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Karl Marx ✆ A.d.
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Tiziano Bagarolo
| Prendendo
spunto dalle indicazioni fornite da Juan Martinez Alier in
Ecological
Economics, l’autore affronta il tema del rapporto fra il marxismo e
l’ecologia alla luce del carteggio intercorso nel 1880 fra Karl Marx e un
giovane intellettuale socialista ucraino, Sergej Podolinskij. Quest’ultimo,
partendo dai principi della termodinamica, in un saggio pubblicato in alcune
riviste socialiste europee aveva proposto una revisione della teoria marxiana
della produzione. Secondo l’autore, l’approccio di Podolinskij conteneva alcune
idee anticipatrici circa la natura entropica dei processi economici e il
duplice processo di accumulazione e di dissipazione dell’energia solare che si
svolge sulla superficie terrestre, ad opera il primo delle piante e il secondo
delle altre forme viventi. La fecondità delle idee di Podolinskij, tuttavia,
non fu intesa adeguatamente; Engels si espresse in proposito in modo
sostanzialmente (anche se non interamente) negativo in due lettere a Marx del
dicembre 1882. Entrambi furono ostacolati nel giudizio per il fatto che non
avevano ancora fatto approfonditamente i conti con il principio di entropia e
le sue implicazioni. In effetti, l’elaborazione della “critica dell’economia
politica” era avvenuta in una fase precedente a quella in cui essi cominciarono
a riflettere sul secondo principio. Anche per questo, malgrado la presenza
negli scritti e nel pensiero di Marx e di Engels di significativi temi “ecologici”,
rimase nel marxismo una concezione inadeguata e ambivalente di “sviluppo delle
forze produttive” e ciò ha in parte contribuito al “lungo divorzio” tra
marxismo ed ecologia.
Quell’ insufficienza fu talvolta esasperata, come nella
interpretazione “prometeica” che il marxismo ricevette in Unione Sovietica
durante l’industrializzazione staliniana. Nell’ultima parte del suo saggio T.
Bagarolo avanza l’ipotesi che alcuni spunti teorici proposti da Podolinskij e
apparentemente dimenticati, possano invece aver ispirato negli anni
venti-trenta alcuni studiosi di discipline ecologiche in Unione Sovietica e,
per loro tramite, possano aver indirettamente influenzato la formulazione della
teoria dell’ecosistema da parte dell’americano Lindeman.
“L’uomo è immediatamente un essere naturale. Come
essere naturale, come essere naturale vivente, egli è in parte fornito di forze
naturali, di forze vitali, cioè è un essere naturale attivo: e queste forze
naturali esistono in lui come come disposizioni e facoltà, come impulsi; in
parte egli è, in quanto essere naturale, oggettivo, dotato di corpo e di sensi,
un essere passivo e condizionato e limitato, al pari degli animali e delle
piante: vale a dire, gli oggetti dei suoi impulsi esistono fuori di lui, come
oggetti del suo bisogno, oggetti essenziali, indispensabili ad attuare e confermare
le sue forze essenziali…
“Il sole è l’oggetto delle piante, un oggetto a
loro indispensabile, un oggetto che ne conferma la vita; parimenti, la pianta è
oggetto del sole come estrinsecazione della forza vivificatrice del sole, della
forza essenziale oggettiva del sole.” | Karl Marx, 1844
“Nuove preoccupazioni sociali generano nuovi
problemi intellettuali e storici. Inversamente, nuove interpretazioni del
passato forniscono nuove prospettive sul presente e quindi il potere di
modificarlo.” | Carolyn Merchant, 1980
Scopo del presente
articolo (1) è quello di ricostruire un episodio finora ignorato della storia
del marxismo, certo non dei principali, ma ugualmente di grande significato
alla luce degli attuali problemi ecologici e del dibattito, quanto mai aperto,
sul rapporto tra il marxismo stesso e il pensiero ecologico.
Protagonista di questo
capitolo inedito è Sergej Andreevic Podolinskij (2), un medico ed economista
ucraino di idee socialiste, attivo tra la metà degli anni Settanta e i primi
anni Ottanta del secolo scorso, che in alcuni scritti comparsi tra il 1880 e il
1883 sulla stampa socialista europea (3), propose un interessante approccio
analitico – che potremmo definire, schematicamente, fisico-ecologico – al tema
della produzione, e che su questo soggetto ebbe uno scambio epistolare con Marx
nell’aprile del 1880. L’episodio si chiuse, apparentemente, con alcune
valutazioni sulle idee di Podolinskij espresse da Engels in due lettere a Marx
del dicembre del 1882. Pur avendo goduto al suo tempo di una certa notorietà
negli ambienti socialisti europei (4), il nome di Podolinskij fu
successivamente dimenticato, salvo, forse, in Ucraina, sua terra natale.
La “traccia teorica” (5)
nuova, aperta allora da Podolinskij, sembra in seguito “perduta” (ma forse, lo
vedremo alla fine del nostro articolo, non fu proprio così); resta il fatto che
essa non ebbe un’eco nello sviluppo successivo del marxismo. La possibilità di
un incontro, di una saldatura, fra il marxismo e la nascente ecologia (cioè tra
il pensiero e la prassi dell’emancipazione sociale e il nuovo pensiero del
rapporto uomo-natura, pensiero consapevole dei fili innumerevoli che legano la
nostra specie alla fragile trama della vita planetaria) non ebbe seguito.
Malgrado una storia di rapporti e di intrecci più ricca di quel che abitualmente
si sospetti, restò “un lungo divorzio” (l’espressione è di Martinez-Alier) non
solo tra marxismo ed ecologia, ma soprattutto tra movimento operaio (e sue
espressioni politiche) e coloro (studiosi, movimenti) che avanzarono anche in
seguito l’esigenza di rinnovare il rapporto fra uomo e natura, fra economia e
ambiente, fra presente e futuro. Rimase a lungo ignorata, o marginalizzata,
l’esigenza di fare i conti con un pensiero che andava mettendo in dubbio
l’ideologia del dominio sulla natura, l’onnipotenza della tecnica, il mito del
progresso, e richiedeva invece di prestare attenzione alla profonda solidarietà
che la specie umana intrattiene, di fatto, col resto del mondo vivente e non
vivente. Il “caso Podolinskij”pone, dunque, questioni di grande rilievo storico
e insieme di pressante attualità. Non abbiamo la pretesa di esaurirle in un
articolo. Nello spazio di questo lavoro ci proponiamo di ricostruire
dettagliatamente il solo “punto di partenza”nel suo contesto teorico-storico,
con l’ambizione di fare cosa utile alla discussione su questi temi che speriamo
si sviluppi tra quanti sono interessati a riflettere sul passato per meglio
comprendere il presente nel quale ci troviamo ad agire.
“Armonizzare pluslavoro e teorie fisiche”
Scrivendo a Marx l’8
aprile 1880 per chiedergli, per la seconda volta, un parere sulle proprie idee,
Sergej Podolinskij presenta il proprio punto di vista come un “tentativo di
armonizzare il pluslavoro con le attuali teorie fisiche” (6). Mi pare che
questa formula – nel contesto di reciproca cortesia che si intuisce nello
scambio epistolare fra il giovane medico ucraino esule a Montpellier e
l’anziano economista tedesco che vive a Londra – racchiuda tanto un
riconoscimento della validità della categoria del pluslavoro (uno dei fondamenti
della teoria marxiana), quanto una riserva critica, alla luce degli ultimi
risultati della termodinamica, sul modo in cui essa viene “fondata”da Marx. In
effetti, come sappiamo dagli articoli da lui pubblicati sull’argomento, il
senso delle idee che Podolinskij sottopone al giudizio di Marx è quello di una
proposta di revisione, di una riformulazione della teoria della produzione in
termini energetici: Podolinskij propone infatti di considerare i processi
economici sotto l’aspetto delle trasformazioni operate sul flusso di energia
solare captato dalla superficie terrestre dall’intervento del lavoro umano. E
in assoluto la prima volta che viene affacciata questa problematica. Oggi,
soprattutto dopo i lavori di Georgescu-Roegen (7), un punto di vista che ha una
stretta parentela con quello proposto oltre un secolo fa da Podolinskij ci è
più familiare ed è oggetto di discussione fra coloro che si occupano del nesso
economia-ambiente (per quanto resti marginale, se non proprio ignorato, proprio
nelle facoltà e negli insegnamenti economici).
Ma quale impressione può
aver fatto su Marx, nel 1880?
Ci è impossibile dirlo
con certezza perché non è stata trovata traccia di una sua reazione. Possiamo
tuttavia ragionevolmente supporre che le idee di Podolinskij apparissero a Marx
inusuali, se non astruse, forse anche ostiche da comprendere, ma in qualche
modo intriganti. I principi scientifici dai quali Podolinskij muoveva nel suo
ragionamento – gli studi di fisiologia vegetale e di fisiologia del lavoro
muscolare, il principio di conservazione dell’energia e quello di entropia –
non erano sconosciuti all’autore del Capitale, ma erano piuttosto recenti e lui
ed Engels non avevano avuto il tempo di “assimilarli”a pieno e di integrarli
nell’elaborazione teorica sul capitalismo (la “critica dell’economia politica”)
le cui linee di fondo erano state sviluppate in un periodo precedente, tra il
1857 e il 1867 (8). Sulle implicazioni più generali dei nuovi principi della
termodinamica, e segnatamente del principio di entropia (9), essi stavano
ancora discutendo (come gran parte degli studiosi dell’epoca), ed erano quindi
impreparati a formulare un giudizio netto così, a stretto giro di posta.
Non deve stupire,
quindi, che dopo una prima risposta evasiva, Marx non si affretti a rispondere
al giovane studioso che attende dall’altra parte della Manica. Forse intervenne
anche qualche altro fattore a distrarre l’attenzione di Marx. Fatto sta che,
forse troppo preso da altre urgenze e dai molti affanni personali e familiari
(10), Marx non tornò sopra alla “faccenda Podolinskij”che alla fine del 1882,
negli ultimi mesi di vita, mentre si trovava a Ventnor, nell’isola di Wight.
Qualcosa, che non siamo in condizione di stabilire con certezza, richiamò la
sua attenzione sulla storia di due anni prima (11). Ne
fece cenno a Engels il quale, da Londra, gli mandò il suo parere in due lettere
successive, datate 19 e 22 dicembre 1882 (12).
Engels non liquida
l’idea suggerita da Podolinskij di esprimere il pluslavoro anche in termini di
eccedenza dell’energia resa disponibile dal lavoro rispetto all’energia spesa
per la sussistenza della forza-lavoro, ma ne dà comunque un giudizio fortemente
riduttivo; la giudica un’idea poco interessante, se non fuorviante. Duramente
critico è, in particolare, verso la confusione che gli sembra di scorgere tra
approccio in termini fisici e categorie economiche. Ma c’è l’impressione che
egli non abbia meditato a pieno sulle implicazioni del punto di vista che
propone Podolinskij. Così gli sfugge la novità di ciò che si trova davanti e
anche una certa affinità fra il tema affrontato da Podolinskij e questioni
teoriche che fanno parte delle problematiche del pensiero di Marx e anche sue.
“La reazione di Engels all’articolo di Podolinskij
fu certo una cruciale occasione perduta nel dialogo tra marxismo ed ecologia” ha scritto Juan
Martinez-Alier (Martinez-Alier, 1991, p. 300), non del tutto a torto, ma forze
sopravvalutando il significato di questo episodio e della sua influenza
successiva. In fondo, non va trascurato il fatto che, malgrado il giudizio
vergato da Engels nelle due lettere del dicembre 1882, una versione
dell’articolo di Podolinskij vide la luce pochi mesi dopo (numeri di marzo e
aprile 1883) nella rivista teorica del partito socialdemocratico “Die Neue Zeit”;
rivista diretta, è vero, da Karl Kautsky, ma sulla quale non mancava di
esercitare una sorta di “supervisione”editoriale lo stesso Engels, per cui
appare molto improbabile che la pubblicazione vi sia stata decisa contro il suo
parere, o anche senza di esso. Quanto alle lettere di Engels a Marx, esse non
furono pubblicate che negli anni venti del nostro secolo (13), quando il nome
di Podolinskij era già stato dimenticato ovunque in Europa (con eccezione
dell’Ucraina). Se esse dunque contribuirono a formare l’opinione dei marxisti,
lo fecero rafforzando convinzioni già consolidatesi in modo autonomo, piuttosto
che determinandole ex novo.
Resta il fatto,
comunque, che l’incomprensione di Engels, che non seppe in seguito far buon uso
delle idee anticipatrici di Podolinskij, insieme con la malattia che colpì
quest’ultimo nel 1881 sottraendogli la possibilità di procedere oltre nella
riflessione che aveva appena abbozzato, segnò in qualche modo la sorte non solo
del nome di Podolinskij o del suo lavoro anticipatore (caduti nell’oblio per
circa un secolo), ma soprattutto di una linea di pensiero e di un intero ambito
di problematiche teoriche e pratiche. Su questo punto dovremo tornare. Ma prima
di procedere oltre, occorre soffermarsi più a fondo sulla proposta teorica di
Podolinskij e sugli argomenti della replica di Engels.
Lavoro umano e
flussi di energia
Senza riassumere per
esteso il punto di vista di Podolinskij, richiamiamo qui, per comodità del
lettore, i punti notevoli del suo ragionamento e alcuni risultati
particolarmente “attuali”. Tre sono le principali novità che noi vi scorgiamo:
1. l’analisi dei processi economici da un punto di vista termodinamico, 2. la
visione del metabolismo della natura in termini di accumulazione e di
dissipazione dell’energia solare, 3. l’istituzione di una correlazione fra
energia e “forme di società”.
Podolinskij si diffonde
soprattutto sul primo e sul secondo tema, sul terzo è più sommario. L’insieme
non manca di qualche pecca. Su alcune di esse dovremo spendere qualche parola
perché, a nostro avviso, alcune insufficienze e alcune approssimazioni del
discorso di Podolinskij hanno avuto certamente una qualche responsabilità nel
fraintendimento di Engels.
Ma vediamo per ordine la materia.
1. La produzione dal
punto di vista termodinamico. Ammesso il principio di conservazione
dell’energia (14), il lavoro umano, osserva Podolinskij, non può essere
concepito come capace di creare qualcosa dal nulla, ma solo di modificare i
flussi di energia esistenti in natura così da adattarli alla soddisfazione dei
bisogni umani. La tesi che gli preme dimostrare è che il lavoro umano ha la
facoltà di accumulare più energia di quanta non venga spesa per la
sopravvivenza, e che questa è la base dello sviluppo di ogni società. Citando
Clausius (15) e il principio di entropia (16), Podolinskij spiega che ogni
forma di energia dell’universo è soggetta, nel corso delle sue trasformazioni,
ad una tendenza verso la dissipazione, cioè verso una irreversibile
degradazione qualitativa verso un equilibrio finale sotto forma di calore che
esclude ogni ulteriore possibilità di utilizzo per compiere un lavoro (17).
Naturalmente, questa tendenza opera anche sulla superficie terrestre, dove il
flusso di energia proveniente dal Sole si manifesta in forme molteplici:
riscaldamento dell’aria e suoi spostamenti, evaporazione e susseguenti
precipitazioni e scorrimento delle acque, energia biochimica fissata
dall’accrescimento della vegetazione, energia muscolare animale e umana, lavoro
delle macchine che sfruttano in modo diretto o mediato la radiazione solare.
Alla fine del ciclo delle sue trasformazioni, la radiazione luminosa assorbita
dal pianeta è in ogni caso di nuovo irradiata verso lo spazio cosmico sotto
forma di calore, secondo quanto prescritto dal principio di Kirchhof (18). E
però nelle possibilità del lavoro umano, e nei suoi fini, di influenzare questi
processi, nel senso di accrescere la quantità di energia accumulata sulla
superficie terrestre e quindi disponibile per l’umanità:
L’uomo, mediante
determinate azioni intenzionali, può accrescere la quantità di energia
accumulata nei vegetali e ridurre quella dissipata dagli animali. (Podolinskij, 1883, p. 420)
Ciò può avvenire,
suggerisce Podolinskij, in due modi: incrementando la conversione dell’energia
solare (come nel lavoro di coltivazione dei campi), oppure contrastando la
dissipazione dell’energia accumulata, conservandola più a lungo nelle forme
utili a soddisfare i bisogni umani (e a questo tende il lavoro extra-agricolo).
Egli, pertanto, definisce la nozione di lavoro utile:
E un impiego
dell’energia meccanica e mentale dell’organismo tale che ha per effetto di
accrescere il bilancio complessivo dell’energia sulla superficie terrestre. (Podolinskij, 1883, p. 422)
Insieme a questa
intuizione originale (sviluppata, bisogna dire, non senza ingenuità e
imprecisioni comprensibili per l’epoca), vanno segnalati anche alcuni passaggi
del ragionamento e alcuni risultati di dettaglio. Per dimostrare l’assunto che
il lavoro umano ha la facoltà di accumulare l’energia solare, Podolinskij
ricorre al confronto fra la produttività energetica delle foreste, dei pascoli
naturali, delle colture foraggiere e di quelle cerealicole della Francia del
suo tempo, derivando i dati dalle statistiche ufficiali e le stime sui contenuti
calorici degli input e degli output dagli studi contemporanei di fisiologia
vegetale e animale e simili. Insomma, applica per la prima volta la metodologia
che oggi si definisce “analisi dell’energia”(19).
Analizzando poi le
prestazioni lavorative dell’organismo umano, utilizza i risultati già stabiliti
da Hirn (20), Helmholtz (22) e Clausius, ma in nuovo contesto, e richiama le
nozioni di rendimento (“coefficiente economico”, nella sua terminologia) e di
produttività dell’organismo umano considerato come “macchina termica”. Una
“macchina termica perfetta” nel senso di Sadi Carnot (22), osserva Podolinskij,
in quanto il lavoro umano è in grado di effettuare quello che appare come un
“ciclo operativo completo”, giacché essa converte il lavoro in calore e in
altre forze necessarie alla sua sussistenza, in un certo senso facendo
“ritornare al suo focolare il calore prodotto col suo lavoro” (Podolinskij,
1881, 4, p. 12).
Da sottolineare, infine,
l’insistenza non casuale sull’energia del flusso solare (significativamente la
definizione di lavoro utile fa perno su di essa). Egli sa perfettamente che ci
sono sulla Terra altre fonti di energia che non derivano dal Sole (descrive ad
es. quella delle maree e quelle endogene: vulcanesimo, geotermia, ecc.), ma queste
gli appaiono quantitativamente trascurabili su scala globale (ma non locale);
oppure che derivano dal Sole ma che, a differenza del flusso di quest’ultimo
costantemente disponibile, rappresentano piuttosto degli stock di energia già
accumulata il cui utilizzo si risolve in una de-accumulazione netta, in una
dissipazione; e cita a questo proposito il carbon fossile:
Lo scopo principale del
lavoro deve essere […] l’aumento assoluto della quantità di energia solare
accumulata sulla Terra, molto più che la semplice trasformazione in lavoro
d’una più grande quantità di calore o di altre forme di energia già accumulate
sulla Terra. Imperocchè quest’ultima trasformazione, l’elevamento dell’energia,
per esempio la produzione del lavoro mediante la combustione del carbon
fossile, è tanto [più] accompagnata da perdite inevitabili per la dispersione
nello spazio, [quanto più] si giunge ad uno per cento più elevato di calore o
di altra forza fisica trasformata in lavoro. (Podolinskij,
1881, 4, p. 13)
2. L’energia e il ciclo
della vita. L’analisi dei processi economici sotto l’aspetto termodinamico
porta Podolinskij a metterne in luce, da un lato, la dimensione entropica
(l’unidirezionalità del flusso energetico dal Sole alla dissipazione e
all’irradiazione verso lo spazio cosmico); da un altro, la connessione con
l’intero sistema della vita planetaria, a sua volta dipendente dalla radiazione
solare. Ovviamente la dipendenza dell’uomo dalle altre forme di vita e in
ultima analisi dalla luce del Sole non è una novità teorica nel 1880; essa, per
un verso, affonda nella coscienza mitica dell’umanità; per l’aspetto
propriamente scientifico, invece, risale alla fine del diciottesimo secolo e
alle osservazioni di Ingenhousz (23) sul processo di accrescimento delle piante
e di scambio gassoso con l’atmosfera in presenza della luce. La novità che si
fa strada nello scritto di Podolinskij è un’altra: spinto dalla logica della
sua argomentazione, Podolinskij ipotizza una relazione quantitativa, una sorta
d’equilibrio, fra due processi di segno opposto di cui sono agenti gli essere
viventi. Da un lato, un processo di accumulazione (ad opera della vegetazione);
dall’altro, un processo di dissipazione (da parte degli animali e dei processi
di demolizione della materia vivente) dell’energia solare assorbita e
accumulata dal sistema della vita:
Ci troviamo qui dinnanzi a due processi paralleli,
che insieme formano il cosiddetto ciclo della vita [Kreislauf des Lebens]. Le
piante possiedono la facoltà di accumulare energia solare, mentre gli animali,
nutrendosi di sostanze vegetali, convertono parte di tale energia accumulata in
lavoro meccanico, e quindi la dissipano nello spazio. Qualora la quantità di
energia accumulata dai vegetali risultasse maggiore di quella dissipata dagli
animali, si verificherebbe una sorta di accantonamento di energia – ad es. nel
periodo di formazione del carbon fossile, in cui evidentemente la vita vegetale
era nettamente preponderante su quella animale. Se, al contrario, la vita
animale prendesse il sopravvento, ben presto le scorte di energia verrebbero
dissipate e la stessa vita vegetale dovrebbe regredire entro i limiti fissati
dal regno vegetale. Si stabilirebbe così un certo equilibrio tra accumulazione
e dissipazione dell’energia: il bilancio energetico della superficie terrestre
verrebbe a costituire una grandezza più o meno stabile, ma l’accumulazione
netta di energia scenderebbe a zero, o comunque molto più in basso che
nell’epoca della preponderanza della vita vegetale. (Podolinskij, 1983, p.
420)
L’idea del “ciclo della
vita”, già presente nelle scienze naturali alla metà dell’Ottocento, si era
venuta precisando attraverso gli studi sulle basi fisico-chimiche degli esseri
viventi. Podolinskij, qui sta la novità, rilegge questa nozione in termini di
energia, abbozzando l’approccio che guiderà, qualche decennio più tardi, la
costruzione della teoria dell’ecosistema come unità definita e strutturata
dalle relazioni trofiche (24).
3. Energia e società. Le
nozioni di “coefficiente economico”(efficienza, rendimento) e di
“produttività”del lavoro umano vengono considerati da Podolinskij nella loro
dimensione essenzialmente storica e sociale (il loro valore risulta variabile
da un’epoca all’altra e da una società all’altra della stessa epoca). Combinati
insieme, poi, definiscono quella che si potrebbe chiamare la “condizione di
vitalità” di una determinata comunità umana:
L’esistenza e la
possibilità di lavorare della macchina umana sono garantite fino a quando il
lavoro di questa macchina viene convertito in un accumulo di energia per il
soddisfacimento dei nostri bisogni di tante volte maggiore della somma del
lavoro umano di quante volte il denominatore del coefficiente economico supera
il numeratore.
Ogni volta che la produttività del lavoro umano è minore dell’inverso del
coefficiente economico ci sarà penuria e forse una diminuzione della
popolazione. Quando, al contrario, l’utilità del lavoro sarà maggiore di tale
numero, ci possiamo aspettare un incremento del benessere e forse un aumento
della popolazione. (Podolinskij,
1883, p. 454)
Qui siamo oltre il
determinismo (preteso “naturale”) del principio di popolazione maltusiano, pur
nel riconoscimento – in termini corretti – del vincolo ecologico cui sottostà,
in ogni caso, la dinamica economico-demografica di qualsiasi comunità umana
(25).
Podolinskij traccia,
poi, sulla base dei concetti appena definiti, un rapido schizzo del progresso
umano attraverso le varie forme sociali (stato selvaggio, schiavitù,
feudalesimo, capitalismo) e discute poi le possibilità del socialismo. Egli
istituisce una duplice relazione dialettica fra energia e società: da un lato,
la disponibilità di energia scandisce le tappe dello sviluppo sociale;
dall’altro, le relazioni sociali condizionano a loro volta il modo e
l’efficacia degli impieghi dell’energia. Il socialismo, ai suoi occhi, è la
forma sociale che deve superare gli sprechi e l’imprevidenza delle forme
precedenti, che può trarre il massimo vantaggio dai rapporti sociali di
cooperazione (e non di conflitto) e dalle nuove conoscenze scientifiche, e che
saprà far valere l’educazione come leva potente per promuovere una
amministrazione razionale delle risorse del pianeta finalizzata al
soddisfacimento dei veri bisogni.
Vecchio e nuovo. Accanto
a queste novità anticipatrici, che collocano Sergej Podolinskij fra coloro che
aprono la strada ad alcune delle più importanti scoperte del ventesimo secolo e
fra i pionieri dell’ecologia, destano perplessità alcune formule e alcuni
concetti che riflettono, invece, l’epoca e l’ambiente in cui vennero formulate.
In generale, si può osservare che Podolinskij non fuoriesce ancora da una
prospettiva fondamentalmente fiduciosa nel “progresso” e nello sviluppo delle
forze produttive, anche se temperata da un inizio di consapevolezza del
problema dei limiti naturali certamente nuova per l’epoca. Su due altri punti,
invece, sembra ancora prigioniero di posizioni diffuse negli ambienti
socialisti dell’epoca ma già criticate – a mio parere a ragione – da Marx e da
Engels.
Il primo punto è il modo
di considerare il lavoro. Nella distinzione che Podolinskij traccia fra lavoro
intellettuale e lavoro “muscolare”(e nell’equiparazione fra lavoro muscolare
umano e animale) si intuisce una confusione fra categoria termodinamica e
categoria economica di lavoro, da un lato; e il permanere, dall’altro, di
un’idea di lavoro fisico, manuale (tipica dell’idealizzazione socialista del
lavoratore “del braccio”) dotato di una qualche facoltà miracolosa di produrre
ricchezza, contro cui Marx aveva già polemizzato, ad es., nella Critica al
programma di Gotha (26).
Il secondo punto è il
collegamento che Podolinskij stabilisce tra lavoro prestato (e valore-lavoro
dei prodotti, anzi “valore-energia”nel suo approccio) e “giusta”distribuzione
sociale dei beni. Anche queste idee erano già state oggetto della polemica di
Marx contro i socialisti utopisti e contro Lassalle e, nel 1875, di un serie di
rilievi critici alla bozza di testo programmatico del partito socialdemocratico
tedesco (27).
Queste incongruenze non
ci devono stupire più di tanto. Nella scienza, così come in ogni altra forma di
pensiero, capita spesso che il nuovo si fa strada attraverso il vecchio e ciò
che è valido si afferma non solo in mezzo ma spesso anche per mezzo di ciò che
è superato e tuttavia ancora sopravvive. Non si dimentichi, però, che quello di
Podolinskij è sostanzialmente un abbozzo, probabilmente sviluppato in
solitudine, che egli purtroppo non ebbe la possibilità di correggere e
riformulare in modo più soddisfacente sulla base di un confronto e di una
discussione con altri.
La replica di
Engels, ovvero l’occasione perduta
Forse, furono questi
dettagli piuttosto discutibili che fecero su Engels un’impressione negativa
portandolo a travisare e a sottovalutare gli aspetti innovativi, positivi,
della proposta di Podolinskij (28). E tuttavia, il senso del suo giudizio è
tutt’altro che una liquidazione sbrigativa. Scrive egli a Marx:
La faccenda Podolinski
me 1’immagino così. La sua scoperta è questa: il lavoro umano è capace di
trattenere sulla superficie della terra e di far agire l’energia solare più a
lungo di quanto accadrebbe senza di esso. Tutte le deduzioni economiche che egli
ne trae sono errate. (Marx-Engels,
1953, VI, p. 414)
E chiudendo la prima
lettera:
Dopo la sua scoperta
assai preziosa [sic!] Podolinski ha smarrito la via giusta, perché voleva
trovare nel campo delle scienze naturali una nuova prova della giustezza del socialismo
e ha mischiato quindi cose della fisica con cose d’economia. (Marx-Engels, 1953, VI, p. 416)
A ben vedere, Engels
muove due ordini di obiezioni a Podolinskij, che è utile esaminare
separatamente. Per un verso egli mostra di non credere alla possibilità, e
neppure all’utilità, di fare un’analisi dei processi economici in termini di
energia. Per un altro verso, rimprovera Podolinskij di voler trarre deduzioni
economiche direttamente dalla fisica, e questo non gli sembra ammissibile.
Riguardo al primo
argomento, Engels non è molto coerente, in verità. Proprio mente si esprime con
scetticismo sulla possibilità di effettuare una attendibile contabilità
energetica della produzione, suggerisce alcuni criteri corretti per farla: ad
es. includendo i fertilizzanti, il combustile e così via nella contabilità del
settore agricolo. Dà a vedere, inoltre, di avere una certa percezione della
natura entropica dei processi produttivi perché, spiega, a parte il
settore-agricolo, gli altri settori hanno un bilancio energetico negativo, non
fanno che degradare l’energia solare tanto “presente”, quanto, soprattutto
“passata”:
Tu sai meglio di me – scrive egli a
Marx – a che punto arriviamo nello sperpero di provviste di energia,
carbone. minerali, foreste, ecc. (Marx-Engels, 1953. VI, p. 417)
Ammette anche che “il
vecchio dato di fatto economico che tutti i produttori industriali vivono dei
prodotti dell’agricoltura, dell’allevamento del bestiame, della caccia e pesca,
può essere tradotto anche, volendo, nella fisica”, ma poi dà scarso valore a
questa intuizione concludendo: “dal che per altro non risulta davvero gran cosa”
(Marx Engels, 1953, VI, p. 417).
La seconda obiezione,
invece, può appoggiarsi a qualche formula confusa o equivoca dello stesso
Podolinskij, l’abbiamo visto. Si tratta di una questione sulla quale
l’attenzione di Engels è molto vigile. Sappiamo da altri scritti che egli
rifiutava il procedimento disinvolto di trasferire una categoria da un ambito
disciplinare ad un altro, dove assume un significato diverso, spesso per
derivarne corollari politico ideologici abusivi.
Egli si era già occupato
nei suoi appunti per la Dialettica della natura di alcuni di questi pasticci
teorici. In particolare aveva criticato la pretesa di alcuni di trasferire alle
società umane il concetto vago di “lotta per la vita”propria
dell’interpretazione darwiniana della storia naturale e della vita animale
(29).
In altre due occasioni,
nel 1875 e nel 1880-81, aveva rifiutato l’identificazione della nozione di
lavoro in senso economico con quelle proprie della termodinamica e della
fisiologia (30), ed è proprio questo tipo di critica che riecheggia nelle
lettere a Marx su Podolinskij.
Ma, al di là del
problema se Podolinskij incorra o no nell’errore che Engels gli attribuisce,
resta il fatto che neppure Engels nega in linea di principio l’ammissibilità di
fare una analisi in termini di energia dei processi economici o di quelli
vitali, e che anch’egli riconosce il nesso tra processi economici e ambiente
(31).
D’altra parte è facile
documentare che anche Marx nel Capitale considera rilevante l’analisi dei
processi produttivi non solo in quanto processi sociali ma anche sotto
l’aspetto materiale, cioè in quanto processi che si svolgono fra l’uomo e la
natura, in cui l’uomo opera utilizzando i materiali e le forze presenti in natura,
soggetti alle leggi naturali, nei quali l’input energetico svolge una funzione
determinante (32). E questa una realtà profonda del rapporto fra l’uomo e la
natura che non può essere soppressa da alcun prodigioso sviluppo
tecnico-scientifico. Non solo. Si può anche documentare uno straordinario
parallelismo fra gli argomenti di Podolinskij e un passaggio del Capitale, là
dove Marx definisce la “base naturale” (l’espressione è di Marx) del pluslavoro
e del plusvalore (33). Insomma, non mancavano le premesse perché la reazione di
Marx e di Engels fosse diversa, perché il contributo di Podolinskij catturasse
la loro attenzione, perché il loro giudizio fosse più positivo, perché, in una
parola, questa fosse l’occasione per avviare una riflessione sui problemi posti
da Podolinskij e per approfondire il tema del nesso tra produzione e ambiente
naturale. Perché la nuova “traccia teorica”fosse meglio esplorata.
Ma ciò non avvenne:
E’ possibile affermare che Engels capiva, se non i
principi dell’energetica industriale, quelli dell’energetica agraria; inoltre,
vedeva chiaramente la differenza tra spendere lo stock di carbone e usare il
flusso di energia solare, ed era di gran lunga in anticipo su molti economisti,
sociologi e storici successivi per conoscenza e interessi scientifici. Ma è un
fatto che Marx ed Engels ebbero l’opportunità di leggere uno dei primi
tentativi di marxismo ecologico e non ne ricavarono alcun profitto. (Martinez-Alier, 1991,
pp. 302-3)
Insomma, si trattò di
un’occasione perduta. Ci dobbiamo chiedere perché.
Marx, Engels e
l’ecologia. Potenzialità e limiti
Martinez-Alier indica in
una inadeguata concezione delle “forze produttive” e nella visione di un
“comunismo dell’abbondanza” (che potrebbe fondarsi solo sulla base di un grande
sviluppo delle forze produttive) i due ostacoli teorici che avrebbero
annebbiato il giudizio di Engels (e di Marx) e, soprattutto, compromesso in
seguito la possibilità di un incontro tra la tradizione di pensiero marxista e
quella dell’ecologia. Non è una tesi nuova, e credo vada presa in seria
considerazione. Tuttavia essa sarebbe vera, comunque, solo in parte: la vicenda
successiva dei rapporti tra marxismo ed ecologia non può esser letta,
prescindendo da altri fattori del contesto (ideologici, sociali e politici), come
mero svolgimento di storia delle idee (34).
Per cominciare col piede
giusto la riflessione su un tema così impegnativo come quello del rapporto
intercorso tra marxismo ed ecologia, è bene partire cercando di definire meriti
e limiti della “coscienza ecologica” di Marx ed Engels, considerata ovviamente
nel contesto storico.
A questo proposito
occorre subito osservare che, a rigore, è improprio parlare di ecologia per
l’epoca di cui ci stiamo occupando. Benché il termine fosse stato introdotto da
Ernst Haeckel già nel 1866 (35), esso non divenne di uso comune che negli
ultimi anni del secolo e, quel che più conta, l’ecologia – in quanto disciplina
scientifica “cosciente di se stessa” (36), di un suo proprio campo unitario di
studi e di specifici strumenti di indagine – non venne a formarsi che in epoca
ancor più recente, tra gli anni venti e gli anni quaranta di questo secolo
(37). Quella che attualmente consideriamo sensibilità ecologica, per l’epoca
che stiamo considerando dobbiamo dunque cercarla in altri ambiti: nel modo di
intendere il posto dell’uomo nella natura da parte del pensiero filosofico e
scientifico, nell’immagine della natura che si fa strada nelle scienze
naturali, nel modo in cui gli economisti definiscono il rapporto fra sviluppo e
risorse, nelle opere di quei precursori che richiamano l’attenzione dei
contemporanei sui fenomeni di degrado dell’ambiente naturale indotti dalle
attività antropiche. E’ con questi sviluppi che dobbiamo confrontare i tratti
di coscienza ecologica che troviamo in Marx e in Engels, ed è sulla base di
questo confronto che possiamo formulare un giudizio storicamente fondato;
altrimenti corriamo il rischio di commettere l’anacronismo di rimproverare Marx
ed Engels – che mai pretesero di essere autorità in materia di biologia o di
termodinamica – di non essere stati migliori ecologi degli ecologi del loro
tempo (38).
In effetti, paragonando le loro posizioni a quelle prevalenti fra gli studiosi
della loro epoca, Marx ed Engels rivelano una sensibilità piuttosto avanzata e
gli strumenti teorici da essi elaborati dimostrano una grande modernità e una
grande apertura anche nei confronti delle emergenti problematiche ecologiche.
Schematizzando
drasticamente (per ovvie ragioni di spazio) penso che si possa riassumere in
questi punti il pensiero marx-engelsiano in questo campo: 1. una concezione
proto-ecologica del rapporto uomo natura, 2. un abbozzo di critica ecologica
dello sviluppo capitalistico, 3. un embrione di programma ecologico ispirato al
criterio della “sostenibilità” e della responsabilità verso le generazioni
future.
Restano, nel contempo,
dei limiti e delle ambivalenze legate alla definizione dei concetti di forze
produttive e di progresso, che si sarebbero aggravati nell’interpretazione dei
marxisti successivi, fino a rendere tale “marxismo” (soprattutto nel caso
dell’ideologia staliniana) una apologia dell’industrialismo e della pretesa
umana di “trasformare la natura” (che nel programma staliniano degli anni
trenta diventa addirittura la pretesa di rimodellare la stessa natura per
renderla base adeguata della nuova società socialista) (39).
Vediamo brevemente
questa materia, anche mediante qualche esemplificazione.
1. Uomo-natura-società.
C’è spesso la tendenza (40), parlando della posizione del marxismo verso la
natura e i problemi ecologici, a dimenticare che il primo significato del
“materialismo” marx-engelsiano (prima ancora del suo essere “storico”) è quello
di essere l’affermazione del fatto che l’uomo è parte integrante della natura,
natura esso stesso a tutti gli effetti, essere naturale “condizionato e
limitato, al pari degli animali e delle piante”, per riprendere le parole del
passo dei Manoscritti del ‘44 che abbiamo scelto come epigrafe per questo
nostro articolo. Non è banale sottolineare questo primo tratto, fondamentale,
del pensiero marxista, perché esso è lo sfondo costantemente presente di tutti
gli sviluppi successivi. Le pagine illuminanti del giovane Marx in cui egli
abbozza il suo “naturalismo” in contrapposizione all’idealismo hegeliano (41),
la riflessione comune dell’Ideologia tedesca in cui viene definito il
materialismo storico anche a partire dall’idea della società umana come
fenomeno emergente dalla natura, e della storia come dialettica ad un tempo del
rapporto fra uomo e uomo e fra umanità e natura (42); l’elaborazione del
rapporto fra produzione, rapporti di produzione, natura nell’Introduzione del
’57 (43); il tema del metabolismo (Stoffwechsel) fra società e natura centrale
nel Capitale (44); per finire con i suggestivi passi engelsiani della
Dialettica della natura in cui si discute il posto dell’uomo nella natura alla
luce del darwinismo, del successo del Prometeo borghese, ma anche di una netta
coscienza di alcuni suoi aspetti negativi per l’ambiente naturale (45): c’è in
tutti questi momenti un filo ininterrotto, via via precisato, un approccio
originario, che non ha perso di attualità alla luce delle problematiche
ecologiche dell’ultimo secolo.
Per Marx ed Engels
l’umanità è dunque parte integrante della natura che l’ha generata e della cui
vita complessiva partecipa. Ma l’homo sapiens è anche specie molto particolare.
Tramite il lavoro – attività consapevole e finalistica – questa specie agisce
sulla natura, modifica l’ambiente in cui vive, trasforma le condizioni
originarie di questo rapporto e di questa dipendenza. Così ha inizio la storia,
una evoluzione molto particolare che oltrepassa la dimensione del mero
“naturale” e crea la nuova dimensione tipicamente umana del “sociale” (del
“culturale”, se si vuole), irriducibile al mero dato biologico. Di questa unità
dialettica del naturale e del sociale occorre tener conto quando si esamina la
relazione uomo-natura. Infatti, il rapporto in cui l’umanità si trova con la
natura, con il suo ambiente, non è dato una volta per tutte, ma cambia di epoca
in epoca, è storicamente determinato; cambia soprattutto da una forma di
società ad un altra, è socialmente condizionato.
L’uomo che lavora, l’homo faber, è anche un uomo che costruisce strumenti; a
toolmaking animal, dice con Benjamin Franklin il Capitale; un animale che
espande i suoi organi esosomatici, diremmo oggi con la terminologia di Alfred
Lotka. Questa caratteristica gli ha conferito col tempo un potere enorme di
intervenire e di modificare l’ambiente, la natura che lo ospita (46). Così la
specie umana arriva a compromettere l’ambiente in cui vive; e Marx e Engels più
volte segnalano le testimonianze di questa realtà incontrate nelle loro letture
(47). Ciò accade perché manca la conoscenza degli effetti ultimi delle azioni
umane sulla natura; ma anche e soprattutto per il prevalere di comportamenti,
socialmente condizionati, di miope sfruttamento ispirati dalla molla del
tornaconto individuale e immediato (48).
2. Ecologia politica dello sviluppo capitalistico.
Negli scritti di Marx ed Engels, in effetti, troviamo decine di pagine in cui
si fa cenno o si esaminano estesamente le conseguenze dannose per l’ambiente
delle attività condotte dall’uomo, in modo particolare nell’ambito dello
sviluppo capitalistico. Si tratta in effetti delle prime pagine di “ecologia
politica” dello sviluppo capitalistico in cui la denuncia si salda con
l’analisi dei concreti meccanismi sociali e produttivi del degrado.
Un tema che ritorna molte volte, ad es., è quello
degli effetti negativi dell’urbanizzazione collegata all’espansione
industriale; viene osservato che questi processi, per i modi e la scala in cui
avvengono, provocano l’avvelenamento dei fiumi e dell’aria, compromettono la
salute e la vivibilità urbana, sconvolgono il necessario ricambio organico fra
l’umanità e la natura, depauperano la fertilità dei suoli e degradano le
condizioni di vita dei lavoratori (49).
Altro tema ricorrente è quello delle conseguenze
distruttive dell’agricoltura chimica su vasta scala, che “mina le fonti da cui
sgorga ogni ricchezza: la terra e l’operaio”, scrive Marx nel Capitale (Marx,
1867, I, pp. 551-3). La dipendenza dal mercato, più in generale, viene
individuata come incompatibile con una gestione razionale dell’agricoltura e
delle risorse forestali, perché la logica del profitto a breve termine non può
che scontrarsi con quella della riproducibilità in tempi lunghi delle risorse
naturali (50).
Questi “spunti ecologici” non sono osservazioni occasionali ed estemporanee,
hanno radici nel corpus centrale del pensiero marxiano, in quella critica
dell’economia politica il cui modello interpretativo del capitalismo conserva
una straordinaria capacità esplicativa anche sul tema economia-ambiente, sul
quale invece ha mostrato la corda l’approccio economico tradizionale.
Ricordiamo qui per titoli alcuni degli strumenti concettuali della critica
dell’economia politica che si rivelano oggi particolarmente utili:
a) In primo luogo la definizione coerente – nel
concetto di modo di produzione (di modo di produzione capitalistico) – delle
coordinate teoriche fondamentali entro le quali vanno considerate le modalità
concrete del metabolismo fra l’uomo e la natura; modalità che sono storiche e
sociali (e non naturali ed eterne), ma che nel contempo sono caratterizzate da
una interna necessità sistemica (per quanto dialetticamente contraddittoria e
dinamica) che non si lascia scalfire dalla mera intenzionalità etica degli
agenti sociali che operano all’interno delle “regole del gioco” date. E’ vano
dunque pensare di modificare la logica di sviluppo del sistema se non si giunge
a metterne in discussione gli elementi strutturali che ne garantiscono la
riproduzione. In particolare, la nozione di modo di produzione collega fra loro
in unità dialettica gli elementi “astratti” della riproduzione materiale (le
condizioni soggettive ed oggettive della produzione, le forze produttive) e
della riproduzione sociale (i rapporti di produzione). Ciò consente di condurre
una analisi concreta dell’interazione dialettica delle determinanti sociali e delle
determinanti naturali sia della riproduzione materiale sia di quella sociale
dell’organismo sociale storicamente dato.
b) Il carattere feticistico delle categorie
economiche mercantili e monetarie, che velano la natura sociale della
produzione, del lavoro e della ricchezza, il suo aspetto concreto (il valore di
scambio prevale sul valore d’uso); fenomeno che oggi si accentua per la
divaricazione crescente tra contabilità finanziaria e monetaria della ricchezza
e sua consistenza reale in termini di risorse distrutte e di ambiente
degradato.
c) L’inversione tra i fini e i mezzi nel processo
economico capitalistico: innanzitutto il carattere alienato del lavoro, che da
attività per la propria realizzazione vitale è invece ridotto ad attività al
servizio di un meccanismo economico cieco e impersonale che domina ed espropria
il lavoratore; ma l’alienazione e l’inversione mezzi-fini coinvolge anche altri
ambiti dell’economia capitalistica: i valori d’uso (fra i quali la natura nei
suoi molteplici aspetti) diventano nel tutto indifferenti nella misura in cui
non sono anche valori di scambio che entrano nel ciclo di valorizzazione del
capitale; i bisogni reali non sono più il fine della produzione: la creazione
di bisogni artificiali diventa il mezzo per realizzare il plusvalore e
perpetuare il ciclo della valorizzazione.
d) Il fine della valorizzazione sconvolge la natura
del processo economico, lo trasforma in produzione per la produzione, con ciò
dando avvio alla crescita incontrollata, incontrollabile e illimitata dei
processi di trasformazione materiale (51), i quali non riconoscono più davanti
a sé limiti quantitativi o qualitativi (52), se non nella misura in cui
incontrano una coercizione sociale o una barriera economica (aumento dei
costi).
3. Eco-comunismo. Anche
il tema della responsabilità verso la natura e verso le generazioni future,
venuto alla ribalta nella riflessione ecologica e filosofica degli ultimi anni
(53), è già presente nella riflessione di Marx e di Engels. In alcuni passi dei
loro scritti troviamo espressa una chiara consapevolezza, affine a quella che
guida la proposta recente che va sotto il nome di “sviluppo sostenibile”, che
le attività umane debbono essere condotte in modo da preservare gli equilibri
naturali (in particolare la fertilità della terra) da cui dipendono le
possibilità di vita delle generazioni a venire (54). Più nello specifico, è un
motivo insistente l’esigenza di una ricomposizione della contraddizione fra
città e campagna, al quale si affianca il tema della necessità di un’agricoltura
condotta razionalmente in modo da garantire la perpetuazione della fertilità
del suolo, in luogo dell’agricoltura di spoliazione sviluppatasi con i rapporti
di produzione capitalistici, l’industria, l’urbanizzazione e il commercio
internazionale (55). Sono tutti elementi embrionali che segnalano l’attenzione
per la qualità dello sviluppo e per i suoi riflessi sull’ambiente, che si
ricollegano al tema filosofico, già avanzato nei Manoscritti
economico-filosofici, della “riconciliazione” fra uomo e natura, ma anche ad
una sensibilità umana ed estetica attenta ai valori non meramente
utilitaristici della natura, sensibilità testimoniata nella corrispondenza e
dai contemporanei (56).
C’erano dunque nel
marxismo originario le premesse per un dialogo fecondo con le scienze della
natura e con l’ecologia, c’era la potenzialità di un’evoluzione, per mezzo di
questo dialogo, verso un punto di vista più adeguato – “ecologico” – tanto per
ciò che riguarda gli strumenti teorici con cui considerare la storia e il
legame con la natura della società umana, quanto per ciò che riguarda le
preoccupazioni pratiche che formano l’oggetto della strategia rivoluzionaria e
che definiscono i compiti all’ordine del giorno prima e dopo la rivoluzione
socialista.
Ma c’erano anche dei
limiti, non di second’ordine (anche se non decisivi di per se stessi), che
hanno contributo a inibire e a disperdere le potenzialità di cui abbiamo appena
parlato.
E’ su questi limiti che
dobbiamo adesso soffermarci.
Forze produttive,
un concetto ambivalente
La visione ecologica
delle condizioni dell’esistenza umana poteva essere facilmente collegata al
marxismo attraverso una definizione adeguata [del concetto] di forze
produttive. Ciò è quanto Marx non fece. (Martinez-Alier, 1991, p. 26).
Martinez-Alier non ha
torto. Ci si può chiedere, però se Marx era nelle condizioni, negli ultimi
travagliatissimi anni, di assumersi questo compito. Ne dubitiamo. Dubitiamo in
realtà che lo stesso Engels, che pure ebbe oltre un decennio a disposizione, fosse
allora nelle condizioni soggettive e oggettive di portare a termine quest’opera
di riformulazione delle fondamenta fisico-ecologiche della teoria marxiana
(57). In realtà, è ai marxisti successivi che andrebbe chiesto di render conto
di non aver saputo o voluto farsi carico di questa riformulazione, di aver
preferito la ripetizione scolastica delle formule testuali allo studio
concreto, empirico e teorico, della configurazione effettiva delle forze
produttive.
Ma dove era il limite,
dove stava l’ostacolo teorico difficile da rimuovere?
Il tema delle forze produttive, in realtà, è da tempo una vexata quaestio tra i
marxisti, e credo che oggi esso presenti almeno due diversi aspetti
problematici, l’uno e l’altro rilevanti per la nostra discussione: 1. quale sia
il contenuto concreto di questa categoria e quindi quale significato vada
attribuito al concetto di “sviluppo delle forze produttive”; 2. come si debba
intendere il nesso tra forze produttive e rapporti sociali di produzione, e
quindi quale sia il significato della nota formula marxiana che “la
contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzioneӏ il motore della
dialettica storica.
Andiamo per ordine.
1. Forze produttive,
energia, entropia. Chi scrive si è fatto l’opinione che la categoria di “forze
produttive” sia una delle più citate ma anche delle più travisate del marxismo,
ma non solo per colpa degli interpreti. Se si compie una ricerca nei testi si
scoprirà che non c’è un luogo in cui si dia una definizione generale
soddisfacente del concetto: in genere si trova un uso di questa categoria in
termini generali, cui fa riscontro un contenuto generico e non ben definito;
oppure, all’opposto indicazioni molto precise ma non generali né facilmente
generalizzabili (si definisce questa o quella forza produttiva). Se si
riuniscono insieme queste indicazioni diverse, comincia allora a delinearsi un
concetto piuttosto articolato che non corrisponde a molte semplificazioni
correnti (58); e forse si comincia ad intravvedere in che direzione occorre riformularlo
per integrarvi le successive acquisizioni della termodinamica e dell’ecologia.
Ma, restando ancora
al suo significato di un secolo fa, un primo orientamento ci viene
dall’analogia (non casuale), tra Produktivkräfte (forze produttive) e Kraft
(forza, energia). In prima approssimazione, sono forze produttive tutti quegli
elementi che svolgono un ruolo attivo nel processo produttivo e che
contribuiscono ad accrescerlo, tutti quegli elementi che mettono in movimento
la produzione e moltiplicano l’efficacia del lavoro umano (che è la “prima”
forza produttiva); detto altrimenti: le forze produttive sono gli “agenti”
viventi e non viventi dei processi di produzione.
In questo plurale rientra a pieno titolo la natura (59), in particolare nel suo
aspetto energetico (benché Marx non approfondisca abbastanza il carattere
specifico di quest’ultimo). Un passo particolarmente significativo:
Nella storia
dell’industria la parte più decisiva è rappresentata dalla necessità di
controllare socialmente una forza naturale, e quindi di economizzarla,
appropriarsela per la prima volta o addomesticarla su larga scala, mediante
opere della mano umana. (Marx, 1867, I, p. 561)
Marx parla a volte delle
forze naturali come degli “agenti inanimati” della produzione. Questa terminologia
traduce quello che oggi chiameremmo gli input energetici dei processi
produttivi. Si tratta indubbiamente di una nozione inadeguata, primitiva,
soprattutto pre-entropica. Non include l’idea della degradazione entropica,
cioè la nozione che ogni risultato ottenuto ha per contropartita una perdita
nell’ambiente circostante, e una perdita irrevocabile (60). Al contrario, in
Marx, il concetto di sviluppo delle forze produttive (materiali) evoca l’idea
di un processo cumulativo e incrementale, in cui l’elemento successivo si
aggiunge a quelli precedenti nello stesso tempo in cui questi realizzano e
conservano il proprio potenziale. In qualche modo, benché si tratti di cose
diverse, tra il concetto di accumulazione del capitale e quello di sviluppo
delle forze produttive c’è una sorta di omologia logica, un medesimo modello
concettuale.
Molti hanno sostenuto la
tesi che il marxismo ignora l’esistenza di limiti ecologici allo sviluppo. Alla
lettera questa affermazione non è vera (61), ma non c’è dubbio che esso abbia
ignorato il “problema” dei limiti (come il 99% del pensiero ottocentesco,
direi). Ciò significa, non tanto che il progresso delle forze produttive e
della società umana può essere illimitato, quanto che, per Marx ed Engels nel
secolo scorso, l’esistenza dei limiti si poneva in un orizzonte remoto e
nell’immediato prevaleva la capacità autoespansiva del progresso scientifico e
tecnologico che andava costantemente “abolendo” i precedenti limiti imposti
dalla natura alle possibilità umane. Era questa, d’altra parte, la prospettiva
con cui due intellettuali tedeschi (cioè di un paese che appariva allora
arretrato rispetto all’Inghilterra “avanzata”) guardavano alla rivoluzione
industriale promossa dai nuovi rapporti di produzione, e alla dinamica complessiva
(tecnica, sociale, politica, scientifica) che essa portava con sé.
In effetti, l’idea di
forze produttive propria del Capitale non recepisce facilmente la nozione di un
limite assoluto allo sviluppo; limite che non sta soltanto nell’orizzonte
lontano della finitezza del globo terrestre ma, in modo molto pregnante, in
modo molto più vincolante, è intrinseco ad ogni processo vitale e ad ogni
processo economico, in quanto l’uno e l’altro operano “in perdita”, degradano
energia e incrementano il disordine: tanto la vita che i processi economici si
sostentano in quanto, e fino a quando, possono contare su un flusso di energia
costantemente rinnovato; i limiti di questo flusso sono anche il limite
assoluto di questi processi.
In realtà il limite
reale è molto più ristretto, perché non conta soltanto l’ammontare dell’energia
potenzialmente disponibile, ma soprattutto l’efficienza con cui viene assorbita
e metabolizzata; la vegetazione, ad es., non sfrutta per la fotosintesi che una
frazione di un punto percentuale o poco più dell’energia solare; l’efficienza
con cui un consumatore (che può essere l’uomo) assimila l’energia alimentare
così accumulata, non supera il 10%; il nostro sistema industriale, poi, spreca
sotto forma termica senza utilità più del 50% dell’energia che consuma, e il
50% dell’energia utilizzata è impiegata in modo inefficiente sotto forma di
calore a meno di 200°, così che non più del 10-20% della spesa energetica è
davvero giustificata dai fini per cui è compiuta (Grinevald, 1990, p. 26).
Non solo: non basta
ipotizzare un incremento a piacere del flusso energetico per rendere possibile
la crescita illimitata (62), perché gli equilibri ecologici terrestri e i cicli
globali della Biosfera sono “dimensionati” su una determinata (da una lunga evoluzione)
“portata” dei flussi energetici e non su una qualsiasi, e non possono tollerare
incrementi di origine antropica oltre una certa soglia. Le conseguenze, quando
non teniamo conto di ciò, oggi cominciamo a misurarle come deterioramento della
stabilità degli ecosistemi e della Biosfera (63).
Ecco dunque perché, pur
giustificato e condivisibile entro un determinato quadro storico ed entro
precisi limiti di validità, il paradigma marxiano dello sviluppo delle forze
produttive rivela una valenza antiecologica e diventa un ostacolo per la presa
di coscienza dei limiti entro cui opera e può operare l’umanità. Interpretato
come onnipotenza prometeica dell’homo technologicus che persegue un disegno di
dominio sulla natura, non può che finire per giustificare le peggiori scelte
del capitale (ad es. la scelta nucleare), o risolversi nei rovinosi risultati
dell’industrializzazione staliniana, che non a caso fu accompagnata da
propositi deliranti di “trasformazione della natura” così da farne una “nuova”
base per la società socialista.
E tuttavia, questa
interpretazione non è affatto necessaria. Il senso complessivo della posizione
marx-engelsiana va in un’altra direzione, come lasciano intendere
esplicitamente alcuni passi particolarmente penetranti e suggestivi di Engels
che criticano la nozione imperialistica di “dominio sulla natura” e ne
propongono invece una versione prudente, direi “cooperativa” (64).
In effetti, e qui
riprendiamo quello che abbiamo accennato all’inizio di questo punto dedicato a
discutere il concetto di forze produttive, la traccia che emerge riunendo tutte
le indicazioni sparse nei testi marxiani non è riducibile né all’equivalenza
“forze produttive = industria-e-tecnologia”, né all’identificazione “forze
produttive = energia”, né alla somma di entrambe; l’aspetto che tende ad
assumere maggior rilievo è un altro (non esclusivo): la principale forza
produttiva è, per dirla con un termine d’oggi, “cultura”, nel senso di “sapere”
e “saper fare” degli individui, ma soprattutto di “cooperazione” e di “sapere
cooperativo” a livello del corpo sociale (65).
Un’indicazione molto
attuale, mi pare. Intanto perché sottolinea un aspetto delle forze produttive
che ha una relativa autonomia dalle forze produttive materiali (che sono solo
una componente dell’insieme) e che quindi è suscettibile di un sviluppo slegato
dalla crescita dei flussi fisici. In secondo luogo, perché l’informazione
(connessa con i saperi e con la cooperazione sociale) è propriamente l’aspetto
neghentropico (capace cioè di contrastare le tendenze entropiche, di costruire
ordine e di far diminuire il disordine) che opera nelle strutture viventi e in
quelle sociali, quello cioè che consente di ottimizzare l’utilizzo delle
risorse date per il soddisfacimento dei bisogni.
2.
Forze produttive/rapporti di produzione. Fino a questo momento abbiamo parlato del concetto
di forze produttive dal punto di vista della “produzione in generale” (66),
cioè del loro significato per il metabolismo fra l’umanità e la natura,
indipendentemente dalla forma sociale determinata in cui esso si svolge. Un
punto di vista legittimo, a patto di sapere che è anche un punto di vista
“astratto”, che non parla cioè di alcuna realtà concreta ma di un aspetto
unilaterale che può caratterizzare diverse o tutte le forme sociali, ma che non
sussiste di per sé. In altre parole: non si possono incontrare forze produttive
“astratte” dal loro contesto sociale; si danno soltanto forze produttive
embedded (per usare l’espressione pregnante introdotta da Karl Polanyi), cioè
“incorporate”, “incluse”, in rapporti sociali determinati, con i quali fanno un
tutt’uno e “agiscono insieme” (67).
Con quest’avvertenza, il
punto di vista precedente può esser visto anche in un secondo modo: come un
procedimento per esplorare un insieme di potenzialità di sviluppo (umane e
tecnologiche), ben sapendo che l’unico sviluppo concreto è quello che si
realizza sempre dentro un contesto sociale determinato.
Questo approccio
dialettico è quello stesso che sottostà all’approccio marx-engelsiano che nella
Ideologia tedesca, per fare un esempio, arriva alla conclusione:
Sotto il regime della proprietà privata queste
forze produttive non conoscono che uno sviluppo unilaterale, per la maggior
parte diventano forze distruttive, e una quantità di tali forze non può trovare
nel regime della proprietà privata alcuna applicazione. (Marx-Engels, 1846, p.
51)
Quella della conversione
di forze potenzialmente produttive in forze effettivamente distruttive mi
sembra una formula, soprattutto riguardo alle questioni ambientali, più
appropriata e significativa dello schema ben noto della “contraddizione” tra
forze produttive (dinamiche) e rapporti di produzione (che le incatenano).
D’altro canto, consente
di dare fondamento ad un approccio critico e non apologetico allo sviluppo
economico, tecnologico, scientifico (68), e perciò di elaborare un concetto
“differenziato” (69) di progresso: non c’è alcun progresso automatico, lineare,
garantito nella storia umana (70), non c’è nessuna assicurazione riguardo al
futuro, né da parte dello sviluppo tecnico-scientifico, né da parte di un
soggetto storico o extrastorico provvidenziale. C’è solo lo spazio, per gli
uomini, per tentare di agire consapevolmente (almeno in una certa misura) e per
determinare in questo modo alcuni esiti invece di altri; e quindi per cercare
di far prevalere assetti più favorevoli al libero sviluppo collettivo e
individuale (di individui sociali, non di atomi ostili l’uno all’altro secondo
il modello dell’individualismo proprietario borghese) e di smantellare quelli
che ne sono di ostacolo.
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Sergei Podolinsky [Сергій Подолинський]
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L’eredità di
Podolinskij
Il saggio di
Podolinskij, così anticipatore, comparve inizialmente nel 1880, nello stesso
anno della corrispondenza con Marx. Già l’anno successivo il suo autore si
ammalava gravemente. Due anni più tardi, pochi mesi dopo aver ripreso in mano
la materia, Marx moriva (14 marzo 1883). Engels sarebbe vissuto ancora dodici
anni (si spense il 5 agosto 1895), ma non sarebbe più tornato sull’argomento.
Nessuno di loro, dunque, ebbe la possibilità, o la capacità, di andare a fondo
al nodo di problemi che era stato posto. Il quale, per lungo tempo, non fu più
ripreso né tanto meno approfondito dagli studiosi marxisti in Occidente o dagli
studiosi sovietici (71).
Sembrerebbe, dunque, che
il seme gettato da Podolinskij non abbia dato frutti, che la sua eredità sia
andata dispersa. In realtà altri, dopo di lui e in altri contesti, affrontarono
temi simili, in genere condividendo la sua stessa sorte di indifferenza presso
gli ambienti economici ufficiali (72), fino a quando il vecchio punto di vista
– riscoperto in modo indipendente – tornò a galla nel nuovo clima degli anni
Settanta, anni di crisi energetica ed ecologica.
Dei tre aspetti di
novità individuabili nell’approccio di Podolinskij che abbiamo indicato all’inizio,
ce n’è uno, però, che pare aver avuto in seguito una sorte migliori degli
altri, e vale la pena, in conclusione, di parlarne. Si tratta di ciò che, con
linguaggio odierno, potremmo chiamare l’energetica ecologica. Abbiamo già detto
che esso anticipava sviluppi futuri del pensiero ecologico che sarebbero
intervenuti tra gli anni Venti e gli anni Quaranta di questo secolo. In
effetti, abbiamo più di un indizio che il lavoro di Podolinskij non sia stato
del tutto estraneo a questi sviluppi, ancorché per una strada indiretta.
L’idea di un duplice
processo termodinamico, di accumulazione di energia solare, e di dissipazione,
come elemento centrale della definizione della struttura di una comunità
ecologica, si fa strada tra gli anni Venti e gli anni Quaranta del nostro
secolo, principalmente per opera dell’ecologo-matematico americano Alfred Lotka
(1880-1949) (73) e del geochimico russo Vladimir Ivanovic Vernadskij
(1863-1945) (74) in una prima fase, e del giovanissimo studioso americano
Raymond Laurel Lindeman (1916-42) in un secondo momento. All’articolo di
Lindeman pubblicato nel 1942 dalla rivista “Ecology”, poco dopo la prematura
scomparsa del suo autore (75), si fa tradizionalmente risalire la formulazione
compiuta di questo approccio che sta alla base della teoria dell’ecosistema.
Proprio in quest’ambito
c’è forse un filo che unisce la “traccia” lasciata da Podolinskij alla “via
maestra” del moderno paradigma ecologico. E una storia che si dipana tra l’Urss
e gli Stati Uniti nel periodo tra le guerre mondiali.
Vladimir Vernadskij,
l’autore del moderno concetto di Biosfera, nel suo libro in francese pubblicato
nel 1924, La Géochimie, in cui per la prima volta espone l’analisi del ruolo
della materia vivente nei cicli che animano la superficie terrestre e che
costituiscono un insieme di interrelazioni strettissime, fa esplicitamente il
nome di Sergej Podolinskij tra i precursori delle sue idee (76). Vernadskij, la
cui figura e il cui lavoro pionieristico nei confronti dell’attuale ecologia
globale si sta scoprendo solo in quest’ultimo decennio in Occidente, è a sua
volta la fonte da cui trae ispirazione il più brillante teorico della scuola
russa di ecologia tra le due guerre, l’ucraino Vladimir Vladimirovic
Stanchinskij (1882-1942) (77). Anche la sua figura, il suo nome, per non dire
del suo lavoro, sono quasi del tutto sconosciuti in Occidente, benché egli
possa vantare il merito di aver formulato con un decennio di anticipo le linee
fondamentali della teoria dell’ecosistema.
Stanchinskij presenta il suo punto di vista in alcuni saggi pubblicati in Urss
tra il 1929 e il 1931; esso “rappresenta, almeno inizialmente, un tentativo di
ridurre i fenomeni biologici a un denominatore comune di natura fisica:
l’energia” (Weiner, 1988, p. 80). Il suo punto di partenza è la premessa che
“la quantità della materia vivente nella biosfera è direttamente dipendente
dall’ammontare di energia solare convertita dalle piante autotrofe”; gli
autotrofi sono “la base economica del mondo vivente”; la biosfera consiste di
sottosistemi – le biocenosi – ciascuna delle quali è costituita di una sua
specifica “base economica” e di una altrettanto specifica “sovrastruttura”
costituita dagli organismi che prelevano la loro sussistenza dai produttori
primari alla base della scala trofica. L’“equilibrio dinamico” che si può
constatare in ogni biocenosi ha la sua chiave di spiegazione nell’esistenza
“tra le componenti autotrofe ed eterotrofe della biocenosi, tra gli erbivori e
i carnivori, tra ospiti e parassiti ecc., … di relazioni definite, proporzionali”
le quali, osserva Stanchinskij, non sono state “fino ad oggi studiate da
nessuno” (V.V.Stanchinskij, O nekotorykh osnovnykh poniatiiakh zoologii v svete
sovremennoi ekologii, 1929; citato da Weiner, 1988, p. 81). Successivamente, in
un articolo del 1931, Stanchinskij presenta un vero e proprio modello
matematico descrivente il bilancio energetico annuo di una biocenosi teorica:
“era la prima volta che una tale formulazione veniva tentata” (Weiner, 1988, p.
81).
Ma il lavoro promettente
di Stanchinskij viene stroncato nel 1933 dall’affermarsi dello stalinismo anche
nel mondo scientifico. Era iniziato il periodo buio nel quale si sarebbe
preteso di uniformare la ricerca scientifica a un modello ideologico
prestabilito e sanzionato per decreto del Cremlino. Vittima della persecuzione
oscurantista promossa contro di lui e contro il suo approccio da Isai Prezent e
da Trofim Lysenko (che dopo la liquidazione dell’ecologia sarebbero passati ad
attaccare Nikolaj Vavilov e la genetica mendeliana), Stanchinskij viene rimosso
dai suoi incarichi e incarcerato, e le sue idee vengono messe al bando per una
ventina d’anni dalle università dell’Unione Sovietica (78).
Malgrado questo destino
oscuro del suo ispiratore, Douglas Weiner (lo studioso americano al quale si
deve il primo studio complessivo sull’ecologia sovietica negli anni Venti)
segnala l’esistenza di un contatto, di un rapporto tra studiosi russi della
scuola di Stanchinskij e studiosi americani dell’università di Yale, dove
operava George Evelyn Hutchinson uno studioso che avrebbe svolto una funzione
di primo piano nel promuovere gli studi ecologici e il nuovo paradigma
ecosistemico nei decenni successivi.
Il lavoro di Victor
Ivlev, un idrobiologo russo influenzato dalle idee di Stanchinskij, che esamina
i consumi e l’efficienza energetica dei vermi oligoceti del litorale del Mar
Caspio, viene utilizzato da Raymond Lindeman (sotto la supervisione di George
Evelyn Hutchinson) nel suo sviluppo indipendente della teoria dell’ecosistema
all’inizio degli anni Quaranta negli Stati Uniti (Weiner, 1988, p. 222) (79).
Confessiamo che non ci
dispiace l’idea che quel saggio dimenticato del 1880, che un giovane esule si
affannava a sottoporre all’attenzione delle più prestigiose menti della sua
epoca ricevendone scarsa considerazione, possa esser stato, per una strada
lunga e tortuosa, all’origine di alcune delle idee scientifiche più importanti
della nostra epoca.
Note
(1) Il presente lavoro,
per quanto frutto anche di ricerche personali, è fortemente debitore nei
confronti di Juan Martinez-Alier, il cui libro Economia ecologica, pubblicato nel maggio 1991 in italiano, ha
portato l’autore di queste note e, credo, la stragrande maggioranza dei
lettori, a conoscenza dell’esistenza di un “caso” Podolinskij. Alcune idee di
questo scritto, in una forma meno elaborata e più divulgativa, sono già state
esposte in un articolo sul “Calendario del popolo” (Bagarolo, 1991-b).
(2) Originario di una
famiglia benestante (il padre era un importante funzionario dell’amministrazione
postale russa), Sergej Podolinskij[Сергі́й Подоли́нський in ucraino, Сергей
Андреевич Подолинский in russo, Serghij Podolynskyi in tedesco, Sergei
Podolinsky nei testi in francese e in inglese] (1850-1891) entrò nell’orbita
del movimento populista ucraino negli anni in cui frequentava a Kiev gli studi
superiori di scienze naturali. Durante un viaggio in Europa occidentale con
Ziber (1844-88), uno tra i primi economisti ad aderire alle idee marxiste, ebbe
modo di incontrare Marx ed Engels a Londra, nell’estate 1972, presentato la
Pëtr Lavrov (1823-1900). Nel settembre dello stesso anno assistette da
osservatore al congresso dell’Aia della I Internazionale, simpatizzando per gli
anarchici. Successivamente collaborò alla rivista degli esuli russi raccolti
attorno a Lavrov, “Vpered”. Contemporaneamente frequentava a Zurigo medicina
con l’importante fisiologo Ludimar Hermann (1838-1914). Dopo un breve rientro
in patria nel corso del quale ebbe modo di partecipare alla’“andata al popolo”
dei narodniki, nel 1876 prese la laurea in medicina a Breslavia, con Rudolf
Peter Heinrich Heidenhain (1834-97), studioso di istologia, già collaboratore
di Emil Du-Bois Reymond (1818-96) e in rapporti con Hermann a Zurigo. Due anni
dopo – nel frattempo si era sposato a Kiev con la figlia di un proprietario
terriero – dovette rifugiarsi nuovamente all’estero per sfuggire al giro di
vite repressivo del governo zarista. Da Montpellier, in Francia, dove si era
stabilito, continuò a partecipare attivamente alla vita del movimento ucraino,
in contatto con Michail Dragomanov (1841-95), col quale fece uscire a Ginevra
la rivista “Hromada” (Comune). Nello stesso tempo era attivo nei circoli
socialisti europei: redattore della rivista francese di Benoît Malon (1841-93)
“Revue Socialiste”, scrisse anche per la stampa di altri paesi. Fu anche in
rapporto con Andrea Costa e la rivista milanese di Enrico Bignami “La Plebe”.
Nel periodo 1878-1881 pubblicò vari lavori su temi diversi (uno sull’industria
e un altro sull’agricoltura e la proprietà fondiaria in Ucraina, uno studio
sulle condizioni sanitarie delle popolazioni ucraine, un articolo contro il
darwinismo sociale). Del 1880 è il saggio su energia e produzione di cui ci
stiamo occupando. Purtroppo, nel 1881 fu colpito da una malattia psichica che
gli impedì quasi subito ogni capacità di lavoro e lo condusse, dieci anni dopo,
alla morte. Per questi dati biografici, si veda Juan Martinez-Alier, 1991,
soprattutto il paragrafo “Un narodnik” (pp. 86-98) scritto in collaborazione
con Klaus Schlupmann; e Mauro Borromeo, 1991, pp. 131-7. Maggiori cenni
biografici in
QUESTA
NOTA.
(3) Podolinskij presentò
le sue idee in versioni diverse ma simili in russo (Trud cheloveka i ego
otnoshenie kraspredeleniiu energii, in “Slovo”, n. 4/5, 1880, San Pietroburgo);
in francese (Le socialisme et l’unité des forces physiques, in “Revue
Socialiste”, n. 8, 1880, Parigi); in italiano (Il socialismo e l’unità delle forze
fisiche, in “La Plebe” nuova serie, nn. 3 e 4, 1881, Milano; ripubblicato
recentemente da Mauro Borromeo in “Quaderni di storia ecologica”, n. 1,
dicembre 1991, Milano); e in tedesco (Der Sozialismus und die Einhe der
physichen Kräft, in “Arbeiter-wochen-chronik”, nn. 32-33 e 37, 1881, Budapest;
e Menschliche Arbeit und Einheit der Kraft, in “Die Neue Zeit”, I, 1883,
Stoccarda, pp. 413-24 e 449-457). Abbiamo potuto consultare per il nostro
articolo le versioni pubblicate sulla “Plebe”, sulla “Revue Socialiste” e sulla
“Neue Zeit” (abbiamo anche preparato, con l’aiuto di Fernando Visentin, la
traduzione in italiano della versione tedesca comparsa sulla “Neue Zeit”, che
speriamo di poter presto pubblicare insieme con una versione ampliata di questo
nostro saggio). Dal confronto sinottico tra le tre versioni, si ricava una
sostanziale unità tra di esse, pur con qualche differenza. La versione francese
è la più stringata delle tre; quella italiana ne è una traduzione con qualche
aggiunta; quella tedesca, invece, da un lato appare censurata (spariscono i
riferimenti a Marx e al socialismo: va ricordato che dal 1878 erano in vigore
in Germania le leggi antisocialiste), dall’altro appare significativamente
accresciuta nella mole (circa il doppio di quella francese) e negli argomenti.
In particolare vengono diffusamente trattati i temi (assenti nelle altre due
versioni) delle fonti energetiche terrestri, del “ciclo della vita”, della
determinazione sperimentale dell’efficienza lavorativa dell’organismo umano,
della definizione del lavoro utile con riferimento all’opinione degli
economisti (vengono citati A. Smith, F. Quesnay, J-B. Say, S. de Sismondi e J.
Steuart). Purtroppo non abbiamo potuto estendere il controllo al testo russo
(forse la versione originaria da cui P. ha ricavato le altre) la quale secondo
quanto mi ha comunicato Martinez-Alier (colloquio personale a Milano, 3
dicembre 1991), è di gran lunga la più ampia di tutte (una settantina di
pagine).
(4) Eduard Bernstein, ad
es., ne aveva lodato in una lettera a Lavrov l’articolo contro il darwinismo
sociale (Martinez-Alier, 1991, p. 94). In Italia. in uno scritto del 1886
dedicato alla formazione di un gruppo di giovani militanti, Filippo Turati fa
il nome di Podolinskij accanto a quelli di Marx, Engels, Cernysevskij, Bakunin,
Kropotkin, Malon, Guesde, Lassalle, Kautsky e alcuni altri, come maestri su cui
si sono formati “i socialisti nostri” (italiani); si veda Turati, 1886; ora in
Cortesi, 1 962, p. 310.
(5) L’espressione,
riferita proprio alle idee di Podolinskij (e di Patrick Geddes), è impiegata da
Jean-Paul Deléage; si veda Deléage, 1991-b, p. 70.
(6) Lo scambio
epistolare con Podolinskij era sfuggito, fino a pochi anni fa, ai biografi e
agli studiosi di Marx, forse perché di questa corrispondenza non sono state
trovate tracce nelle carte dell’autore del Capitale. La vicenda di questo
contatto è stata brevemente ricostruita da Juan Martinez-Alier e Klaus
Schlupmann (in Martinez-Alier, 1991, pp. 95-6), ai quali si deve anche la
pubblicazione delle due lettere di Podolinskij a Marx. Le lettere che si
trovano attualmente presso l’Istituto di storia sociale di Amsterdam – sono in
tedesco. La prima porta la data del 30 marzo 1880: “Illustrissimo Signore [Hochgeeherter
Herr]” scrive Podolinskij a Marx. “E’ per me motivo di particolare piacere
essere in grado di inviarvi un breve scritto, cui diede il primo stimolo la
vostra opera “Da Kapital””. Dopo aver ricordato il precedente incontro a Londra
nell’estate del 1872. Podolinskij annuncia la pubblicazione dell’articolo nella
“Revue Socialiste” e l’intenzione di scrivere un lavoro più ampio, in francese
o in tedesco (è questo, forse, un preannuncio del saggio che comparirà tre anni
più tardi nella “Neue Zeit”). La seconda lettera porta la data dell’8 aprile
1880 e fa riferimento ad una risposta di Marx che non ci è nota, in cui
venivano espresse delle preoccupazioni per la salute dell’interlocutore (ciò
potrebbe significare che Marx conosceva, almeno indirettamente, l’intellettuale
ucraino in esilio a Montpellier e, inoltre, che i problemi di salute di
quest’ultimo si erano già manifestati). Podolinskij rassicurava Marx a questo
proposito, e concludeva con la frase che abbiamo citato sopra: “Con particolare
impazienza sono in attesa del vostro parere sul mio tentativo di armonizzare il
pluslavoro [Mehrarbeit] con le attuali teorie fisiche”. Ci corre l’obbligo di
ringraziare qui Andrea Panaccione, della redazione di “Giano”, che ci ha
procurato queste lettere, e l’Istituto di storia sociale di Amsterdam che ha
gentilmente consentito di prenderne visione. Contiamo di pubblicarle
prossimamente assieme alla traduzione del saggio della “Neue Zeit”.
(7) Di origine rumena (è
nato nel 1906 a Costanza), Nicholas Georgescu-Roegen ha studiato negli anni
Trenta statistica alla Sorbona ed economia con Schumpeter negli Stati Uniti.
Dal 1946 definitivamente in America, divenne ordinario di economia alla
Vanderbilt University (Georgia) dove lavora attualmente come Professore Emerito.
Autore di una acuta critica epistemologica della teoria del consumatore negli
anni Trenta, nel dopoguerra si è occupato dei fondamenti e dei metodi della
teoria economica. Dalla metà degli anni Sessanta ha sviluppato, in questo
ambito, una critica radicale dell’approccio economico tradizionale (“economia
standard” secondo la sua definizione) in quanto incapace di integrare il
principio di entropia e quindi di rappresentarsi correttamente i fenomeni
fisico-biologici dei quali anche i processi economici fanno parte. Ha così
sviluppato nei suoi scritti (Georgescu Roegen, 1971, 1973 e 1982) un nuovo
approccio che egli chiama “bioeconomico”. L’idea centrale che lo ispira è
quella che la produzione è un processo che trasforma materia-energia in
condizioni di bassa entropia in materia-energia caratterizzate da alta
entropia.
(8) Gli scritti
fondamentali di Marx in cui prende forma in modo definitivo quella che egli
definisce a la “critica dell’economia politica’’ si collocano tutti
(tralasciando qui di considerare opere importanti ancora precedenti come i
Manoscritti economico-filosofici, la Miseria della filosofia, ecc.) fra il 1857
(anno della famosa Einleitung, introduzione, che delinea il metodo d’indagine e
il programma di ricerca di Marx) e il 1867, anno di pubblicazione del primo
libro del Capitale. In questo intervallo di tempo si situa la stesura dei
Grundrisse (1857-58), dell’opera che anticipa la prima sezione del primo libro
del Capitale, e cioè Per la critica dell’economia politica (pubblicata nel
1859), e di altri voluminosi manoscritti dai quali saranno tratti, dopo la
morte di Marx, il secondo (1885) e il terzo libro (1894) del Capitale,
pubblicati da Engels; le Teorie sul plusvalore, pubblicate da Kautsky nel
1905-10 a partire da manoscritti del 1862-63; e, recentemente, i Manoscritti
del 1861-63 sulla tecnologia e le macchine. Sul rapporto tra studio delle
scienze naturali ed elaborazione della critica dell’economia politica, decisive
testimonianze si ricavano dalla corrispondenza di Marx ed Engels. Sappiamo da
queste fonti che Marx dava grande importanza ai recenti sviluppi scientifici
nel campo della chimica agraria (ma non solo) che egli riteneva “più importanti
che tutti gli economisti presi insieme” per quel che riguarda la rendita
(lettera di Marx ad Engels del 13 febbraio 1866). Altri documenti importanti:
lettere di Marx ad Engels del 20 febbraio 1866, del 3 gennaio 1868 e del 25
marzo 1868.
[Oggi sappiamo che il
lavoro di Podolinskij suscitò l'interesse di Marx il quale lo lesse e lo
commentò. Sappiamo dai suoi estratti che probabilmente Marx ebbe per le mani un
abbozzo incompleto del testo che Podolinskij avrebbe pubblicato in quello
stesso anno sulla "Revue Socialiste". Questi commenti saranno
pubblicati in un prossimo volume delle MEGA (l'edizione storico-critica delle
Opere complete di Marx ed Engels). Una valutazione delle note
di Marx a Podolinskij è disponibile nel saggio di John Bellamy Foster e Paul
Burkett Ecological Economics and Classical Marxism: The "Podolinsky
Business" Reconsidered, in "Organization & Environment"
marzo 2004. Nota
di t.b., luglio 2010].
(9) La corrispondenza di
Marx ed Engels, gli appunti del secondo per la Dialettica della Natura e per
l’Anti-Dühring, e la cronologia degli estratti (purtroppo ancora inediti) di
Marx dalle opere di scienze naturali che andava leggendo (Colmam 1931) ci
consentono di avere un’idea del momento in cui essi vennero a conoscenza, o
discussero, di alcuni dei risultati scientifici più notevoli della loro epoca,
e delle conoscenze che essi avevano in questi campi. Ci consentono anche di
farci un’idea della viva attenzione, partecipe ma tutt’altro che acritica, con
cui seguirono gli sviluppi delle scienze della natura in un periodo, fra gli
anni Quaranta e gli anni Ottanta del secolo scorso, di risultati rivoluzionari.
Purtroppo non tutti i materiali esistenti sono disponibili: mancano le opere
scientifiche annotate e sottolineate da Marx ed Engels, i numerosi quaderni di
estratti frutto delle loro letture, una parte della loro stessa corrispondenza
(ad es. quella di Engels con Schorlemmer) (Lefebvre, 1974, p. 7-8). Manca pure
un esauriente lavoro di ricostruzione dei rapporti tra lo sviluppo del pensiero
marx-engelsiano e la storia delle scienze naturali e della filosofia della
natura. Due pregevoli tentativi di cominciare a colmare questo vuoto vanno qui
ricordati: Vidoni, 1982 e 1985.
Con tutto ciò, diamo qui alcuni riferimenti cronologici del momento in cui Marx
ed Engels si confrontarono con alcuni dei risultati scientifici più rilevanti
per la nostra indagine, cioè gli studi sul metabolismo vegetale e animale,
quelli di fisiologia del lavoro, e i principi della termodinamica.
Fisiologia e chimica agraria. Marx si occupa di queste materia fin dagli anni
Cinquanta: Sessanta sulle opere del naturalista Jacob Moleschott (1822-93), del
fisiologo materialista Ludwig Buchner (1824-99), dei naturalisti Theodor
Schwann (1810-82), Jacob Mathias Schleiden (1804-81) e di altri (Lefebvre,
1974, pp. 29-3). In merito alla chimica
agraria legge nello stesso periodo Justus von Liebig (1803-73), Christian
Friederich Schömbein (1799-1868), Karl Nikolaus Fraas (1810-75) e James Finlay
Weir Johnston (1796-1855). Marx torna su questi temi negli anni 1876-77, nel
corso della rielaborazione della sezione dedicata alla rendita del terzo libro
del Capitale. Nel 1876-78 legge anche
alcuni lavori dei fisiologi Adolf Fick (1829-1901) Johannes Ranke (1836-1916)
ed Emil Du Bois-Reymond. Nello stesso periodo Engels segue con continuità la
rivista “Nature” e discute di questi temi con l’amico Karl Schorlemmer
(1834-92), già allievo di Liebig, insegnante di chimica organica in Inghilterra
(Colman, 1931, e Lefebvre, 1974).
Termodinamica. Il primo cenno al principio di conservazione dell’energia e
dell’equivalenza fra le diverse forme di energia si trova in una lettera di
Engels a Marx del 14 luglio 1858, in cui fra l’altro si legge questa
osservazione: “Certo è che studiando fisiologia comparata si arriva a uno
sdegnoso disprezzo per la concezione idealistica che pone l’uomo al di sopra
degli altri animali”. A metà degli anni Sessanta
Marx legge alcuni lavori dei fisici William Grove (1811-96) e di John Tyndall
(1820-93). II
primo riferimento all’entropia compare in una lettera di Engels a Marx del 21
marzo 1869, nella quale si definisce “altamente insulsa” la teoria che prevede
la fine dell’universo per raffreddamento e che presuppone, di conseguenza uno
stato iniziale caldo opera divina. Il giudizio sembra formulato sulla base di
una conoscenza di seconda mano. Solo negli anni Settanta
Engels legge direttamente le opere di William Thomson (1824-1907), Peter Tait
(1831-1901), Robert Mayer (1814-78), Herman von Helmholtz (1821-94) e Clerk
Maxwell (1831-79). Le
perplessità sul secondo principio della termodinamica sono ribadite in un appunto
del 1875 della Dialettica della natura (Engels, 1873-86, p. 563-4), ma già
nella bozza di introduzione per l’Anti-Dühring, del 1875-76, le riserve
sembrano superate (“Tutto ciò che nasce è degno di perire” scrive Engels,
citando Hegel, con riferimento all’universo) con l’accoglimento dell’ipotesi
dell’astronomo italiano Angelo Secchi (1818-78) che ipotizza l’esistenza di
forze naturali capaci di restituire l’universo al suo stato iniziale,
escludendo così interpretazioni “creazioniste”. Da segnalare infine che in una
lettera a Danielson del 15 ottobre 1888 Engels afferma che il diciannovesimo
secolo è “il secolo di Darwin, Mayer, Joule e Clausius”, dichiarazione
significativa dell’importanza che egli attribuiva alle scienze naturali e ai
principi scientifici fondamentali da esse stabiliti.
(10) Perché Marx non
prende in considerazione (così sembra) lo scritto di Podolinskij prima del
dicembre 1882? Impossibile rispondere sulla base dei dati biografici
conosciuti. Non furono anni facili per Marx, travagliati da seri problemi di
salute che interrompevano spesso il suo lavoro, dalla grave malattia della
moglie e dai lutti familiari (la moglie di Marx, Jenny von Westphalen, muore il
2 dicembre 1881; la figlia maggiore Jenny muore a sua volta l’11gennaio 1883).
Tuttavia Marx restò intellettualmente attivo almeno fino all’estate del 1881.
Nella primavera-estate del 1880 Marx si occupò del nascente partito operaio
francese preparando anche un questionario per gli operai pubblicato in giugno
sulla “Revue Socialiste”; nell’inverno 1880-81 stese gli appunti sull’opera
dell’etnologo americano Henry Lewis Morgan (1818-81); nel febbraio-marzo 1881
ebbe la corrispondenza con la rivoluzionaria russa Vera Zasulic (1851 1919);
ancora nel 1882 scrisse l’introduzione alla seconda edizione russa del
Manifesto del partito comunista. Dalla fine di ottobre del 1882 Marx risiedeva
a Ventnor, nell’isola di Wight, per cercare di alleviare i malanni polmonari, e
si teneva in costante contatto epistolare con Engels a Londra. Per questi dati
biografici: MacLellan, 1976.
(11) Dalla
corrispondenza sappiamo che Marx ebbe per le mani a Ventnor alcuni numeri della
“Plebe” (lettera a Engels del 4 dicembre 1882; si veda anche Bosio, 1972, pp.
226-27), e che in quei mesi frequentava la casa di Engels a Londra un giovane
narodnik russo, Lev Nikolajevic Hartmann (1850-1908), appassionato di
elettricità, passione commentata con indulgenza da Engels (Marx-Engels, 1953,
VI, pp. 398-413).
(12) Che Engels risponda
ad una richiesta di Marx si ricava come impressione dalle lettere del primo (in
Marx-Engels, 1953, VI, pp. 414-18). Segnaliamo che si collega al “caso”
Podolinskij anche la richiesta di Marx alla figlia Eleanor (lettera del 23
dicembre 1882) di fargli avere il libro del fisiologo tedesco Johannes Ranke
Grundzüge der Physiologie des Menschen (Lefebvre, 1974, p. 112), del quale Marx
aveva già fatto degli estratti nel 1876 (Colman, 1931).
(13) Le lettere di
Engels su Podolinskij furono pubblicate per prima prima volta da A. Bebel e E.
Bernstein nel 1919; quindi dall’austromarxista Otto Jenssen nel 1925; negli
anni Trenta esse furono pubblicate anche in inglese. Furono pure citate dal
“dialettico” I.K. Luppol nella rivista “Sotto le bandiere del marxismo” negli
anni Venti in Urss (Martinez-Alier, 1991).
(14) Il principio di
conservazione dell’energia (primo principio della termodinamica) afferma che
nelle trasformazioni da una forma all’altra la quantità totale di energia si
conserva. Esso è stato enunciato inizialmente da Robert Mayer nel 1842 come
equivalenza fra lavoro e calore.
(15) Rudolf Julius
Emanuel Clausius (1822-88), fisico tedesco, enunciò nel 1850 il secondo
principio della termodinamica rielaborato nel 1865 nel concetto di entropia.
(16) La nozione di
entropia può essere definita in modi diversi; ad es. come indice dell’energia
degradata (cioè non più utilizzabile per compiere un lavoro) in un processo
termodinamico. In questo senso, ogni trasformazione energetica irreversibile in
un sistema fisico isolato (che non riceve energia dall’esterno) provoca un
aumento di entropia.
(17) L’energia è
generalmente definita come la capacità di compiere un lavoro. In termini più
rigorosi è la funzione di stato di un sistema fisico isolato che si mantiene
costante nel corso delle trasformazioni del sistema stesso.
(18) Robert Gustav
Kirchhoff (1824-87), fisico tedesco, inventore dello spettroscopio. La legge di
Kirchhoff definisce il rapporto tra energia assorbita ed irradiata da un
qualsiasi corpo. Sul bilancio termico terrestre, sulle trasformazioni del
flusso solare sulla superficie terrestre, si veda Conti, 1988 e Nebbia, 1991.
(19) Col termine
“analisi dell’energia” si intende la contabilità dei flussi energetici nei
sistemi naturali, sociali e tecnologici, utilizzata in genere per conoscere i
costi energetici dei processi produttivi o la produttività energetica degli
ecosistemi.
(20) Gustav-Adolphe Hirn
(1815-90), fisico tedesco, formulò indipendentemente da Mayer e da Joule
l’equivalente meccanico del calore nel 1846; fu autore di importanti ricerche
sperimentali.
(21) Hermann Ludwig
Ferdinand von Helmholtz (1821-94), scienziato tedesco, fisiologo e fisico.
Diede sistematizzazione teorica al primo principio della termodinamica nel
1847.
(22) Una macchina
termica è un dispositivo per trasformare l’energia termica di un fluido (il
vapore, ad es.) in lavoro meccanico. Esempio tipico, la macchina a vapore.
Dagli studi per perfezionare le macchine a vapore sorse nella prima metà
dell’Ottocento la termodinamica. Sadi-Nicolas-Léonard Carnot (1796-1832), fisico
francese, svolse un ruolo chiave in questo sviluppo, soprattutto con la sua
memoria del 1824, Riflessioni sulla potenza motrice del fuoco, in cui si
preannunciava il secondo principio, nell’asserzione che non è possibile
produrre lavoro dal calore senza perdite (cioè è impossibile un ciclo
calore-lavoro meccanico-calore completamente reversibile, ovvero è impossibile
la macchina termica perfetta).
(23) Jan Ingenhousz
(1730-99), naturalista olandese, scopritore del meccanismo della fotosintesi
(1779-1796).
(24) Kreislauf des
Lebens è anche il titolo di uno scritto del 1852 del naturalista olandese Jacob
Moleschott dal quale Marx trasse il termine Stoffwechsel (ricambio organico,
metabolismo). Così vi si presentava la “circolazione della materia”: “Ciò che
l’uomo elimina, nutre la pianta. La pianta trasforma l’aria in elementi solidi
e nutre l’animale. I carnivori si nutrono di erbivori, per diventare a loro
volta preda della morte e diffondere nuova vita nel mondo delle piante. A
questo scambio della materia si è dato il nome di ricambio organico
(Stoffwechsel).” (Schmidt, 1973, p. 80). Questa immagine della natura era
emersa dagli studi dei chimici e dei fisiologi dalla fine del diciottesimo alla
metà del diciannovesimo secolo lungo la linea Priestley, Ingenhousz, Th. de
Saussure, Lavoisier. Claude Bernard, Dumas, Boussingault, Liebig (si veda su
questo Deléage 1991-b, pp. 50-6). Per la teoria dell’ecosistema si rimanda
all’ultima parte dell’articolo.
(25) Robert Thomas
Malthus (1766-1834), economista inglese, autore nel 1798 del famoso Saggio sul
principio di popolazione in cui si enuncia la “legge” secondo cui la
popolazione tende a crescere sempre oltre le risorse disponibili. Malthus aveva
voluto vedere in questa “legge” la dimostrazione che povertà e ricchezza sono
conseguenza di una legge di natura, che quindi è vano cercare di porvi rimedio,
che i poveri sono tali in ultima analisi per colpa propria che i tentativi di
migliorare le condizioni sociali combattendo la povertà sfociano in risultati
perversi. A suo tempo Marx aveva criticato soprattutto la pretesa “naturalità”
della legge della popolazione, non l’esistenza in astratto di limiti naturali.
Anche il tema dell’energia fornì argomenti per rimettere in auge il punto di
vista maltusiano, interpretando l’enunciato del fisico tedesco Ludwig Boltzman
(1844-1906): “la lotta per la vita è principalmente una competizione per
l’energia disponibile” (del 1886), che riguarda essenzialmente la competizione
interspecifica, come principio di competizione intraspecifica applicato alla
specie umana. Un punto di vista simile è ricomparso negli anni Sessanta (ad es.
nell’“etica della scialuppa di salvataggio” di Garrett Hardin) e di fatto
ispira oggi le ideologie razziste e le stesse politiche imperialistiche più o
meno discriminatorie.
(26) Già nel Capitale
Marx aveva ad es. affermato che alla produttività del lavoro “non si deve
connettere nessuna idea mistica”, ma che essa dipende, fatta astrazione dei
fattori sociali, dalla struttura fisiologica dell’organismo umano e dalle
risorse ambientali (Marx, 1867 I, p. 558-9). Nella Critica al programma di
Gotha (1875), all’affermazione del testo programmatico del nuovo partito
socialdemocratico che “il lavoro è la fonte di ogni ricchezza”, Marx ribatte
che non il lavoro ma “la natura è la fonte dei valori d’uso (e in questo
consiste la ricchezza effettiva!) altrettanto quanto il lavoro, che, a sua
volta, è soltanto la manifestazione di una forza naturale, la forza lavoro
umana.” (Marx, 1875, p. 23).
(27) Marx, è noto, criticava
le formule, di origine utopistica e lassalliana, “reddito integrale del lavoro”
e “giusta ripartizione”, perché prive di base scientifica. Su tutto questo,
Marx, 1875. pp. 27-33.
(28) Engels formula il
suo parere sullo scritto di Podolinskij senza averlo davanti: “Non ho fra le
mani la cosa, ma l’ho letta l’altro giorno in italiano sulla “Plebe””, afferma
nella lettera a Marx del 19 dicembre 1882.
(29) “L’animale arriva
al massimo a raccogliere, l’uomo produce (…) Ciò impedisce di trasferire, così,
senz’altro, le leggi di vita delle società animali alla società umana”, ecc.
(Engels, 1873-86, pp. 584-6). Questo appunto è del 1875, contemporaneo alla
lettera a Lavrov (12 dicembre 1875) di analogo contenuto (Lefebvre, 1974, pp.
83-7).
(30) Un passo del 1875
ha diretta attinenza con i tempi discussi nelle lettere a Marx della fine del
1882: si veda Engels, 1873-86, pp. 587-8.
(31) In un scritto del
1886 Engels afferma esplicitamente (si sta parlando della convertibilità di
tutte le forme di energia): “Noi possiamo ugualmente misurare il consumo di
energia e gli apporti di energia di un organismo vivente, ed esprimerli in una
unità scelta a piacere, ad es. in calorie. L’unità di ogni movimento nella
natura non è più una affermazione filosofica, ma un fatto scientifico.”
(Engels, 1873-86, p. 484).
(32) “In primo luogo il
lavoro è un processo che si svolge fra l’uomo e la natura, nel quale l’uomo,
per mezzo della propria azione, media regola e controlla il ricambio organico
(Stoffwechsel) fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra
le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto le
forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa,
per appropriarsi i materiali della natura in forma usabile per la propria
vita”. (Marx, 1867, I, p. 211).
“Il lavoro, come formatore di valori d’uso, come lavoro utile è una condizione
d’esistenza dell’uomo, indipendente da tutte le forme della società, è una
necessità eterna della natura che ha la funzione di mediare il ricambio
organico fra uomo e natura, cioè la vita degli uomini. (…) Nella sua produzione
l’uomo può soltanto operare come la natura stessa: cioè unicamente modificare
le forme dei materiali [sottolineature di Marx]. E ancora: in questo stesso
lavoro di formazione l’uomo è costantemente assistito da forze naturali. Quindi
il lavoro non è l’unica fonte dei valori d’uso che produce della ricchezza
materiale. Come dice William Petty il lavoro è il padre della ricchezza
materiale e la terra ne è la madre.” (Marx, 1867, I, p. 75).
(33) “Se il lavoratore
ha bisogno di tutto il suo tempo per produrre i mezzi di sussistenza necessari
alla conservazione di se stesso e della sua specie non gli rimane tempo per
lavorare gratuitamente per terze persone. Senza un certo grado di produttività
del lavoro, niente tempo disponibile di quel tipo per il lavoratore, senza
tempo eccedente niente pluslavoro e quindi niente capitalisti, ma anche niente
padroni di schiavi, niente baroni feudali: in una parola niente classe dei
grandi proprietari.” (Marx. 1867, I, p. 558). Significativo anche quel che
segue: “Così si può parlare di una base naturale del plusvalore, ma solo nel
senso generalissimo che nessun ostacolo naturale assoluto può trattenere una
persona dal rimuovere da sé e dal caricare su di un’altra il lavoro necessario
per la propria esistenza (…). A questa produttività naturale e spontanea del
lavoro non si deve connettere nessuna idea mistica, come è accaduto talvolta.”
Marx spiega che, fatta astrazione del grado di sviluppo tecnico di una
determinata società, questa produttività naturale è in stretta relazione con la
struttura fisiologica dell’uomo e con le risorse disponibili nell’ambiente
circostante (Marx, 1867, I, pp. 558-9).
(34) Credo inoltre che
si debba ammettere, almeno come ipotesi di ricerca, che l’incomprensione
iniziale di Engels e l’atteggiamento dei marxisti successivi non abbiano
necessariamente la stessa spiegazione. E che il problema non sia riducibile,
pertanto, alla ricerca di un presunto “peccato originale” antiecologico del
marxismo che spiegherebbe tutto quanto è seguito. La sordità verso Podolinskij
sarebbe così emblematica dell’incapacità dei marxisti di fare i conti con
l’ambientalismo, dell’ideologia produttivistica prevalsa nel movimento operaio,
dei disastri ambientali della staliniana “costruzione del socialismo”, della
scelta filonucleare del Pcf e del Pci, della difesa del posto di lavoro nel
caso delle fabbriche che inquinano e così via. Credo invece che ognuno di
questi momenti richieda una analisi concreta della situazione determinata
capace di ricostruire caso per caso la costellazione di fattori che hanno
prodotto un certo esito e non un altro. Non abbiamo qui lo spazio per fare
questo lavoro. Qui ci limitiamo a considerare il “punto di partenza”: la
“coscienza ecologica” di Marx ed Engels.
(35) Ernst Haeckel
(1834-1919), naturalista tedesco, divulgatore del darwinismo, coniò il termine
“ecologia” (dal greco oikos = casa, e logos = discorso, scienza) nel 1866
definendola come l’economia dei viventi, la scienza del rapporto degli
organismi col loro ambiente (nell’opera Generelle Morphologie der Organismen)
(Acot, 1989, p. 42-3).
(36)
L’espressione è di Deléage (Deléage, 1991 b, p. 5).
(37) Si veda a questo
proposito Acot, 1989; Deléage, 1991-b.
(38) Un ruolo importante
nella formazione della “coscienza ecologica” dell’impatto umano sugli ambienti
naturali è giocato nell’Ottocento da discipline come la botanica e la
geografia. Non c’è, a quel che so, un’opera in italiano che ricostruisce questi
sviluppi. Un primo approccio molto interessante è costituito dalla bella
introduzione di Fabienne Vallino allo splendido volume della riedizione
anastatica di George Perkins Marsh, L’uomo e la natura, comparso inizialmente
in inglese nel 1964. Nell’ambito del nostro discorso la figura di G.P. Marsh
(1801-82) merita un’attenzione particolare, in quanto egli espresse forse il
punto più avanzato della “coscienza ecologica” del diciannovesimo secolo, e
sarebbe estremamente interessante (e forse sorprendente) tracciare un parallelo
tra il suo pensiero e alcune riflessioni engelsiane sul rapporto uomo-natura.
Marsh, originario di una famiglia dell’aristocrazia del New England, fu
studioso di molteplici interessi teorici e pratici (fu tra l’altro ambasciatore
degli Stati Uniti presso il Regno d’Italia dal 1861 alla morte). Il pensiero di
Man and nature è all’origine del conservazionismo americano (che porta nel 1872
alla nascita del primo parco nazionale, Yellowstone) ed ebbe vasta risonanza
anche altrove (ad es. in Russia, vedi Weiner, 1988, p. 8, dove fu tradotto nel
1866). La miglior sintesi che si possa farne è la dichiarazione con cui si apre
la prefazione dell’edizione originale: “Lo scopo del presente libro è quello
d’indicare la natura e, approssimativamente, l’estensione dei cambiamenti indotti
dall’azione dell’uomo nelle condizioni fisiche del globo che abitiamo; mostrare
i pericoli che può produrre l’imprudenza, e la necessità di precauzioni in
tutte quelle opere che, in grandi proporzioni, s’interpongono nelle
disposizioni spontanee del mondo organico od inorganico; suggerire la
possibilità e l’importanza del ristabilimento delle armonie perturbate, e il
miglioramento materiale di regioni rovinate ed esaurite; e illustrare
incidentalmente il principio che l’uomo è, tanto nel genere quanto nel grado,
una potenza di un ordine più elevato non sia qualunque altra forma di vita
animata che al pari di lui si nutre alla mensa della generosa natura”.
(39) Piani di
“trasformazione della natura” cominciano a vedere la luce in Urss nei primi
anni Trenta, durante il primo piano quinquennale. “Grande trasformatore della
natura” era il titolo onorifico attribuito a Lysenko (“grande trasformatore
della storia” era invece Stalin, naturalmente…). Su tutta questa materia,
Weiner 1988.
(40) Soprattutto in Italia,
dove anche tra i marxisti ha avuto in passato una brutta considerazione il
materialismo scientifico; osservazioni interessanti in proposito in
Minazzi-Timpanaro, 1991.
(41) Sono moltissime,
nei Manoscritti parigini, le suggestioni “ecologiche”: l’unità uomo-natura
(Marx, 1844, pp. 76-77), l’uomo come essere naturale caratterizzato da bisogni
e facoltà (pp. 171-3), la nascita dell’umanità dalla natura come processo
storico, ad opera del lavoro (p. 121), l’unità tra scienza della natura e
scienza dell’uomo (p.122), l’alienazione dei bisogni nella società mercantile
(p. 127), il degrado della condizione dei lavoratori nella città industriali
(p. 129) ecc.
(42) Particolarmente
significativo un passo che è quasi la fondazione dl un’antropologia ecologica:
“Il primo presupposto di tutta la storia umana è naturalmente l’esistenza di
individui umani viventi. Il primo dato di fatto da constatare è dunque
l’organizzazione fisica di questi individui e il loro rapporto, che ne
consegue, verso il resto della natura. Qui naturalmente non possiamo
addentrarci nell’esame né della costituzione fisica dell’uomo stesso, né delle
condizioni naturali trovate dagli uomini, come condizioni geologiche,
oro-idrografiche, climatiche e così via. Ogni storiografia deve prendere le mosse
da queste basi naturali e dalla modifiche da esse subite nel corso della storia
per l’azione degli uomini.” (Marx-Engels, 1846, p. 8).
(43) “Ogni produzione è
appropriazione della natura da parte dell’individuo entro e mediante una
determinata forma di società.” (Marx, 1857, p. 175) Discorso metodologico
irrinunciabile.
(44) Si veda alla nota
32; più in generale è l’intero capitolo quinto del primo libro che merita una
rilettura attenta.
(45) In particolare
nello scritto Parte avuta dal lavoro nel processo di umanizzazione della
scimmia (Engels, 1873-86, soprattutto pp. 446-70).
(46) Cfr. Marx, 1867, I,
p. 214; Engels, 1873-86, p. 463 e 467.
(47) Ad es. lettera di
Marx ad Engels del 25 marzo 1868, i passi già citati della Dialettica della
natura, le stesse lettere di Engels su Podolinskij ecc.
(48)
Cfr. Engels, 1873-86, pp. 466-70. Anche Marx nel Capitale (vedi alle note
successive).
(49) Lo scritto di
Engels La situazione della classe operaia in Inghilterra (del novembre 1844
marzo 1845) contiene decine di pagine di analisi del degrado delle condizioni
urbane, igieniche e abitative, sugli ambienti di lavoro, sulle malattie e sugli
infortuni professionali nell’Inghilterra della rivoluzione industriale: pagine
insuperate di ecologia umana. Un passaggio: “L’atmosfera di Londra non potrà
mai essere pura e ricca di ossigeno come quella di una zona rurale; due milioni
e mezzo di polmoni e duecentocinquanta mila camini ammassati in uno spazio di
tre-quattro miglia quadrate consumano un’enorme quantità di ossigeno, che si
rinnova soltanto con difficoltà, poiché l’edilizia cittadina in sé e per sé
rende difficile la circolazione d’aria. L’anidride carbonica prodotta dalla
respirazione e dalla combustione grazie al suo peso specifico permane nelle
strade, e la corrente d’aria principale passa sopra le case. I polmoni degli
abitanti non ricevono l’intero quantitativo di ossigeno di cui avrebbero
bisogno e ciò produce una prostrazione fisica e intellettuale e un abbassamento
dell’energia vitale. Per questo motivo, gli abitanti delle grandi città sono sì
meno esposti alle malattie acute, particolarmente infiammatorie, che non gli
abitanti delle campagne, i quali vivono in un’atmosfera libera e normale, ma in
compenso soffrono molto di più di mal anni cronici.” (Engels,1845, p. 329) La
critica dell’urbanizzazione torna nel Capitale (ad es., I, p. 551 e III, p.
135) e nell’Anti-Dühring (Engels, 1878, p. 285): “La città industriale
trasforma qualsiasi acqua in fetido liquido di scolo.”
(50) Cfr. Marx, 1867, I,
p. 552-3; III, p. 716 (nota), p. 719, pp. 925-6.
(51) Processi che
consistono nel prelievo dall’ambiente di risorse materiali ed energetiche
pregiate e nella loro restituzione come scarti, rifiuti, emissioni (liquide o
gassose) incontrollate e inquinanti; nella congestione di spazi fisicamente
limitati; nel degrado degli ecosistemi i cui meccanismi di autoregolazione sono
vulnerabili alla scala di impatto dell’uomo tecnologico; nell’alterazione dei
cicli biogeochimici della Biosfera dai quali dipendono la stabilità dell’ambiente
globale e le condizioni della vita umana stessa sul pianeta.
(52) Si pensi al
brevetto sui “prodotti” dell’ingegneria genetica (specie transgeniche, ecc.) e
il fenomeno in espansione degli “uteri in affitto”.
(53) Abbiamo svolto sul
n. 8 di “Giano” una riflessione su uno dei più notevoli, ma anche più
discutibili, contributi a questa riflessione, Hans Jonas, Il principio
responsabilità (Bagarolo, 1991-a)
(54) “Dal punto di vista
di una più elevata formazione economica della società, la proprietà privata del
globo terrestre da parte di singoli individui apparirà così assurda come la
proprietà di un uomo da parte di un altro uomo. Anche un’intera società, una
nazione, e anche tutte le società di una stessa epoca prese complessivamente,
non sono proprietarie della terra. Sono soltanto i suoi possessori, i suoi
usufruttuari e hanno il dovere di tramandarla migliorata, come boni patres
familias, alle generazioni successive.” (Marx, 1867, III, p. 887).
(55) “La soppressione
dell’antagonismo di città e campagna non solo è possibile, ma è diventata una
diretta necessità della stessa produzione industriale, così come è diventata
del pari una necessità della produzione agricola ed inoltre dell’igiene
pubblica. Solo con la fusione di città e campagna può essere eliminato
l’attuale avvelenamento di acqua, aria e suolo, solo con questa fusione le
masse che oggi agonizzano nelle città saranno messe in una condizione in cui i
loro rifiuti siano adoperati per produrre le piante e non le malattie.”
(Engels, 1878, p. 286).
(56) Ad es. le lettere
di Engels a Bernstein del I Marzo 1883 (in Lefebvre, 1974, p. 113-4) sulle
possibilità aperte dall’elettricità nel campo del superamento della
contraddizione città-campagna; quella dell’11 aprile 1893 al geologo inglese
George Lamplugh (Lefebvre, 1974, p. 124-5) o la testimonianza di William
Liebknecht sulle passeggiate domenicali sui prati e le colline fuori Londra
della famiglia Marx (Parsons, 1977, p. 41).
(57) Gli ultimi mesi di
Marx (muore il 14 marzo 1883) furono tristissimi: gli muore nel gennaio la
figlia maggiore Jenny, a febbraio è preda di una nuova fase acuta dei suoi
disturbi polmonari. Engels invece continuò più a lungo a lavorare attivamente,
interessandosi in vari momenti di argomenti che potevano intersecarsi con quelli
sollevati da Podolinskij: ad es. la stesura del libro sull’Origine della
famiglia, sulla base degli appunti di Marx e dell’opera di Lewis Morgan Ancient
Society. Morgan propone, infatti, e Engels accoglie, uno schema evolutivo
dell’umanità (fondato sulle tre grandi tappe dello stato selvaggio, della
barbarie e della civiltà) formulato a partire dall’incremento della
produttività del lavoro nel procurare i beni di sussistenza essenziali; schema
nel quale sono tappe fondamentali le rivoluzioni “energetiche” del controllo
del fuoco, della pastorizia e dell’agricoltura, che si prestavano ad essere
reinterpretate alla luce dello scritto di Podolinskij.
(58) Le semplificazioni
del tipo forze produttive = tecnologia, oppure forze produttive = sviluppo
economico, da cui segue sviluppo delle forze produttive = crescita economica,
comportano il risultato di omologare il pensiero marxista all’approccio
dell’“economia standard”, rendendolo ben poco utile per una “critica
dell’economia politica” capace di fare i conti con le problematiche ecologiche.
(59) Mi pare eccessiva e
infondata l’affermazione di Jean-Paul Deléage che Marx abbia del tutto
tralasciato l’analisi del ruolo della natura nei processi economici
concentrandosi sulla relazione tra lavoro e capitale (Deléage, 1991-a, p. 81).
Ingiustificata anche l’affermazione che per Marx il capitalismo avrebbe solo
“limiti interni” (Debeir-Deléage-Hemery, 1987, pp. 17-8), che travisa, a mio
modo di vedere, i passi di Marx a cui fa riferimento. Per Marx il capitale è non
tanto in grado di superare i limiti naturali, quanto incapace di riconoscerli
(nozione ben diversa!). In generale, va ribadito (contro affermazioni in
contrario piuttosto frequenti) che per Marx la natura non è mero sfondo inerte,
non è solo arsenale di strumenti o magazzino di materiali, ma è anche forza
attiva (dalla parte degli input) e natura degradata, “sfruttata”, depauperata,
inquinata (dal lato degli output) nel processo di produzione e ciò si
ripercuote sul ruolo di “forza produttiva” della ricchezza della natura stessa.
E’ essenziale distinguere la natura come agente di produzione della ricchezza
come valore d’uso (in cui essa entra), dalla ricchezza come valore di scambio
(nella quale essa non viene computata dal processo sociale che determina il
valore).
(60) Dal punto di vista
termodinamico, il processo produttivo è sempre una perdita netta, una
distruzione: rappresenta la degradazione disordinata di un certo flusso
energetico e di un certo ammontare di materiali. Anche quando apparentemente
avviene il contrario (in effetti, ogni attività produttiva conferisce un ordine
maggiore ad un insieme di materia-energia: costruire un’auto a partire dal
minerale di ferro, dal petrolio, ecc. significa costituire un sistema fisico
più ordinato di quello iniziale), ciò avviene al prezzo inevitabile di un
accrescimento dell’entropia ambientale (nel nostro esempio, tutta la spesa
energetica dissipata e tutti i materiali scartati tra i quali, alla fine, i
rottami della stessa automobile). Podolinskij l’aveva intuito. Sorge ovviamente
una domanda: ma allora chi “paga” questo “prezzo”? Podolinskij dava
correttamente la risposta: il Sole, questa sorta di enorme centrale
termonucleare posta ad una distanza di relativa sicurezza dal nostro pianeta.
Ciò significa, però, che il flusso solare è anche la nostra unica vera
ricchezza permanente, mentre i combustibili fossili sono fonti esauribili e
finite: una volta bruciati, un barile di petrolio o una tonnellata di carbone,
sono irrevocabilmente perduti e l’energia chimica da essi liberata, esaurito un
certo numero di conversioni più o meno efficienti, viene irrimediabilmente
perduta per sempre (va anzi ad accrescere l’effetto serra).
(61) Il tema andrebbe
approfondito. Su uno dei “punti caldi” di questo problema, quello dei rendimenti
in agricoltura, si può documentare che esiste in Marx una linea di ragionamento
più complessa della semplice affermazione che il lavoro umano aumenta i
rendimenti agricoli. Egli distingue due componenti della forza produttiva del
lavoro, una naturale (per analizzare la quale sarebbe stato utilissimo
l’approccio di Podolinskij!) legata alla fertilità naturale del terreno (cioè a
fattori intrinseci alla costituzione della natura) e una sociale, legata ai
fattori sociali (rapporti sociali, scienza, ecc.). Ora, Marx formula l’ipotesi
che in agricoltura ci possa essere un movimento di queste due componenti in
direzione opposta, e che, oltre un certo limite, la componente sociale (la
tecnologia, ecc.) non sia più in grado di compensare la tendenza alla diminuzione
della forza produttiva naturale. L’analogia con l’analisi contemporanea in
termini di energia è lampante (si veda Marx, III, p. 875).
(62) Ad es., sperando
nella scoperta della “lampada di Aladino’’ rappresentata dalla fusione
termonucleare controllata…
(63) Ad es., il rapido
degrado degli ecosistemi agricoli in seguito al crescente uso di fertilizzanti
(degrado che si diffonde come inquinamento alle acque superficiali e
sotterranee e ai mari come eutrofizzazione); i drammatici fenomeni
dell’assottigliamento dello strato protettivo dell’ozono atmosferico e
dell’incremento di origine umana dell’effetto serra dell’atmosfera.
(64) “A ogni passo ci
viene ricordato noi non dominiamo la natura come un conquistatore domina un
popolo straniero soggiogato, che non la dominiamo come chi è estraneo
apparteniamo con carne e sangue e cervello e viviamo nel suo grembo: il nostro
dominio sulla natura consiste nella capacità, che ci eleva al di sopra delle
altre creature, di conoscere le sue leggi e di impiegarle in modo appropriato.”
(Engels, 1873-86, p. 468).
(65) I riferimenti per
questa interpretazione sono numerosi, e si possono trovare soprattutto nei
Grundrisse e nel Capitolo VI inedito, oltre che nel Capitale; non diamo qui
tutti i riferimenti d’altra parle abbastanza noti; ci accontentiamo di un passo
tra i più significativi che si conclude con: “La natura non costruisce
macchine, non costruisce locomotive, ferrovie, telegrafi elettrici, filatoi
automatici ecc. Essi sono prodotti dall’industria umana: materiale naturale,
trasformato in organi della volontà umana sulla natura o della sua esplicazione
nella natura. Sono organi del cervello umano creati dalla mano umana: capacità
scientifica oggettivata. Lo sviluppo del capitale fisso mostra fino a quale
grado il sapere sociale generale, knowledge, è diventato forza produttiva
immediata, e quindi le condizioni del processo vitale stesso e della società
sono passati sotto il controllo del general intellect, e rimodellate in
conformità ad esso; fino a quale grado le forze produttive sociali sono
prodotte, non solo nella forma del sapere, ma come organi immediati della
prassi sociale, del processo di vita reale.” (Marx, 1858-59, pp. 400-3).
(66) “Quando si parla
dunque di produzione, si parla sempre di produzione a un determinato stadio
dello sviluppo sociale, si parla della produzione di individui sociali (…) Ma
tutte le epoche della produzione hanno certi caratteri in comune, certe
determinazioni comuni. La produzione in generale è un’astrazione che ha un
senso, in quanto mette in rilievo l’elemento comune, lo fissa e ci risparmia
una ripetizione.” (Marx, 1857, pp. 172-3).
(67) L’intreccio
dialettico fra determinanti naturali e determinanti sociali è illustrato in
concreto nel passo che segue quello che abbiamo citato sopra sulla “base
naturale” del pluslavoro (Marx, 1867, 1, pp. 561-3). Karl Polanyi (1866-1964),
economista ed antropologo americano di origine ungherese, autore dell’opera La
grande trasformazione (1944), ha analizzato l’emergere dell’economia
capitalistica e del mercato autoregolato, e degli effetti distruttivi sull’uomo
e sulla natura di questo processo, determinati dal venir meno del controllo
delle norme tradizionali entro le quali i processi economici erano in
precedenza “incorporati”.
(68) Anche le forze produttive
non materiali (conoscenza scientifica, informatica, ecc.) vanno considerate
nella loro forma concreta, “incorporala” nei rapporti sociali esistenti. In
quest’ambito, non c’è da stupirsi se esse esplicano una funzione di
moltiplicazione delle “forze distruttive” piuttosto che il contrario
(funzionano dunque da “acceleratori di entropia”…). Un esempio clamoroso che
non ha bisogno di commenti: il ruolo giocato dall’aspetto
tecnologico-informatico nella Guerra del Golfo…
(69) L’esigenza di fare
riferimento a un concetto di progresso “differenziato” rispetto a quello
unilineare prevalso nella tradizione positivistica borghese-imperialistica è
affermato da Ernst Bloch (si veda Bloch, 1990).
(70) Anche Marx ed
Engels, benché nutrissero una certa fiducia sulle possibilità della specie
umana e sulla realizzabilità di una nuova fase della civiltà, superiore a
quella che conoscevano, erano tutt’altro che ingenui adoratori del “progresso”
(cfr. Bagarolo, 1989, e anche 1991-a). Di più: “Un ripensamento della storia
del socialismo e del marxismo rivela una problematica insospettata o non
approfondita dalla scolastica del progresso certo e rettilineo e del comunismo
trionfante”: è la problematica che Cortesi definisce del “sospetto sulla
storia”, che considera costantemente la possibilità dell’involuzione e della
catastrofe (si veda il capitolo “Socialismo o barbarie” in Cortesi, 1984).
Tutta la storia del ventesimo secolo, oltre che la minaccia ambientale, rendono
questa problematica particolarmente attuale.
(71) Influenzata
dall’energetica di Ostwald, la corrente “empiriomonista’’ del marxismo russo
(Bogdanov ecc.) accolse precocemente il tema dell’energia (la sua importanza
cruciale come forza produttiva) ma in una chiave più tecnocratica che ecologica
(entropica). Così Bucharin, nel 1921, può mettere l’energia al centro degli
scambi società-natura (Bucharin, 1977a) e nel 1931 citare Vernadskij (Bucharin,
1977-b), ma continuare ad ignorare gli aspetti propriamente ecologici di questa
problematica.
(72) Il libro più volte
citato di Martinez-Alier ricostruisce questi episodi. Storia quanto mai
interessante ed istruttiva, che suscita domande alle quali non è semplice
rispondere. Da una parte infatti, sfila una serie di studiosi, in genere dotati
di titoli accademici di prim’ordine, che hanno richiamato l’attenzione sui
nessi fra processi economici e ambiente: dall’altro, c’è la sordità o il
rifiuto degli economisti ufficiali (e anche di quelli di orientamento
marxista). Significativo che una incomprensione simile a quella che toccò a
Podolinskij con Engels sia capitata anche ad altri due studiosi, Patrick Geddes
(1854-1932) e Frederick Soddy (1877-1956), che per parte loro si erano rivolti
a due altri “padri fondatori” dell’approccio economico tradizionale, e cioè rispettivamente
a Leon Walras (1834-1910), uno dei fondatori della scuola marginalista
dell’equilibrio economico generale, e a John Maynard Keynes (1883-1946),
“riformatore” della politica economica di questa stessa scuola negli anni
Trenta del ventesimo secolo.
Le critiche di Geddes e Soddy all’approccio tradizionale sono quanto mai
perspicue ed acute: ciò non tolse che il clima ideologico e sociale le rendesse
“irrilevanti” (d’altra parte esse sono ignorate ancora adesso nei santuari
dell’economia ufficiale: si veda a questo proposito l’indagine di Carla Ravioli
Il pianeta degli economisti, ecc.).
(73) Alfred Lotka,
formatosi in Europa, compì la sua carriera accademica negli Stati Uniti.
Influenzato da Wilhelm Ostwald (1853-1932), vide nell’energia la chiave di
volta del sistema della natura e dello sviluppo della società umana.
Fondamentale il suo teso del 1975 Elements of Phisical Biology. A Lotka si deve
la distinzione, ormai classica, tra organi endosomatici (propri di tutti i
viventi) e organi esosomatici (gli strumenti che si costruisce la specie
umana), cui corrisponde la distinzione tra usi endosomatici (biologici) e usi
esosomatici (tecnologici) dell’energia (Martinez-Alier 1991, Deléage 1991-h).
(74) Vladimir Ivanovic
Vernadskij è forse lo scienziato russo e sovietico più famoso della prima metà
del ventesimo secolo. Mineralogista e geochimico, erede della tradizione russa
di Dokuchaev (fondatore della pedologia, la scienza del suolo) e in contatto
con i massimi studiosi occidentali, accettò di collaborare col nuovo regime
malgrado le riserve che nutriva verso di esso. Svolse un ruolo fondamentale
nell’organizzare le istituzioni sovietiche di ricerca scientifica. Proprio
negli anni della guerra e della rivoluzione avviò lo studio sulla “materia
vivente” e sul suo ruolo sulla superficie terrestre che sfocia nella
riformulazione della nozione di Biosfera (nello scritto La Géochimie pubblicato
in francese nel 1924, e soprattutto in Biosfera, pubblicato in russo nel 1926,
e tradotto in francese tre anni dopo).
Sulla sua figura si veda
Grinevald, 1990 e Deléage, 1991-b.
(75) Sulla nozione di
ecosistema in Lindeman: “L’ecosistema, per Lindeman, e attraversato da un
flusso di energia di provenienza solare che tramite gli organismi autotrofi, le
piante dotate di clorofilla, trasforma il supporto inorganico in organico, il
biotopo in biocenosi. Le reti trofiche, in questa corale a più voci,
distribuiscono l’energia celeste tra gli organismi eterotrofi, piante parassite
e animali, mentre, a latere, i cosiddetti demolitori riportano gli organismi
all’inorganico, riconvertendo la biocenosi nel biotopo…” (Celli, 1990) Forse
vale la pena di menzionare qui, sotto la rubrica “disavventure dei precursori”,
che il citato articolo di Lindeman era stato in un primo tempo respinto dalla
rivista, in base al giudizio espresso da due affermati limnologici ai quali
esso era stato sottoposto per un parere dal direttore editoriale (Cook 1977).
Esso non ebbe inoltre alcuna eco immediata. Solo negli anni Cinquanta, dopo
l’opera di sistematizzazione dei fratelli Eugene e Howard Odum, Foundamentals
of Ecology (1953), la nuova impostazione (che unifica il campo disciplinare
dell’ecologia, fino a quel momento suddiviso in ambiti diversi dalla diversità
di metodi e approcci concettuali) viene universalmente riconosciuta (Acot,
1989, p. 113).
(76) L’energia assume un
carattere speciale m rapporto alla vita, scrive Vernadskij nel paragrafo
dedicato a “énergie de la matiére vivante et le principe de Carnot”; ciò è
stato intuito dai fondatori della termodinamica, Mayer, Thomson, Helmholtz, ma
solo “uno studioso ucraino morto giovane, S. Podolinskij, ha compreso a pieno
la portata di queste idee e ha cercato di applicarle allo studio dei fenomeni
economici.” (Vernadskij 1924, pp. 334-5).
(77) Douglas Weiner, lo
studioso americano a cui dobbiamo un interessantissimo libro sull’ecologia
sovietica negli anni Venti, così lo presenta: “Il brillante ma ora quasi
dimenticato ecologo del periodo precedente la seconda guerra mondiale, che aprì
l’intero campo dell’energetica ecologica.” (Weiner 1988, p. 71) Laureatosi a
Heidelberg nel 1906, durante la guerra civile Stanchinskij si dedicò a
organizzare l’università di Smolensk e a promuovere gli studi di zoologia.
Divenne nel 1929 direttore scientifico di Askania-Nova, riserva naturalistica
dell’Ucraina meridionale, che cercò di trasformare in un centro di ricerca
teorica e pratica sull’ecologia della steppa e in un centro di protezione
dell’ambiente naturale. Nello stesso periodo ricopriva importanti incarichi accademici
presso l’università di Kharkov, era animatore dell’associazione pansovietica di
protezione della natura e, dal 1931, direttore con l’amico Daniil Nikolaevic
Kashkarov della prima rivista sovietica di ecologia teorica, “Zhurnal ekologii
i biotsenologii” (giornale di ecologia e biocenotica). Egli ricopriva insomma
un ruolo di punta sia in campo teorico sia in campo pratico. Anche per questo,
dopo il 1931 e le direttive di Stalin sulla “bolscevizzazione” delle scienze e
della cultura, Stanchinskij fu tra i primi ad essere preso di mira dagli uomini
di fiducia dell’apparato nel settore biologico, in primo luogo Isai Prezent
(tutore e alleato dell’emergente Trofim Denisovic Lysenko). Attaccato
pretestuosamente, Stanchinskij fu dapprima estromesso dai suoi incarichi
accademici (1933), quindi arrestato. Ricomparve in una posizione del tutto
marginale nel 1938. Morì nel 1942, oscuramente, mentre incombeva l’invasione
nazista. Di grande valore la sua produzione scientifica. Secondo Weiner,
Stanchinskij anticipò il concetto di ecosistema fondato sulle relazioni
trofiche, del quale, per primo, propose una modellizzazione matematica e al
quale ispirò un lavoro di ricerca comparativa sulla produttività biologica di
colture diverse. Inoltre cercò anche di integrare insieme approccio genetico
evoluzionistico e approccio ecologico anche anticipando il lavoro in questo
senso di G.E. Hutchinson e Robert MacArthur negli anni Sessanta (Weiner, 1988,
pp. 80-2 e 285).
(78) Il lavoro di Weiner
smentisce il luogo comune della sordità del comunismo verso i problemi
ambientali e ci restituisce un quadro più articolato e per certi aspetti
sorprendente dell’operato della rivoluzione russa in questo campo. Ad una prima
fase caratterizzata da decisioni positive nel campo della protezione ambientale
e dall’apertura verso una fiorentissima scuola ecologica (fase il cui merito è
interamente ascrivibile alla sensibilità di una parte del gruppo dirigente
comunista, di Lenin e del commissario del popolo all’istruzione Anatolij
Vasilevic Lunacharskij, innanzi tutto), subentrò una svolta drammatica nei
primi anni Trenta, allorché il potere stalinista decise che nulla e nessuno
doveva ostacolare l’industrializzazione a tappe forzate o scalfire le
motivazioni ufficiali di quella politica. Per questo, la prestigiosa scuola di
ecologia – che cominciava a farsi apprezzare fuori dall’Urss con i lavori di
G.F. Gauze, di D.N. Kashkarov, di V. Bukovskij, di L.G. Ramenskij, di V.N.
Sukachev e di altri – doveva essere messa in riga e i recalcitranti stroncati.
(79) Lindeman, in ogni
caso, conosceva il lavoro di Vernadskij, che cita nel suo articolo: “Il punto
di vista trofico-dinamico, adottato in questo scritto, [è] strettamente
imparentato con l’approccio biogeochimico di Vernadsky.” (The Trophic-Dynamic
Aspect of Ecology, in Kormondy, 1965, p. 179). Il lavoro di Vladimir Vernadskij
era conosciuto a Yale (dove insegnava Hutchinson e lavorò Lindeman nel 1941-2)
forse attraverso il figlio, George Vernadsky, che vi insegnava storia russa
(Martinez-Alier, 1991, p. 311-12).
Riferimenti
bibliografici
Avvertenza.
L’indicazione cronologica dei testi è fatta sulla base della data dell’edizione
che è stata consultata. Nel caso di testi stranieri tradotti vengono riportati
anche il titolo e la data dell’edizione originale. Si è fatto eccezione a
questi criteri per le sole opere di Marx e di Engels, per le quali si è
preferito elencarle nell’ordine cronologico di composizione (fanno eccezione
all’eccezione le lettere e le selezioni tematiche: queste ultime sono riportate
sotto il nome del curatore).
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Questo post riproduce un saggio del
1992 comparso originariamente nella rivista “Giano.
Pace ambiente e problemi globali” (n. 10 – aprile 1992).
Esso costituiva l’apertura e
l’introduzione di un confronto a più voci sul tema “marxismo ed ecologia” in
cui intervennero Laura Conti (“L’uomo non è solo forza muscolare”), Giorgio
Nebbia (“L’energia come altro indicatore del valore delle merci”), Gianfranco
Pala (“La cattiva infinità dell’utopia verde”) e Giuseppe Prestipino (“Scienza
e natura nella formazione del valore”).
E’ stato anche tradotto in francese
ed è comparso col titolo Encore sur
marxisme et écologie nella rivista “Quatrième Internationale”, n. 44,
maggio-giugno 1992, pp. 7-31.