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Rosa Luxemburgo ✆ Valeria Palumbo
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◆ Nous ne pouvons
plus maintenant avoir aveuglément confiance, come Rosa, dans la spontanéité de
la classe ouvrière, et les organisations se sont écroulées. Mais Rosa ne
puisait pas sa joie et son pieux amour à l’égard de la vie et du monde dans ses
espérances trompeuses, elle les puisait dans sa force d’âme et d’esprit. C’est
pourquoi à présent encore chaucun peut suivre son exemple — Simone Weil
Riccardo Bellofiore / Sono passati ormai quasi cent’anni da
quando, nel gennaio del 1919, Rosa Luxemburg venne assassinata. L’immagine che
di lei hanno avuto ed hanno i suoi avversari, di ieri e di oggi, è semplice
abbastanza da poter essere sintetizzata in un’espressione efficace come
“Rosa la sanguinaria”. Ma anche le immagini che di lei hanno dominato e
dominano tra chi dovrebbe averne più a cuore la memoria – penso ai marxisti di
questo secolo, e a un certo femminismo – sono a volte talmente semplificate da
risultare ancora meno accettabili.
Si prenda, per esempio, un articolo di Margarethe von
Trotta, regista di un film su Rosa Luxemburg. La regista tedesca sintetizzava
l’eredità della rivoluzionaria polacca nell’amore, nell’incapacità di odiare,
nel rifiuto della violenza. Non si potrebbe immaginare certo nulla di più
lontano da “Rosa la sanguinaria”. Già
nel film, peraltro, la Luxemburg vi appare come una pacifista, amante della
natura, che patisce la divisione tra politica e sentimenti, precocemente oltre
il femminismo nella convinzione di una maggiore positività delle relazioni
femminili.
Tutti tratti, si badi, che hanno un riscontro in momenti ed aspetti
di questa donna cui è capitato di essere rivoluzionaria. Ma se si assolutizzano
questi lati mettendo tra parentesi la sua vita spesa nel lavoro teorico
marxista, tra analisi dell’accumulazione e agire politico, la sua lucida
coscienza della amara spietatezza delle leggi della storia e della lotta contro
di esse, si finisce – magari contro le intenzioni – con il riproporre una
divisione delle ragioni dalle passioni. Quello che nel film Rosa L. era utile e
provocatorio, insomma, diviene nella formula troppo ellittica “l’amore era la
sua guida” un appello generico ai sentimenti, ed infine una non innocente
distorsione di questa figura, perché riproduce proprio quella scissione tra
pensiero (un pensiero rivoluzionario, con quanto di “sporco” e irrisolto
l’aggettivo comporta) e sentire (di un sentire caratterizzato da affezioni
radicali e intransigenti, come era nella natura della Luxemburg) che si voleva
combattere.
Della persona che ha scritto in uno dei suoi ultimi articoli
su Rote Fahne, nel dicembre 1918, “Un mondo deve essere distrutto, ma ogni
lacrima che scorra sul volto, per quanto asciugata, è un atto d’accusa” non si
può, non si deve, perdere la tensione tra momento della lotta e momento della
compassione: non lo si può, non lo si deve perdere, perché è appunto nel legame
tra “forza” della trasformazione sociale e “debolezza” che si riconosce in sé e
cui si vuole dare spazio nel mondo che risiede quanto di più inquietante ed
innovativo questa rivoluzionaria può dire a noi ancora oggi.
Le cose stanno, ovviamente, ancora peggio se si va a
guardare il modo con cui la tradizione marxista ha trattato la Luxemburg. Qui
siamo su un terreno familiare. I suoi lati “femminili” sono relegati a contorno
della sua riflessione marxista, a segno inconfondibile della sua umanità
particolare; della sua analisi economica e della sua teoria dell’organizzazione
ci si disfa rapidamente, ritenendo la prima piena di contraddizioni logiche e
la seconda velleitaria e movimentista. Rivoluzionaria generosa, Rosa Luxemburg
diviene proprio per questo meno lucida e destinata ad una sconfitta che segna
la sua inattualità. È questa, in fondo, la rappresentazione di Rosa Luxemburg
che è tornata ad essere dominante, per un breve periodo, a cavallo tra gli anni
sessanta e settanta, quando con la ripresa un po’ dovunque di lotte radicali
anticapitalistiche si è riproposta la questione della crisi, e di conseguenza
della politica rivoluzionaria. Intrappolata nella opposizione a Lenin, la
Luxemburg è stata di nuovo ripudiata o accettata come determinista e
spontaneista.
Un crollismo
determinista? Le critiche
Può valere la pena riprendere un attimo in mano i vecchi
testi polverosi, andare a rivedere ciò che ha detto la Luxemburg, e cosa è
stato detto contro di lei. Credo, infatti, che possa emergerne un diverso modo
di vedere le cose, una diversa immagine di una marxista i cui errori e le cui
sconfitte sono molto più fertili di quanto ci dicano le vecchie e nuove
interpretazioni.
Partiamo proprio dall’accusa di determinismo rivolto alla
sua analisi economica. La Luxemburg, si dice, costruisce nella sua
Accumulazione del capitale del 1913 una teoria del crollo che ripete i classici
errori del sottoconsumismo. Il suo ragionamento sarebbe il seguente. Nel
capitalismo, la produzione è produzione per il denaro, per un profitto
monetario sempre crescente. Ma da dove viene il denaro che realizza il
sovrappiù sempre maggiore che viene prodotto e riprodotto grazie alle
ricorrenti innovazioni tecniche, e che non può essere per definizione
acquistato dai lavoratori il cui consumo può “realizzare” solo una parte del
prodotto? Questo plus-denaro non può che venire dall’esterno del modo di
produzione capitalistico, che fornisce una domanda aggiuntiva, costituita dalle
esportazioni dell’area “avanzata” verso l’area “arretrata”. Ma la lotta per la
spartizione delle zone pre-capitalistiche e la necessità di integrarle nella circolazione
monetaria conducono ad una loro inclusione nel mondo capitalistico: una volta
che non esistano più possibili mercati di sbocco “esterni”, ed il capitalismo
abbia raggiunto su scala mondiale la sua “purezza”, si verificherà il “crollo”.
Anche la lettura tradizionale della teoria
dell’organizzazione luxemburghiana può essere sintetizzata in poco spazio. Le
tendenze automatiche al crollo rendono irrilevante la costituzione di un
partito separato dalle masse, che finirebbe con il degenerare in una dittatura
dell’organizzazione sui movimenti reali. La crisi economica tenderebbe a
generalizzare il conflitto politico “spontaneo”, di cui garantirebbero uno
sbocco “rivoluzionario”.
La critica a queste posizioni si è rivelata abbastanza
facile. Sul terreno dell’analisi economica, molti – basti qui citare per tutti
Lenin, Bukharin e Sweezy – hanno rilevato che Rosa Luxemburg confonderebbe il
problema “da dove viene la domanda che realizza il sovrappiù” con quella “da
dove viene il denaro che realizza monetariamente il profitto”. La seconda
sarebbe una questione tecnica, facilmente risolvibile (basta, per esempio
immaginare che aumenti la velocità di circolazione, o che aumenti la quantità
di oro che affluisce all’area capitalistica). Per quanto riguarda la prima questione,
la Luxemburg dimenticherebbe, come tutti i sottoconsumisti, che la domanda
interna all’area capitalistica non è costituita solo dai consumi operai ma
anche dagli investimenti dei capitalisti: una caduta dei consumi dei lavoratori
può benissimo essere compensata da un aumento nell’acquisto di beni
strumentali; certo così si verrebbe a configurare, al limite, una produzione di
macchine a mezzo di macchine; ma il capitalismo è appunto un sistema in cui la
produzione non ha come proprio fine il consumo ma la ricchezza astratta, è una
produzione per la produzione. Non vi è, perciò, nessuna tendenza automatica al
crollo, che possa indurre spontaneamente la coscienza di classe nelle masse: la
crisi non può che essere politica, e deve essere l’esito dell’azione di un
partito di avanguardie esterne.
Le cose stanno in modo molto diverso. Rosa Luxemburg è stata
certo una crollista, ma la sua argomentazione era diversa in punti essenziali
da quella ricordata; come dirò, i problemi che lei ha affrontato sono ancora
oggi i problemi cruciali dell’economia politica critica, mentre le facili
certezze dei suoi critici si sono rivelate molto più congeniali
all’impostazione ortodossa, “borghese”, della scienza economica. Inoltre, lungi
dall’essere una spontaneista, Rosa Luxemburg ha sempre ritenuto che
l’organizzazione fosse necessaria ma trovasse la sua legittimazione nel
movimento reale, che la politica come attività separata dal sociale dovesse
combattere contro questa separazione stessa, se suo fine deve essere una società
democratica di autogestione del lavoro e di uscita dal primato dell’economico.
Tutt’altro che determinista, il comunismo è stato per lei non una necessità ma
una possibilità, di cui era vano ricercare la “garanzia” in una filosofia della
storia o in una ontologia.
In quello che segue, proverò a suggerire come una
interpretazione di questo tipo possa essere sostenuta.
Che cos’è
l’economia politica? Valore e salario relativo
Un’opera fondamentale per capire veramente Rosa Luxemburg, e
pure raramente letta, è l’Introduzione all’economia politica. Pubblicata
postuma, raccoglie i capitoli rimastici di un libro che prendeva spunto
dall’attività di insegnamento nella scuola di partito. Il volume era stato
iniziato in carcere, probabilmente nel 1912, ed era stato rivisto
successivamente dall’autrice nel 1916, ma mai da lei pubblicato; Paul Levi ne
editerà una versione filologicamente discutibile nel 1925. Il libro è
importante per tre ragioni: l’interpretazione della teoria del valore, la
teoria della caduta tendenziale del salario relativo, la definizione del senso
preciso da attribuire all’espressione “critica dell’economia politica”.
Per quanto riguarda la teoria del valore, la Luxemburg è
stata una anticipatrice della posizione, poi espressa con particolare forza e
rigore dall’economista russo Rubin, secondo cui la teoria del valore di Marx
non rappresenta tanto una teoria dei prezzi relativi di equilibrio che li
ancora alla determinazione “oggettiva” della spesa fisiologica di lavoro umano
nella produzione, quanto piuttosto una teoria del modo peculiare e
contraddittorio con cui si realizza la natura sociale del lavoro in una
economia essenzialmente monetaria come quella capitalistica.
Scoprire che nel valore di scambio di ogni merce, nel denaro
stesso, c’è semplicemente del lavoro umano e che il valore di ogni merce è
tanto più grande quanto più la sua produzione ha richiesto lavoro e viceversa,
non è che riconoscere metà della verità. L’altra metà consiste nello spiegare
come, perché il lavoro prende la forma strana del valore di scambio e la forma
misteriosa del denaro.
In una società di mercato generalizzato, quale è il
capitalismo, “lo scambio”, sostiene la Luxemburg, “è il solo mezzo per unire
individui atomizzati e la loro attività in una economia sociale coerente”: lo
scambio è cioè il nesso sociale indiretto di una società asociale, fondata
sulla separazione tra i produttori.
Il lavoro concreto, individuale, prestato all’interno dei
singoli capitali, è un lavoro immediatamente privato, comandato dai capitalisti
nell’attesa che esso si riveli poi effettivamente sul mercato, ex post, un
lavoro sociale indifferenziato. Non è strano che in una società siffatta
“l’economia produca risultati inattesi ed enigmatici per gli interessati
stessi”, diventi per loro “un fenomeno strano, alienato, indipendente, di cui
occorre ricercare le leggi come si studiano i fenomeni della natura esterna e
si ricercano le leggi che reggono la vita del regno vegetale e del regno
animale, i cambiamenti della scorza terrestre ed i movimenti celesti”. Con il
capitalismo nasce, insomma, l’economia politica come disciplina autonoma,
perché l’economico si separa dagli altri momenti della connessione sociale, e
trova in sé stesso la propria finalità e la propria giustificazione: “la conoscenza
scientifica deve scoprire a cose fatte, il senso e la regola dell’economia
sociale che nessun piano cosciente le ha dettato prima”.
Non è difficile, oggi, scorgere dietro questo discorso della
Luxemburg, sia pure non pienamente e soddisfacentemente sviluppato, il ruolo
centrale che ha la categoria del lavoro astratto: il lavoro sociale è nel
capitalismo non il lavoro utile, naturale, ma il lavoro che deve divenire sociale astraendo dalle
determinazioni concrete della sua prestazione lavorativa. Che il lavoro
astratto sia un’astrazione reale specifica del capitalismo e non una
generalizzazione mentale del ricercatore, la cui altra faccia altro non è che
il denaro stesso come prodotto specifico del capitale, è già anticipato
chiaramente dalla Luxemburg in Riforma sociale e rivoluzione:
l’astrazione marxiana
non è un’invenzione, ma una scoperta, essa esiste non nella testa di Marx ma
nell’economia mercantile, conduce un’esistenza non immaginaria, ma reale e
sociale, un’esistenza così reale da venire suddivisa e battuta, pesata e
coniata. Il lavoro astratto umano scoperto da Marx non è altro cioè nella sua
forma sviluppata che – il denaro.
Già nella Luxemburg è possibile vedere bene anche il legame
stretto che questa tematica ha con la teoria dell’alienazione e del feticismo,
e con la tesi che il primato dell’economico ha una nascita e, possibilmente,
una morte. Ma su questo tornerò: basti per adesso rilevare come questa
problematica è estranea tanto alle riduzioni economicistiche della teoria del
valore a teoria del primato della produzione ridotta a sfera tecnica, come alle
posizioni che vogliono ridurre la teoria marxiana a teoria del conflitto
distributivo tra le classi sociali. Ciò che qui si sottolinea è che il valore
si crea – meglio: si attualizza – all’incrocio tra produzione e circolazione,
che le merci sono l’esito di processi di valorizzazione svolti separatamente ed
in concorrenza reciproca, e che la lotta al capitalismo è lotta alla forma di
merce che ha separato individuo e società. Decisamente minoritaria tanto nel
periodo della Seconda Internazionale quanto della Terza Internazionale, questa
posizione sarà ripresa negli ultimi vent’anni dalla ricerca marxista più
avvertita.
Passiamo al secondo punto. La generalizzazione della forma
di merce comporta la riduzione a merce della stessa forza-lavoro. La
peculiarità di quest’ultima consiste nel fatto che il valore d’uso di questa
merce è il lavoro stesso, e non è separabile dal suo venditore. Ciò ha due
conseguenze. In primo luogo, data la durata della giornata lavorativa, il
capitalista ottiene un incremento della quota del pluslavoro, e quindi del
plusvalore, nella misura in cui è in grado mediante tecniche di produzione più
avanzate di ridurre il valore di scambio della forza-lavoro, che ha il suo
corrispettivo nel salario reale. In secondo luogo, però, l’estrazione di questo
pluslavoro dipende dalla capacità di imporre l’effettiva erogazione del lavoro;
dipende perciò da un conflitto tra le classi nel processo di produzione,
conflitto che ha la sua radice profonda nel controllo che l’operaio, singolo o
collettivo, è in grado in certe circostanze di sviluppare sul proprio
lavoro vivo, che costituisce la sostanza della valorizzazione. Le
considerazioni che la Luxemburg svolge sul salario nell’Introduzione rimandano
appunto a questa dialettica tra progresso tecnico endogeno al capitalismo – la
rivoluzione incessante dei modi di produrre allo scopo di valorizzare il
capitale – e la crisi sociale del modo di produzione capitalistico.
Rosa Luxemburg formula a questo proposito quella che
definisce una “legge” del modo di produzione fondato sul carattere di merce
della forza-lavoro, e cioè la tesi di una caduta tendenziale del “salario relativo”.
La Luxemburg coglie lucidamente la differenza radicale che la forma salario
determina rispetto alle condizioni del lavoro precapitalistiche:
Nel sistema salariale
non esistono determinazioni legali o di diritto consuetudinario o anche solo
forzose, arbitrarie della parte spettante all’operaio sul proprio prodotto.
Questa parte viene determinata dal grado raggiunto dalla produttività del lavoro,
dallo stato della tecnica; non una qualunque volontà arbitraria degli
sfruttatori ma il progresso della tecnica è la causa dell’incessante e
implacabile compressione della parte dell’operaio.
D’altro canto, prosegue la Luxemburg
il costante e
incessante progresso della tecnica rappresenta per il capitalismo una
necessità, una condizione vitale. La concorrenza tra i singoli imprenditori
costringe ognuno di loro a produrre il più a buon mercato possibile, cioè con
il maggior risparmio possibile di lavoro umano.
La conclusione è che
ogni progresso nella
produttività del lavoro si estrinseca nel restringimento della quantità di
lavoro necessaria al mantenimento del lavoratore. Vale a dire: la produzione
capitalistica non può fare alcun passo innanzi senza limitare la partecipazione
dei lavoratori al prodotto sociale.
La tesi della Luxemburg è, in sintesi, che l’incremento
della forza produttiva del lavoro, cui contribuiscono le diverse imprese nella
loro competizione alla caccia di extra-profitti, conduce ad una riduzione del
lavoro necessario alla produzione dei beni-salario. Ne discendono un corollario
economico ed una tesi politica.
Il corollario economico è che, contro qualsiasi teoria che
imputerebbe a Marx la tesi di un impoverimento crescente della classe operaia,
le innovazioni possono dar luogo contemporaneamente ad un aumento del
plusvalore e ad un maggior benessere dei lavoratori (sia nel senso di salari
reali più elevati che nel senso di riduzioni dell’orario di lavoro): è
possibile cioè produrre più beni per i lavoratori in meno tempo, nonostante una
divisione della giornata lavorativa sociale più favorevole alla classe
capitalistica.
La conseguenza politica è che – contrariamente alla versione
determinista della lotta di classe che di norma viene attribuita alla Luxemburg
– si riconosce uno spazio per una collusione riformista tra capitale e lavoro
all’interno del capitalismo “avanzato”. La possibile convergenza di interessi
tra le due classi vale, beninteso, solo finché si rimane sul terreno del valore
d’uso, della ricerca di un maggior benessere materiale; le cose non stanno più
così, e necessariamente, sul terreno del valore, della spartizione
antagonistica della giornata lavorativa, della lotta tra capitale e lavoro
sull’uso della forza-lavoro. Ma impedire, su quel terreno, che è il cuore della
valorizzazione, la caduta del “salario relativo” equivale a mettere in crisi –
una crisi politica perché sociale – il modo di produzione capitalistico.
La lotta contro il ribasso del salario relativo è la lotta
contro il carattere di merce della forza- lavoro, contro la produzione
capitalistica in quanto tale. La lotta contro la caduta del salario relativo
non è più una lotta sul terreno dell’economia capitalistica ma un assalto
rivoluzionario contro questa economia, è il movimento socialista del
proletariato.
È adesso chiaro in che senso l’Introduzione presenta un
modo di fare economia politica critica, cioè di legare l’analisi dei meccanismi
economici ai rapporti sociali che li producono e inceppano, che è innovativo
per il marxismo di allora, ma forse anche per quello di oggi. Ed è anche chiaro
perché si tratta di un modo originale, allora come oggi, di intendere la teoria
marxiana come “critica dell’economia politica”. Come si è detto, l’economia
come scienza autonoma nasce solo con l’autonomizzarsi della sfera
dell’economia, che si separa e si erge come potenza autonoma ed estranea
rispetto ai lavoratori che ne costituiscono il centro. Lottare contro il
carattere di merce della forza-lavoro significa allora riacquistare il
controllo e la trasparenza del processo sociale, combattere e negare
praticamente la separazione ed il primato dell’economia, delle cose sull’essere
umano. Scrive la Luxemburg: “Poiché l’economia è una scienza delle leggi
particolari del modo di produzione capitalista, la sua esistenza e la sua
funzione dipendono da questo modo di produzione e perdono ogni base quando
questo cessa di esistere”. E ancora: “Il compito della ricerca scientifica è
quello di scoprire la mancanza di coscienza di cui soffre l’economia della
società, e qui tocchiamo direttamente la radice dell’economia politica”. Di
conseguenza “la fine dell’economia politica come scienza è una azione storica”,
è il frutto di un intervento politico che sradichi le basi oggettive – materiali,
o sociali, che dir si voglia – dell’opacità del modo di produzione
capitalistico e lo scandalo dello sfruttamento. Al di là del capitale, insomma,
i fenomeni economici e la riflessione su di essi – che, come è ovvio, non
scompariranno – dismettono la propria separatezza ed autonomia, per divenire
subordinati ad altre forme dell’agire e ad altri discorsi.
La teoria
della crisi
L’Introduzione rivela che Rosa Luxemburg vede nella
teoria del valore non tanto una teoria dei prezzi di equilibrio – come faranno
tanto il marxismo tradizionale quanto il neoricardismo – quanto piuttosto una
teoria delle leggi di movimento del modo di produzione capitalistico. Dal
valore come nesso sociale particolare la Luxemburg deriva, infatti, sia le
tendenze dinamiche del capitale (legge della caduta del salario relativo) che
la centralità dei fenomeni monetari. Se la visione della teoria del valore come
teoria della socializzazione peculiare del capitalismo verrà ripresa, come ho
detto, da Rubin, la visione della teoria del valore come analisi dello sviluppo
ineguale sarà ulteriormente arricchita da Henryk Grossmann, e la visione
monetaria del valore-lavoro è stata recentemente oggetto di attenzione
(soprattutto da parte della teoria del circuito monetario di Graziani e Parguez,
e del Financial Keynesianism di Minsky).
Queste tesi, come cercherò di sostenere, mostrano anche con
chiarezza che le critiche di determinismo e di spontaneismo rivolte alla
Luxemburg non reggono.
Torniamo alla sua teoria della crisi ed alla sua teoria
dell’organizzazione. Per quanto riguarda la prima, le argomentazioni precedenti
chiariscono quanto è peraltro già evidente ad una lettura attenta
dell’Accumulazione del capitale, e cioè che la Luxemburg non è una
sottoconsumista. La sua tesi è che proprio l’incessante attività di
innovazione, che si traduce in investimenti massicci ma non regolati, determina
nel corso dello sviluppo le ragioni della propria interruzione. La tesi può
essere messa in termini abbastanza semplici. La crescita degli investimenti si
accompagna alla crescita di nuove imprese e di nuovi rami di produzione, ed al
cambiamento delle vecchie imprese e dei vecchi rami di produzione; questo
comporta una modificazione delle condizioni di equilibrio degli scambi
intersettoriali, modificazione che in una economia non pianificata rende sempre
più probabile l’emergere di una crisi da sproporzioni, con eccessi di domanda
in alcuni settori ed eccessi di offerta in altri settori. L’eccesso della
produzione sulla domanda solvibile determina caduta dei prezzi, e si avranno
perciò perdite e fallimenti, che a loro volta comporteranno licenziamenti;
cadono quindi sia la domanda di beni strumentali da parte delle imprese fallite
sia la domanda di beni salario da parte dei disoccupati. Quando que- sto
fenomeno investe settori importanti dell’economia, la flessione della domanda
di investimenti e di consumo trasmette l’eccesso di offerta ad altri settori,
in un processo a catena, che ha come suo esito una sovrapproduzione generale
(una linea di ragionamento non dissimile la si ritrova espressa in alcune
pagine dei Grundrisse).
Cade dunque la tesi che l’analisi della crisi luxemburghiana
non presti una sufficiente attenzione agli investimenti come componente della
domanda. L’“errore” che sicuramente commette la Luxemburg è semmai quello di
trasformare una tendenza sistematica alla crisi – dovuta all’ impossibilità di
immaginare una crescita senza limiti della quota degli investimenti – in crollo
necessario: “non esistono crisi permanenti”, scrive Marx.
Anche l’altra critica rivolta alla Luxemburg, secondo cui la
questione da dove viene la moneta che realizza il plusvalore?” sarebbe mal
posta, è una critica che si ritorce in larga misura contro i suoi propositori
(in questo nostro scritto non è molto rilevante la cruciale distinzione
marxiana tra denaro e moneta, e utilizzeremo dunque i due termini come
sinonimi). In effetti, abbiamo visto come per la Luxemburg la produzione
capitalistica, come produzione di valore, non sia altro che produzione di
denaro. Il costante andare e ritornare, nell’Accumulazione del capitale, alla
questione della moneta è un indice del fatto che la Luxemburg aveva colto bene
la natura monetaria del processo capitalistico. Il suo ragionamento, insomma,
si svolge sempre in termini di un modello di circuito monetario, dove la
produzione deve essere finanziata dal capitale monetario, e deve dare luogo ad
un accrescimento del valore.
Rosa Luxemburg si muove, anche su questo terreno, in modo
iniziale e malcerto: coglie però l’importanza di due punti che sfuggono
interamente ai suoi critici. Mentre questi ultimi sono prigionieri di
un’immagine del processo economico che non lascia spazio alla moneta se non
come “velo” inessenziale dei fenomeni reali, di un’immagine quindi che equipara
l’economia capitalistica ad un’economia di baratto, la Luxemburg si chiede
costantemente come entra la moneta nel sistema economico, e come essa si
incrementi per dar luogo ad un plus-denaro. Il fatto che le sue risposte siano
difettose – per lei la moneta è l’esito di un processo di produzione in tutto
analogo agli altri processi manifatturieri, e la maggior quantità di moneta può
derivare solo dalle esportazioni – non toglie che essa sia tra i pochi autori
che riprendono questa problematica dopo Marx.
Va inoltre rilevato che la successiva ricerca ha sviluppato
i suggerimenti della Luxemburg mostrandone la fondatezza. Michail Kalecki, che
proprio partendo dall’impostazione luxemburghiana è giunto a risultati che
echeggiano quelli della contemporanea rivoluzione keynesiana, ha mostrato come
un saldo positivo delle esportazioni sulle importazioni è in grado di
consentire un incremento della domanda effettiva ed una parziale o totale
realizzazione monetaria del plusvalore: la Luxemburg avrebbe sbagliato quindi
nel vedere nell’ intero ammontare delle esportazioni un’aggiunta alla domanda
ed una immissione di moneta “dall’esterno”, trascurando il deflusso di moneta
dovuto alle importazioni, ma avrebbe intuito la relazione corretta che si
instaura tra esportazioni nette e circuito monetario. Kalecki stesso ha inoltre
mostrato come un risultato analogo possa essere ottenuto da un eccesso delle
spese pubbliche sulle entrate finanziato con nuova moneta.
I limiti indubbi dell’analisi economica della Luxemburg non
ci hanno impedito di rilevare l’originalità della sua ripresa della teoria del
valore come teoria dello sfruttamento in una economia monetaria caratterizzata
dalla concorrenza dinamica tra le imprese, e la sua anticipazione di temi oggi
sviluppati dalla teoria del circuito monetario. Quelli che erano stati bollati
come “errori” tanto da Kautsky come da Lenin, tanto da Bauer come da Bukharin,
si sono rivelati i semi della ripresa della critica dell’economia politica
negli anni più recenti.
Lotte e
organizzazione: gli scritti politici
La riconsiderazione della teoria economica della Luxemburg
svolta nei paragrafi precedenti ha rivelato l’infondatezza dell’accusa di
spontaneismo indirizzata alla Luxemburg, che sarebbe secondo i più nient’altro
che l’altra faccia del suo determinismo (tesi, peraltro, almeno più dignitosa
di quella, che pure è stata avanzata, secondo cui la sottovalutazione
dell’organizzazione dipenderebbe dalla natura “femminile” della rivoluzionaria
polacca, che l’indurrebbe a vedere nel controllo cosciente una minaccia al
comportamento spontaneo…). Per quanto possa apparire paradossale, per la
Luxemburg la tendenza al crollo non giustifica alcun attendismo, e nemmeno
alcun atteggiamento evoluzionistico, di tranquilla fiducia nel “corso delle
cose”, tutt’altro.
Alla stessa conclusione si può pervenire tenendo conto di
altre parti della riflessione della Luxemburg. Nei suoi scritti più tardi, la
rivoluzionaria polacca sviluppa una posizione del tutto peculiare, di fatto
unica nel marxismo di allora, secondo la quale l’avvento del socialismo non può
essere inteso come una necessità naturale, ma esclusivamente come una necessità
storica: non come un esito scontato, un momento terminale della storia umana,
ma come l’unica possibilità di sfuggire alla “barbarie” verso cui lo sviluppo
capitalistico trascina tanto la classe lavoratrice quanto l’umanità in genere.
Anche qui, si può certo imputare alla Luxemburg una visione eccessivamente
cupa delle dinamiche sociali, ma è difficile negare che un’impostazione del genere
le consente di evitare le secche in cui si arena l’evoluzionismo
secondinternazionalista e terzinternazionalista. E davvero il pessimismo
luxemburghiano è un limite? Basta ricordare le convulsioni degli anni che
seguirono, tra la prima e la seconda guerra mondiale, il vero e proprio degrado
materiale (ma anche psicologico) della civiltà e della qualità della vita negli
anni del neocapitalismo, la devastazione della natura del presente e la
riemergente disoccupazione di massa dei nostri giorni, per chiedersi ancora una
volta se non vi sia più ragione dalla sua parte che da quella dei suoi critici.
L’accusa di spontaneismo è spesso stata rivolta alla
Luxemburg a partire dalla accettazione della teoria dell’organizzazione di
Lenin. Non può peraltro non colpire il fatto che, nonostante la differenza tra
i due sia netta (ma soprattutto se si guarda al Che fare?, non se si guarda a
Stato e rivoluzione), e nonostante le non poche critiche di Lenin alla
Luxemburg, mai si ritrovi negli scritti del rivoluzionario russo la critica in
questione. In realtà, Lenin ben vedeva che la Luxemburg, benché formulasse con
tutta evidenza una teoria dell’organizzazione diversa dalla sua, non negava
affatto il ruolo di una avanguardia, appunto, organizzata.
I termini del contrasto sono ben illuminati da un vecchio
articolo di Rossana Rossanda, Classe e partito, comparso nel settembre 1969 sul
Manifesto rivista. Per Lenin la lotta operaia non può andare oltre il conflitto
economico, oltre la rivendicazione di una distribuzione più favorevole ai
lavoratori. La lotta sociale può divenire lotta politica solo se il partito,
l’autentico “soggetto” rivoluzionario, è in grado di dare “coscienza” al
proletariato come “oggetto” dell’agire rivoluzionario, in sé totalmente interno
ad un orizzonte capitalistico. La Rossanda cita dal Che fare? alcuni brani di
Lenin particolarmente espliciti: basti qui richiamare le conclusioni secondo
cui “in Russia la dottrina teorica della socialdemocrazia sorse del tutto
indipendentemente dallo sviluppo spontaneo del movimento, come risultato
naturale e inevitabile dello sviluppo del pensiero fra gli intellettuali
socialisti nostrani”, e che “il compito della socialdemocrazia è di introdurre
nel proletariato la coscienza della sua situazione e della sua missione”. A
ragione la Rossanda ne conclude che in questa impostazione
è evidente la radice
idealistica. Se è vero che bisogna guardarsi da una interpretazione
“meccanicistica” del pensiero di Marx, resta da vedere come si possa volersi
marxisti e sostenere che la coscienza abbia altra origine che l’essere sociale
– “non è la coscienza degli uomini a determinare l’essere, ma al contrario è
l’essere che determina la coscienza” -; e se il passaggio fra l’essere e la
coscienza nel proletariato presenta un momento di difficoltà teorica, è
francamente insolubile, pena una ricaduta verticale nell’hegelismo, una
derivazione della coscienza dalla coscienza.
La Luxemburg, prosegue Rossanda, affronta la questione
dell’organizzazione “all’interno della concezione marxiana della coscienza di
classe, invece che attraverso l’accettazione della tesi leniniana di
un’avanguardia esterna”. Per la Luxemburg, si badi, il ruolo dell’avanguardia è
comunque centrale per trasformare le contraddizioni oggettive, cioè sociali, in
rottura rivoluzionaria: ma non certo per una “assenza della dimensione politica
della lotta operaia in quanto tale”, quanto piuttosto per il rischio della “sua
oggettiva frantumazione” e per la conseguente “necessità di una strategia
unificante”.
Quello che occorre aver ben chiaro, insomma, è che la
relazione tra organizzazione e spontaneità è per la Luxemburg tale che il
partito trova la sua legittimità non in sé stesso ma nella classe; e che la sua
efficacia può crescere e verificarsi solo nella direzione di lotte di massa che
erompono periodicamente ed in modo inaspettato (“anche qui – scrive la
Luxemburg nei Problemi di organizzazione della socialdemocrazia russa –
l’inconscio precede il cosciente, la logica del processo storico obiettivo
precede la logica soggettiva dei suoi protagonisti”) ma che rischiano sempre la
disgregazione e l’atomizzazione se non vengono costantemente riunificate.
L’azione del partito
sorge storicamente
dalla lotta di classe elementare. Si muove in questa contraddizione dialettica
che da un lato l’esercito proletario si recluta solo nel corso stesso della
lotta e dall’altro che è ancora soltanto nella lotta che ne chiarisce a se
stesso gli scopi. Organizzazione, chiarificazione e lotta non sono qui momenti
divisi, meccanicamente e anche temporalmente separati […], sono soltanto facce
diverse di un medesimo processo.
In ultima analisi, la liberazione della classe operaia sarà
opera della classe operaia stessa.
“In conclusione,
diciamolo pure apertamente fra di noi: i passi falsi che compie un reale
movimento operaio rivoluzionario sono sul piano storico incommensurabilmente
più fecondi e più preziosi dell’infallibilità del miglior comitato centrale”. E
nell’ultimo articolo del gennaio 1919, L’ordine regna a Berlino, pochi giorni
prima della morte: “la rivoluzione è l’unica forma di guerra in cui la vittoria
finale possa essere preparata solo attraverso una serie di sconfitte”.
È dunque a causa della natura sociale e non meramente
politica della rivoluzine proletaria che la Luxemburg definisce lo sciopero di
massa la “forma generale della lotta di classe proletaria”, ed il partito come
“il movimento specifico della classe operaia”. Nell’organizzazione si deve
costantemente combattere la separazione tra ceto politico e quadro militante,
tra dirigenti e diretti: la direzione del partito deve perciò essere in mano ai
quadri operai. Tornerò su questo punto nel prossimo paragrafo.
Il discorso sull’organizzazione della Luxemburg è, come è
ovvio, inseparabile dalla composizione di classe che aveva di fronte, dai
problemi che affrontava (la diversità della situazione concreta può in effetti
spiegare, sia pure solo in parte, il contrasto con Lenin). Ciononostante, credo
si possa anche qui notare come i limiti che essa patisce, se guardata
dall’oggi, sono non la sopravalutazione ma semmai la sottovalutazione della
politicità delle lotte operaie autonome nelle fasi in cui il movimento è all’offensiva,
e la difficoltà di definire il rapporto tra partito e masse nelle fasi di
sconfitta.
Limiti che senz’altro esprimono una contraddizione, che però
sarebbe bene ricordare che è tutt’ora davanti a noi, e non dietro di noi.
Ancora una volta, Rosa Luxemburg si rivela non una soluzione, ma un arsenale di
problemi.
In modo del tutto condivisibile, Edoarda Masi ha scritto:
Rosa sta dalla parte
delle masse perché sono oppresse, e la funzione educatrice delle élite è per
lei finalizzata alla loro rivolta, alla rivoluzione – non al potere delle
stesse élites per conto delle masse, vicario del potere borghese e a esso
speculare. È una visione fino a oggi priva di sbocco politico, ma la sola dove
la rivoluzione non sia destinata a divorare se stessa.
E ancora:
Se la talpa della
storia è la verità che, celata al presente, si rivelerà nelle mutate condizioni
del futuro, è in questo nostro tempo che si rovescia in rivincita tutto quanto
era parso il risvolto negativo delle idee di Rosa e della sua sorte: puntare
sulle masse – quando la rivoluzione d’ottobre, la sola vittoriosa, aveva
seguito altra via; optare per la pace – quando la socialdemocrazia aveva scelto
la guerra, e la guerra era venuta, seguita poi ancora da un’altra ancora più
tremenda e universale; trovarsi dalla parte degli sconfitti – il peggiore dei
torti secondo la ragion politica. Le vittorie di allora, se pure autentiche,
non ci riguardano ormai, quando tutto è mutato e trascinato via dal tempo […]
Attuali e invincibili restano le idee degli sconfitti, perché rispondono ad
un’esigenza insopprimibile degli esseri umani di questo secolo e ne
rappresentano la nobiltà. Indipendentemente da se e fino a quando siano
attuabili.
Non saprei dire meglio.
Rosa
Luxemburg e il sindacato
Il rapporto di Rosa Luxemburg con il sindacato è il tema
della tesi di Claudio Sabattini , presentata nel 1969-70. Il titolo della tesi
(pubblicata qualche anno fa dalla Meta edizioni) era, per la precisione, Rosa
Luxemburg e il problema della rivoluzione in Occidente. La tesi è scritta di
fretta, per nulla curata. Sabattini era allora stato eletto da poco segretario
generale della Fiom bolognese, da tre anni lavorava alla Cgil, era stato
impegnato nelle lotte studentesche come dirigente della Fgci. L’urgenza non
stava però solo nella vita di Sabattini: stava anche nella scelta del tema,
nella domanda che lo attraversava da capo a fondo, nel corpo a corpo con una
problematica che per lui bruciava nella pratica quotidiana.
La prima metà della tesi si concentra sul dibattito sul
“revisionismo” di fine Ottocento. Dalle controversie sul “testamento di
Engels”, che pareva giustificare una tattica parlamentaristica e non violenta,
alla provocazione “opportunistica” di Bernstein, alla replica “ortodossa” di
Kautsky e Luxemburg. Per Sabattini le interpretazioni di Kautsky e Luxemburg
coincidono solo all’apparenza, senza davvero mai incontrarsi. In Riforma
sociale o rivoluzione? la Luxemburg ribatte punto per punto a Bernstein con
argomenti più brillanti di quelli del “super-esperto”. La tendenza al crollo
per il problema del realizzo del plusvalore è solo rimandata, ed anzi
aggravata, dai fenomeni nuovi cui fa appello il revisionismo. La concentrazione
del capitale in imprese sempre più grandi è una tendenza di lungo termine, che
si realizza in un movimento ciclico che vede costantemente il rifiorire delle
piccole imprese. Allo stesso modo, l’accumulazione del capitale tendenzialmente
riunifica e rafforza il proletariato, il che non esclude le ondate di
destrutturazione della classe operaia. La Luxemburg, contrariamente a Kautsky,
andava oltre: vedeva la radice di classe del revisionismo (lo prendeva insomma
sul serio), e si poneva il problema di una pratica diversa del partito (con un
legame organico tra lotte immediate e presa del potere politico). Si muoveva
però ancora in un orizzonte che condivideva s stanzialmente la visione
“positivistica”, tra il naturalistico e il meccanicistico, del revisionismo e
di tutta la Seconda Internazionale.
La tesi inizia a muoversi su un terreno meno esplorato nella
sua seconda metà, che della Luxemburg mette a tema, da un lato, il pensiero
politico, dall’altro, il rapporto tra lotte sindacali e lotte rivoluzionarie.
Qui l’attualità preme. La prima questione rimanda Sabattini ad una rilettura
del contrasto con Lenin dopo la crisi dello stalinismo, nell’incapacità dei
partiti comunisti di uscire davvero da quell’eredità. Il secondo tema
interroga il rapporto tra conflitto sindacale e dimensione politica, come si
dava nel ciclo di lotte che viveva allora l’Italia. Sabattini coglie
limpidamente due punti. Il primo, su cui ci siamo già soffermati, è che la
Luxemburg non è affatto spontaneista: la sua è semmai una teoria
dell’organizzazione alternativa a quella “blanquista” di Lenin, in quanto
l’avanguardia (centralizzata) non è separata dal movimento che deve unificare e
cui deve dare sbocco politico, ed è sempre soggetta al controllo dal basso. Il
secondo, cui pure abbiamo prestato attenzione, sta nella ripresa luxemburghiana
della tesi di Marx secondo cui non è il salario ma il tasso di accumulazione la
variabile indi- pendente. Sabattini non cade in nessuna ingenuità
conflittualista, e accetta del tutto la posizione.
Ciò che fa comprensibilmente problema a Sabattini è altro, e
su questo conviene approfondire. Contro Bernstein, la Luxemburg traduce quella
tesi nell’idea che, se la lotta sindacale non fa altro che realizzare la legge
capitalistica del valore della forza-lavoro contro l’impulso immediato del
singolo capitalista, il suo ruolo è del tutto impolitico se non per il
contribuire a quella “pedagogia rivoluzionaria” che rivela al proletariato i
limiti del sistema. Contrariamente al giudizio che ne aveva dato Lelio Basso,
qui lotta per le riforme e lotta rivoluzionaria, economia ed politica, sembrano
irrimediabilmente scisse. Ma le cose cambiano presto, secondo Sabattini. La
svolta è la polemica con Lenin sul partito e poi, come conseguenza della
Rivoluzione Russa del 1905, lo scritto Sciopero generale, partito e sindacati.
Lo sciopero di massa non è solo un mezzo, è “la forma di manifestazione della
lotta proletaria nella rivoluzione”. Il rapporto tra lotta economica e lotta
politica va nei due sensi: la coscienza è radicata nell’essere sociale della
classe, con cui pure non si identifica. In quell’antagonismo si dà “una
possibilità storica dell’autonomia, nella prassi, della classe operaia nei
confronti del capitale a partire dalla fabbrica … a condizione di fare valere
la sua ‘insubordinazione’ al regime capitalistico di fabbrica, puntando sulla
continua autodeterminazione delle proprie condizioni.”
Non è chi non veda l’attualità inattuale di questo discorso.
Almeno su tre punti. La rottura della tenaglia tra separatezza del partito
coscienza esterna e autosufficienza immediata del movimento. La centralità
della lotta del mondo del lavoro a partire dalle sue condizioni, per una
ridefinizione generale del contesto sociale. Tra i due momenti, essenziale,
“l’autogoverno della classe come strumento non sostituibile del processo
rivoluzionario”. In questo, per Sabattini (come fu, per un breve periodo, sia
pure con articolazioni diverse, per il gruppo del manifesto), la Luxemburg ha
ragione. In questo, i nostri giorni sembrano farsi lontani da
quell’ispirazione. Nella stessa sinistra sociale e politico si separano, o viene
negato il necessario momento riunificante di lotte frantumate. Il sostegno alle
lotte del la- voro, o latita, o va a uno dei tanti momenti del conflitto. La
democrazia dentro le organizzazioni politiche e sindacali, che sta nella
verifica da parte dei rappresentati, non viene affermata quale condizione
primaria e ineludibile nella pratica quotidiana.
Altri tempi, si dirà. Cosa può dirci, infatti, una tesi
scritta nei momenti alti della lotta, ora che siamo in una epoca di sconfitta?
Pure, nelle prime pagine Sabattini , in profonda sintonia con la Rosa Luxemburg
che abbiamo riletto in queste pagine, ricorda che un punto importante di Marx è
che “la sconfitta della lotta proletaria non è concepita come qualcosa da
rinnegare, da nascondere, o che occorreva asso- lutamente evitare”. Non si
tratta soltanto di affermare la necessità dei tentativi, ogni volta battuti,
“per nuove avanzate teoriche o pratiche”, che rende per noi queste sconfitte
spesso più preziose delle vittorie. Si tratta anche di comprendere l’epoca
della sconfitta, e agire conseguentemente.
C’è forse qui un paradosso, che la grande crisi scoppiata
nel 2007-2008 (ma secondo me, innescata già nel 2000-2001) sta aiutando a
dissipare. La ‘globalizzazione’, la “finanziarizzazione”, il “postfordismo”, il
“pensiero unico” (tutti termini un po’ falsi, ai miei occhi), non danno, in
fondo, ragione a Bernstein contro la Luxemburg? Non siamo appieno dentro una
‘centralizzazione senza concentrazione’? La tendenza non è proprio la
destrutturazione del mondo del lavoro, disomogeneo e precarizzato, in unità
produttive sempre più frantumate? Pure, questo capitalismo tutto ci appare meno
che capace di controllare l’instabilità e la crisi che costantemente produce al
suo interno. La sua legge di movimento è l’attacco costante al salario e alle
condizioni del lavoro, in una scomposizione continua della classe, per
impedirle qualsiasi possibilità di autodeterminazione, di prassi autonoma. Se
si ragiona così, il soggetto sociale del conflitto non è un dato, ma va costantemente
ricostruito. Senza questa riunificazione, la risposta della politica da parte
di una sinistra degna di questo nome, che certo è necessaria, non vedrà mai la
luce. È di qui che si dovrebbe ripartire. Le ragioni della Luxemburg (e di
Claudio Sabattini) mi sembrano oggi più vive che mai.
La misura
delle cose
In conclusione, vorrei anch’io indulgere per un attimo alla
tentazione di passare dalla Luxemburg rivoluzionaria alla Luxemburg donna.
In una lettera dal carcere del 2 maggio 1917 scrive:
Interiormente, mi
sento molto più a mio agio in un piccolo tratto di giardino, come qui, o in un
campo, stesa sull’erba e circondata di calabroni, che in un congresso del
partito. A voi posso dire tutto ciò, voi non mi sospetterete subito di aver
tradito il socialismo. Voi lo sapete, malgrado questo spero di morire al mio
posto: in una battaglia di strada o in un penitenziario. Ma nel mio intimo, io
appartengo più agli uccelli che ai miei “compagni”. E questo non perché solo
nella natura, come tanti politici che hanno fatto interiormente bancarotta, io
trovo un rifugio, un riposo. Al contrario, io trovo nella natura, come tra gli
uomini, tanta crudeltà, che ne soffro molto.
Ed ancora in un’altra lettera del 3 luglio 1900 al suo
compagno di allora, Leo Jogiches, leggiamo queste frasi:
Noi, tutti e due,
internamente “viviamo” di continuo, cioè cambiamo, cresciamo, perciò di
continuo si crea una sproporzione, uno squilibrio, una disarmonia di alcune
parti dell’anima con le altre. Dunque bisogna fare una continua revisione
interna, ricostituire l’ordine e l’armonia. C’è sempre qualche cosa da fare con
se stessi, ma per non perdere mai la misura delle cose, che consiste a mio
avviso nell’utilità della vita esteriore, l’atto positivo, l’attività creativa,
in una parola per non affondare nella consumazione e nella digestione
spirituale, ci vuole il controllo di un’altra persona, che ci sia vicina, che
comprenda tutto, ma che sia fuori da questo “io” che cerca l’armonia.
Forse mi sbaglio, ma vedo un nesso tra quanto scrive questa
donna innamorata e quanto pensa la marxista e la rivoluzionaria. Mi sembra che
la Rosa inattuale di cui ha scritto Rossana Rossanda nella sua
introduzione alla ristampa della biografia di Frölich, la Luxemburg che parla
al nostro bisogno di “unità della persona nella indolenzita trama del dolore e
della speranza, dell’intelligenza e dei sentimenti, dell’io e del mondo,
ricomposti”, sia la stessa Luxemburg che vuole superare la separazione tra
individuo e società. Che la donna che scrive “ho bisogno dopotutto di qualcuno
che mi creda quando dico che solo per sbaglio sono presa nel turbine della
storia del mondo, ma che in realtà sono nata per stare a custodire le oche”, è
la stessa persona che preconizza nei suoi scritti scientifici la possibile fine
di un mondo costruito sul primato dell’economico.
Che, insomma, questa donna che sottopone l’“io” che cerca
l’armonia al rischio della relazione con l’altro da sé ed alla sfida del
cambiamento sia, fuori da ogni vuota retorica, la combattente che le sue opere
e la sua lotta ci hanno consegnato.
Note per una
bibliografia
La frase, a cui alludeva il titolo di questo scritto nella
sua prima pubblicazione, “l’essere umano deve essere come una candela che
brucia dalle due parti” piaceva molto a Rosa Luxemburg, come ci ricorda nella
sua importante biografia Paul Frölich (Rosa Luxemburg, pp. 296-318: ne esiste
una traduzione della fine degli anni sessanta da La Nuova Italia, con
presentazione di Marzio Vacatello, ristampata dalla Rizzoli nella Bur, con bella
introduzione di Rossana Rossanda, nel gennaio 1987). Il nuovo titolo ricorda
che quasi giusto cent’anni fa la Luxemburg scriveva, nel 1913, l’Accumulazione
del capitale, e poi in prigione la sua risposta ai critici, intitolata appunto
l’Anticritica. In questo arco di anno cade l’impegno contro la guerra, la
rivoluzione tedesca e la drammatica morte per mano dei Freikorps sotto la
copertura di Gustav Noske.
Le citazioni dalla Luxemburg riportate nel testo sono tratte
per lo più dalle opere economiche, di cui diamo di seguito i riferimenti, e da
Riforma sociale o rivoluzione?, Problemi di organizzazione della
socialdemocrazia russa, Sciopero generale, partito e sindacati, dagli articoli
su Rote Fahne, e dalle lettere. I suoi scritti politici sono tradotti in
italiano nelle due fondamentali raccolte curate da Luciano Amodio (Scritti
scelti, Einaudi, Torino, 1975) e Lelio Basso (Scritti politici, Editori
Riuniti, Roma, 1970) . La prima è però certamente esaurita; la seconda, degli
Editori Riuniti, non so.
Certo, la situazione non è brillante: anche se forse si
intravede all’orizzonte la realizzazione, almeno in inglese, della giusta
esortazione di Lenin, posta da Lelio Basso ad apoftegma della raccolta da lui
curata: “la raccolta completa delle sue opere offrirà un insegnamento
utilissimo per l’educazione di molte generazioni di comunisti di tutto il
mondo”. L’editore londinese Verso ha infatti iniziato a pubblicare – iniziando
molto opportunamente dagli scritti economici, i Complete Works of Rosa
Luxemburg. Il primo volume, Economic Writings 1, a cura di Peter Hudis, usciti
nel 2013 in hardback e nel 2014 in paperback, contiene per la prima volta la
traduzione integrale in inglese della Introduction to Political Economy, come
pure una nuova traduzione di The Industrial Development of Poland, ma anche una
corposa sezione di scritti inediti (una decina, di recente ritrovamento), non
poco illuminanti. Il secondo volume, Economic Writings 2, a cura di Peter Hudis
e Riccardo Bellofiore (a cui si deve la introduzione), presenta una nuova
traduzione della Accumulation of Capital, assieme alla Anti-Critique, per la
prima volta insieme: le versioni esistenti, soprattutto la seconda, lasciavano
non poco a desiderare.
In francese è in corso la pubblicazione delle Oeuvres Complètes
di Rosa Luxemburg – in realtà, opere complete “per quanto sarà possibile” – da
parte del col- lettivo d’edizione Smolny e dell’editore Agone. Sono comparsi,
in vari anni, i volumi I (Introduction à l’economie politique, 2009), II (A
l’école du socialism, 2012) e III (Le Socialisme en France, 2013); come anche
La Brochure de Junius: la guerre et l’International (1907-1916), nel 2014.
Perché non pensare ad una tradu- zione integrale delle opere e della
corrispondenza, in italiano? Ci provammo Massimiliano Tomba ed io anni fa ad
attivare una raccolta di fondi a questo scopo, senza molto successo.
Molte le raccolte di lettere, anch’esse però incomplete e
disorganiche (Lettere a Leo Jogiches, Feltrinelli, Milano, 1973; Lettere ai
Kautsky, Editori Riuniti, Roma, 1971; Lettere 1893-1919, Editori Riuniti, Roma,
1979). La più completa collezione è ancora una volta quella di Verso,The
Letters of Rosa Luxemburg, a cura di Georg Adler, Peter Hudis e Annelies
Laschitza, pubblicata nel 2012. Annelies Laschitza è autrice della più
importante biografia contemporanea, in tedesco: Im Lebensrausch, trotz alledem.
Rosa Luxemburg. Eine Biographie, Aufbau Taschenbuch, Berlin 1996.
Per quanto riguarda le pubblicazioni in italiano,
l’Accumulazione del capitale. Contributo alla spiegazione economica
dell’imperialismo, e Ciò che gli epigoni hanno fatto della teoria marxista. Una
anticritica, vennero pubblicati in volume unico da Einaudi, con introduzione di
Paul M. Sweezy (Torino, 1960, e successive riedizioni). L’ Introduzione all’economia
politica è stata tradotta dalla Jaca Book (Milano, 1971), ed è fuori stampa.
Le critiche più significative alla Luxemburg sono quelle
formulate da N. Bukharin, L’imperialismo e l’accumulazione del capitale
(Laterza, Bari, 1972) e P. M. Sweezy, La teoria dello sviluppo capitalistico
(Boringhieri, Torino, 1970). Volano molto più alto Joan Robinson e Michał
Kalecki. Della prima si veda l’Introduzione alla prima traduzione inglese edita
da Routledge (1951): venne tradotta in italiano nel volume curato da Lucio
Colletti e Claudio Napoleoni, Il futuro del capitalismo: crollo e sviluppo,
Laterza, Roma-Bari, 1970. Per la ripresa di temi luxemburghiani operata da
Kalecki si vedano i saggi contenuti in Sulla dinamica dell’economia
capitalistica (Einaudi, Torino 1975): in particolare “Il problema della domanda
effettiva in Rosa Luxemburg e Tugan Baranovski”, del 1967, e “Le equazioni
marxiane della riproduzione e l’economia moderna”, del 1968, comparso anche in
Marx vi- vo, vol. 2, Milano, Mondadori. Su tutte queste questioni merita ancora
una lettura Mariano D’Antonio, “Kalecki e il marxismo”, Studi Storici, XIX, n.
1, gennaio- marzo, pp. 17-43.
Da Kalecki discende il volume fondamentale di Tadeusz
Kowalik, Rosa Lu- xemburg. Il pensiero economico, nella bella traduzione di
Gabriele Pastrello per gli Editori Riuniti. Avevo presentato la mia tesi su
Rosa Luxemburg con Claudio Na- poleoni nel dicembre 1976. Il libro di Kowalik,
che su molti punti seguiva una lettura simile, arrivò nelle librerie giusto nel
gennaio 1977 … Anche questo è un volume reperibile solo nell’usato. Per fortuna
ne esiste da poco una traduzione curata da Riccardo Bellofiore, da
Jan Toporowski (a cui si deve l’ottima introduzione) e Hanna Szymborska (che ne
ha approntato la traduzione) per i tipi di Palgrave Macmillan, giunta nelle
librerie nel dicembre 2014. Un’interpretazione della Luxemburg, dopo la tesi,
l’avevo già proposta in “Rosa Luxemburg e la teoria marxista della crisi”, in
Note Economiche, n. 1, 1980. Una rassegna degli sviluppi successivi alla
Luxemburg che partono dalle sue intuizioni sulla teoria del valore la si
ritrova nel mio “Marx dopo Schumpeter”, Note Economiche, n. 2, 1984. Un
tentativo di ricostruzione in positivo della teoria del valore lungo le
medesime linee lì accennate lo si può vedere nei miei “Per una teoria monetaria
del valore-lavoro”, in Valore e prezzi, a cura di Giorgio Lunghini (Utet,
Torino, 1993), e “Marx rivisitato: capitale, lavoro e sfruttamento”, in Il
terzo libro del Capitale di Karl Marx., Atti del Convegno di Teramo, 10-11
Novembre 1994, a cura di Marco L. Guidi su Trimestre, 1996, n. 1-2.
Come scrivo nel corpo dell’articolo, i lavori dedicati alla
Luxemburg nella veste di ‘economista’ sono stati molto pochi. Ma la situazione
negli ultimi anni è andata migliorando. Il primo esempio pè forse il volume
collettaneo da me curato, Rosa Luxemburg and the Critique of Political Economy,
uscito a stampa nel 2009 per Routledge, e frutto di un convegno a Bergamo nel
2004. Contiene saggi di Meghnad Desai, Roberto Veneziani, Andrew Trigg, Paul
Zarembka, Jan Toporowski, Tadeusz Kowalik, Joseph Halevi, Paul Mattick jr, He
Ping, Michael R. Krätke, Andrea Panaccione, Edoarda Masi. Il libro contiene due
saggi miei: un lungo saggio introduttivo (“Rosa Luxemburg on Capitalist
Dynamics, Distribution and Effective Demand Crisis”) e un capitolo (“The
Monetary Circuit of Capital in the Anti-Critique”).
Con Toporowski e Ewa Karwoski ho anche più recentemente
curato due volumi intitolati al lascito intellettuale di Tadeusz Kowalik,
ancora per la Routlegde nel 2013: The Legacy of Rosa Luxemburg, Oskar Lange and
Michał Kalecki; e Economic Crisis and Political Economy. I contributi dedicati
alla Luxemburg, concentrati nel primo volume, sono anche qui numerosi e di
valore, di: G.C. Harcourt e Peter Kreisler, Noemi Levy-Orlik, Gabriele
Pastrello, John Bellamy Foster, Roberto Lampa, oltre ancora Paul Zarembka, e
Andrew Trigg. Sempre in questo volume è contenuto il mio “Luxemburg and
Kalecki: The Actuality of Tadeusz Kowalik’s Reading of the Accumulation of
Capital”. Nel secondo volume è contenuto Janusz J. Tomidajewicz, ‘The
Accumulation of Capital’ of Rosa Luxemburg, and Systemic and Structural Reasons
for the Present Crisis, e di nuovo un saggio di Paul Mattick jr. In italiano è
di prossima uscita il mio “Accumulazione del capitale, schemi di riproduzione e
crisi capitalistica: Marx tra Rosa Luxemburg e Michał Kalecki”, in Pagine
Inattuali, n. 6, 2015.
L’articolo di Margarethe von Trotta che citiamo in principio
di articolo è “Nu- vole e rivoluzione”, l’Unità, 15 gennaio 1989. I riferimenti
a Rossana Rossanda sono tratti da “Classe e partito”, uscito sul manifesto
rivista (n. 4, 1969, poi ripub- blicato come “Da Marx a Marx” in Classe,
consigli, partito, quaderno de il manife- sto , n. 2, Alfani, 1974). La
citazione da Edoarda Masi è presa da “La persona Rosa, perché”, contenuto in
Margarethe von Trotta, Rosa Luxemburg (Ubulibri, Milano 1986) che presenta la
sceneggiatura del film della regista tedesca, e contiene anche un’importante
introduzione di Rossana Rossanda, dal titolo “Rosa, comunista polacca ebrea
donna”. La tesi in Filosofia a Bologna di Claudio Sabattini è
stata pubblicata come Rosa Luxemburg e i problemi della rivoluzione in
Occidente, con una prefazione di Gabriele Polo, da Metaedizioni.
La situazione non brillante delle traduzioni si ripete anche
a proposito della bi- bliografia secondaria sulla Luxemburg: non tradotto è,
per esempio, lo studio più importante sulla Luxemburg “politica”: Norman Geras,
The Legacy of Rosa Lu- xemburg (New Left Books, London, 1976). D’altronde, la
stessa biografia di J.P. Nettl, Rosa Luxemburg (Oxford University Press,
London, 1966), che era stata tradotta da Il Saggiatore, è da tempo introvabile.
Sono apparsi negli ultimi anni, in inglese, alcuni altri resoconti della vita
della rivoluzionaria polacca, nessuno tradotto in italiano (e nessuno, per la
verità, di eccelsa qualità). In italiano, si segnala il recente Dario
Renzi-Anna Bisceglie, Rosa Luxemburg, Prospettiva edizioni, Roma, 1997.
L’apoftegma iniziale è tratto dal compte rendu di una
edizione delle lettere dalla prigione di Rosa Luxemburg ad opera di Simone
Weil, raccolto nel primo volume degli Écrits historiques et politiques,
Gallimard, Paris, 1988. Una lettura parallela della Luxemburg e della Weil,
come anche di Hannah Arendt, è ora: Andrea Nye, Philosophia: The thought of
Rosa Luxemburg, Simone Weil and Hannah Arendt, Routledge, London 1994.
D’altronde, la stessa Arendt è autrice di uno splendido saggio, “Rosa Luxemburg
1871-1919”, tradotto in italiano su Micromega, n. 3/89, pp. 43-60. Lo scritto
era in origine una recensione alla biografia di Nettl ricordata più sopra, e fu
poi raccolto in un volume curiosamente intitolato Men in Dark Ti- mes, Harcourt
Brace & New World, New York. O forse non tanto curiosamente, se si ricorda
questa storia: insieme a Clara Zetkin, Rosa Luxemburg si trovò a cammi- nare
troppo vicino a esercitazioni militari di tiro; dopo, a casa di Kautsky, alla
pre- senza di molti dei dirigenti della socialdemocrazia tedesca, Bebel si
provò scherzo- samente a immaginare l’iscrizione tombale per le due ‘fucilate’;
al che Rosa Luxemburg replicò dicendo che si sarebbe dovuto semplicemente
scrivere “qui giacciono gli ultimi due uomini della socialdemocrazia tedesca”.
I corsivi nelle citazioni sono quasi sempre miei.
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Foto: Riccardo Bellofiore |
Riccardo Bellofiore è
professore di Economia Politica all’Università di Bergamo, dove insegna
Economia Monetaria, La dimensione storica in economia, Macroeconomics, e
International Monetary Economics. Fa parte del Comitato Scientifico di MEOC
(Marx-Engels Opere Complete) e dell’ISMT (International Symposium on Marxian
Theory). I suoi principali temi di ricerca sono la teoria marxiana del valore e
della crisi, le teorie della moneta e della finanza, il capitalismo
contemporaneo, il di- scorso sul metodo in economía