblica, che sembrano qui stabilire ogni rapporto fra lavoro e comando (proprietà?).
Si realizza così una nuova convenzione proprietaria e la regola finanziaria s’impone qui per ridefinire la proprietà. È il possesso di moneta – la convenzione finanziaria – che si pone come norma regolatrice delle attività sociali e produttive e, quindi, come accesso ad una “realtà proprietaria” alla quale la confusione concettuale non toglie efficacia. La proprietà diventa cartacea, monetaria o azionaria, mobile e/o immobiliare, ha natura convenzionale e giuridica. André Orléan e Christian Marazzi hanno insistito opportunamente su questa trasformazione. Si tratta di considerare la convenzione finanziaria come un comando indipendente da ogni determinazione ontologica: la convenzione fissa e consolida un “segno proprietario” (nei termini della “proprietà privata”: vedi soprattutto Leo Specht) e quand’anche contemporaneamente si presenti come “crisi”, come “eccedenza” non semplicemente rispetto alle vecchie e statiche determinazioni del valore-lavoro ma soprattutto in riferimento a quell’“anticipazione” e a quell’“incremento” continui che gli sono propri nel confrontarsi con la captazione finanziaria del valore socialmente prodotto e nell’operare alla sua estensione sul livello globale, pure essa regge.
Sia chiaro quindi che, in questa nuova configurazione della regola proprietaria, permane la base materiale della legge del valore. E tuttavia non si tratta di lavoro individuale che diviene astratto, ma di lavoro immediatamente sociale, comune, direttamente sfruttato dal capitale. La regola finanziaria può porsi in maniera egemone perché nel nuovo modo di produzione il comune è emerso come potenza eminente, come sostanza dei rapporti di produzione, e va sempre più invadendo ogni spazio sociale come norma di valorizzazione. Il capitale finanziario insegue questo estendersi del profitto, cerca di anticiparlo, incalza la rendita mobiliare e immobiliare e le anticipa come rendita finanziaria. Bene dice Harribey, discutendone con Orléan, se il valore non si presenta più qui in termini sostanziali, non si mostra neppure come una semplice fantasmagoria contabile: è il segno di un comune produttivo, mistificato ma effettivo, che si sviluppa sempre più intensivamente ed estesamente.
Meglio dunque che parlare di funzione sociale della proprietà, sarà forse parlare delle proprietà sociali del lavoro poiché la funzione sociale della proprietà sembra oggi esser rifluita verso il capitale fino a configurarsi come sua figura finanziaria. Siamo immersi in questa struttura avvolgente ma anche sommamente caotica.
Solo il riconoscimento delle proprietà sociali del lavoro può modificare questo quadro. Ma noi non possiamo considerarle senza provare a sbrogliare una serie di paradossi che l’attuale condizione dello sviluppo capitalista propone. Quali paradossi? Che cosa s’intende per paradossi? Contraddizioni difficilmente superabili in questo ambiente caotico. Esse sono sottoposte a governance eccezionali nel tentativo, sempre criticamente insoluto, di ristabilire un equilibrio concettuale e un’efficacia funzionale.
Ora, un primo paradosso riguarda la produzione e consiste nel fatto che il capitalismo finanziario rappresenta la forma più astratta e distaccata di comando nel momento stesso in cui concretamente investe la vita intera. La “reificazione” della vita e l’“alienazione” dei soggetti vengono prodotte da un comando produttivo che è – nel nuovo modo di produrre, organizzato dal capitale finanziario – divenuto del tutto trascendente, sopra una forza-lavoro cognitiva – che tuttavia, quando è obbligata a produrre plusvalore, proprio perché cognitiva, immateriale, creativa, non immediatamente consumabile, si rivela autonomamente produttiva.
Il paradosso si presenta in maniera piena quando si consideri che, essendo la produzione essenzialmente fondata sulla “cooperazione sociale” (sia informatica, sia nelle pratiche di cura, sia nei servizi etc.), la valorizzazione del capitale non si scontra più semplicemente con la massificazione del “capitale variabile” ma con la resistenza e l’autonomia di una moltitudine che si è riappropriato di una “parte” del capitale fisso (presentandosi quindi, se volete, come “soggetto macchinico”) e di una continua “relativa” capacità di organizzare le reti lavorative sociali.
Questo paradosso e contraddizione contrappongono in maniera violentissima il “capitale costante” (nella sua forma finanziaria) e il “capitale variabile” (nella forma ibrida che assume avendo incorporato “capitale fisso”) – e quindi tendenzialmente implementa la verticalizzazione del comando.
Il secondo paradosso è quello della proprietà. La proprietà privata (quella che definiamo giuridicamente come tale) tende ad essere assoggettata sempre di più alle figure della rendita. La rendita nasce oggi essenzialmente da processi di circolazione monetaria che si effettuano nei servizi del capitale finanziario e/o in quelli del capitale immobiliare – oppure dai processi di valorizzazione che si realizzano nei servizi industriali.
Ora, quando i beni (privati) si presentano come servizi, quando la produzione capitalistica si valorizza essenzialmente attraverso i servizi, la proprietà privata sfuma le sue tradizionali caratteristiche di “possesso” e si rappresenta piuttosto come comando sulla (e/o sfruttamento della) cooperazione che costituisce e rende produttivi i servizi.
Di qui deriva, per i cosiddetti poteri pubblici, l’urgenza di manifestarsi (in maniera estrema, trascendente) come poteri sovrani – al fine di restituire alla proprietà privata quella funzione valorifica e legale (giuridica) che la trasformazione della produzione sociale tende a sottrarle. Ma, nelle società postindustriali, la mediazione pubblica dei rapporti di classe risulta sempre più difficile, perché la sovranità stessa è stata privatizzata (patrimonializzata dal capitale finanziario) per la stessa ragione per la quale la proprietà privata si è dissolta, è divenuta non più possesso ma uso di un servizio. Così il pubblico sovrano non si scontra più con le corporazioni, i sindacati, le istanze collettive del lavoro (che si rappresentavano essi stessi come soggetti privati), ma con la cooperazione e la circolazione sociale di figure che si compongono e si ricompongono continuamente nella produzione materiale e nella produzione cognitiva: insomma, con quello che chiamiamo “comune”. Non è dunque solo la progressiva “patrimonializzazione privata” dei beni pubblici che distrugge l’istituto della pubblica proprietà ma anche la dinamica ontologica che, a seguito della dissoluzione del privato, questa mette in moto: vale a dire la deriva continua della gestione del pubblico nell’emergenza, lo scivolamento dell’emergenza nella corruzione, la distruzione del comune nel potere di eccezione.
Il pubblico sovrano si pone ormai solo in maniera paradossale e piuttosto si dissolve a fronte del comune che emerge, appunto, all’interno dei processi di produzione sociale e nella cooperazione valorizzante. Quando ancora compare, il pubblico sovrano, si tratta di una pura mistificazione del comune.
Il terzo paradosso è quello che il biocapitale verifica nel suo confronto con i corpi dei lavoratori. Qui lo scontro, la contraddizione, l’antagonismo si fissano quando il capitale (nella fase postindustriale, nell’epoca in cui diviene egemone il capitale cognitivo) deve mettere direttamente in produzione i corpi umani facendoli diventare macchine, non più semplicemente merce-lavoro. Così (nei nuovi processi di produzione) sempre più efficacemente i corpi si specializzano e conquistano autonomia sicché, attraverso la resistenza e le lotte della forza-lavoro macchinica, si sviluppa sempre più espressamente la richiesta di una produzione dell’uomo per l’uomo, cioè per la macchina vivente “uomo”.
In effetti, nel momento in cui il lavoratore si riappropria di una parte del “capitale fisso” e si presenta, in maniera variabile, spesso caotica, come attore cooperante nei processi di valorizzazione, come “soggetto precario” ma “autonomo” nella valorizzazione del capitale, si dà una completa inversione nella funzione del lavoro rispetto al capitale: il lavoratore non è più solo lo strumento che il capitale usa per conquistare la natura – che vuol dire banalmente produrre merci; ma il lavoratore, avendo incorporato lo strumento, essendosi metamorfosato dal punto di vista antropologico, riconquista “valore d’uso”, agisce macchinamente, in un’alterità ed autonomia dal capitale, che vogliono divenire complete. Tra questa tendenza oggettiva e i dispositivi pratici di costituzione di questo lavoratore macchinico, si colloca quella lotta di classe che ormai possiamo dire “biopolitica”.
Tutti e tre questi paradossi restano irrisolti nell’azione del capitale. Di conseguenza, quanto più la resistenza diviene forte, tanto più diventa duro il tentativo di restaurazione del potere da parte dello Stato. Ogni resistenza viene quindi condannata come esercizio illegale di contropotere, ogni manifestazione di rivolta viene definita devastazione e saccheggio. Ulteriore paradosso – ma questa volta è pura mistificazione – nell’esercitare il massimo di violenza, il capitale ed il suo Stato hanno la necessità di mostrarsi come figura inevitabile e neutra: il massimo della violenza è esercitato da strumenti e/o da organi “tecnici”. “Non c’è alternativa”, proclamava la Thatcher.
Come agire politicamente dentro questi paradossi? Confrontandosi al “paradosso della produzione”, si tratta fondamentalmente di sviluppare “autovalorizzazione”, riappropriandosi progressivamente, sempre più decisamente, del capitale fisso impiegato nei processi produttivi sociali. Resistenza, autovalorizzazione e appropriazione, dunque, contro il moltiplicarsi delle operazioni di cattura-privatizzazione che vengono sviluppandosi. Riappropriarsi del capitale fisso significa costruire “comune” – comune contro l’appropriazione capitalista della vita, comune come sviluppo di “usi” civici e politici, come capacità di gestione. Sapere e reddito sono obbiettivi che qualificano in maniera fondamentale il proletariato cognitivo – sono dall’inizio obbiettivi “politici” tanto quanto lo era l’aumento salariale per il lavoratore industriale. (“La lotta contro la riduzione del salario relativo [ e cioè oggi, per un reddito sociale] significa anche lotta contro il carattere di merce della forza-lavoro, cioè contro la produzione capitalistica presa nel suo insieme. La lotta contro la caduta del salario relativo non è più una battaglia sul terreno dell’economia mercantile ma un attacco rivoluzionario alle fondamenta di questa economia; è il movimento socialista del proletariato” – Rosa Luxemburg).
È in questa rubrica che vanno riprese, studiate, e ripetute le esperienze fatte nell’agitazione militante sui referendum per conquistare i “beni comuni”.
Confrontandosi poi al paradosso della proprietà, qui non sembrano darsi altre vie che quelle che spingono al confronto ed allo scontro con i poteri monetari e finanziari. Se la moneta è mezzo di conto e di scambio difficilmente eliminabile, gli va tuttavia tolta la possibilità di essere strumento di accumulazione di potere contro i produttori. Come si possono imporre alla Banca centrale le finalità di una produzione dell’uomo per l’uomo, di piegarsi cioè ad una configurazione biopolitica degli assetti sociali. Il problema non è tanto quello di separare le “banche di deposito” da quelle “di investimento”, quanto quello di dirigere risparmio ed investimento verso equilibri che garantiscano la produzione dell’uomo per l’uomo. Questa è battaglia politica da ingaggiare subito. Essa consiste – questa volta senza resipiscenze ideologiche e senza indugi – nel rifiutare la governance monetaria del biopotere, cioè nell’introdurre la possibilità di una rottura e nell’imporle una dimensione “democratica”. Una “moneta del comune” è quella che garantisce la riproduzione e la quantità di reddito necessario ad ogni cittadino ed il sostegno alle forme di cooperazione che costituiscono la moltitudine.
Torniamo ora sull’ultimo “paradosso”: quello “fra biocapitale e corpi” dei lavoratori. Qui la contraddizione non è superabile se non con l’eliminazione di uno dei due poli : e poiché il capitalista non può fare a meno del lavoratore se vuole costruire profitto e poiché il lavoratore non è mai “nuda vita”, del tutto manipolabile, ma è sempre “lavoro vivo”, il paradosso sarà superabile solo eliminando il capitalista.
È dunque questo il terreno proprio della politica, il terreno della decisione sugli indecidibili, con tutti i suoi andare e venire, stringersi ed allargarsi, uccidere e far vivere, fascismo e democrazia. Questo dalla parte del potere. Ma è anche il terreno costituente da parte dell’insieme dei corpi-macchina, singolarissimi, mostruosi, nel loro agire. Per questi corpi far politica è costituire “istituzionalmente” la moltitudine, cioè strappare le singolarità alla solitudine ed istaurarle nella moltitudine, ovvero trasformare l’esperienza sociale della moltitudine in istituzione politica. Questo passaggio prende materialmente il luogo di quell’operazione idealistica che colorava il concetto di “coscienza di classe”. Ma deve anche superare il moderno modello borghese – 7, 8, e novecentesco – del rapporto fra potere costituente e potere costituito – non perché l’azione costituente venga meno, ma perché non può più essere chiusa nella ricostruzione dell’Uno del potere. Non si fanno rivolte per prendere il potere ma per tenere sempre aperto un processo di contropoteri, sfidando i dispositivi di cattura sempre nuovi che la macchina capitalista produce. È su questo terreno che la rappresentanza sovrana va in crisi perché (attratta nel meccanismo della sovranità, distillata nella puzzolente e magica alchimia elettorale) non regge il confronto con la verità e la ricchezza della nuova composizione sociale.
La mia impressione è che oggi (sul fronte costituzionale europeo), noi dobbiamo innalzare contrafforti reali a fronte delle costituzioni neoliberali che ci vogliono imporre. Una “controdemocrazia”, conflittuale, che viva di rivendicazioni e protesta, di resistenza e di indignazione – basta con il costituzionalismo “normativo”, abbiamo bisogno e costruiamo democrazie biopolitiche, costituzioni economiche, materiali che non vivono e si trasformano in macchine oppressive attraverso il filtro della legalità e della formalità giuridica – ma si svolgono attraverso investimenti di “denaro comune”, rivolti al continuo riequilibrio dei rapporti sociali, ponendo i poveri al posto dei ricchi, e creando una vita piegata dall’uomo al servizio dell’uomo.
E qui bisogna affermare chiaramente, alla faccia di tutti i Nobel dell’economia, che anche una produttività crescente è solo frutto di una società uguale e felice. Di una società del “rifiuto del lavoro”.
A questo punto, tuttavia, torniamo a noi. Cerchiamo di comprendere cosa voglia dire, in questa nuova situazione, desiderare di essere proprietari, che cosa possa essere – per un lavoratore, per ciascuno di noi – essere proprietario. Tutto ciò, muovendo da una condizione lavorativa che si dà dentro l’ambiente di connessioni o di reti, di servizi e di soggettivazioni che abbiamo definito. Qui l’attività lavorativa è immediatamente immessa in una rete cooperativa. Il lavoro del singolo può solo valorizzarsi – ma anche semplicemente realizzarsi sul mercato – quando esso cooperi con altre singolarità che partecipano del tessuto produttivo. Generalizzando, chiamiamo questa comunanza attiva “moltitudine”, e cioè un insieme di singolarità cooperanti; e notiamo che è quando si realizza una tale condizione di cooperazione, che la moltitudine diviene produttiva.
Di qui l’osservazione che la costituzione produttiva della moltitudine si svolge in maniera assai complessa. Ogni singolarità infatti si riappropria nella cooperazione di una porzione specifica di capitale fisso, ma questa riappropriazione può diventare produttiva solo quando sia immersa nella struttura della cooperazione sociale.
Qual è dunque la pretesa ad un quantum di appropriazione che, una volta immersa nella produzione sociale, il soggetto può esprimere? Il ricordo va ad una polemica d’altri tempi fra Kelsen e Pashukanis, quando Kelsen, interpretando il secondo, lo accusa di considerare tutto il diritto come diritto privato. In effetti, Pashukanis assumeva ancora l’individualismo possessivo come base (a partire dal diritto privato) dell’intera struttura giuridica della società, e quindi considerava la sovranità come proiezione della proprietà privata – tanto quanto, appunto, la proprietà privata era condizione della sovranità. Ma è chiaro che queste relazioni assumevano in lui, in quanto viveva politicamente la realtà del socialismo nascente, l’urgenza di trovare nel lavoro del singolo cittadino, attraverso la domanda di proprietà privata, il bisogno del comune. Ora, per noi, che quando esprimiamo desiderio proprietario ci riferiamo alle strutture finanziarie come al concetto della proprietà privata oggi, non facciamo che interpretare il bisogno di stare insieme, di produrre insieme. Ed è in questo senso che probabilmente Harrington et Winstanley vanno ripresi qui da noi.
Quando la finanza costituisce la totalità del lavoro sociale, in quanto esso è dato come continuità relazionale nel tempo e nello spazio di un lavoro mobile, flessibile, precario – l’istanza proprietaria rivendica al lavoro un valore che consiste nella sua socializzazione.
Si noti qui che affermando questa relazione mutevole di lavoro e proprietà nel formarsi del concetto e nello stabilirsi dell’ontologia del comune, escludiamo ogni figura totalizzante, ogni nostalgia medievalizzante della proprietà, privata o pubblica che sia – ma anche comune. È il lavoro che crea e modifica la proprietà. La proprietà quindi non potrà più darsi come concetto sostanziale, né il rapporto tra lavoro e proprietà potrà più fantasticarsi come Gemeinschaft (così come in questa prospettiva non possono darsi concetti come massa, popolo, nazione, ecc.).
Il paradosso della proprietà privata si scontra qui allora con la realtà del comune. Un comune che non definisce più solo la dinamica delle forze produttive, delle singolarità produttive immerse nella relazione sociale ma che rappresenta anche (e rende istituzionale dal punto di vista monetario) quel medesimo processo. C’è dunque un’ontologia, per così dire, “cattiva” del comune che può manifestarsi come funzione monetaria della proprietà, come massificazione anomica del lavoro e come identità populista delle soggettività; ma c’è anche (e comincia a divenire potente nelle coscienze) una figura “buona” del comune che si manifesta come desiderio di cooperazione moltitudinaria delle singolarità impiegate nel processo produttivo, di democratizzazione a partire dal basso delle attività di governo e di nuove costituzioni del vivere comune.
A me sembra che le conclusioni alle quali arrivo, possano essere (facilmente) tradotte in quelle alle quali arriva Rodotà. Entrambi riteniamo – credo – che il soggetto reclami il collettivo e la solidarietà – e pensiamo che il collettivo è composto da singolarità (non massa, e cioè appiattimento delle differenze, ma moltitudine e cioè composizione delle differenze). Se il comune non vuol essere organico, se non vuole assumere un’essenza identitaria, deve essere desiderato come uscita dalla solitudine, come produrre nella cooperazione, come esistere nell’eguaglianza e nella solidarietà. Il diritto di avere – di realizzare – diritti s’impianta – ha questa sorgente.
In questo senso possiamo riprendere il testo marxiano dal quale eravamo partiti, verificando ancora una volta la potenza della sua intelligenza rivoluzionaria. Possiamo infatti ora riconoscere al lavoro, trasformato attraverso il lavoro, di essere divenuto il fondamento non dell’affermazione della proprietà privata ma della sua soppressione, di aver tolto a quest’ultima la capacità di essere fonte creativa di se stessa. La soppressione del lavoro individualizzato e massificato a favore della singolarizzazione sociale e cooperativa modifica interamente la realtà dell’organizzazione del lavoro. Sarà nostro compito avanzare su questo terreno sociale per portare a chiarezza lo svuotamento definitivo dei poteri legati alla proprietà privata.
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