Marco Veronese Passarella | Fin dalla pubblicazione postuma del Terzo
Libro de Il Capitale, il
dibattito “economico” attorno alla grande opera incompiuta di Karl Marx si è
concentrato prevalentemente sul cosiddetto problema della trasformazione (dei
valori-lavoro in prezzi di produzione), nonché sulla legge della caduta
tendenziale del saggio del profitto. In altri termini, è soprattutto sulla
possibile frizione tra Primo Libro e (prima e terza sezione del) Terzo Libro
che si è storicamente focalizzata l’attenzione dei più, dentro e fuori le mura
accademiche. Per contro, ad eccezione dei capitoli finali dedicati agli schemi
di riproduzione,1 il Secondo Libro de Il Capitale è stato a lungo trascurato. Peggior sorte è toccata
alla quinta sezione del Terzo Libro, dedicata al credito, al capitale fittizio
ed al sistema bancario. In effetti, se l’analisi delle due forme – mercantile e
capitalistica – della circolazione è stata solitamente sminuita a sorta di
breve introduzione al problema dell’individuazione dell’origine del plusvalore
(problema affrontato compiutamente da Marx nel Primo Libro), il ruolo della
moneta, del credito e della finanza nell’ambito della teoria marxiana, laddove
contemplato, è stato quasi sempre ridotto a quello di amplificatori del ciclo
economico.2
Introduzione: l’altro Marx
Lungi dall’essere considerati elementi costitutivi del modo di
produzione capitalistico, e dunque di ogni modello analitico che aspiri ad
indagarne le leggi di movimento, moneta, istituzioni creditizie e finanza sono
state di norma assimilate a “frizioni” nell’ambito di un modello fondato
sull’interazione tra grandezze “reali”. Paradossalmente, si tratta di una
visione non dissimile da quella che ha permeato il pensiero economico dominante
a partire dalla fine del diciannovesimo secolo.
È proprio in opposizione a tale visione “a-monetaria” che, a
cavallo tra gli anni settanta e ottanta del novecento, alcuni studiosi francesi
ed italiani hanno concepito e poi portato a compimento, in modo pressoché
indipendente, un nuovo sistema teorico fondato sul riconoscimento esplicito
della natura essenzialmente monetaria delle economie capitalistiche. Il
riferimento è alla cosiddetta “Teoria del circuito monetario” (TCM, d’ora in
avanti), nota anche come “Teoria monetaria della produzione”.3 La TCM
costituisce il punto di approdo di un insieme di teorie e riflessioni
economiche piuttosto eterogenee per matrice socio-politica, ma accomunate
dall’enfasi posta sul ruolo della moneta quale istituzione fondamentale del capitalismo.
In Italia, è soprattutto all’opera di Augusto Graziani che si deve
l’elaborazione di una visione teorica e di un modello analitico radicalmente
alternativi al paradigma di teoria economica dominante fino alla metà degli
anni ottanta, in cui la moneta era appena un velo posto esogenamente sulle
grandezze reali.4 Benché la TCM sia stata a lungo relegata nei “sottomondi
eterodossi” del pensiero economico, l’affermazione recente della modellistica
“Nuovo-Keynesiana” (New Keynesian),
in cui la moneta viene riguardata come grandezza creata endogenamente dal
sistema economico, rappresenta un (sia pure implicito, tardivo e assai
parziale) riconoscimento della proficuità delle riflessioni monetarie dei
teorici del circuito e, in generale, delle scuole di pensiero economico
critico.5 L’importanza di quelle riflessioni non è, peraltro, confinata al
solo dibattito teorico tra macroeconomisti, passato e presente, ma investe
direttamente l’analisi più generale delle leggi di movimento di un’economia
capitalistica. Su questo piano, il legame della teoria di Graziani con la
riflessione di Marx, benché non sempre immediatamente riconoscibile, è
nondimeno assai profondo.6 Si potrebbe, anzi, argomentare che la TCM, per
lo meno nella sua trasposizione “italiana”, rappresenti una declinazione
compiutamente marxiana della metodologia degli aggregati sviluppata da Keynes e
dai sui allievi a partire dagli anni Trenta del Novecento.
Proprio della fecondità di tale approccio come schema di
re-interpretazione delle categorie macroeconomiche keynesiane in chiave
marxiana, e soprattutto come strumento di analisi critica del reale, a partire
dai processi di finanziarizzazione in atto, si cercherà di dar conto brevemente
nelle pagine che seguono. La riflessione verterà, in particolare, sulla
funzionelogica dei mercati finanziari nel processo di creazione di valore
sociale in una economia capitalistica (paragrafo 2) e sul ruolo paradossale da
essi svolto nei paesi anglosassoni nell’ultimo ventennio quale causa ultima di
fragilità finanziaria, instabilità e crisi (paragrafo 3). Seguiranno alcune
considerazioni sul nesso tra finanziarizzazione e ridefinizione delle forme di
sfruttamento del “lavoro vivo” nella sfera della produzione, nonché delle
modalità di appropriazione del valore creato (paragrafo 4).
Circuito
monetario, mercati finanziari e valore: una messa in ordine logica
Il principale punto di contatto dell’opera di Marx con la
TCM è la concezione del sistema economico quale economia monetaria di
produzione, ossia quale sequenza temporale di rapporti monetari concatenati di
scambio e di produzione intercorrenti tra classi sociali portatrici di
interessi contrapposti. In estrema sintesi, tale successione viene aperta dalla
decisione delle banche (la classe dei capitalisti monetari) di accordare
un’apertura di credito a favore delle imprese (la classe dei capitalisti
industriali), per le quali tale flusso di liquidità (il capitale monetario)
costituisce, al contempo, il potere d’acquisto necessario ad acquistare la
forza-lavoro (nonché, ad un minor livello di astrazione teorica, gli altri
fattori produttivi) da impiegare nel processo produttivo e un elemento non
riproducibile internamente. Tale sequenza (o circuito) si chiude soltanto
allorché le imprese, una volta realizzato in forma monetaria il valore sociale
della produzione, estinguono il debito verso le banche, suddividendo il
sovrappiù sociale (corrispondente al plusvalore) tra profitti d’impresa e
interessi bancari.7
È questa, si badi, non la rappresentazione di una particolare
configurazione storica o geografica del capitalismo. Non si tratta, cioè, della
manifattura inglese di inizio Ottocento, ovvero del sistema di fabbrica
italiano del secondo dopoguerra. Si tratta, invece, dell’esplicitazione dei
nessi monetari necessari intercorrenti tra gruppi sociali
contrapposti all’interno dello spazio capitalistico. Il livello di astrazione a
cui i teorici del circuito si muovono è, infatti, se non quello massimo
del capital en général (Primo
Libro de Il Capitale), quello
assai elevato della circolazione, rotazione e riproduzione del capitale
(Secondo Libro de Il Capitale).8 Proprio
l’adozione di tale livello di astrazione consente, inter alia, di mettere a fuoco il ruolo peculiare giocato dal
sistema bancario, da un lato, e dai mercati finanziari, dall’altro, nell’ambito
di un’economia monetaria di produzione. Spetta al primo, identificabile con la
sotto-classe dei capitalisti monetari, il ruolo di “eforo” del sistema
capitalistico.9 È, infatti, l’erogazione del finanziamento bancario che
consente alle imprese di dare il via al processo di produzione e di scambio. Si
noti, al riguardo, che in un’economia compiutamente capitalistica le banche non
si limitano a trasferire risorse monetarie dai propri depositi ai capitalisti
industriali, in forma di prestiti alle imprese.10 Ciò che contraddistingue
le banche dalle altre unità socio-economiche è la loro capacità esclusiva di
creare moneta-credito, mediante semplice annotazione contabile (ovvero mediante
impulsi elettronici).11 Da un punto di vista logico, in assenza di tale
atto di creazione ex nihilo, lo
scambio “salario monetario verso forza-lavoro” non potrebbe darsi, e dunque
l’intero processo di produzione e di scambio non potrebbe nemmeno essere
avviato. Per contro i mercati finanziari rappresentano il luogo in cui le
imprese, mediante emissione e collocamento di “titoli”, recuperano in tutto o
in parte la liquidità (moneta bancaria) precedentemente immessa nel sistema in
forma di massa salariale. Si tratta di due funzioni logicamente e temporalmente
distinte, dato che l’una (la creazione di moneta bancaria) è precondizione per
l’avvio del circuito dei pagamenti e, in presenza di razionamento del suo
ammontare, concorre a determinare la scala della produzione, mentre l’altra (il
rastrellamento dei risparmi dei lavoratori salariati tramite i mercati
finanziari) segue logicamente tale processo ed è condizione per la chiusura del
circuito.12 È questa la ragione per cui il flusso di moneta creato dalle
banche a favore delle imprese in avvio di circuito viene solitamente denominato
“finan-ziamento iniziale” (e corrisponde al “capitale monetario” di Marx),
mentre la liquidità veicolata dai mercati finanziari alle imprese costituisce,
assieme ai consumi dei lavoratori salariati, il “finanziamento finale” alle
imprese (e costituisce la base del cosiddetto “capitale fittizio”).
Quest’ultimo concorre a definire il grado di realizzazione monetaria, ossia di
“validazione sociale” del valore creato nella produzione.13
In effetti, la TCM consente di far luce su alcuni aspetti
controversi della teoria marxiana del valore. In primo luogo, tale approccio
distingue chiaramente il momento dell’acquisto della forza-lavoro, quale
prerequisito necessario per l’avvio del processo di produzione, da quello dell’acquisizione
degli altri fattori produttivi che, come ogni acquisto di merci
capitalisticamente prodotte, segue sempre logicamente tale processo. Si
noti che è proprio nel procedimento di contabilizzazione dei fattori produttivi
diversi dalla forza-lavoro (il cosiddetto “capitale costante” o, nel gergo
degli economisti, i “beni capitale” o “intermedi”) nel valore delle merci
prodotte che si annida quell’“errore”, imputato a Marx, che ha dato
storicamente il via all’annosa diatriba sulla trasformazione. Eppure la TCM
vale a chiarire che l’acquisto iniziale di beni capitale è appena un’“illusione
ottica” generata, nella realtà, o comunque ad un minor livello di astrazione
teorica, dalla concatenazione dei cicli produttivi. La parte di prodotto
destinata a rimpiazzare i beni capitali consumati, ovvero ad investimento
addizionale, viene sempre acquistata al termine di ciascun ciclo (per essere
impiegata nel ciclo successivo). Ne deriva che il prezzo dei beni capitali
corrisponde sempre al loro “prezzo di riproduzione”, e non al loro “costo
storico”.14Il problema della misura della quantità di “lavoro morto”
cristallizzato negli elementi del capitale costante viene, dunque, svuotato di
significato.
In secondo luogo, la TCM dà sostegno alla teoria di Marx
sull’origine del plusvalore dallo “scambio ineguale” tra capitale e lavoro
nella sfera della produzione, ove tale teoria venga correttamente intesa
in termini macro-monetari. Il fatto è che, se si considera l’insieme delle
imprese come un unico settore consolidato e aggregato (la classe dei
capitalisti industriali), è evidente che nessuno scambio che avvenga al suo
interno può contribuire alla valorizzazione del capitale anticipato. Detto
diversamente, la compravendita di beni capitali rappresenta un gioco a somma
zero, dal quale nessun plusvalore può derivare per le imprese (nel loro
insieme). Come ribadito da Graziani, sulla scia di Marx, la “valorizzazione del
capitale, per i capitalisti come classe, può derivare unicamente da scambi che
i capitalisti effettuino al di fuori della propria classe, e quindi nell’unico
scambio esterno possibile, che consiste nell'acquisto di forza-lavoro. Soltanto
nella misura in cui i capitalisti utilizzano lavoro e si appropriano di una
parte del prodotto ottenuto, essi possono realizzare un sovrappiù e convertirlo
in profitto”. Ecco perché, per Graziani, come per Marx, il profitto dei
capitalisti “può nascere soltanto dalla differenza fra quantità di lavoro
totale impiegato e quantità di lavoro che torna al lavoratore sotto forma di
salario reale”. Come poi il plusvalore sociale creato (in potenza) nella
produzione si distribuisca tra le imprese dipenderà, di volta in volta, dallo
specifico sistema di fissazione dei prezzi relativi “che riguarda
esclusivamente i capitalisti nei loro rapporti reciproci”.15
Moneta,
finanza e crisi
Come è stato argomentato, sin dalla fine degli anni Settanta
la finanza sembra aver assunto un ruolo centrale nel processo di produzione e
riproduzione capitalistica, in particolar modo negli Stati Uniti e nel Regno
Unito. Sembrerebbe, anzi, che in tali economie il ruolo dei mercati finanziari
non possa essere più confinato alla funzione ancillare e passiva loro assegnata
dalla TCM.16 Anzitutto, l’aumento dei profitti realizzati dalle
grandi corporation multinazionali,
a fronte di investimenti “produttivi” relativamente modesti (anche prima delle
due crisi finanziarie recenti), ha lentamente trasformato tali soggetti in creditori netti, ossia in rentier a caccia dei maggiori
rendimenti derivanti dall’“investimento” in attività finanziarie. D’altra
parte, il collocamento di titoli azionari e obbligazionari sui mercati
finanziari ha gradualmente rimpiazzato il ricorso al credito bancario quale
fonte privilegiata di finanziamento.17 In secondo luogo, il risparmio dei
lavoratori salariati (le famiglie) è crollato verticalmente negli ultimi due
decenni. Il ricorso crescente a carte di credito, credito al consumo e mutui
immobiliari ha, anzi, progressivamente trasformato i percettori di redditi da
lavoro, un tempo risparmiatori netti (in veste di sottoscrittori di titoli),
in debitori netti.18 Infine, il sistema bancario, specie quello di
matrice anglosassone, ha lentamente spostato il baricentro della propria
attività dal finanziamento alla produzione al credito ai salariati, fino alla
fornitura di servizi finanziari a famiglie e imprese, ed alla gestione di
operazioni e titoli finanziari fuori-bilancio (su cui lucrare laute
commissioni) mediante società-veicolo.
È, perciò, sembrato che il tradizionale asse produttivo
“banche-imprese” fosse destinato ad essere gradualmente rimpiazzato dall’asse
speculativo “banche-mercati finanziari”. Nel “modello anglosassone” le banche
concedono, infatti, un’apertura di credito non tanto alle imprese, quanto alle
famiglie (sulla base del loro fondo di ricchezza). Queste, nella misura in cui
destinano tali risorse a consumi, consentono alle imprese di conseguire
extra-profitti da destinare ad investimenti finanziari. È, del resto, proprio
attraverso il collocamento di prodotti sui mercati finanziari che il sistema
bancario torna in possesso delle somme erogate in avvio di circuito. A sua
volta, la crescita del valore di mercato delle attività finanziarie (e/o
immobiliari) generata dall’afflusso dei “risparmi” delle imprese sostiene (temporaneamente)
la solvibilità dei salariati, che sono così in grado di accedere a nuovi
prestiti. Come detto, è questo il modello che si è progressivamente sviluppato
nei paesi anglosassoni negli ultimi decenni. D’altra parte, se è vero che
alcune tra le altre maggiori economie avanzate hanno mantenuto saldamente la
propria vocazione industriale (è il caso del sistema tedesco) e che alcuni
paesi emergenti si sono affacciati nell’ultimo ventennio come nuovi colossi
manifatturieri (l’economia cinese è solo l’esempio più noto), la
finanziarizzazione delle relazioni economiche è un processo che sembra aver
avuto una dimensione globale.19
Il riconoscimento degli indubbi elementi di novità del
“capitalismo finanziarizzato” di matrice anglosassone deve certamente portare
ad un’analisi della ridefinizione delle modalità di valorizzazione
capitalistica determinata dai processi di finanziarizzazione. Tale
riconoscimento non deve, per contro, condurre ad accantonare l’analisi di Marx,
o la TCM, quali raffigurazioni stilizzate del sistema manifatturiero prevalente
nella Belle Époque o Golden Age del capitalismo
industriale. La sequenza definita nel paragrafo 2 fornisce, infatti, la
descrizione delle condizioni strutturali di riproducibilità, ad un tempo, reale
e monetario-finanziaria (solvibilità), del sistema economico capitalistico – a
prescindere, cioè, dalle funzioni di comportamento delle singole unità
socioeconomiche (gli “agenti” individuali della modellistica economica
dominante). Detto diversamente, lo schema del circuito continua marxianamente a
dar conto delle relazioni necessarie intercorrenti tra le
macro-classi sociali (e tra queste e i mercati del credito, delle merci e dei
titoli) nello spazio capitalistico, a prescindere da qualsivoglia specifica
declinazione geografico-temporale. In tal senso, pare possibile rinvenire nella
doppia crisi finanziaria esplosa nel 2000 e nel 2007, con epicentro gli Stati
Uniti d’America, il punto di rottura generato dal conflitto sotterraneo
crescente tra il ruolo necessario (logico) di mercati finanziari e sistema
bancario, da un lato, e la funzione storica paradossale progressivamente
assunta da tali soggetti nelle economie anglosassoni, dall’altro. Dal
conflitto, cioè, tra processi di creazione del valore e del plusvalore sociale,
e processi di acquisizione-realizzazione monetaria del valore creato.
Se le cose stanno così, l’interrogativo di fondo con cui ci
si deve misurare non è, dunque, perché vi sia stata una doppia crisi
finanziaria negli anni Duemila, ma perché la deflagrazione borsistica del 2000
e la crisi che ne è seguita non si siano protratte più a lungo, ponendo anzi le
premesse per la formazione di nuove bolle speculative e per lo scoppio della
crisi finanziaria del 2007-2008. La ragione è che il circuito paradossale
affermatosi nelle economie anglosassoni è, in linea di principio,
temporaneamente sostenibile. Come è stato sottolineato, i consumi a credito dei
salariati generano extraprofitti per le imprese. Queste possono re-investire
tali somme nell’acquisto di prodotti finanziari che il sistema bancario crea
utilizzando come base (il cosiddetto “collaterale”) proprio il rapporto di
credito con i salariati. A sua volta, la crescita dei valori finanziari (e
immobiliari) così generata sostiene la capacità di accesso al credito delle
famiglie, le quali possono alimentare ulteriormente i propri consumi (anche in
presenza di redditi da lavoro stagnanti o calanti), e così via.20Naturalmente,
si tratta di un equilibrio instabile. Shock esogeni ovvero mutamenti
endogeni anche di modesta entità sono in grado di innescare una reazione a
catena, in cui la caduta dei valori di mercato delle attività finanziarie (e
immobiliari) abbatte la capacità dei salariati di ripagare i propri debiti
proprio mentre il sistema bancario preme per un rientro immediato, con un
effetto depressivo sulla domanda aggregata, e dunque sui livelli occupazionali
e di reddito. Si tratta della sequenza di fasi che hanno scandito le due crisi
recenti dell’economia statunitense e, sulla sua scia, delle economie europee.
Così come lo sviluppo della finanza, nelle fasi ascendenti del ciclo economico,
consente di accelerare senza pari il processo di estrazione di valore e
plusvalore (sia mediante riduzione del tempo di turnover del capitale
che mediante intensificazione dei processi di sfruttamento della forza-lavoro
nella produzione), nelle fasi di crisi essa favorisce i processi di
distruzione, nonché di concentrazione/centralizzazione, dei capitali.
Conclusioni
In questo breve saggio si è cercato di dar conto della
fecondità della teoria del circuito monetario come schema di re-interpretazione
delle categorie macroeconomiche keynesiane in chiave marxiana, e soprattutto
come strumento di analisi critica del reale, a partire dai processi di
finanziarizzazione in atto. In particolare, si è cercato di mostrare come la
doppia crisi finanziaria degli anni duemila possa essere riguardata come il
punto di rottura generato dal conflitto sotterraneo crescente tra il
ruolo necessario di mercati finanziari e sistema bancario, da un
lato, e la funzione paradossale progressivamente assunta dal settore
finanziario nelle economie anglosassoni negli ultimi decenni. A questo
proposito, appare interessante rilevare che mentre lo schema-base del circuito
riserva ai mercati finanziari una funzione meramente redistributiva, nel
capitalismo finanziarizzato di matrice anglosassone i mercati finanziari non si
limitano a ripartire le risorse monetarie circolanti nel sistema, ovvero ad
accelerare/decelerare il reinvestimento del capitale monetario.21 Essi,
attraverso l’indebitamento delle famiglie, nonché tramite la partecipazione dei
salariati alle “sorti” dei mercati finanziari (per esempio, mediante il
dirottamento dei risparmi in fondi di investimento e fondi pensione), sono
altresì in grado di incidere indirettamente sull’intensità di lavoro e dunque
sul processo di creazione di valore e di plusvalore. Insomma, se, da un lato,
rimane confermata l’intuizione marxiana secondo cui la finanza non crea valore
sociale, dall’altro, i processi di finanziarizzazione sembrano aver ridefinito
in profondità le forme della sua creazione nonché
le modalità della sua appropriazione. La doppia crisi finanziaria del
2000 e del 2007-2008 emerge, in tal senso, come punto di frizione tra legge di
produzione del valore e del plusvalore (che tutt’ora rimanda all’allargamento e
all’intensificazione dello sfruttamento della forza-lavoro nella sfera
produttiva quali suoi prerequisiti necessari) e modalità di appropriazione
privata del valore creato (ossia alle modalità storicamente date di fissazione
dei prezzi relativi, incluso il rendimento delle attività finanziarie)
nell’attuale capitalismo finanziarizzato. Ecco perché, in assenza di meccanismi
di “repressione dei mercati finanziari” e di pianificazione dell’investimento
sociale, l’instabilità e le crisi ricorrenti che hanno segnato le economie
avanzate in questo inizio di ventunesimo secolo sono destinate a ripresentarsi,
in forme nuove, anche nei decenni a venire.22
Note
1 È da tali
schemi che Wassily Leontief, premio Nobel per le scienze economiche nel 1973,
ha tratto spunto per le proprie tavole delle interdipendenze strutturali di un’economia,
il cosiddetto modello inputoutput. D’altra parte, se la discussione
circa la caduta del saggio del profitto e le sue controtendenze continua ad
animare il dibattito specialistico (si vedano, ad esempio, G. Reuten e P.
Thomas, “From the ‘fall of the rate of profit’ in the Grundrisse to the
cyclical development of the profit rate in Capital”, Science &
Society, 2011, 95(1), pp. 74-90), la diatriba sulla trasformazione, intensa
e a tratti aspra, ha visto la partecipazione di alcuni dei più
autorevoli economisti del Novecento (L. Bortkievitz, E. Bohm-Bawerk, M. Dobb,
L. Einaudi, D. Foley, O. Lange, C. Napoleoni, V. Pareto, J. Robinson, P.
Samuelson, P. Sraffa, I. Steedman e P.
Sweezy, per citarne solo alcuni). Per una rivisitazione recente di tale vexata
quaestio, si rinvia a M. [Veronese] Passarella, “Marx in the matrix. L’agebra
del ‘lavoro vivo’”, Storia del Pensiero Economico (History of
Economic Thought and Policy), 2009, 6(2), pp. 31-48).
2 Tra le rare
eccezioni, S. De Brunhoff, La monnaie chez Marx, Éditions Sociales,
Parigi, 1973.
3 In realtà,
quello di “Teoria monetaria della produzione” è il titolo preliminare dato da
John M. Keynesagli scritti preparatori della propria Teoria generale dell’occupazione,
dell’interesse e della moneta, data alle stampe nel 1936. A tale
concetto rimanda oggi un’ampia messe di approcci monetari eterodossi, molti dei
quali ascrivibili al filone di pensiero cosiddetto Post Keynesiano.
4 Per un’introduzione
alla TCM, si rinvia, anzitutto, a A. Graziani,
La teoria monetaria della
produzione, Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, Collana Studi e
Ricerche, Arezzo, 1994, nonché a A. Graziani,
The Monetary Theory of
Production, Cambridge University Press, Cambridge, 2003.
Per una panoramica, si vedano, tra gli
altri: R. Realfonzo, “The Italian circuitist approach”, in P. Arestis e M.
Sawyer (a cura di), A Handbook of Alternative Monetary Economics, Edward
Elgar, Cheltenham-Northampton, 2006, pp.105-120; M. [Veronese] Passarella, Finance
Matters! Genesi e sviluppo della Teoria del circuito monetarioin Italia,
Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Firenze, A.A. 2007-2008,
scaricabile all’indirizzo web: http://www.marcopassarella.it/wp-content/uploads/Finance-matters-WEB.pdf ; S. Lucarelli e M. [Veronese] Passarella, “New Research Perspectives in
the Monetary Theory of Production: an Introduction”,in S. Lucarelli e M.
[Veronese] Passarella (a cura di), New Research Perspectives in the MonetaryTheory
of Production, Bergamo University Press of Sestante Edizioni, Bergamo,
2012, pp. 13-21; R. Bellofiore,“A heterodox structural Keynesian: honouring
Augusto Graziani”, Review of Keynesian Economics, 2013, 1(4), pp.
425-430; e, infine, M. Veronese Passarella, “Financialization and the monetary
circuit: a macro-accounting approach”, Review of Political Economy,
2014, 26(1), pp. 128-148.
5 La
modellistica economica di derivazione “monetarista”, dominante fino alla fine
degli anni ottanta, assumeva che la moneta fosse una grandezza esogena sotto il
pieno controllo della Banca Centrale. Problemi di natura sia teorica che
pratica, hanno condotto, in anni più recenti, ad una revisione di quei modelli al
fine di dar conto non soltanto di imperfezioni e asimmetrie che caratterizzano
il “mondo reale”, ma anche della natura
dell’offerta di moneta quale grandezza residuale. Il suo ammontare viene
determinato dalla domanda di finanziamento delle unità economiche, mentre la
Banca Centrale si limita a fissare il“prezzo” delle riserve, ossia a
determinare il tasso di interesse di riferimento del sistema. Per un’analisi critica
puntuale del modello oggi dominante, si rinvia a G. Fontana e M. Veronese
Passarella, “Unconventional monetary policy from conventional models? Changes in
risk premia and the reaction function of the central banker”, articolo
presentato all’XI Convegno STOREP, Bergamo, 27 giugno 2014.
6 Tra i tentativi dello stesso Graziani di mettere in
luce tale nesso, si vedano: A. Graziani, “The Marxist theory of money”, International
Journal of Political Economy, 1997, 27(2), pp. 26-50; A. Graziani, “L’analisi
marxista e la struttura del capitalismo moderno”, in Storia del marxismo,
Vol. IV, Einaudi, Torino, 1982; A. Graziani, “La teoria marxiana della
moneta”, in C. Mancina (a cura di.), Marx e il mondo contemporaneo,
Editori Riuniti, Roma, 1986. Si vedano inoltre: M. Messori, “Moneta senza
crisi: un commento”, Materiali filosofici, 1983, 7: 113-156; M. Messori,
“Teoria del valore senza merce-denaro. Considerazioni preliminari sull’analisi
monetaria di Marx”, Quaderni
di storia dell’economia politica, 1984,
2(1-2), pp. 185-232; R. Bellofiore, G.F. Davanzati e R. Realfonzo, “Marx Inside
the Circuit: Discipline Device, Wage Bargaining and Unemployment in a
Sequential Monetary Economy”, Review of Political Economy, 2000, 12(4),
pp. 403-417; e, più di recente, R. Bellofiore e M. [Veronese] Passarella, “Finance
and the realization problem in Rosa Luxemburg: a ‘circuitist’ reappraisal”,
in J.F. Ponsot e S. Rossi (a cura di), The Political Economy of
Monetary Circuits: Tradition and Change in Post-Keynesian Economics, Palgrave Macmillan, Basingstoke & New York, 2009, pp. 98-115.
7 Lo schema
base del circuito della moneta è riportato in Fig. 1 nell’Appendice al presente
articolo liberamente scaricabile all’indirizzo web: http://www.marcopassarella.it/didattica/.
Per una descrizione dettagliata delle fasi del
circuito si rinvia, inoltre, a A. Graziani, La teoria monetaria della
produzione, op. cit., e A. Graziani, The Monetary Theory of
Production, op. cit. Si veda, infine, M. Passarella, Finance Matters!
Genesi e sviluppo della Teoria del circuito monetario in Italia, op.
cit.
8 In questo
senso, lo schema del circuito può essere riguardato come un meta-modello
teorico, assimilabile agli schemi di riproduzione marxiani o al Tableau
économique di François Quesnay.
9 La metafora
si deve all’economista austriaco Joseph Schumpeter, il quale, assieme a Knut
Wicksell e a Nicholas Kaldor (oltre che allo stesso Keynes, naturalmente) è, in
genere, considerato il maggior precursore (o “padre nobile”) della TCM.
10 Una volta valutata
la solvibilità della clientela, e stabilito un congruo ricarico sul tasso di
interesse di riferimento fissato dalla banca centrale, le banche commerciali
non sono mai vincolate (nella concessione di prestiti) dal rapporto tra riserve
immediatamente disponibili e depositi. Laddove necessario, le riserve vengono
sempre costituite ex post mediante ricorso a prestiti elargiti da altre
banche ovvero tramite cessione di titoli alla banca centrale (la quale non può
far altro che assecondare le necessità del sistema bancario). In effetti, in un
sistema compiutamente capitalistico non soltanto la quantità di mezzi monetari
è fuori dalle possibilità di controllo della banca centrale, essendo creata
endogenamente dal sistema, ma la moneta perde anche qualsivoglia agganciamento
metallico. È, per contro, possibile stabilire un’equivalenza tra valore
aggiunto monetario della produzione in un dato periodo e la quantità di lavoro vivo
erogato nel processo produttivo. Su quest’ultimo punto, cfr. G. Duménil e D.
Foley, “The Marxian transformation problem”, in S.N. Durlauf e L.E. Blume (a
cura di), The New Palgrave Dictionary of Economics, Seconda Edizione,
Palgrave Macmillan, Basingstoke, 2008; e M. [Veronese] Passarella, “Marx in the
matrix. L’algebra del ‘lavoro vivo’”, op. cit.
11 Il maggiore
problema in cui si incorre allorché si tenta di conciliare lo schema del
circuito monetario con la teoria marxiana del valore è la diversa concezione
della moneta che vi è sottesa. In effetti, il testo del Primo Libro de Il
Capitale avalla l’idea del “denaro” come merce, e sia pure di una merce “molto
speciale”, in quanto “equivalente generale” di tutti i beni capitalisticamente
prodotti. Eppure, laddove Marx analizza
in dettaglio il funzionamento del mercato del credito, il capitale fittizio ed
il ruolo del sistema bancario, ossia nella quinta sezione del Libro Terzo de Il
Capitale, egli accenna anche ad una visione della moneta come “simbolo
sociale” (cfr. K. Marx, Il Capitale. Libro Primo, Editori Riuniti, Roma,
1964[1867], capp. 1-3; e K. Marx, Il Capitale. Libro Terzo, Editori
Riuniti, Roma, 1965[1894], capp. 21-33). Del
resto, già nei Grundrisse Marx oscilla tra una concezione della moneta
come merce ed una come simbolo (cfr. K. Marx, Lineamenti fondamentali di
critica dell’economia politica, Einaudi, Torino, 1976[1857-58], Quaderno I,
pp. 39-179). Su questo
aspetto controverso, si rinvia, tra gli altri, a: R. Bellofiore R., “A monetary
labour theory of value”, Review of Radical Political Economics, 1989,
21(1-2), pp. 1-25; e R. Bellofiore et al., “Marx Inside the
Circuit: Discipline Device, Wage Bargaining and Unemployment in a Sequential
Monetary Economy”, op. cit.
12 L’erogazione
di credito bancario determina il grado di indebitamento iniziale del
sistema delle imprese verso le banche, mentre il collocamento di titoli
determina un debito puramente figurativo delle imprese verso i loro
sottoscrittori. Si noti, però, che, nella misura in cui questi ultimi
trattengono in forma di scorte liquide inattive parte degli interessi (o altri
flussi di reddito) maturati sui titoli, le imprese rimangono
corrispondentemente indebitate verso il sistema bancario al termine del
circuito.
13 In un
modello ad un solo bene, utilizzabile sia come bene di consumo che come bene
intermedio, il “prezzo di produzione” di tale bene è pari al suo costo unitario
(dato dal rapporto tra il salario monetario unitario e il prodotto per unità di
lavoro) maggiorato di un saggio di profitto lordo. Si dimostra fácilmente che
tale saggio riflette le decisioni autonome di investimento delle imprese, data
la propensione al consumo dei salariati (cfr. A. Graziani, La teoria
monetaria della produzione, op. cit., e A. Graziani, The Monetary
Theory of Production, op. cit.). Esso, peraltro, corrisponde al
rapporto tra tempo di lavoro speso per la porzione di prodotto appropriata
dalle imprese e tempo di lavoro necessario a produrre la quota destinata ai salariati, ossia corrisponde al “saggio di sfruttamento” della forza-lavoro
per l’economia nel suoinsieme (cfr. R. Bellofiore et al., “Marx Inside
the Circuit: Discipline Device, Wage Bargaining andUnemployment in a Sequential
Monetary Economy”, op. cit.).
14 Il loro “valore-lavoro”
corrisponde, dunque, al rapporto tra il prezzo di riproduzione e la cosiddetta“espressione
monetaria del tempo di lavoro” (Monetary Expression of Labour Time,
MELT), per una definizione rigorosa della quale si rinvia a G. Duménil e D.
Foley, “The Marxian transformation problem”,op. cit.
15 Le tre
citazioni sono tratte da: A. Graziani, “Riabilitiamo la teoria del valore”, in
Graziani A., I conti senza l'oste, Bollati Boringhieri, Torino, 1983,
pp. 235-240.
16 Cfr. M. Seccareccia, “Financialization and the
transformation of commercial banking: understanding the recent Canadian
experience before and during the international financial crisis”, Journal of
Post Keynesian Economics, 35(2), pp. 277-300; e M. Veronese
Passarella, “Financialization and the monetary circuit: a macro-accounting
approach”, op. cit.
17 Su questo
aspetto, si vedano R. Bellofiore, J. Halevi e M. [Veronese] Passarella, “Minsky
in the ‘new’ capitalism. The new clothes of the Financial Instability Hypothesis”, in D.
Papadimitriou e L.R. Wray (a cura di), The Elgar Companion to Hyman Minsky,
Edward Elgar, Northampton, 2010, pp. 84-99.
18 Si rinvia a M. [Veronese] Passarella, “A simplified
stock-flow consistent dynamic model of the systemic financial fragility in the ‘New
Capitalism’”, Journal of Economic Behavior & Organization, 2012, 83(3),
pp. 570-582; e M. Veronese Passarella, “Financialization and the monetary
circuit: a macroaccounting approach”, op. cit.
19 Una
raffigurazione stilizzata del circuito dei pagamenti così come esso si è
storicamente riconfigurato nelle economie anglosassoni è riportata in Fig. 2
nell’Appendice al presente articolo liberamente scaricabile all’indirizzo
web:
http://www.marcopassarella.it/didattica/.
20 Per una descrizione più approfondita si rinvia a M.
Veronese Passarella, “Financialization and the monetary circuit: a
macro-accounting approach”, op. cit.
21 L’impatto
dello sviluppo della finanza sul coefficiente di rotazione del capitale e,
tramite questo, sulla creazione di valore e di plusvalore, è analizzato in
dettaglio in M. Veronese Passarella e H. Baron, “Capital’s humpbacked bridge. Financialisation and the rate of turnover
in Marx’s economic theory”, Cambridge Journal of Economics, in corso di
pubblicazione.
22 Di “repressione
dei mercati finanziari” hanno parlato esplicitamente Reinhart e Rogoff (cfr.
M.C. Reinhart e K. Rogoff, Questa volta è diverso, Il Saggiatore,
Milano, 2010). Per un approfondimento, si rinvia a E. Brancaccio e M.
[Veronese] Passarella, L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa,
Il Saggiatore, Milano, 2012. Sulla necessità di un rilancio della
pianificazione economica, si rinvia, inoltre, a M. Veronese Passarella, “Welfare,
mercato e piano. Critica del paradigma liberoscambista”, Ragion Pratica, 2014, 42(1), pp. 9-33.
Nota Editorial
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Foto: Marco Veronese Passarella |
Ricorre il 5 gennaio
il secondo anniversario della morte di Augusto
Graziani, uno dei più eminenti economisti italiani del novecento e padre
del filone teorico eterodosso noto come Teoria del circuito monetario. Per l’occasione, rendo qui
disponibile la bozza preliminare di un mio contributo recente
su Teoria del circuito monetario, critica marxiana e finanziarizzazione. Per
gli aspetti più tecnici della teoria del circuito, rinvio ad un secondo contributo (in lingua inglese) in uscita
su Metroeconomica
Sono grato ad Hervé
Baron, Marco Boffo e Thomas Casadei per i suggerimenti preziosi. Un
ringraziamento particolare va a Giorgio Gattei, a cui devo il mio interesse per
Marx e la critica dell’economia politica. Ovviamente, nessuno degli studiosi
citati è responsabile per eventuali errori o imprecisioni presenti nello
scritto, né per le tesi da me sostenute.