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Frida Kahlo ✆ Raíces
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Roberto Finelli | Nell’opera
complessiva di Karl Marx sono presenti due paradigmi teorici che vanno
interpretati in modo profondamente diverso da come hanno fatto negli anni ’60 e
’70 Althusser e la sua scuola, pretendendo di imporre al marxismo una struttura
teorica estranea proveniente dallo strutturalismo linguistico. In questo
saggio, per comprendere la realtà vera della globalizzazione che stiamo
vivendo, si compie l’operazione teorica di differenziare il Marx del
materialismo storico e dell’esaltazione prometeica dello sviluppo delle forze
produttive dal Marx teorico del Capitale come un sistema sociale fondato, non
sulla volontà e le decisioni di soggetti individuali, bensì su un fattore
impersonale di socializzazione, costituito da una ricchezza non-antropomorfa ma
solo quantitativa ed astratta, con una tendenza illimitata all’accumulazione.
Solo un marxismo dell’astrazione, invece che un marxismo della contraddizione,
può chiarire il cuore del passaggio contemporaneo dal fordismo al postfordismo,
dall’accumulazione rigida all’accumulazione flessibile. Questo passaggio è
incentrato sul fatto che ora il capitale mette a lavoro non più il corpo ma la
mente delle forza-lavoro. Ma tale passaggio
non modifica la sostanza
interpretativa dell’impianto marxiano che consiste nell’assegnare al capitale,
ad ogni rivoluzione tecnologica significativa, il compiti di condurre il lavoro
a lavoro astratto, ossia a quel lavoro controllabile e normalizzabile che,
nella sua assenza di variazioni e intepretazioni soggettive, costituisce la sostanza
del valore astratto della ricchezza capitalistica).
1. L’ “americanismo”
come idealtipo della globalizzazione
Le riflessioni che seguono nascono da quella che a me sembra
la caratteristica più paradossale della realtà che stiamo vivendo: tanto caratterizzante
l’intera realtà, storica e sociale contemporanea, da configurarla appunto come
null’altro che un unico grande paradosso. Il paradosso è quello della
contraddizione tra il piano dell’Essere e quello dell’Apparire, ossia tra
il piano interiore e profondo della struttura del reale e quello esteriore della
forme della coscienza individuale e collettiva con cui quella struttura viene
appresa e conosciuta, anzi nel nostro caso bisogna dire viene distorta e
misconosciuta.
Con il crollo del comunismo cosiddetto reale il mondo
conosce oggi solo l’«americanismo» come forma unica di civiltà e di
organizzazione sociale. E l’americanismo, per quello che dirò subito, vale per
me come la realizzazione, oggi, più completa e più avanzata del capitalismo,
proprio come la maturità dell’Inghilterra valeva per Marx come la forma
canonica del capitalismo dell’800. E americanismo senza America,
americanismo oltre i confini d’America, può essere definita l’attuale
globalizzazione, se la si considera come generalizzazione a tutti i paesi del
globo, con gradi diversi ovviamente di sviluppo e di sottosviluppo, del
medesimo modello di produzione, distribuzione e consumo di merci, della
medesima ricerca di profitto, della medesima invasività e diffusione del
mercato e della medesima attitudine a trasformare tutti i rapporti umani in
rapporti quantificabili e mediati dal denaro.
Per altro non v’è dubbio che la globalizzazione debba essere
vista, ancora oggi, soprattutto come maggiore velocità e ubiquità di
spostamento del capitale finanziario e spesso solo speculativo, senza cedere
alla facile quanto superficiale rappresentazione che la prospetta come il darsi
di un unico mercato mondiale con un’unica concorrenza che genererebbe medesimi
prezzi delle merci, del lavoro del denaro.
1
Laddove la sua effettiva realtà si presenta come non solo profondamente
differenziata quanto asimmetrica, anzi tale che in essa polarità e distanze,
differenze tra sviluppo e sottosviluppo si acuiscono, almeno per chi ragioni in
termini di statistiche comparate e relative e non di dati assoluti di crescita
e di progresso. Eppure la globalizzazione, pur sottratta al segno retorico di
presunti universalismi e di omogenei sviluppi, può comunque essere considerata
unitariamente come «una immane raccolta di merci», nel senso dell’aumento
sempre più ampio e sempre più intenso della quota di popolazione mondiale che dipende
per la propria riproduzione in modo integrale dall’esposizione e dalla
mediazione con il mercato.
Ora il paradosso di cui parlavo all’inizio consiste, a mio
avviso, nel fatto che proprio quando, con il venir meno del socialismo reale,
si diffonde e s’impone, sia pure, torno a dire, con una configurazione a
macchie di leopardo, un unico modello di vita economica e sociale, capace di
stringere nella sua ricerca del profitto e della remunerazione monetaria
qualsiasi tipologia, da quella più avanzata a quella più arcaica, di lavoro,
viceversa in termini culturali e simbolici, alla consapevolezza e allo studio
dell’uno e del modo in cui l’uno si articoli nella molteplicità delle
differenze, s’è venuta sostituendo una cultura del frammento, dell’informazione
e dell’atto linguistico-comunicativo da interpretare attraverso altre
informazioni ed altri atti comunicativi, ossia la prospettiva di un’ermeneutica
infinita che considera come tramontati concetti come verità, realtà, oggettività.
S’è venuta facendo egemone insomma una cultura che rifiuta la prospettiva delle
cosiddette ideologie, delle concezioni unitarie del mondo. La sistematicità
delle quali viene infatti svalutata e degradata, quale grande
favola narratrice o visionetotalizzante e totalitaristica.
La contraddizione paradossale della realtà contemporanea si
colloca perciò essenzialmente nello scarto tra reale e simbolico,
per cui mentre da un lato si intensifica e si approfondisce l’attualità del
capitalismo, che diviene cornice e legge unitaria del mondo, dall’altro si
sviluppa un pensiero postmoderno, diffuso ed egemone, secondo cui la nuova
società postindustriale e postfordista nella quale viviamo, almeno
nell’Occidente avanzato – definita anche società della conoscenza e dell’informazione
o società della high tecnology o società della fine del lavoro –
[sarebbe] è una nuova formazione storico-sociale, che romperebbe con i principi
classici della modernità, ottocentesca e novecentesca, inaugurando una nuova
realtà che non si conforma più alla struttura di classi contrapposte, alla
regola dello sfruttamento, al capitalismo industriale.
Per sciogliere questo legame di opposizione tra
l’approfondimento capitalistico del moderno e il suo apparire nelle
coscienze come postmoderno e postcapitalistico, io credo che, sia pure in
modo molto rapido e schematico, sia opportuno chiarire la natura di quello che
ho chiamato «americanismo». Riprendendo la concettualizzazione di Gramsci, che
per primo ha introdotto il termine nella letteratura sociologica e
politica
2,
propongo di definire «americanismo» quella tipologia di organizzazione sociale
nella quale la «struttura» si estende e si dilata direttamente e senza mediazioni
di ceti intellettuali o politici, a «sovrastruttura», producendo, insieme con
l’economico, propriamente anche il culturale e ilsimbolico. Dove cioè
l’«economico» produce nello stesso tempo a) le merci e i beni
materiali; b) i rapporti sociali e le differenze di classe; c) l’immaginario e
le forme generali della coscienza, individuale e collettiva. E dove quindi tale
potenza, anzi onnipotenza, dell’economico, che si fa principio generatore dei
diversi e molteplici aspetti della vita sociale, assegna all’americanismo la
caratteristica di compagine totalitaristica e unidimensionale.
Quell’acuto geografo storico-sociale che è David Harvey, ai
cui studi sul postmoderno da una prospettiva marxista è, insieme al lavoro di
Frederic Jameson, assai utile richiamarsi, scrive in un testo del 1990,
intitolato appunto The Condition of Postmodernity, che “un
particolare sistema di accumulazione può esistere perché il ‘suo schema di
riproduzione è coerente’. Il problema consiste nel dare ai comportamenti di
tutte le categorie di individui – capitalisti, lavoratori, dipendenti statali,
finanzieri e tutti gli altri agenti politico-economici – una configurazione che
permetta al regime di accumulazione di continuare a funzionare. Deve esistere
perciò una materializzazione del regime di accumulazione sotto forma di norme,
consuetudini, leggi, reti di regolazione, ecc., che garantisca l’unità del
processo, cioè la coerenza dei comportamenti individuali con lo schema di
riproduzione”
3.
Vale a dire che, se nella vita della società l’ambito culturale-simbolico
comanda l’accesso al piano motivazionale dei comportamenti individuali, in una
riproduzione sociale basata sull’accumulazione di capitale ne deriva, per
l’istanza totalitaristica che si diceva la caratterizza, che anche quell’ambito
virtuale e costituito dai modi del percepire, del rappresentare e del valutare,
deve essere mediato e governato dalla logica di quell’accumulazione.
Ma comprendere in che senso la globalizzazione oggi sia una
globalizzazione intenzionata ed egemonizzata dell’americanismo e che tipo
peculiare di accumulazione di capitale oggi la caratterizzi implica sapere e
dover distinguere all’interno della categoria generale di americanismo le
due diverse tipologie di accumulazione, quella fordista o, come anche viene
detta, dell’accumulazione rigida e quella postfordista o dell’accumulazione
flessibile, che ne hanno scandito la storia durante il secolo scorso per
giungere fino ai nostri giorni.
Converrà però fare, ai fini della mia esposizione, un passo
indietro. Prima di definire e concettualizzare la differenza tra accumulazione
rigida e accumulazione flessibile mi sembra utile infatti schematizzare quelle
che, a mio avviso, sono state le acquisizioni teoriche fondamentali, ancora
oggi – anzi oggi ancora maggiormente – valide di Marx sulla struttura economica
del capitalismo. Esse possono, io credo, essere sintetizzate in quattro
punti:
Primo (Quantità versus qualità). Il capitalismo è
obbligato costantemente alla crescita. Il capitale è ricchezza astratta,
quantità di moneta che deve essere aumentata e accumulata. La natura
quantitativa della sua ricchezza, espandibile tendenzialmente all’infinito
proprio perché quantitativa, impone che il capitalismo per realizzare il
profitto e l’accumulazione deve espandere costantemente la produzione, non
curandosi del mondo umano e qualitativo, ossia operando indipendentemente dalle
conseguenze di ordine sociale, politico, geopolitico ed ecologico.
Secondo (Lavoro astratto versus lavoro concreto). La
crescita dipende dallo sfruttamento della forza-lavoro durante il processo
produttivo. Sfruttamento non significa pauperizzazione, ossia che i lavoratori
guadagnino poco o in modo scarso e insufficiente rispetto alla loro
riproduzione, bensì che il profitto nasce e dipende dalla differenza tra ciò
che i lavoratori guadagnano e quanto creano. Il controllo della forza-lavoro
durante il processo di lavoro, ossia la lotta di classe nella produzione,
è dunque la condizione fondamentale della crescita e dell’accumulazione.
La chiave di questo controllo sta nell’imposizione alla forza-lavoro di
erogazione di lavoro astratto, ossia il riuscire a porre da parte della
direzione d’impresa gran parte delle conoscenze, delle decisioni tecniche e dell’apparato
disciplinare fuori dal controllo della persona che concretamente effettua il
lavoro.
Terzo. Il capitalismo è costantemente dinamico dal punto di
vita sia dell’innovazione tecnologica che dell’innovazione organizzativa. Ogni
capitalista è esposto a una doppia concorrenza: quella con gli altri
capitalisti e quella con i propri lavoratori. Gli investimenti nell’innovazione
tecnologica e in quella organizzativa sono indispensabili, insieme, sia per la
produzione di profitti ed extraprofitti sia per il controllo della lotta di
classe.
Quarto. La dinamica del capitalismo è comunque di necessità
esposta alla crisi. La struttura di classe della distribuzione del reddito non
consente infatti l’assorbimento continuo dell’espansione e della crescita. Il
capitalismo tende ad entrare in fasi periodiche di sovraccumulazione, in cui
capitale inutilizzato e forza lavoro inutilizzata si fronteggiano inoperose e
da cui in genere si torna ad uscire attraverso enormi distruzioni di capitale,
merci e forza lavoro.
Di questo quattro punti che nella teorizzazione di Marx
rappresentano le invarianti del modo di produzione capitalistico
quello che costituisce la frontiera decisiva del confronto di classe è, come
dicevo, almeno a mo avviso, il secondo, quello concernente la necessità da
parte dell’impresa capitalistica di riuscire ad imporre alla forza lavoro – sia
essa manuale o intellettuale non importa – l’erogazione di lavoro, non
concreto, ma astratto, giacché «lavoro astratto» significa lavoro disciplinato
e disciplinabile, da cui è espulsa la soggettività della forza-lavoro, con
tutte le implicazioni di non regolarità, discontinuità, non manipolabilità, non
omologabilità che il soggettivo porterebbe con sé.
Per altro la questione e la realtà del lavoro astratto sono
centrali nel pensiero maturo di Marx, non solo perché definiscono quanto di
disumano si gioca nella produzione di capitale ma anche perché sono il
fondamento della teoria del valore-lavoro, giacché come scrive lo stesso Marx
nei Grundrisse, il fatto che sotto i prezzi monetari ci siano le quantità
di lavoro, e di lavoro appunto omogeneo e scambiabile – come vuole appunto la
teoria del valore-lavoro – se sul piano del mercato e dello scambio di compere
e vendite può sembrare una ipotesi solo soggettiva, del solo Carlo Marx, pari
quanto a verosimiglianza alle ipotesi delle altre teorie economiche, si fa
invece realtà vera, in modo oggettivo, «praticamente vera»
4,
come scrive Marx, quando nel cuore della produzione e dunque per milioni di
uomini e donne che costituiscono la forza lavoro il lavoro si fa
necessariamente astratto e per tutti tendenzialmente eguale ed omogeneo quanto
all’uso capitalistico e alle modalità con cui viene praticato. Non a caso
l’operaismo, con la sue mitologie e le sue forzature di una soggettività
lavoratrice sempre all’attacco e sempre anticipata, quanto a iniziativa
storica, rispetto al capitale, ha dovuto rimuovere da sempre dal suo orizzonte
la questione sia del lavoro astratto che della teoria del valore-lavoro
considerandoli residui di un Marx subalterno a Ricardo e alla scienza economica
borghese
5.
2. Americanismo di
prima e di seconda generazione
Ma torniamo all’americanismo e alla centralità del comando
sul lavoro nelle due fasi storiche dell’accumulazione rigida e
dell’accumulazione flessibile.
Riguardo a tale distinzione, possiamo definire il fordismo
come un compromesso particolare e specifico tra capitale e lavoro, per cui
mentre la forza lavoro cede al capitale il controllo della produzione, dei
tempi, dei ritmi, del proprio corpo, la stessa forza lavoro ottiene in cambio
l’accesso all’acquisto dei beni di consumo di massa e, attraverso il welfare,
ma questo avviene soprattutto in Europa, ottiene la partecipazione ai servizi
dello Stato sociale.
Il fordismo-taylorismo si è basato, com’è noto, sullo
strutturarsi insieme della grande fabbrica, organizzata secondo catena di
montaggio, e dello scientific management, che imprigiona il corpo della
forza-lavoro in una serie di operazioni parcellizzate e ripetitive. Solo che,
come dicevo all’inizio, il fordismo-taylorismo è stato controllo del
corpo non solo dal lato della qualità e quantità della prestazione lavorativa
ma anche dal lato dei bisogni e dell’immaginario ad essi legati. Il fordismo ha
significato infatti anche produzione standardizzata di beni di consumo di massa
e tendenziale aumento, storicamente significativo, del salario reale, in
conseguenza della maggiore concentrazione e forza contrattuale dei ceti operai.
Nell’arco del primo cinquantennio del XX° sec., soprattutto
con il decollo economico legato allo sviluppo della produzione durante il
secondo conflitto mondiale, il fordismo ha trasformato pertanto la funzione
sociale della forza-lavoro, aggiungendo alla sua identità classica,
ottocentesca, di erogatrice di energia lavorativa e di mero oggetto di
sfruttamento all’interno della produzione, quella di soggetto del consumo nella
sfera della circolazione e dell’uso delle merci. Ed è appunto a muovere da qui,
dalla produzione di beni di consumo durevole di massa (abitazioni, macchine,
autostrade, elettrodomestici), la cui disponibilità faceva uscire buona parte
dei ceti popolari da un’esistenza di mera riproduzione fisica per introdurli a
un’esistenza da cittadini, che l’industrialismo americano ha iniziato a
produrre anche i bisogni, il desiderio e l’immaginario sociale del
lavoratore-consumatore. Così, nell’orizzonte di una cittadinanza cui si
accedeva attraverso il consumo, l’industria capitalistica, direttamente,
nel periodo storico considerato – e senza bisogno della mediazione di ceti
intellettuali e politici che fossero preposti all’elaborazione del
consenso e delle ideologie – ha prodotto le forme dominanti e generali della
coscienza individuale e collettiva. Basti pensare in tal senso a quanto radio,
televisione e industria cinematografica abbiano amplificato, ma né inventato né
originalmente concepito, l’immagine tipica e ideale della famiglia americana,
cellula della democrazia e della libertà, con l’uomo procacciatore di reddito
attraverso il lavoro e la donna riproduttrice dei figli e di una vita domestica
abbellita e alleggerita dagli elettrodomestici e dai beni di consumo durevole
del nuovo industrialismo.
Quando nella prima metà degli anni ’70 questa tipologia,
insieme di accumulazione capitalistica e d’integrazione sociale, entra in
crisi, per la concomitanza di più cause, tra cui in primo luogo la saturazione
del mercato dei beni di consumo durevole e il cambiamento nei rapporti di forza
internazionale per cui gli Stati Uniti passano dalla condizione di paese creditore
alla condizione di massimo paese debitore del mondo, e quando il crollo
del sistema di Bretton Woods testimonia che gli Stati Uniti non hanno più il
potere di controllare da soli la politica monetaria mondiale,
l’americanismo si trova obbligato a concepire un nuovo modello di
accumulazione la cui base tecnologica è costituita, per dirla assai in breve,
dall’applicazione dell’informatica e delle macchine dell’informazione ai
processi produttivi, alla distribuzione e ai servizi, oltreché dall’utilizzazione
della forza-lavoro, riferita non al corpo e alla manipolazione di oggetti
materiali di lavoro, bensì riferita alla mente e ad operazioni
logico-calcolanti su dati alfa-numerici.
Tale rivoluzione tecnologica, legata alle macchine
informatiche, consente una nuova organizzazione del tempo e dello spazio, dando
vita a quella che è stata chiamata correttamente una nuova «compressione
spazio-temporale» del mondo capitalistico. Una riorganizzazione del tempo e
dello spazio che appunto ha offerto all’americanismo la possibilità storica di
sviluppare una nuova tipologia del processo di accumulazione capace di
confrontarsi e di aggirare tutte le rigidità dell’accumulazione fordista. La
flessibilità e la mobilità, la maggiore velocità del tempo di rotazione del capitale,
al pari del tempo di rotazione dei consumi e della durate dei beni, divengono
infatti i nuovi criteri con cui riorganizzare l’intero mondo economico:
rispettivamente i processi produttivi e la tipologia dei prodotti, i mercati
dei lavoro, perché di mercati e non di un solo mercato del lavoro bisogna
parlare, e i modelli di consumo.
Molto è già stato scritto sull’applicazione della robotica e
dell’informatica alla produzione, sui sistemi di gestione del magazzino just-in-time,
sull’esternalizzazione di funzioni e servizi prima all’interno del ciclo
produttivo, sulla crescita del subappalto e delle attività di consulenza, sullo
smembramento delle grandi unità produttive, sulla delocalizzazione delle
imprese, sulla riduzione della durata di vita e di consumo delle merci, sulla
sostituzione delle economie di scala con le cosiddette economie di scopo, ossia
sulla crescente capacità di produrre una gran varietà di beni a basso prezzo e
in piccole quantità. Molto è stato scritto insomma sulla differenza tra
il paradigma industriale del vecchio capitalismo basato su una struttura
meccanicistica e il paradigma postindustriale del nuovo capitalismo basato
sulle reti di mercato. E molto è stato scritto, oltre che sulla frantumazione
del mercato del lavoro, sull’utilizzazione di lavoro precario, di lavoro
connesso con le masse di emigranti, sulla grande riorganizzazione del sistema
finanziario mondiale coordinato per mezzo di telecomunicazioni istantanee, che
ha visto da un lato la formazione di conglomerati finanziari e di intermediari
di estensione mondiale, con un’enorme capacità di spostare denaro, e dall’altro
un decentramento dei flussi finanziari attraverso la creazione di nuove borse e
di mercati finanziari assolutamente nuovi, come quello dei fondi
d’investimento, o l’espansione di mercati finanziari già esistenti come quello
di futures su merci o dei debiti a termine.
3. Al moderno il
corpo, al postmoderno la mente
Pure non va evitata la domanda di fondo che il passaggio dal
paradigma industriale a quello postindustriale pone sul piano storico e
sociale.
Si tratta del transito ad una formazione storico-sociale
diversa e nuova rispetto a quella moderna, come vogliono i sostenitori del
postmodernismo, con la loro teorizzazione della fine della società fondata
sulle classi e sulla lotta di classe, con la loro teorizzazione della fine
della società del lavoro, e il passaggio dalla fatica del lavoro manuale alla
creatività del lavoro intellettuale e comunicativo, con la caduta del comunismo
cosiddetto reale e la fine delle ideologie?
O si tratta, nel passaggio, dal fordismo al postfordismo, di
una mutazione solo superficiale e apparente del capitalismo che non ne modifica
la struttura di fondo e che lascia inalterate e valide tutte le categorie della
classica interpretazione marxiana. Da parte di chi sostiene quest’ultima tesi,
si sostiene che di fondo non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Che tutto si può
ricondurre al plusvalore assoluto e al plusvalore relativo di Marx, spiegando
la prima categoria la dislocazione delle imprese da regioni ad alto salario e a
orario contenuto a regioni di basso salario con giornata lavorativa lunga, e
spiegando la seconda categoria le innovazioni organizzative e tecnologiche che
consentono extraprofitti temporanei alle aziende innovatrici e poi profitti più
generalizzati dovuti alla riduzione del costo dei beni che costituiscono il
salario reale dei lavoratori. Che la tendenza del capitalismo alla
mondializzazione, all’espansione dei mercati, al trasferimento di capitali, c’è
sempre stata. E che dunque nulla cambia se non per un ampliamento delle
quantità o per una utilizzazione più intensa delle categorie del capitalismo
classico.
Bene io credo che non si possa seguire nessuna delle due
strade, né quella della discontinuità storica dei postmodernisti né quella
della continuità, senza trasformazioni radicali, teorizzata dai marxisti
tradizionali. A mio avviso va invece percorsa un’altra strada che unisca
insieme modernità e postmodernità, senza rinunciare nello stesso tempo ad
utilizzare gli strumenti teorici concepiti da Marx. A patto però, come si vedrà
subito, di abbandonare il marxismo tradizionale e classico della
«contraddizione» e di estrarre dallo stesso Marx un altro paradigma teorico che
da ormai un trentennio io provo a proporre, a concettualizzare e a
definire come il «marxismo dell’astrazione». Solo ilmarxismo
dell’astratto può consentire infatti di comprendere e di definire il nesso
tra postmoderno e moderno come un nesso non diacronico, come se fossero due
tempi od epoche storiche diverse, ma come un nesso sincronico, per il quale il
postmoderno è null’altro che il moderno, ma un moderno capace come non mai
di nascondersi e dissimularsi a sé stesso. Solo un marxismo che usa come sua
categoria fondamentale interpretativa e di ricerca non la contraddizione,
ma l’astrazione può cioè confrontarsi con la nuova totalità
storico-sociale che il capitale oggi pone in essere, legando le nuove modalità
dell’accumulazione economica con il nuovo sistema di regolazione ideologico e
politico, con il nuovo sistema di rappresentazioni collettive, che quelle
stesse modalità richiedono e producono.
A tal fine è bene ritornare sull’americanismo,
sull’americanismo che possiamo chiamare di seconda generazione, e mettere a
fuoco che tipo di relazione specifica si dia oggi tra il nuovo lavoro, il
cosiddetto lavoro intellettuale o mentale, e le nuove tecnologie
dell’informazione. Non perché questa nuova organizzazione del lavoro coincida
con la globalizzazione, dato che il capitale è in grado oggi, com’è noto, di
utilizzare, ovunque ne abbia la convenienza, e come parti non accessorie del
suo sistema produttivo, vecchi sistemi di lavoro a domicilio, artigianale,
patriarcale-familiare o paternalistico-mafioso. Ma perché è il possesso e
l’uso, quanto più avanzato, della tecnologia informatica che garantisce le
posizioni di punta e l’egemonia sia nei diversi comparti del capitale
produttivo che di quelli del capitale finanziario.
Da parte dei più, non solo dagli imprenditori e dalle
direzioni aziendali, ma anche dai sociologi, dai sindacalisti, dai politici,
dagli intellettuali di varia natura, ci è stato e ci viene detto che con la
tecnologia informatica e con la messa al lavoro, non del corpo, ma della mente,
si conclude finalmente un’antropologia lavorativa connotata dalla fatica e dal
gravoso confronto con la durezza del mondo materiale e si inaugura l’epoca di
un lavoro cognitivo e creativo, basato sull’uso dell’intelligenza e della
conoscenza e sul confronto, agile e dinamico, con un mondo di dati virtuali.
Anche dagli operaisti, sempre pronti a scoprire formule che stupiscano, ci
viene detto che il lavorare è ormai un comunicaree che l’essenza
della prassi, di quella che appunto una volta era la prassi materiale,
oggi è il linguaggio, da cui muove la possibilità di stringere in un general
intellect discorsivo, in una rete di comunanza comunicativa, la massa dei
nuovi lavoratori della mente.
Io credo, al contrario, che sia essenziale sottrarsi a
questo riduzionismo linguistico che è diventato oggi l’orizzonte generale del
senso comune, non solo intellettuale ma generalizzato e di massa, e considerare
che l’informazione in un processo di lavoro capitalisticamente organizzato non
è mai solodescrittiva ma è sempre anche prescrittiva; implica cioè un
codice di senso predeterminato che obbliga la forza-lavoro in questione a
muoversi secondo un contesto di possibilità già definite e strutturate. Non va
dimenticato infatti che la caratteristica fondamentale delle nuove tecnologie è
quella di collocare una serie enorme d’informazioni al di fuori del cervello
umano. Tale mente artificiale può valere come ampliamento di memoria, a
disposizione di un soggetto elaboratore e creativo, solo nel caso di attività
private e ad alto contenuto di professionalità. Nel caso di processi lavorativi
finalizzati alla produzione-circolazione di merci, alla produzione di servizi,
alla informatizzazione di funzioni burocratiche pubbliche funziona invece come
mente esterna che sistema e accumula le informazioni secondo un codice che
implica contemporaneamente schede o disposizioni predeterminate di lavoro,
ossia modalità flessibili ma predeterminate d’intervento e di risposta da parte
della mente del lavoratore non manuale.
E’ dunque l’«anima», diciamo così, del nuovo lavoratore
cognitivo, la sua intelligenza sia come comprensione globale-intuitiva che come
attitudine logico-discorsiva, ad essere ora subordinata a un programma di senso
e di operazioni già predefinite. Vale a dire ossia che proprio ciò che finora
veniva definito come la caratteristica più personale e non omologabile del
soggetto umano, proprio ciò che il fordismo teneva ben lontano dal campo di
battaglia nel suo confronto di classe – appunto le anime dei
lavoratori – ora entrano in un campo di fungibilità interagente ma
subalterna con la macchina dell’informazione. La quale per suo verso,
accumulando quantità d’informazioni alfa-numeriche sulla base del linguaggio
binario, dell’alternanza cioè di zero ed uno, riproduce il mondo reale eliminando
da esso qualsiasi ambivalenza e contraddizione dalla realtà secondo la
riduzione che è propria di una semplificazione matematico-quantitativa.
Matematizzazione e codificazione del mondo che dal lato del lavoratore
cognitivo e della sua prestazione richiede la cooperazione di una soggettività
istituita più sulla valorizzazione astratto-calcolante del proprio essere che
non sulla messa in gioco di tutte le altre componenti del proprio sé.
Ma è proprio in questa riduzione della coscienza e del
lavoro mentale di massa ad operazioni precodificate di senso che si colloca a
mio avviso il passaggio da moderno a postmoderno, nel senso della negazione
della profondità della mente o meglio dello svuotamento di una soggettività, la
quale nel momento stesso in cui viene valorizzata e messa in campo, è obbligata
invece a rinunciare alla sua autonomia, ad una verticalità di percezione e di
giudizio che dovrebbe aver le sue radici nella profondità del proprio corpo
emozionale e nello stratificarsi della sua memoria. Lo svuotamento della
soggettività, il venir meno della sua profondità ha come effetto speculare la superficializzazione del
mondo, un mutamento cioè storico-antropologico del sentire, per cui il mondo,
l’esperienza del vivere, la vita sociale e individuale appaiono e vengono
percepite necessariamente come una superficie frammentata, fatta di momenti ed
eventi fondamentalmente slegati tra loro proprio perché non tenuti insieme da
una struttura di profondità. Così il postmoderno, la visione del mondo che
afferma, per esprimerci con i termini della filosofia, che l’Essere è
linguaggio, che non c’è nessuna realtà-verità oggettiva, che non ci può essere
nessun pensiero forte e sistematico, ma che viceversa tutto è segno da
interpretare attraverso altri segni, è legittimamente l’ideologia del
postfordismo, in quanto è un modo di rappresentare e percepire il mondo che
viene prodotto con lo stesso atto della produzione dei beni economici,
materiali o immateriali che essi siano.
Marx ci ha insegnato che se il capitale è ricchezza
astratta in processo, una delle condizioni fondamentali della sua riproduzione
e accumulazione è che astratto, cioè non concreto, bensì controllabile e
normalizzabile sia il lavoro che costituisce la fonte di quella ricchezza:
secondo quell’organizzarsi tecnologico della produzione, che appunto lui nel Capitolo
VI inedito definisce la «sussunzione reale» del lavoro al capitale. Ad
ogni generazione di lavoratori, ad ogni nuova immissione generazionale di
forza-lavoro, il capitale deve affrontare, ogni volta di nuovo e con nuove
innovazioni tecnologiche, questo problema, per risolverlo e garantirsi la
condizione fondamentale della sua esistenza e riproduzione.
Con il fordismo la sussunzione reale, il controllo e la
disciplina concernevano il corpo della forza lavoro e rispetto a ciò il punto
di vista di classe poteva riconoscersi in un marxismo dellacontraddizione che
teorizzava il darsi di soggettività collettive e sociali contrapposte, in
opposizione tra loro, riguardo alla battaglia sul corpo appunto e sulla sua
normalizzazione lavorativa. «Contraddizione» perché la normalizzazione della
forza-lavoro si compiva attraverso un’ortopedia del corpo operaio imposta con
costrizione dall’esterno e dalla forza del macchinismo. Con il
postfordismo e l’accumulazione flessibile la sussunzione reale di Marx
concerne, come dicevo, la mente dell’erogatore di lavoro. Ma ciò significa – e
questo snodo io credo sia essenziale per la comprensione del presente – che,
attraverso la colonizzazione della mente da parte dell’informatica organizzata
a scopi di profitto viene prodotta e riprodotta, insieme al capitale, una
tipologia capitalistica di soggettività. Tale tipologia di soggettività patisce
lo svuotamento della sua concretezza di vita da parte dell’astratto
capitalistico e della sua tecnologia e contemporaneamente la compensazione di
talesvuotamento attraverso il sovrinvestimento, la
sovradeterminazione, isterica e imbellettata, della superficie del proprio
esperire
6.
Così mentre partecipa dell’esaltazione ideologica collettiva dell’informatica,
della partecipazione a una comunicazione generalizzata e dell’emancipazione dal
lavoro che ne dovrebbe conseguire, soffre invece di vuotezza emotiva, di piattezza
e d’indeterminatezza d’esistenza.
Di questo nesso tra svuotamento dell’interno e
sovradeterminazione dell’esterno – assai più che delle vecchie categorie
dell’alienazione e della contraddizione – deve dar conto il nuovo marxismo
dell’astratto. E ciò proprio per poter riproporre alla fine, di nuovo, un
marxismo della contraddizione, attraverso la formazione di una nuova
soggettività, individuale e collettiva, che, a partire dalla mortificazione e
dallo svuotamento compiuti dal mondo dell’astratto ai danni del mondo
della vita, ritorni a pensare e a praticare il valore epocale della fuoriuscita
storico-sociale dal capitalismo.
Ma per giungere a ciò è necessario passare oggi attraverso
il marxismo dell’astrazione e rileggere alla sua luce Das Kapital di
Karl Marx, comprendendo che Marx ha fatto, prima che storia, scienza del
presente e che questa scienza non si basa sulle volontà e sulle azioni di
soggetti individuali, bensì su un fattore impersonale di socializzazione che si
chiama appunto Capitale, costituito da una ricchezza non antropomorfa, ma
astratta e non finalizzabile a scopi di armonia e di benessere umano, di cui
Marx ha codificato la struttura secondo metamorfosi e passaggi, regole
finanziarie e produttive, rapporti di subordinazione di classe, la cui
natura obbligata s’impone agli attori sociali e individuali che di volta in
volta, secondo tempo, luogo, merce e mercato determinati, e se si vuole anche
secondo diverse caratterizzazioni psicologiche, svolgono quelle funzioni,
invece, di per sé impersonali e rette da una logica in ogni dove eguale. Certo
ci sono ovviamente i molti capitali e il passaggio dall’Uno ai molti,
dalla configurazione del Capitale in generale ai molti e concreti
capitali, costituisce il problema del passaggio dal 1° al 3° libro di Das
Kapital, coincidendo con la travagliatissima questione della trasformazione dei
valori in prezzi. Ma quel passaggio è problematico per lo stesso Marx, oltre
che per la natura incompiuta della sua opera, proprio perché Marx vuole essere
fedele all’impostazione del primo libro, alla definizione impersonale e
meramente quantitativa che ha dato del Capitale come valore in
processo, e continuare a pensare e a concettualizzare l’agire concreto dei
molti capitali secondo gli obblighi di regole e proporzioni della creazione e
distribuzione di «quantità» di valore, che consegnano gli individui umani,
quale che siano le loro capacità d’iniziativa e d’intraprendenza, a vivere solo
come personificazioni di funzioni economiche, ovvero, secondo quanto dice Marx,
ad essere soloCharaktermasken, maschere teatrali che recitano un
copione che già è stato loro scritto e predatato
7.
4. Una produzione
capitalistica di soggettività
Tra moderno e postmoderno dunque, secondo la tesi che
qui si propone, si dà discontinuità, non quanto a modo di produzione e a
formazione economico-sociale, bensì quanto a tipologia di lavoro astratto
erogato e quanto ad effetto generale di feticismo che la ricchezza astratta del
capitale e la sua accumulazione sono in grado di mettere in atto. Il passaggio
da un’accumulazione di lavoro astratto, che mette in scena e in gioco il corpo,
a un’accumulazione che mette in scena la mente, conduce infatti il capitale a
una sorta di accentuata invisibilità. Al passaggio cioè da una coreografia
esterna, fatta di materia e di spazialità, ad una coreografia interna e
immateriale, fatta di operazioni e funzioni calcolanti-discorsive. E appunto in
tale dislocazione dall’esterno all’interno, il capitale assume una
configurazione sempre meno sensibile-percettiva, per inaugurare una modalità
d’esistenza più impalpabile e virtuale. E’ il fantasmatizzarsi del capitale, il
suo farsi puro spirito, come realizzazione di una tecnologia e di
un’organizzazione di sé ancor più adeguati al suo concetto, secondo la
definizione marxiana di ricchezza astratta – cioè non confinabile in nessuna
materia particolare – che accumula se stessa.
A tale farsi interiore e fantasmatico del capitale, a tale
suo smaterializzarsi e rendersi pressoché invisibile, corrisponde, come abbiamo
detto, un’eccesso di visibilità nella superficie delle cose e dell’esperire. La
tecnologia informatica conduce infatti a un tale svuotamento-colonizzazione
della mente da parte dell’astratto da privarla della propria dimensione di
profondità e di renderla funzionale alla sola dimensione di
acquisizione-elaborazione di dati esteriori. Per cui all’interiorizzarsi del
capitale si accompagna una produzione capitalistica di soggettività
8 capace
di esperire il mondo solo nella sua trama di superficie, quale serie di eventi
e di fatti, che, senza rimandare a nessi più interni, si concludono nell’attimo
appariscente della loro vita accidentale e seriale.
La produzione capitalistica di soggettività, attraverso la
nuova tipologia dell’accumulazione dell’astratto, produce dunque una
soggettività esposta più al dominio della quantità che non all’esperienza della
qualità. Cioè più un io che si fa spettatore e fruitore di pezzi di mondo
sciolti da ogni vincolo reciproco che non un io capace di sintetizzare e
riunificare il proprio esperire attraverso valenze significative di relazione.
E’ un tipo di individualità definibile – in conformità
all’orizzonte storico del capitale-quantità – come un «io-quantità», ben
esplicabile attraverso la categoria hegeliana della cattiva infinità, in
quanto io che, non riuscendo a padroneggiare, attraverso sintesi, la
molteplicità del proprio mondo, interno ed esterno, è destinato a trascorrere
in «un assoluto divenir altro», in un allontanamento da sé che si traduce
nell’essere colonizzato dall’«esteriore».
Vale a dire che, con la produzione capitalistica di
soggettività, si genera un individuo catturato più dall’esterno che non
dall’interno e incapace perciò di far riferimento alla propria
interiorità emozionale come luogo fondamentale, in ultima istanza, di valutazione
e di sintesi del proprio vivere. E dove solo la sovradeterminazione retorica e
artificiale, «isterica» è stato giustamente detto, di un mondo esterno,
frantumato in immagini di superficie, compensa, sul piano degli affetti, l’eclisse di
questo fondamentale senso interno. E’ l’individualità postmoderna che, priva
dell’interiorità dell’emozione e della memoria, trasferisce l’investimento
affettivo, rimosso se non addiritura forcluso, nella sovradeterminazione,
imbellettata ma vuota, del mondo esteriore.
Ora appunto per comprendere le conseguenze di un’erogazione
costante di attività astratta sulla soggettività astratta, nella quale viene
meno ogni capacità di dar senso e forma profonde al proprio agire, – per porre
come problema fondamentale dell’oggi il nesso tra eclisse dell’emotività e suo
trasfert sull’esterno di un mondo ridotto a pellicola di superficie – il
marxismo dell’astratto obbliga ad abbandonare il marxismo della contraddizione
e dell’antropologia semplificata del giovane Marx, per il quale alienazione e
sfruttamento dell’essere umano non possono non generare una forza sociale
rivoluzionaria, pronta a recuperare la sua essenza e dignità conculcata e a
contraddire l’assetto economico e politico dominante.
Questa teoria meccanica e automatica del conflitto sociale
nasce, nel Marx prima del Capitale, dalla valorizzazione indiscussa dell’homo
faber, quale soggettività indiscussa e prometeica del materialismo storico, e
da una conseguente visione delle forze produttive come elemento comunque
progressivo e accumulativo della storia umana. Per cui a muovere dalla
centralità dell’uomo produttore e dalla sua sempre più dispiegata e collettiva
produttività non potrebbe non darsi, in presenza di rapporti sociali di
proprietà e di distribuzione privata, un inevitabile configgere tra la
socialità del produrre e l’appropriazione individualistica di una
ricchezza collettivamente generata. Per dire insomma che nel Marx della
contraddizione, quale istituzione fondativa della società moderna, opera la
mitologia di un soggettività umana, fabbrile e comunitaria, presupposta al
concreto svolgersi delle realtà storico e sociali [9. Cfr. su ciò E.
Screpanti, Comunismo libertario. Marx, Engels e l’economia politica della
liberazione, manifestolibri, Roma 2007, pp. 32-44.]. Sull’organicismo e il
comunitarismo del giovane Marx, che assegnano, a ben vedere, una fondazione spiritualistica al
suo preteso materialismo mi permetto di rinviare al mio Un
parricidio mancato. Hegel e il giovane Marx, Bollati Boringhieri, Torino
2005], che non può non costituirsi come opposizione e alterità irriducibile a
qualsiasi relazione pratico-economica che presuma di tradurla da soggetto in
oggetto, da soggetto in predicato del proprio agire e del proprio creare
ricchezza. E quando il Marx maturo in un celebre passo dei Grundrisseafferma
che il lavoro è il «non-capitale»
9,
torna ad assegnare al lavoro lo statuto di essere per principioaltro, ossia
ontologicamente eterogeneo e antagonista rispetto al capitale e alla sua
pretesa di dominio incontrastato e assoluto.
Invece il passaggio alla tipologia dell’accumulazione
flessibile sottrae a mio parere ogni legittimità al paradigma della centralità
operaia, non tanto o non solo nel senso della riduzione drastica del lavoro
manuale nell’ambito dei settori economici tecnologicamente più avanzati, quanto
e soprattutto nel senso socio-politico dell’esistenza di una classe dotata,
malgrado la violenza dello sfruttamento e dell’espropriazione cui viene
sottoposta, di un’autonomia di origine e di funzione che la renderebbe comunque eccedente rispetto
alla totalizzazione capitalistica. Il postfordismo non toglie la centralità del
nesso forza lavoro-capitale come chiave di volta della società contemporanea ma
toglie l’illusione di una forza lavoro quale per definizione soggettività
collettiva e antagonista. Anzi pone una realtà paradossalmente rovesciata,
quale quella di una forza lavoro mentale che presume di sapersi
soggetto, non a dispetto e in opposizione, ma proprio nella coincidenza con il
suo svuotamento e il suo essere reso oggetto.
Per cui, senza dimenticare nulla di un secolo di lotte
dell’operaio fordista e dell’enorme permanenza del lavoro manuale nell’attuale
economia-mondo, quello che qui preme sottolineare è che, nel passaggio dal
fordismo al postfordismo, il capitalismo a base tecnologica informatica rende a
sé più facilmente interno, ed omogeneo al proprio processo di
valorizzazione, il lavoro. Possiamo aggiungere, non reprimendo o violentando la
soggettività, bensì impedendole di nascere e costituirsi in quanto tale. O per
dir meglio, negandola proprio attraverso la messa in scena di un processo
fittizio di soggettivazione e la valorizzazione di null’altro che la sua
medesima silhouette.
Ma affermare questo, non può non avere, com’è evidente,
conseguenze profonde quanto a decostruzione/ricostruzione dell’intero
apparato categoriale di Marx. Giacché l’espulsione o la marginalizzazione della
categoria della contraddizione rispetto alla centralità di quella
dell’astrazione implica il rifiuto di ogni soggettività presupposta, qual
è quella che invece a mio avviso continua ad operare in tutta l’opera di Marx.
Ed implica, a muovere dalla cruda realtà della nostra moderna postmodernità,
l’assunzione in tutta la sua più ampia serietà del Capitale quale totalità,
che produce, come si diceva, il triplice piano dei beni mercantili,
dell’asimmetria delle disuguaglianze sociali, e dell’immaginario dissimulatorio
attraverso cui quella asimmetria deve essere negata e coperta. Ricordando, a
chi critica tale analisi di reiterare il vecchio discorso sul totalitarismo
dell’integrazione capitalistica della scuola di Francoforte, che autori come
Adorno, Horkheimer, Marcuse non hanno fatto mai del processo di lavoro e dello
specifico uso capitalistico della forza-lavoro il luogo generativo della
socializzazione e di una totalizzazione inclusiva persino della produzione
delle forme di coscienza, interessati com’erano più al capitalismo della
circolazione, del feticismo della merce, dell’omologazione dei consumi e
dell’industria culturale.
Invece io credo che, muovendo dal modo in cui l’astratto
pervade oggi e svuota le nostre vite consegnandole alla compensazione isterica
di un fantasma di soggettività, s’illumina di verità, con un potente effetto di
retroazione storica, proprio la teorizzazione marxiana di Das Kapital come
soggetto, di fondo unico e dominante, della storia moderna in quanto
accumulazione, tendenzialmente senza fine, di ricchezza astratta. A patto però
di porre questo Marx appunto contro il Marx della contraddizione operaia e
proletaria, della soggettività presupposta dell’homo faber, del socialismo come
esito necessario di una filosofia della storia fondata sullo sviluppo delle
forze produttive, della concezione materialistica della storia come supposto
predominio in ogni fase della storia e in ogni formazione sociale della materia
di contro allo spirito. A patto cioè di liberarci della pretesa facilità di una contraddizione
oggettiva e di collocarla invece nell’animo e nella mente della
soggettività di Marx, quale certamente genio ed eroe eponimo della modernità,
ma pensatore anche multiverso e contraddittorio, e dotato perciò di molte
arretratezze accanto a profondissime intuizioni e concettualizzazioni.
Senza alcuna intenzione, come talvolta è stato detto, di riscoprire, con il
sovrappiù di un filologismo colto e accademico, la purezza originaria e
incontaminata, al di là dei marxismi, del suo pensiero.
Qui non
si tratta di far rivivere, oltre le deformazioni di scuola e di partito, un
Marx autentico, ma di far morire il Marx da sempre impari a pensare la
modernità a fronte del Marx ancora vivo, anzi ogni giorno ancora più attuale.
Ma appunto pensare ciò che da sempre è vivo e ciò
che è morto nell’opera di Marx significa, a mio avviso, liberare la sua matura
critica dell’economia, quale scienza di un soggetto astratto e
non-antropomorfo, dalle pastoie della filosofia della storia che pure il
Moro ha intensamente concepito, quale divenire predeterminato di un
soggetto antropomorfo e antropocentrico.
Detto questo, per i limiti di spazio in cui questo
intervento va contenuto, non è possibile aggiungere altro e svolgerlo
analiticamente. Deve perciò essere rinviata altrove la pars costruens del
discorso: quella volta al futuro e alla configurazione di una soggettività,
individuale e collettiva, che possa farsi carico, ma in modo profondamente
diverso ed originale, degli ideali di emancipazione e di trasformazione sociale
delle generazioni e delle classi subalterne che ci hanno preceduto.
Qui posso solo dire che non potrà darsi ipotesi alcuna di
fuoriuscita storica dal capitalismo se non si abbandona il materialismo spiritualistico e fusionale dell’antropologia
di Marx e non la si sostituisce con un nuovo materialismo che attinga come sua
fonte fondamentale d’ispirazione alla psicoanalisi. Come ho già detto altrove
10,
la psicoanalisi ha complicato enormemente l’antropologia dell’umano, perché ha
scoperto e teorizzato che prima dell’alterità orizzontale, della relazione cioè
con gli altri esseri umani, il principio dell’alterità è interiore e si dà per
ciascuno di noi nella compresenza e nell’irriducibilità del corpo alla mente.
Ossia nel convincimento che la mente e il pensiero nascano nell’essere umano
con il compito primario di dare coerenza e padroneggiare la complessità
impulsiva e riproduttiva della vita corporea. E che tale costruzione verticale
della soggettività sia, nello stesso tempo, inscindibilmente intrecciata con la
sua costruzione orizzontale, quanto cioè a necessità dell’essere riconosciuta,
accolta e legittimata da un’altra (o altre) soggettività.
Senza muovere da tale nuovo materialismo, che integra i
tradizionali bisogni materiali con il bisogno di ciascuno al riconoscimento
della propria irripetibile singolarità, non ci potrà essere, io credo, nessuna
proposta antropologica e politica capace di contrastare la messa in gioco della
falsa soggettivazione posta in essere dall’astrazione capitalistica. Per questo
il marxismo dell’astratto lascia cadere la vieta antropologia giovanil-marxiana
e si apre alla fecondazione della scienza antropologica più innovativa
del Novecento qual è stata ed è la psicoanalisi. Ma di tutto questo sarà
bene argomentare altrove, con spazi e moduli analitici più appropriati.
Note
- Cfr. su ciò R. Bellofiore, Dopo il fordismo, cosa? Il capitalismo di fine secolo oltre i miti, in R.Bellofiore (a cura di), Il lavoro di domani. Globalizzazione finanziaria, ristrutturazione del capitale e mutamenti della produzione, Biblioteca Franco Segantini, Pisa 1998, pp. 23-50.
- Cfr. A. Gramsci,, Quaderni del carcere, ed. critica a cura di V.Gerratana, Einaudi, Torino 1975, III, pp. 2139-2181
- D. Harvey, La crisi della modernità. Riflessioni sulle origini del presente, tr. it. di M. Viezzi, Net, Milano 2002, pp. 151-52.
- K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica («Grundrisse»), trad. it. a cura di G. Backhaus, Torino, Einaudi 1976, vol. I, p.30.
- Per una discussione critica delle principali categorie dell’operaismo cfr. Cristina Corradi, Storia dei marxismi in Italia, manifestolibri, Roma 2005.
- Sulla cultura dell’immagine o del «simulacro» cfr. F. Jameson, Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo, tr. it. di S.Velotti, Garzanti, Milano 1989.
- Sull’uso e il significato di Charaktermaske in K. Marx cfr. W.F. Haug, Charaktermaske, in Id. (a cura di),Historisch-Kritisches Wörterbuch des Marxismus, Hamburg 1995, Bd. 2, pp. 435-451.
- Per l’introduzione di questa espressione cfr. D. Balicco, Non parlo a tutti, Franco Fortini intellettuale politico, manifesto libri, Roma 2006.
- K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica («Grundrisse»), op. cit., p. 244.
- Cfr. R. Finelli, Il diritto a una prassi futura, in R.Finelli-F.Fistetti- F. Recchia Luciaini- P. Di Vittorio ( a cura di), Globalizzazione e diritti futuri, manifestolibri, Roma 2004, pp. 15-28.