◆ El siguiente trabajo del profesor Guglielmo Carchedi,
de la Universidad de Amsterdam (Holanda), fue su intervención en una Mesa Redonda sobre “Naturaleza
imperialista de la Unión Europea y las formas de la lucha de clases”,
organizada en Nápoles el 6 de enero pasado.
Guglielmo
Carchedi
I. Con la disfatta storica del movimento operaio, la parola
‘imperialismo’ è scomparsa dal vocabolario della sinistra ed è stata
rimpiazzata da ‘globalizzazione’. Tuttavia, se la parola è scomparsa, la realtà
persiste. Vediamo prima di tutto cosa non è l’imperialismo. Prendiamo ad
esempio la nozione di Impero di Toni
Negri. Ho scritto una lunga critica di Impero
in un mio libro recente (Behind the
Crisis). Qui posso solo menzionare telegraficamente alcuni dei punti chiave
di Impero senza aver la pretesa di
dare una valutazione anche minimamente completa. Nell’Impero
di Negri, mentre l’imperialismo era un’estensione della sovranità degli stati
europei oltre i loro confini nazionali, ora l’Impero è un network globale di
potere e contro potere senza un centro (p. 39). Quindi gli Stati Uniti non
formano, e nessuno stato può formare, il centro di un progetto imperialista
(p.173). Gli Stati Uniti intervengono militarmente nel nome della pace e dell’ordine
(p.181).
Ma è ovvio
(1) che il ruolo degli stati non stia
scomparendo, anche se come vedremo, alcuni sono inglobati in blocchi
imperialisti(2) che la nozione di potere e contropotere
ignora che il potere delle nazioni dominanti non è lo stesso potere delle
nazioni dominate(3) che l’imperialismo, lungi dallo
scomparire si sta trasformando pur rimanendo essenzialmente lo stesso(4) che poi gli USA intervengano
militarmente per mantenere la pace, è un’affermazione che glorifica e
giustifica quell’imperialismo di cui Negri nega l’esistenza.
Consideriamo allora una persona più seria,
Lenin. Posso solo soffermarmi solo su alcuni aspetti economici. Il suo testo
sull’Imperialismo, anche se vecchio di un secolo, per alcuni versi è ancora
attuale, anche se ovviamente deve essere aggiornato.
Prima di tutto, si noti che per Lenin,
l’ultimo stadio del capitalismo significa il più recente stadio, lo stadio in
cui le potenze coloniali hanno completato la suddivisione del mondo in colonie
e non nel senso che dopo di esso non ve ne sono altri. Quindi non nel senso che
ulteriori suddivisioni siano impossibili. Per Lenin le suddivisioni sono non
solo possibili ma anche inevitabili. Vecchi paesi coloniali vengono affiancati
o rimpiazzati da nuovi paesi coloniali e le colonie possono passare dal dominio
di un paese coloniale ad un altro.
Per Lenin la caratteristica principale del
più recente stadio dello sviluppo capitalista è il dominio delle associazioni
monopolistiche del grande capitale, quelle che oggigiorno si chiamano
multinazionali. Gli stati sono necessari per difendere e promuovere gli
interessi delle multinazionali attraverso tutta una serie di politiche, anche
militari. Ovviamente i due ordini di interessi non sono sempre convergenti. Per
Lenin gli interessi dei paesi imperialisti sono principalmente l’esproprio di
materie prime. L’esempio attuale più macroscopico è oggigiorno il petrolio. Ma
la caccia alle materie prime non è il solo motivo del dominio coloniale. Lenin
menziona anche un altro aspetto, che è di grande importanza anche e soprattutto
oggigiorno. Egli evidenzia che non vi sono solo due gruppi di nazioni, i paesi
coloniali e le colonie stesse. Vi sono anche nazioni che, pur essendo
politicamente indipendenti, sono invischiate in una rete di dipendenza
finanziaria. Lenin le chiama semi-colonie finanziarie e commerciali. La
dipendenza finanziaria dei paesi debitori nei confronti dei paesi creditori è
particolarmente evidente nella situazione attuale in cui il debito privato, del
sistema finanziario e dello stato si accumulano e raggiungono livelli mai
visti.
Allora che cos’è l’imperialismo? Se
ci limitiamo all’aspetto economico, che è poi quello determinante,
l’imperialismo è la concorrenza capitalista portata a livello internazionale.
Il suo scopo è l’appropriazione da parte dei capitalisti della nazione
imperialista della ricchezza e del valore dai capitalisti delle nazioni
dominate. Questi a loro volta lo estorcono dai propri lavoratori. La
caratteristica fondamentale dell’imperialismo non è il dominio del capitale
finanziario su quello produttivo. Questa è la tesi della
finanziarizzazione. Il settore determinante dell’andamento dell’economia è
quello produttivo di valore e plusvalore. Il settore finanziario sorge dalle
contraddizioni inerenti al settore produttivo e i suoi profitti sono detrazioni
dai profitti generati dal settore produttivo.
Vi sono tre forme di appropriazione di
ricchezza. C’è la violenza bruta, come invasioni, guerre, ruberie, ecc. Poi c’è
e l’appropriazione attraverso il sistema finanziario. E poi c’è anche una terza
forma di appropriazione di ricchezza, quella che opera attraverso la
competizione tecnologica. Essa è ancora più importante oggigiorno quando lo
sviluppo tecnologico assume ritmi sempre più frenetici.
Per capirla, partiamo dalla premessa, che
può essere dimostrata anche empiricamente, che solo il lavoro vivo genera
valore. Le innovazioni tecnologiche rimpiazzano lavoro con mezzi di produzione.
Il capitalista innovatore aumenta il suo prodotto ma se il prodotto è generato
con meno lavoro, il valore del maggiore prodotto è minore. Invece gli altri
capitalisti con tecnologie meno avanzate producono un output minore ma con più
lavoro e quindi con più valore incorporato. Siccome i prodotti dei vari
capitalisti entro un dato settore vengono venduti più o meno allo stesso prezzo
ad altri settori, i leader tecnologici si appropriano di una parte del
plusvalore generato dai capitalisti tecnologicamente arretrati. Il tasso di
profitto dei primi cresce a scapito di quello dei secondi. E il tasso medio di
profitto scende. Come dice Marx, il tasso di profitto cala non perché il lavoro
è meno produttivo ma perché è più produttivo e cioè perché la maggiore
produttività è l’atra faccia della stessa medaglia, la diminuzione della forza
lavoro e quindi del valore incorporato.
Possiamo ora distinguere tre tipi di
rapporti imperialisti.
Nel colonialismo tradizionale
(1) le colonie forniscono le materie prime
alle nazioni colonizzatrici da cui importano prodotti finiti, e(2) a cause di questo rapporto, nelle
colonie non vi è un processo rilevante di sviluppo capitalista e di
diversificazione dell’economia.
Nell’imperialismo moderno, vi può essere nei paesi dominati uno sviluppo economico
capitalista, con conseguente diversificazione e accumulazione del
capitale. Tuttavia questo è uno sviluppo dipendente nel senso che
(1) il capitale nei paesi dominati adatta
la sua produzione e attività economiche ai bisogni del centro imperialista e
diversifica la sua struttura interna secondo questi bisogni(2) il centro esporta ai paesi dominati
quello di cui i paesi dominati hanno bisogno ma soprattutto quello di cui hanno
bisogno (per esempio, infrastrutture) affinché questo rapporto di dominazione
possa continuare(3) il centro esporta ai paesi dominati
anche tecnologie relativamente avanzate, ma non le più moderne, in modo da
trasferire plusvalore verso il centro e di mantenere una dipendenza tecnologica(4) data questa dipendenza tecnologica, i
paesi dominati debbono far ricorso a salari più bassi relativamente a quelli
del centro e/o alla svalutazione della loro moneta.Quindi, l’essenza della relazione di
dominio imperialista è che alcuni paesi, i paesi dominanti, espropriano
ricchezza e plusvalore dai paesi dominati che sono dominati in quanto espropriati
di valore e ricchezza. Quindi si può parlare di paesi espropriatori e paesi
espropriati di valore e plusvalore e quindi di capitali espropriatori e
capitali espropriati.
Ma la situazione non è statica nel senso
che una nazione dominata non è condannata a rimanere tale. Una nazione dominata
può tentare di liberarsi da questo rapporto di domino imperialista per
diventare essa stessa un paese imperialista. Questi sono i cosiddetti paesi
emergenti. Essi, cioè i loro capitalisti, stanno tentando di rompere la propria
dipendenza e cioè di bloccare l’esproprio di plusvalore. Il loro scopo è
l’introduzione di tecnologie alla pari di quelle dei paesi dominanti, di
differenziare la propria economia e di accumulare capitale.
Le singole nazioni che tentano di rompere
la loro dipendenza possono non avere le necessarie dimensioni. Esse quindi
devono raggruppare attorno a se altre nazioni in un rapporto di dominio e cioè
devono formare blocchi imperialisti articolati al loro interno che si
contrappongano ad altri blocchi imperialisti. All’interno di un blocco
imperialista vi è un paese dominante e altri paesi dominati in una gerarchia di
efficienza. Il paese dominante è quello il cui capitale ha un livello
tecnologico superiore a quello degli altri paesi. Esso cresce alle spese dei
paesi dominati all’interno del blocco attraverso l’espropriazione del loro
plusvalore che a sua volta è il risultato di un più alto livello di sviluppo
tecnologico. Poi, questo blocco nel suo insieme, così come i paesi che lo
compongono, compete con altri bocchi imperialisti, con le nazioni che li
compongono e con paesi al di fuori di tali blocchi. Ciò non esclude che i
blocchi imperialisti possano cooperare quando sia loro interesse fare ciò.
Quindi oggigiorno vi sono tre tipi di
rapporti imperialisti: (a) tra paesi colonizzatori e paesi colonizzati (b) tra
paesi dominanti e paesi dominati ma incapaci di sfidare i paesi dominanti e (c)
tra paesi dominanti e i paesi che sfidano il loro dominio anche se non hanno
ancora raggiunto un posto tra i paesi dominanti. I paesi dominanti non esitano
a ricorrere ad una varietà di strategie, comprese le guerre, sia per
l’appropriazione di materie prime sia per evitare che altri paesi escano
dalla loro situazione di dipendenza. Ma questo è un argomento che non posso
trattare qui.
Ovviamente, quando si parla di paesi non ci
si riferisce entità giuridiche. In prima istanza ci si riferisce alle classi
sociali che li formano. Quando si parla di paesi dominanti, ci si riferisce ai
grandi capitali in quei paesi.
La UE si colloca in questo contesto. Al suo
interno vi è un paese, la Germania e quindi il grande capitale tedesco, che è
dominante relativamente agli altri paesi all’interno del blocco e che quindi
succhia plusvalore dai capitali meno efficienti i quali a loro volta lo hanno
succhiato dai lavoratori. Ma la UE sfida anche altri blocchi, per esempio gli
USA, attraverso misure comuni al suo interno come l’Euro. Questo è un punto
chiave su cui ritornerò.
II. Fin qui l’analisi è stata poco di più di un succinto riassunto di
elementi già noti. Ora, però, vorrei introdurre una linea di ricerca che penso
che sia poco nota in Italia. È portata avanti da un numero sempre più folto di
ricercatori. Come ben
saputo, l’indicatore dello stato di salute di un’economia capitalista non sono
i profitti ma il tasso di profitto, i profitti sugli investimenti. Vediamo cosa determina l’andamento del tasso di profitto. L’economia
capitalista si basa essenzialmente sulla competizione tecnologica,
sull’introduzione di sempre più nuove ed efficienti tecnologie. Come ho già
accennato, esse da una parte rendono il lavoro umano più produttivo, cioè i
lavoratori creano sempre di più prodotti con una data dotazione di mezzi di
produzione. Dall’altra i nuovi mezzi di produzione rimpiazzano forza lavoro.
Sempre meno lavoratori producono un numero sempre maggiore di prodotti. Questo
è Marx. Consideriamo se i fatti empirici gli danno ragione.
Grafico
1. Produttività e occupazione, settori produttivi, Stati Uniti
Fonte: mie elaborazioni
Nel grafico 1, la linea blue è il prodotto
per lavoratore. Cresce da circa 500 milioni di dollari (deflazionati) nel 1947
a circa 4300 milioni nel 2010. La linea rossa è il numero di lavoratori per
unità di mezzi di produzione. Scende da circa 76 lavoratori per milione di
dollari (deflazionati) a 6 lavoratori nello stesso periodo. Il grafico 1 mostra
che un output crescente è prodotto da un numero sempre minore di lavoratori. In
un’altra società, ciò sarebbe una benedizione. Diventa una maledizione
nell’ambito dei rapporti di produzione capitalisti.
Come ho menzionato prima, dato che solo il
lavoro genera valore e plusvalore, se il lavoro cade, cade il plusvalore
generato per unità di capitale investito, cioè il numeratore del tasso di
profitto. Allo stesso tempo crescono i mezzi di produzione per unità di
capitale investito, cioè il denominatore del tasso di profitto. Il tasso di
profitto scende. Il grafico 2 dimostra che lo stato di salute degli USA è in
continuo deterioramento fin dalla fine della seconda guerra mondiale. Questo
grafico evidenzia la relazione tra la caduta tendenziale del tasso di profitto
e il numero di lavoratori (sui mezzi di produzione). Essi vanno di pari passo
Grafico
2. Tasso di profitto medio e rapporto tra lavoro e mezzi di produzione, settori produttivi degli Stati Uniti
Fonte: mie elaborazioni
Un numero sempre crescente di studi sta
dimostrando che il movimento dell’economia statunitense è solo un esempio del
movimento del capitalismo mondiale, anche se l’economia statunitense ha le sue
caratteristiche derivategli dalla sua posizione egemone
Grafico
3. Tasso di profitto medio dei paesi del centro 1869-2010
Fonte:
Michael Roberts, The World in Crisis, curato da G. Carchedi e Michael Roberts,
Zero Books, di prossima pubbblicazione.
Il tasso di profitto mondiale crolla nel
1929, si riprende con la seconda guerra mondiale, e cioè con la trasformazione
dell’economia civile n un’economia di guerra, ma riprende a scendere subito
dopo la fine della guerra.
I grafici 2 e 3 mostrano la caduta secolare
del tasso di profitto. Questo dato è di estrema importanza per quattro motivi.
Primo, la
caduta di lungo periodo del tasso di profitto è il sostrato da cui emergono
regolarmente le crisi sia economiche che finanziarie e quindi disoccupazione,
povertà, guerre, ecc. Questa caduta è anche il fattore che ci permette di
prevedere che le crisi continueranno fino a quando sussisterà un’economia
basata sulla produzione per e di plusvalore, cioè per e di profitti.
Secondo, la
caduta secolare del tasso di profitto è essenziale anche per capire dove va
l’imperialismo perché essa colloca la lotta inter-imperialista in una sempre
maggiore debolezza del sistema mondiale, cioè la crescente difficoltà di
estorcere plusvalore relativamente al capitale investito.
Terzo, questo significa che i margini di manovra per le politiche
redistributive a favore del lavoro si restringono sempre di più. La teoria
della caduta del tasso di profitto esclude tale possibilità, più he mai nella
situazione attuale. È per questo che è attaccata non solo dall’economia
convenzionale ma anche dai Keynesiani e anche da Keynesiani in abiti Marxisti.
La lotta per migliori condizioni di vita e di lavoro è sacrosanta, ma non
nell’ottica riformatrice, Keynesiana. Piuttosto, si deve combattere per le
riforme perché esse contribuiscono ulteriormente all’indebolimento del capitale
e rendono più facile il suo superamento e non perché le riforme dovrebbero
farci uscire dalla crisi.
Quarto, nel
quadro della caduta secolare del tasso mondiale di profitto, la lotta
imperialista non può che diventare più acuta e le crisi, essendo la
manifestazione della crescente debolezza del sistema, non possono che diventare
sempre più gravi e distruttive. Le potenze imperialiste sono come lupi affamati
che si contendono la preda. La preda non sono solo le colonie ma anche il
plusvalore prodotto nel mondo intero. Ma la preda diventa ogni volta più
piccola e la lotta più feroce.
III. Se questo è il quadro generale in cui si muove la lotta
imperialista, perlomeno nel mondo occidentale, le manifestazioni dei rapporti
di dipendenza sia tra blocchi imperialisti che al loro interno dipendono dalle
situazioni specifiche, storicamente determinate. Un strumento relativamente
recente di tale lotta è l’euro.
Fin dall’inizio, lo scopo del progetto
europeo è stato quello di creare un blocco in grado di controbilanciare il
potere economico degli USA. Una delle condizioni era la creazione di una moneta
unica che diventasse la rivale del dollaro. Questa non era solamente o anche
principalmente una questione politica. Era soprattutto una questione economica.
Quello che era in gioco era, ed è, il signoraggio. Vediamo che cos’è.
Dal 1971, una grossa quantità di dollari
dei dollari che gli USA hanno pagato per le loro importazioni non viene usata
dagli altri paesi per importare beni statunitensi. Questi dollari sono usati da
altre nazioni come valuta di riserva internazionale o come mezzo di pagamento
sui mercati internazionali. In tal modo gli USA importano beni e danno in
cambio denaro che non viene usato da altri paesi per importare beni
statunitensi. Questi dollari, finche non vengono usati per importare beni
statunitensi, rimangono carta senza valore intrinseco. Per i detentori di
dollari, questo è valore potenziale che non si realizza. Questa situazione dura
da 45 anni. In breve, gli USA si appropriano del valore importato e prodotto da
altre nazioni per un ammontare di circa il 6% del loro PIL.
Grafico
4. Bilancia commerciale degli USA come percentuale del PIL
Questo è il signoraggio, l’appropriazione
di valore prodotto da altre nazioni da parte della nazione la cui moneta è il
mezzo di pagamento e di riserva internazionale e cioè la moneta della nazione
economicamente dominante, gli USA. Ma il signoraggio è minacciato nella misura
in cui gli USA perdono la loro posizione economicamente dominante. L’Euro nasce
come il rivale del dollaro per contrastarne il signoraggio. Per capire l’Euro,
consideriamo il suo precursore, l’ECU.
L’ECU era compost da 9 monete. Il valore
dell’ECU era stabilito relativamente al dollaro. Il valore dell’ECU era
determinato in conformità a due fattori. Primo, ogni moneta contribuiva per una
determinata percentuale alla composizione dell’ECU. Secondo, ogni moneta
contribuiva al valore dell’ECU secondo il suo tasso di cambio col dollaro al
momento della costituzione dell’ECU, il 1 dicembre 1978. La sommatoria di tutte
le monete dava il tasso di cambio di 1 dollaro = 1.3 ECU. Ora, il peso maggiore
fu dato al marco tedesco, la moneta forte perché, essendo l’espressione di una
economia forte che era in grado di esportare sulla base della propria alta
produttività, non era soggetta a svalutazione. Alla Germania fu dato un peso
del quasi 33% del valore dell’ECU. Ad altre valute fu dato un peso molto
minore. All’Italia, per esempio fu dato un peso 9,8%.
Dopo la sua costituzione, il valore (ma non
la composizione) dell’ECU cambiava nei confronti del dollaro secondo le
variazioni del tasso di cambio delle singole monete. Se una moneta si
rivalutava nei confronti del dollaro, il valore dell’ECU nei confronti del
dollaro aumentava. Vice versa se una moneta si svalutava. Ma se una moneta con
una grossa percentuale nel valore dell’ECU si rivalutava e un’altra moneta con
un bassa percentuale si svalutava, l’ECU si rivalutava. Siccome il marco
tedesco si rivalutava continuamente, anche l’ECU si rivaluta. Si vede quindi
come l’ECU fosse concepito già fin dall’inizio come una moneta forte anche se
virtuale e riflettesse gli interessi del capital tedesco più di quelli di altri
capitali europei più deboli. L’ECU era l’espressione quantitativa del dominio
tedesco nel progetto europeo.
Quando l’ECU fu trasformato nell’Euro sulla
base di 1 ECU = 1Euro, l’Euro nacque come moneta forte relativamente al
dollaro, come un rivale del dollaro per la lotta per il signoraggio. L’Euro fu
fin dall’inizio l’espressione del settore dominante del capitale tedesco il cui
progetto era la creazione attorno a sé di un polo imperialista alternativo a
quello statunitense.
Dopo la sua nascita, l’Euro doveva
mantenere la sua posizione di forza. La condizione era non solo la posizione di
forza del capitale tedesco. Tutta la zona euro avrebbe dovuto diventare
competitiva in campo internazionale. Tuttavia, la zona euro fu estesa a paesi
il cui livello di produttività era ben lontano da quello necessario per
mantenere un Euro forte. L’intenzione tedesca era duplice:
(1) impedire che le economie più deboli
competessero svalutando la propria moneta e
(2) allargare la zona in cui le transazioni
internazionali fossero saldate in euro (invece che in dollari) in modo da
incrementare la domanda di euro e quindi favorire la sua rivalutazione.
La crisi attuale segna una pausa nella
lotta tra il dollaro e l’Euro. Un dollaro debole da una parte indebolisce il
ruolo del dollaro come moneta internazionale e quindi minaccia il suo
signoraggio ma dall’altra favorisce le sue esportazioni. In questa congiuntura,
il capitale Statunitense sceglie la seconda opzione. Ciò non significa
che non vi sia più rivalità tra le due monete. Ma la lotta per il signoraggio è
nella fase attuale meno impellente di altri pericoli più immediati.
Il principale effetto dell’introduzione
dell’Euro per le economie a basso livello di produttività (per esempio,
l’Italia) è la loro impossibilità di ricorrere alla svalutazione per
incrementare le loro esportazioni. Molti danno la colpa della crisi economica
Italiana a questa impossibilità. Il che è sbagliato. Inoltre, si suppone che il
ricorso alla svalutazione e quindi l’incremento delle esportazioni farebbe
ripartire o comunque migliorerebbe, l’economia Italiana. Anche questo è
sbagliato.
Vediamo prima di tutto se e in che misura
l’introduzione dell’Euro ha influito sulla bilancia commerciale tra la Germania
e l’Italia.
Grafico
5. Bilancia commerciale Germania-Italia, milioni di euro.
Dal 2000 al 2009, le bilance commerciali
della Germania e dell’Italia si sono mosse in direzioni opposte. Tuttavia il
deterioramento della bilancia commerciale Italiana non può essere attribuito
solo o principalmente all’impossibilità di svalutare la Lira. Vediamo perché.
Consideriamo prima il tasso di crescita del
PIL della Germania e dell’Italia
Grafico
6. Tasso di crescita del PIL, Germania e Italia
Entrambi i tassi crescono (eccezione fatta
per la crisi del 2008-09), ma quello tedesco cresce di più di quello Italiano.
Consideriamo poi la produttività del
lavoro. Nel grafico che segue L significa ore di lavoro e PIL/L è una misura
della produttività del lavoro.
Grafico
7. Tasso di crescita della produttività del lavoro (PIL/L) in Italia e Germania
e consideriamo infine le ore di lavoro
Grafico
8. Ore di lavoro in Italia e Germania, 2005=100
In Germania la produttività cresce mentre
le ore di lavoro calano. Allora, la crescita del PIL è dovuta alla maggiore
efficienza, cosa che per altro non esclude un maggior grado di sfruttamento. Ma
dato che il tasso di sfruttamento è aumentato anche in altri paesi, sarebbe
erroneo attribuire la crescita del PIL a questo fattore.
In Italia la produttività cala mentre le
ore di lavoro crescono. Quindi, l’incremento del PIL è dovuto non ad una
maggiore produttività ma ad un maggiore grado di sfruttamento. Il valore
aggiunto per lavoratore è 67,500 euro in Germania e 51,000 in Italia. Questo
dovrebbe sfatare il pernicioso mito dei pigri lavoratori italiani.
È quindi sbagliato attribuire la bilancia
commerciale negativa dell’Italia all’Euro. La causa della inferiore prestazione
dell’Italia è la sua base tecnologica arretrata relativamente a quella tedesca.
L’impossibilità di ricorrere alla svalutazione competitiva si è innestata su
questa debolezza tecnologica. La questione se rimanere nell’euro o no
deve partire da questo dato. La risposta dipende dalla cornice politica in cui
tale decisione viene presa. E cioè se per una strategia rivoluzionaria sia
meglio rimanere nell’area dell’Euro o uscirne.
Se la colpa della crisi Italiana non è
dell’Euro (l’Euro la amplifica piuttosto che causarla), il ritorno alla
lira e alla svalutazione competitiva non rilancerebbe l’economia. In essenza,
se un paese svaluta la propria moneta, i suoi capitalisti ricevono meno moneta estera
per le proprie esportazioni e pagano di più della loro moneta per le loro
importazioni. Siccome con meno moneta estera essi possono comprare meno beni
esteri e siccome i capitalisti esteri, avendo ricevuto più moneta, possono
comprare più beni del paese che svaluta, la svalutazione significa che meno
beni esteri vengono scambiati per più beni nazionali. Vi è quindi una perdita
di valori d’uso e quindi del valore in essi incorporato. I beni così
persi sono detrazioni dal consumo o dagli investimenti della nazione che
ricorre alla svalutazione competitiva. All’interno del paese che ricorre alla
svalutazione competitiva, gli esportatori realizzano più profitti ma la nazione
nel suo insieme perde valore.
Il capitalista esportatore può esportare di
più e quindi ha maggiori introiti. Ma l’output disponibile sul mercato
nazionale è sceso perché una parte è stata appropriata dalle altre nazioni
importatrici. Questa è l’origine di un processo inflazionistico. E quelli che
ne sono le prime vittime sono i lavoratori.
L’argomento keynesiano si basa sull’ipotesi
che la maggiore produzione indotta dalla maggiore esportazione causa maggiori
investimenti e occupazione. Da qui il processo di espansione si espanderebbe al
resto dell’economia (questo è in essenza il moltiplicatore Keynesiano). Ma
questa concezione soffre di un vizio di fondo: l’economia cresce solo se il
tasso di profitto cresce. Un’economia che produce sempre di più ad un tasso
medio di profitto sempre minore è sulla strada dell’avaria. Se negli investimenti
iniziali più gli investimenti indotti dai primi investimenti vengono usati
percentualmente meno lavoro che mezzi di produzione, i profitti e l’occupazione
aumentano ma il tasso di profitto generale diminuisce. Questo ha conseguenze
negative per i capitalisti meno efficienti che in questo modo sono spinti
verso il fallimento, con conseguente perdita di produzione e di occupazione. È
questa è l’ipotesi più probabile perché i capitalisti più efficienti (quelli
che impiegano percentualmente meno lavoro) sono quelli cui sono commissionati
gli investimenti perché sono in grado di offrire prodotti più a buon mercato.
La crescente diminuzione di lavoro impiegato relativamente ai mezzi di
produzione favorisce la formazione della crisi piuttosto che evitarla. Questo è
il motivo per cui dopo un primo impulso dato dalla politica Keynesiana,
l’economia si mette di nuovo sulla china discendente. Lo stato può finanziare e
commissionare opere pubbliche ai privati attraverso il debito di stato. Ma il
problema risorge quando il debito deve essere ripagato. Questa è la critica
Marxista del moltiplicatore Keynesiano.
Come si colloca il proletariato in questo
quadro? Il vero problema dei paesi che ricorrono alla svalutazione competitiva
è l’inefficienza del loro apparato produttivo relativamente ai loro competitori
internazionali. Questo problema è il problema del capitale. Il lavoro non deve
farsene carico. Non deve credere che la modernizzazione dell’apparato
produttivo sarebbe conveniente anche per il lavoro perché – come si sostiene-
il lavoro potrebbe ricevere una fetta del plusvalore internazionale appropriato
dal capitale.
Primo, un’accresciuta produttività
significa una maggiore disoccupazione tecnologica. Secondo, i lavoratori che
non hanno perso il loro lavoro, anche se ricevessero una maggiore fetta della
torta, diventerebbero attori attivi nella competizione capitalista
internazionale. Sarebbero risucchiati in una logica riformista di
collaborazione di classe. Parteciperebbero nello scaricare gli effetti
delle innovazioni tecnologiche sui paesi più deboli, con tutte le conseguenze
negative per la forza lavoro in quei paesi.
Il problema del lavoro è differente. Deve
evitare di pagare i costi della crisi facendoli pagare al capitale al fine non
solo di rafforzare la propria posizione ma anche di indebolire quella del
capitale. Il proletariato deve essere cosciente che in questo sistema le crisi
sono inevitabili e deve quindi costruire le condizioni oggettive e la coscienza
di classe necessarie per una transizione fuori dal capitalismo. La lotta del
proletariato, dei proletariati, non può essere accanto ai capitalismi
nazionali. Deve essere accanto agli altri proletariati e quindi non può
che essere internazionalista.
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Guglielmo Carchedi
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Pubblichiamo
l’intervento di Guglielmo Carchedi, dell’Università di Amsterdam, realizzato
alla Tavola Rotonda su: “Natura imperialista dell’Unione Europea e forme della
lotta di classe” organizzata, sabato 9 gennaio scorso, a Napoli dalla Rete dei
Comunisti, dai compagni della Mensa Occupata- Noi Saremo Tutto e dai compagni
del Laboratorio ISKRA di Bagnoli.
Oltre
alla relazione di Guglielmo Carchedi sono intervenuti, con altri interessanti
contributi, Paolo Cassetta, Mauro Casadio ed Emilio Quadrelli.
E’ intenzione dei compagni che hanno curato l’iniziativa approntare
prossimamente un opuscolo con le relazioni dei compagni intervenuti per dare
conto, ampiamente, del dibattito e per sollecitare la discussione tra i
compagni e gli attivisti tutti.