Ricardo Antunes | L’ampio
processo di ristrutturazione del capitale, scatenato su scala globale agli
inizi degli anni Settanta, mostra chiaramente un significato multiforme,
presentando tendenze di intellettualizzazione della forza lavoro, specialmente
nelle cosiddette tecnologie dell’informazione e della comunicazione, e, su
scala globale, accentuando i livelli di precarizzazione e informalità dei
lavoratori e delle lavoratrici. La nostra ipotesi centrale è che, al
contrario della retroazione o descompensazione della legge del valore, il
mondo capitalista contemporaneo sta assistendo a un significativo ampliamento
dei suoi meccanismi di funzionamento, in cui il ruolo svolto dal lavoro
– o ciò che vado denominando nuova morfologia del lavoro – è
emblematico.
Nell’era della finanziarizzazione e
della mondializzazione, l’analisi del capitalismo ci obbliga a comprendere che
le forme vigenti di
valorizzazione del valore mantengono saldi
nuovi meccanismi generatori di lavoro eccedente, attraverso i quali, nello
stesso tempo, un’infinità di
lavoratori vengono espulsi dalla produzione,
diventando eccedenti, scartabili e disoccupati. E questo processo è molto ben
funzionale per il capitale, perché permette l’ampliamento, su larga scala,
della bolla di disoccupati. Questo riduce ancora di più, su scala globale, la
remunerazione della forza lavoro, attraverso la retroazione salariale di quei
salariati e salariate che si trovano occupati.
Nel pieno dell’esplosione della più
recente crisi globale, che colpisce centralmente i paesi del Nord del mondo, il
quadro si amplia significativamente e ci mostra un’enorme “spreco” di forza
lavoro umana; si tratta di una corrosione maggiore di lavoro a contratto e di
quello regolamentato di matrice tayloriano-fordista, che è stato a lungo
dominante durante il XX secolo.
Stiamo assistendo a una processualità
multitendenziale, parallelamente all’ampliamento di grandi contingenti che
diventano intensamente precari o che perdono il loro impiego; stiamo assistendo
anche a una espansione di nuovi modi di estrazione del superlavoro o del plusvalore,
e modalità capaci di articolare un macchinario altamente avanzato – di cui sono
esempio le tecnologie di comunicazione e di informazione – che hanno invaso il
mondo delle merci. Queste attività sono dotate di maggior “qualificazione” e
“competenze”, essendo fornitrici di maggiore potenzialità intellettuale (qui
intesa nel suo ristretto significato dato dal capitale), integrandosi con
il lavoro sociale, complesso e combinato, che effettivamente
aggiunge valore. In altri termini, è come setutti gli spazi esistenti di
lavoro fossero potenzialmente convertiti in generatori di plusvalore, a
partire da quelli che ancora mantengono tratti di formalità e contrattualità,
fino a quelli che si caratterizzano per l’aperta informalità, nella
frangia integrata al sistema. Non è importante se le attività
realizzate sono prevalentemente manuali o più accentuatamente
“intellettualizzate”, cioè “dotate di conoscenza”.
Così, in questo universo caratterizzato
dalla sussunzione del lavoro al mondo meccanizzato (sia con la
permanenza della macchina-strumento automatica del XX secolo, sia con la
macchinainformatica-digitale dei nostri giorni), il lavoro stabile, erede della
fase tayloriano-fordista, relativamente modellato dalla contrattazione e
regolamentazione, si va sostituendo con i più distinti e diversificati modi di
informalità; alcuni esempi sono: il lavoro atipico, i lavori
terziarizzati (con la loro enorme gamma e varietà), il “cooperativismo”,
l’“impreditorismo”, e il “lavoro volontario”. Nel momento stesso in cui
abbraccia i più distinti modi di essere dell’informalità,
questa nuova morfologia del lavoro va ampliando l’universo
del lavoro invisibilizzato, e contemporaneamente potenzia nuovi
meccanismi generatori di valore, seppure sotto l’apparenza del non-valore,
utilizzando nuovi e vecchi meccanismi di intensificazione (e persino di auto-sfruttamento)
del lavoro.
Poiché il capitale si può riprodurre
solo aumentando il suo forte senso di spreco, è importante enfatizzare che «la
stessa centralità del lavoro astratto che produce la non-centralità del lavoro,
presente nella massa degli esclusi del lavoro vivo», e per la quale essi una
volta (de-) socializzati e (de-) individualizzati per l’espulsione dal lavoro,
«cercano disperatamente di trovare forme di individuazione e di socializzazione
nelle sfere isolate del non-lavoro (attività di formazione, di benevolenza e di
servizi)» (Tosel, 1995, p. 210). Questo ci permette di evidenziare
un’altra ipotesi che presenteremo in questo articolo:
nonostante la propagandata perdita di validità della teoria del valore, come
hanno sostenuto Habermas (1989, 1991 e 1992) e Gorz (2003, 2005, 2005a), noi
riteniamo che questa apparente invisibilità del lavoro sia
l’espressione fenomenica che copre la reale generazione di
plusvalore praticamente in tutte le sfere del mondo lavorativo, in cui esso
stesso possa essere realizzato.
La fenomenologia preliminare
dei modi di essere dell’informalità dimostra l’ampliamento
accentuato dei lavoratori sottomessi a contratti temporanei consecutivi, senza
stabilità, senza registrazione legale, lavorando dentro o fuori dello spazio
produttivo delle imprese, sia in attività più instabili o temporanee, sia sotto
la minaccia diretta della disoccupazione. Una volta compreso il significato
dell’informalità, cioè quando si verifica la rottura con i tratti
formali di contrattazione e regolazione della forza lavoro, possiamo
aggiungere che, se l’informalità non è sinonimo diretto di
condizione di precarietà, la sua vigenzaesprime, (con grande
frequenza e intensità), forme di lavoro sprovviste di diritti, che, pertanto,
sono simili alla precarizzazione.
In questo modo, l’informalizzazione
della forza lavoro va costituendosi come meccanismo centrale utilizzato
dall’ingegneria del capitale, per accrescere l’intensificazione dei
ritmi e dei movimenti del lavoro e ampliare il suo processo di valorizzazione.
Così facendo, scatena un importante elemento propulsore: la precarizzazione
strutturale del lavoro.
Questi diversi modi di essere
dell’informalità, che certamente comportano tratti e caratteristiche simili
in varie parti del mondo del lavoro, sono emblematici rispetto a quanto ora
stiamo formulando come ipotesi: l’ampliamento dei più distinti e diversi modi
di essere dell’informalità sembrano assumere, al contrario dei
decostruttori della teoria del valore, un importante elemento di crescita,
potenzializzazione e realizzazione del plusvalore.
Se così non fosse, allora perché, in
pieno XXI secolo, a San Paolo ci sono giornate di lavoro, che arrivano a
diciassette ore quotidiane nell’industria delle confezioni, attraverso la
contrattazione informale di lavoratori immigrati boliviani o peruviani (o di
altri paesi latino–americani), controllati da padroni spesso coreani o cinesi,
nel centro della città di San Paolo, la più importante regione industriale del
Brasile?
O ancora, possiamo citare il caso di
lavoratori africani che lavorano nel confezionamento e nell’imballaggio di
prodotti tessili e di confezioni, nei quartieri delBom Retiro e
di Bras, nello stesso centro della città di San Paolo, i cui
prodotti vengono esportati per il mercato africano; essi si sostengono con un
lavoro estenuante e principalmente manuale, “di braccia” secondo la stessa
denominazione dei lavoratori.
Troviamo un altro esempio a proposito
della produzione dello zucchero; sebbene spesso siano contemplati tratti di
formalizzazione, è costante anche la burla di questi diritti nel lavoro
dei “boias frias”; sono i lavoratori rurali che tagliano più di
dieci tonnellate di canna al giorno (media in San Paolo), dato che nel Nordest
del paese questo numero può arrivare fino a diciotto tonnellate quotidiane, e
obiettivo è la produzione di etanolo combustibile, estratto
dalla canna da zucchero. Questa realtà non è specifica solo della società
brasiliana, ma casi simili si ricontrano in vari paesi. In Giappone c’è
l’esempio recente del cyber-rifugiato, lavoratore giovane della
periferia di Tokio, che non ha risorse per affittare pensione, stanze o
appartamenti e perciò utilizza i cybercaffè all’alba, per
riposare, dormire un poco, usare Internet e cercare lavoro. Questi spazi cyber costano
prezzi bassi per i lavoratori poveri, senza abitazione fissa, perché possano
passare le loro notti oscillando tra l’uso di Internet, un breve riposo e la
ricerca virtuale di nuovi lavori contingenti, e per questo sono
designati comecyber-rifugiati.
O possiamo aggiungere l’altro esempio
più conosciuto dei giovani operai oriundi di varie parti del paese e
[provenienti] dall’estero, che migrano alla ricerca di lavoro nelle città – i
cosiddetti dekasseguis – e che, senza casa o fissa residenza,
dormono in capsule di vetro; si tratta di coloro che ho denominato operai
incapsulati (Antunes, 2006).
Forse l’esempio degli immigrati sarebbe
più grave della tendenza strutturale alla precarizzazione del lavoro: con un
enorme incremento del nuovo proletariato informale, del
sottoproletariato di fabbrica e dei servizi, i nuovi posti di lavoro riempiti
dagli immigrati, come il Gastarbeiter in Germania, il chicano negli
USA, l’immigrato dall’Est Europa (polacchi, ungheresi, rumeni, albanesi, ecc.)
nell’Europa Occidentale, il dekassegui in Giappone, il
boliviano (tra gli altri latinoamericani) e l’africano, l’haitiano in Brasile e
Argentina, ecc.
In questo modo, l’esempio degli
immigrati è anche illustrativo del quadro tendenziale di precarizzazione
strutturale del lavoro su scala globale; questo va al di là del clivaggio e
della trasversalità esistenti oggi tra lavoratori stabili e precari, uomini e
donne, giovani e anziani, bianchi, negri e indios, qualificati e dequalificati,
occupati e disoccupati, stabili e precari, e confluisce nei tanti esempi che
configurano la nuova morfologia del lavoro.
La punta
dell’iceberg: lo sfruttamento dei lavoratori immigrati
Una relazione illustrativa della
situazione degli immigrati può aiutarci a percepire che forse questa è la punta
più visibile dell’iceberg, nel quale si verifica la precarizzazione
delle condizioni di lavoro del capitalismo attuale.
Pietro Basso, studioso del fenomeno in
Europa, ci presenta il panorama di questa realtà sociale. Secondo lui, in
Europa Occidentale vivono oggi circa 30 milioni di immigrati, quantità che
arriva al totale di 50 milioni, se includiamo gli immigrati che hanno ottenuto
la cittadinanza, cioè, approssimativamente il 15% dell’intera popolazione
dell’“Europa dei 15” (Basso, 2010, p. 1). Di questo contingente, il 22% degli
attuali immigrati proviene dall’Africa, il 16% dall’Asia – di cui la metà
dall’Estremo Oriente, principalmente dalla Cina e l’altra metà dal
subcontinente indiano – e il 15% viene dall’America Centrale e del Sud. Il
restante, dal 45% al 47%, è composto da immigrati con cittadinanza dei paesi
dell’“Europa dei 27” e da quelli provenienti da paesi europei nel senso lato(turchi,
balcanici, ucraini, russi) (Ibidem).
Il lavoratore immigrato trova gli spazi
principali di lavoro nelle industrie, nelle costruzioni, nei supermercati,
nelle imprese di distribuzione ortofrutticole, nell’agricoltura, negli hotel,
nei ristoranti, negli ospedali, nelle imprese di pulizia, e percepisce salari
sempre più poveri. L’autore ricorda che, in una distributrice ortofrutticola di
Milano (Italia), i lavoratori negri scaricavano casse di frutta e verdura per
il pagamento di 2,5 euro all’ora, equivalente al costo di un chilo di pane di
pessima qualità. E nella zona rurale del Sud della Spagna e dell’Italia, i
salari sono ancora più bassi (Ivi, p. 4).
In genere, i lavoratori immigrati hanno
orari scomodi, durante giornate notturne e nel fine settimana, unendo
supersfruttamento e discriminazione (Ibidem, vedi anche Basso, P.;
Perocco F., 2010a); pertanto questa è la classe più precarizzata e più
globalizzata (Idem, p. 6; vedi anche Basso P.; Perocco F., 2008). In
Europa, le manifestazioni recenti emblematiche hanno mostrato lo scontento
degli immigrati-lavoratori e dei giovani senza lavoro.
Per il suo significato simbolico,
possiamo ricordare in Portogallo, la comparsa dei movimenti di lavoratori
precari, dei quali uno è chiamato Precari@s Inflexiveis [Precarie
Inflessibili]. Questo movimento afferma nel suo “Manifesto”:
Siamo precari@s nell’occupazione
e nella vita. Lavoriamo senza contratto o con contratto a breve termine. Lavoro
temporaneo, incerto e senza garanzie. Siamo operai dicall-center, stagisti,
disoccupati, lavoratori a cottimo, immigrati, intermittenti,
studenti-lavoratori.
Non vogliamo entrare nelle statistiche. Malgrado siamo sempre più precari, i
governi nascondono questo al mondo. Viviamo di lavoretti e lavori temporanei.
Difficilmente possiamo pagare l’affitto di casa. Non abbiamo ferie, non
possiamo essere incinte, né malate. Diritto allo sciopero? Neanche a parlarne.
Flessisicurezza? Il “flessi” è per noi, la “sicurezza” è solo per i padroni.
Questa “modernizzazione” bugiarda è pensata e realizzata dalle mani degli
imprenditori e del governo. Siamo nell’ombra, ma non stiamo zitte.
Non smetteremo di lottare a favore di coloro che lavorano in Portogallo o per i
diritti fondamentali diquanti sono lontano da qui. Questa non è soltanto una
lotta di numeri, tra sindacati e governi. È una lotta tra lavoratori e persone
come noi. Cosa che i “numeri” ignorano sempre. Noi non entriamo in questi
numeri.
Non smetteremo di dimenticare le condizioni in cui ci troviamo. E con la stessa
forza con cui ci attaccano i padroni, rispondiamo e reinventiamo la lotta. Alla
fine, siamo molto più di loro. Precari@s, si, ma inflessibili1 .
Discriminati, ma non rassegnati, essi sono
parte integrante della classe-che-vive-di-lavoro (Antunes 2006
e 2002), esprimendo la volontà di migliorare le proprie condizioni di
vita attraverso il lavoro. E questa relazione del quadro dei
lavoratori immigrati in Europa Occidentale ci aiuta a riflettere su come essi
siano la punta più visibile dell’iceberg, e su quanto concerne le
condizioni di lavoro e la loro precarizzazione.
La doppia degradazione: dal lavoro tayloriano-fordista all’impresa flessibile
Le indicazioni, appena fatte, ci
permettono di affermare che siamo dentro una nuova era di
precarizzazione strutturale del lavoro, cui diamo rilievo con alcuni
esempi:
1. L’erosione del lavoro contrattato e regolamentato,
dominante nel XX secolo e sua sostituzione con diverse forme di lavoro atipico,
precarizzato e “volontario”;
2. Creazione delle “false” cooperative, puntando a
dilapidare ancora di più le condizioni di remunerazione dei lavoratori,
erodendo i loro diritti e aumentando il livello di sfruttamento della loro
forza lavoro.
3. Le “partite IVA”, che sempre più si configurano come
forma occulta di lavoro salariato, moltiplicando a dismisura le differenti
forme funzionali o organizzative di flessibilizzazione salariale e di orario;
4. Degradazione ancora più intensa del lavoro immigrato su
scala globale.
In questo contesto, i capitali globali
esigono lo smantellamento della legislazione sociale protettrice del lavoro, in
varie parti del mondo, ampliando la distruzione dei diritti sociali che furono
duramente conquistati dalla classe lavoratrice, a partire dagli inizi della
Rivoluzione Industriale.
Poiché il tempo e lo spazio sono in rapida trasformazione, nella fase di
mondializzazione del capitale, la riduzione del proletariato taylorizzato,
specialmente nei nuclei più avanzati dell’industria, e il parallelo ampliamento
del lavoro intellettuale, procedono in chiara interrelazione con la
diffusione di nuovi proletari. E questo processo sta avvenendo tanto nell’industria,
quanto nell’agricoltura e nei servizi (e nelle corrispondenti aree di
intersezione: l’industria agricola, l’industria dei servizi e i servizi
industriali).
Dal lavoro intensificato del Giappone al lavoro contingente presente
negli Stati Uniti, dagli immigrati che arrivano nell’Occidente avanzato al
sottomondo del lavoro nel polo asiatico; dalle maquiladoras nel
Messico ai precarizzati/e dell’Europa Occidentale; dai lavoratori e lavoratrici
della Nike, della Wal-Mart e deiMcDonalds ai call
center e ai telemarketing. Questo ampio e crescente
contingente di lavoratori e lavoratrici sembra esprimere le distinte modalità
di lavoro vivo che oggi sono sempre più necessarie, per la creazione del valore
e per valorizzare il sistema del capitale.
Se nel frattempo, nel XX secolo, abbiamo assistito alla vigenza dell’era
della degradazione del lavoro, negli ultimi decenni dello stesso secolo e
all’inizio del XXI, stiamo assistendo ad altre modalità e modi di
essere della precarizzazione, propri della fase della flessibilità
toyotizzata, con i suoi tratti di continuità e discontinuità in relazione alla
forma tayloriano-fordista.
La degradazione tipica del taylorismo e del fordismo, che ha avuto vigore nel
corso di tutto il XX secolo, ha avuto (e ancora ha) un disegno più
accentuatamente dispotico, anche se più regolamentato e contrattualista.
Il lavoro aveva una conformazione più cosificata e reificata, più macchinale,
ma, in contropartita, provvisto di diritti e di regolamentazione, almeno nei
suoi poli più qualificati.
La seconda forma di degradazione del lavoro, tipica dell’impresa della flessibilità
toyotizzata è apparentemente più “partecipativa”, presenta le sue
tracce di reificazione ancora più interiorizzate (con i loro
meccanismi di “coinvolgimento”, “accomandita”, “collaborazioni” e
“individualizzazioni”, “mete” e “competenze”), essendo responsabile per la
decostruzione monumentale dei diritti sociali del lavoro, come abbiamo indicato
precedentemente.
È per questo che il movimento pendolare, in cui si trova la forza di lavoro va
oscillando sempre più tra la perennità di un lavoro sempre più
ridotto, intensificato nei suoi ritmi e sprovvisto di diritti, e una superfluità crescente,
generatrice di lavori più precarizzati e informalizzati. In altre parole,
lavori più qualificati per un contingente ridotto – di cui sono esempio i
lavoratori delle industrie di software e delle tecnologie di
informazioni e comunicazione – e, nell’altro polo del pendolo, modalità di
lavoro sempre più instabili per un universo crescente di lavoratori e
lavoratrici.
Quindi, al vertice della piramide sociale del mondo del
lavoro, nella sua nuova morfologia, troviamo i lavori
ultraqualificati che si realizzano nell’ambito dell’informazione e della
conoscenza. Alla base e in mezzo troviamo
l’anomalia, il lavoro qualificato che può sparire o erodersi, in decorrenza
delle alterazioni temporanee e spaziali che raggiungono gli impianti produttivi
o i servizi in tutte le parti del mondo.
Pertanto l’informatizzazione del lavoro, con il suo disegno polimorfo, sembra
assumere gradualmente un tratto costitutivo dell’accumulazione di capitale dei
nostri giorni, diventato sempre più presente nella fase della liofilizzazione
organizzativa, riprendendo la suggestione di Juan J. Castillo (Castillo,
1996 e 1996ª) della flessibilità liofilizzata, che noi definiamo
anche modalità di organizzazione e controllo del processo di lavoro.
Pertanto comprendere i suoi modi di espressione e significati diventa vitale ai
nostri giorni, per permettere una comprensione migliore dei meccanismi e degli
ingranaggi che danno impulso al mondo del lavoro verso l’informalità e il ruolo
che queste modalità di lavoro compiono in relazione alla legge del valore e
alla sua valorizzazione.
Tuttavia, in questa processualità multitendenziale, esiste un nuovo contingente
di salariati in espansione evidente, di cui sono esempi i lavori nelle
tecnologie di comunicazione e informazione (TCI). Questi vanno dalle attività
nelle imprese di software fino ai salariati e salariate che si
ampliano nelle imprese di call center, telemarketing,
che sono sempre più parte integrante e crescente della nuova morfologia
del lavoro.
Ursula Huws ha denominato suggestivamente il nuovo contingente cybertariato e
che Ruy Braga ed io abbiamo definito infoproletariato (vedi
Antunes e Braga, 2009). Il suo studio è centrale per comprendere le interazioni
tra i lavori materiali e immateriali, e le rispettive connessioni con le nuove
modalità del valore.
Così, dopo aver mostrato elementi riferiti ai nuovi modi di essere
dell’informalità, ora esamineremo quali sono i contorni più generali dell’infoproletariato o
delcybertariato.
L’avvento dell’infoproletariato
Le diverse tesi e formulazioni che
difendono il decentramento del lavoro e la sua perdita di rilevanza, (in
quanto elemento societario strutturante), rilevanzaannunciata da
Gorz (1982) e sviluppata da Offe (1989), Méda (1987) e Habermas (1991 e 1992) –
rafforzata dal contesto delle trasformazioni nel mondo della produzione
nell’ultimo quarto del XX secolo – propugnavano che il lavoro vivo diventasse
sempre più residuale in quanto fonte creatrice di valore. Questo è dovuto al
fatto che stiamo assistendo all’emergere di nuovi strati sociali oriundi delle
attività comunicative, messi in moto dal progresso tecno-scientifico e
dall’avvento della “società dell’informazione” (vedi Antunes e Braga, 2009).
Successivamente Castells (2007) cercò di “aggiornare” i termini del dibattito,
connesso con le statistiche presenti soprattutto (ma non solo) nelle società
capitalistiche avanzate, come gli Stati Uniti e l’Europa. Tali elementi del
dibattito hanno reso possibile mostrare il superamento del lavoro degradato,
sia per il progresso tecno-scientifico, sia per la diffusione di impieghi
qualificati con maggiore “autonomia nel lavoro”.
In qualche modo, queste formulazioni orientavano l’argomento in linea con il
tema delle società post-industriali (Bell, 1977) che proclamavano il
superamento del lavoro degradato, tipico della fabbrica taylorista e fordista,
ottenuto con la “creatività” delle attività di servizi, associate al ruolo di
concezione e pianificazione dei processi produttivi, presenti nei lavori delle
cosiddette tecnologie di informazione e comunicazione.
Tuttavia queste tesi non hanno avuto forza duratura. Trascorsi pochi decenni,
di recente le innumerevoli ricerche stanno problematizzando con perspicacia
tali asserzioni, dimostrando che l’infoproletariato (o cybertariato),
al contrario del disegno appena accennato, sembra esprimere la nuova
condizione di salarionel settore servizi, il nuovo segmento del proletariato
non-industriale, soggetto allo sfruttamento del suo lavoro, sprovvisto di
controllo e di gestione del propriolavoro. Porzione di classe disagiata
che va crescendo in maniera esponenziale, da quando il capitalismo ha scatenato
la cosiddetta era delle mutazioni tecno-informatiche-digitali.
Nella seconda metà degli anni Novanta, in Brasile, dall’inizio del ciclo di
privatizzazioni, attraverso cui è passato il settore delle telecomunicazioni,
si stima che nel 2013 il numero di teleoperatori, agendo dentro e fuori
dei call centers, le Centrali di Teleattività (CTAs), sia circa un
milione e mezzo di lavoratori; di questi quasi l’80% sono donne, che
rappresentano una delle maggiori categorie di salariati, in evidente crescita
su scala globale (vedi Antunes e Braga, 2009 e Nogueira 2006). Questo si deve
al fatto che la privatizzazione delle telecomunicazioni ha causato un processo
accelerato di terziarizzazione del lavoro, creando molteplici forme di
precarizzazione e intensificazione dei tempi e dei movimenti nell’atto
lavorativo. Si sviluppa, quindi, una chiara confluenza tra terziarizzazione e
precarizzazione del lavoro, all’interno della logica di mercatizzazione dei
servizi che sono stati privatizzati.
Castillo (2007) ha osservato l’evoluzione del lavoro nelle fabbriche di software,
offrendo prove empiriche e analitiche suggestive. Riferendosi al lavoro di
Michael Cusumano, ha affermato:
(...) produrre software non è come
qualsiasi altro affare, come la fabbricazione di molti altri beni o servizi.
Perché una volta creato, costa tanto farne una copia, quanto un milione. Perché
è un tipo di impresa, il cui profitto sulle vendite può arrivare al 99%. Perché
è un affare che può mutare, senz’altro: fabbricare prodotti a fabbricare
servizi. (Castillo, 2007, p. 37).
E aggiunge:
Molti ricercatori
hanno richiamato l’attenzione su questa ricchezza di figure produttive e di
vissuti e di esperienze di lavoro, e anche per le ripercussioni nella vita
privata e nell’organizzazione del tempo. Con un’enfasi speciale, precisamente,
sui lavoratori di software, i cui posti di lavoro si muovono tra la
“routine e i posti di maggior livello”. (Ibidem).
Pertanto, contrariamente a quanto è
stato propugnato dalle tesi della “società post-industriale” e del “lavoro
creativo dell’informazione”, il lavoro nel settore deltelemarketing è
stato segnato da una processualità contraddittoria, una volta che:
1) articola tecnologie del XXI secolo
in condizioni di lavoro ereditarie del XX secolo, (tecnologie di informazione e
comunicazione);
2) unisce strategie di intensa emulazione dei teleoperatori/trici, allo stesso
modo della flessibilità toyotizzata, con tecniche di gestione tayloriste di
controllo sul lavoro già ampiamente descritti;
3) associa il lavoro in gruppo con l’individualizzazione delle relazioni di
lavoro, stimolando tanto la cooperazione, come la concorrenza tra i
lavoratori, tra gli altri elementi che conformano la sua attività (Antunes e
Braga 2009).
Ma, c’è ancora un altro punto centrale
che possiamo così riassumere, al di là delle limitazioni delle tesi che non
sono state capaci di comprendere le condizioni concrete presenti nel lavoro
di telemarketing, dei call centers e delle
industrie di tecnologie di comunicazione e informazione: queste
attività ritenute in prevalenza immateriali hanno o no connessioni con i
complessi meccanismi della legge del valore, oggi
operante nel suo processo di valorizzazione?
È ciò che analizzeremo nell’ultimo paragrafo di questo articolo.
Lavoro, materialità, immaterialità e valore
Anche André Gorz, autore responsabile
di una vasta e conosciuta opera, si allineò con gli autori che difendono
l’“intangibilità del valore”, quando, secondo lui, il lavoro di profilo
diffusamente immateriale non può più essere misurabile secondo canoni e norme
prestabilite e vigenti nelle fasi precedenti (Gorz, 2005, p. 18). A differenza
dall’automata – modalità del lavoro nell’era delle macchine di matrice
tayloriano-fordista, Gorz afferma:
I lavoratori post-fordisti
[...] devono entrare nel processo di produzione con tutto il bagaglio culturale
che essi hanno acquisito: giochi, sport di squadra, lotte, dispute, attività
musicali e teatrali, ecc. In queste attività extra-lavorative si sono
sviluppare la loro vivacità, capacità di improvvisazione e cooperazione.
L’impresa post-fordista mette al lavoro e sfrutta il loro sapere vernacolare. (Ivi,
p. 19) [tr. it., p. 14].
Così secondo l’autore, il sapere
diventa la più importante fonte di creazione di valore, una volta che
questa è alla base dell’innovazione, della comunicazione e
dell’auto-organizzazione creative e continuamente rinnovata. In questo
modo, il «lavoro immateriale tende a confondersi con il lavoro di produzione di
sé [...] Il [loro] prodotto [degli operatori] dell’economia di rete non
è una cosa tangibile» (Ivi, p. 20, corsivo mio) [tr. it., p. 15]. Di
conseguenza, affiora la tesi dell’intangibilità del lavoro:
La conoscenza, a
differenza del lavoro sociale generale, non può essere tradotta e misurata in
unità astratte semplici. Non è riducibile a una quantità di lavoro astratto di
cui sarebbe l’equivalente, il risultato o il prodotto. Essa copre e
designa una grande varietà di capacità eterogenee, cioè senza comune
misura, tra cui abbiamo il giudizio, l’intuizione, il senso estetico, il
livello di formazione e d’informazione, la facoltà di apprendimento e di
adattamento alle situazioni impreviste; capacità a loro volta messe in opera da
attività eterogenee che vanno dal calcolo matematico alla retorica e all’arte
di convincere l’interlocutore, dalla ricerca tecno-scientifica all’invenzione
di norme estetiche. (Ivi, p. 29) [tr. it., p. 2425].
La difesa di questa tesi, quindi,
diventa chiara:
L’eterogeneità delle
attività di lavoro, dette “cognitive”, dei prodotti immateriali che esse
creano, nonché delle capacità e dei saperi che esse implicano, rende non
misurabile tanto il valore delle forze di lavoro, quanto quella dei loro
prodotti. Le scale di valutazione del lavoro diventano pari a un tessuto di contraddizioni.
L’impossibilità di misurare e standardizzare tutti i parametri delle
prestazioni richieste si traduce in vani tentativi di quantificare la loro
dimensione qualitativa e nella definizione di norme di rendimento calcolate al
secondo, che non tengono conto della qualità “comunicativa” del servizio
peraltro richiesta. (Ibidem) [tr. it., p. 25].
E, in questo modo, indica la sua
conclusione, in direzione di coloro che difendono la perdita di riferimento
alla teoria del valore:
La crisi della misura
del lavoro comporta inevitabilmente la crisi della misura del valore. Quando il
tempo socialmente necessario a una produzione diventa incerto, tale incertezza
non può non ripercuotersi sul valore di scambio di ciò che è prodotto. Il
carattere sempre più qualitativo, sempre meno misurabile del lavoro, mette in
crisi la pertinenza delle nozioni di “pluslavoro” e di “plusvalore”. La crisi
della misura del valore mette in crisi la definizione dell’essenza del valore.
Di conseguenza, mette in crisi anche il sistema delle equivalenze che regola
gli scambi commerciali. (Ivi, pp. 29-30) [tr. it., Ibidem].
La dismisura del valore diventa,
quindi, dominante, portando all’indebolimento e allo svuotamento della teoria
del valore. Questa tesi, cioè ha netta confluenza con la formulazione
habermasiana, assume una validità maggiore, nel momento in cui, con il
progresso della scienza, si verifica una inevitabile scompensazione
del valore che rende superfluo il lavoro vivo. Il passo qui sotto esplicita la
tesi in modo trasparente:
Con
l’informatizzazione e l’automazione, il lavoro non è più la principale
forza produttiva e i salari smettono di essere il principale costo di
produzione. La composizione organica del capitale (cioè la relazione tra
capitale fisso e capitale circolante) aumenta rapidamente. Il capitale diventa
il fattore di produzione preponderante. La remunerazione, la riproduzione,
l’innovazione tecnica continua del capitale fisso materiale, richiedono mezzi
finanziari di gran lunga superiori al costo del lavoro. Attualmente,
quest’ultimo è di frequenza inferiore al 15% del costo totale. La ripartizione
tra capitale e lavoro del “valore” prodotto dalle imprese dipende sempre più
fortemente dal primo. [...] I salariati devono essere costretti a scegliere tra
la deteriorizzazione delle loro condizioni di lavoro e la disoccupazione.
(Gorz, 2005ª, pp. 27-28, corsivi miei).
Se il valore non trova più la
possibilità di misurazione e la scienza informatica finisce
per sostituire il lavoro vivo, la dismisura del valore diventa
inevitabile, ora confermata anche dalla tesi dell’immaterialità del lavoro.
Al contrario della proposta di André Gorz, la nostra ipotesi è che la sua
analisi, convertendo il lavoro immateriale come dominante e
anche determinante nel capitalismo attuale e svincolato dalla
generazione di valore, finisce per realizzare un blocco che ostacola la
possibilità di comprendere le nuove modalità e forme di vigenza di questa
legge; modalità che sono presenti nel nuovo proletariato di servizi (il cybertariato o infoproletariato),
che esercitano attività di profilo accentuatamente immateriali, ma
che sono parte costitutiva della creazione di valore e più o meno vicine ai
lavori materiali.
Così, la nostra ipotesi è che la tendenza crescente (ma non dominante) del
lavoro immateriale esprime, nella complessità della produzione contemporanea,
differenti modalità di lavoro vivo e, in quanto tale,
partecipa in maggiore o minore misura al processo di valorizzazione del valore.
E non è eccessivo ricordare che le formulazioni che iperdimensionano il lavoro
immateriale e lo convertono in elemento dominante, spesso senza considerare le
tendenze empiriche presenti nel mondo del lavoro nel Sud del mondo, dove si
trovano paesi come Cina, India, Brasile, Messico, Sud Africa, dotati di un
enorme contingente di forza lavoro.
Nel contesto più analitico è necessario aggiungere che, come scienza e lavoro
si mescolano ancora più direttamente nel mondo della produzione, così la
potenza creatrice del lavoro vivo assume tanto la forma ancora
dominante del lavoro materiale come la modalità
tendenziale del lavoro immateriale. Accade quando la
stessa creazione del macchinario informatico-digitale avanzato è il risultato
dell’interazione attiva all’interno del sapere intellettuale e cognitivo del
lavoro, agendo insieme alla macchina informatizzata.
E, in questo movimento relazionale, il lavoro umano trasferisce parte dei suoi
attributi soggettivi al nuovo equipaggiamento che è risultato da questo
processo, oggettivando attività soggettive (Lojkine, 1995 e
1995ª). Nella sintesi di Marx, vi sono «organi del cervello umano ottenuti
dalle mani umane» (Marx, 1974ª); questo, nel capitalismo dei nostri giorni,
finisce per conferire nuove dimensioni e configurazioni alla teoria del valore,
una volta che le risposte cognitive del lavoro, quando suscitate dalla
produzione, sono parti costitutive del lavoro sociale, complesso e
combinato creatore di valore.
Per usare una concettualizzazione di J. M. Vincent (1993), l’immaterialità
diventa, quindi, espressione del lavoro intellettuale astratto,
che non porta all’estinzione del tempo socialmente medio di lavoro per
la configurazione del valore ma, al contrario, inserisce i
crescenti coaguli di lavoro immateriale nella logica dell’accumulazione,
inserendoli nel tempo sociale medio di un lavoro sempre più complesso, e
assimilandoli alla nuova fase della produzione del valore.
A guisa di conclusione
Pertanto,
al contrario della propagandata de-scompensazione o perdita di validità della
legge del valore, l’ampliamento delle attività dotate di maggiore dimensione
intellettuale, tanto nelle attività industriali più informatizzate, quanto
nelle sfere comprese dal settore dei servizi e/o nelle comunicazioni,
configurano oggi un elemento importante per un’effettiva comprensione dei nuovi
meccanismi del valore2.
Così, stiamo assistendo all’ampliamento delle sue forme piuttosto che alla
perdita di rilevanza della teoria del valore, configurando nuovi meccanismi di
sfruttamento del plusvalore, secondo gli innumerevoli esempi che abbiamo
presentato all’inizio di questo articolo. Pertanto, l’ampliamento della
produzione materiale o “produzione non-materiale” (Marx, 1994) nel mondo
attuale, finisce per essere più precisamente definita come espressione
della sfera informazionale della forma-merce (Vincent, 1993,
1995), al contrario della sua comprensione come intangibile e, pertanto,
non generatrice di valore3.
E, quando
Gorz afferma che il deterioramento delle condizioni di lavoro, così come la
disoccupazione sarebbero elementi conformatori della tesi della consunzione del
lavoro, forse dovremmo ricordare che questa tendenza è presente fin dalla
genesi del capitalismo. Nel III Libro de Il Capitale, tra le varie
parti in cui Marx ne parla, ve n’é una in cui riflette sull’economia
dell’impiego e sull’utilizzazione dei residui della produzione,
indicando la tendenza in modo premonitore:
Il capitale non tende
soltanto a ridurre all’indispensabile il diretto impiego di lavoro vivente, e a
diminuire di continuo, mediante lo sfruttamento delle forze produttive sociali
del lavoro, necessario per l’approntamento di un prodotto, vale a dire ad
economizzare al massimo il lavoro vivente direttamente impiegato. (...) La
produzione capitalistica (...) è estremamente parsimoniosa di lavoro
materializzato, oggettivato in merci. Essa è, invece, molto più di ogni altro
modo di produzione, dilapidatrice di uomini, di lavoro vivente, dilapidatrice
non solo di carne e di sangue ma pure di nervi e di cervelli. (...) Poiché
tutta l’economia, di cui si parla, trae origine dal carattere sociale del
lavoro, così, in effetti, è proprio questa immediata natura sociale del lavoro
che determina questo sperpero nella vita e nella salute degli operai.
(Marx, 1974, pp. 97 e 99 [tr. it., p. 132 e 134-135]).
Pertanto, se l’“economia dell’impiego”
è presente nella stessa logica del sistema di metabolismo sociale del
capitale (Mészáros, 1995), la riduzione del lavoro vivo non mostra la
perdita di centralità del lavoro astratto nella creazione del
valore. Infatti da molto tempo ha smesso di essere risultato di
un’aggregazione individuale di lavoro per convertirsi in lavoro
sociale, complesso e combinato e, considerando il progresso
tecno-informatico-digitale, non smette di complessificarsi e
di potenziarsi.
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Note al
testo
* Maquilladoras significa letteralmente “truccatrici” ed
è un termine usato per indicare fabbriche di solo assemblaggio di pezzi
costruiti altrove.
2 Vale la pena ricordare che la Toyota, nel suo impianto di Takaoka, stampava
questi slogan all’entrata della fabbrica: “Yoi kandae, yoi shina” (buoni
pensieri significano buoni prodotti), Business Week, 18 novembre
2003.
3 Vedi anche Tosel, 1995. L’enorme progresso produttivo della Cina e
dell’India, specialmente nell’ultimo decennio, ancorato alla monumentale forza
soverchiante di lavoro e nell’incorporazione delle tecnologie informatiche, è
un argomento da respingere. Si tratta della tesi della perdita di rilievo del
lavoro vivo nel mondo della produzione di valore, cosa che rende più fragili i
difensori dell’immaterialità del lavoro, come forma di superamento o inadeguatezza o descompensazione della
legge del valore.
Traduzione
dal portoghese di Antonino Infranca
|
Ricardo Antunes |
Ricardo Antunes es profesor Titular de Sociología
en el Instituto de Filosofía y Ciencias Humanas en la Universidad Nacional de
Campinas (UNICAMP), Brasil. Ha publicado, entre otros, los siguientes libros:
Infoproletários: Degradação Real do Trabalho Virtual Riqueza (coorganizador,
Boitempo), 2008, 15 ª ed., Ed. Cortez, publicado también en Italia, España,
Argentina, Colombia y Venezuela, y Os Sentidos do Trabalho, Ed. Boitempo, 10ª
reimpresión, publicado también en Argentina, Italia e Inglaterra, el cual será
publicado en breve en Portugal por Ed. Almedina. Actualmente coordina las
Coleções Mundo do Trabalho, para Boitempo Editorial, y Trabalho e Emancipação para
Editora Expressão Popular.