|
Karl Marx ✆ Valentinionescu
|
Renato Caputo
L’opera di Karl Marx (1818-1873)
ha avuto un’eccezionale influenza sulla formazione del mondo contemporaneo,
tanto che durante il secolo breve l’accettazione
o meno delle sue teorie ha costituito un vero e proprio discrimine in ambito
non solo politico, ma più in generale culturale. È stato certamente fra i
pensatori più influenti della storia della filosofia, dell’economia, della
sociologia, della storiografia e delle scienze politiche. In alcuni Paesi le
sue opere sono state pubblicamente bruciate e sono tutt’ora vietate, in altri
sono divenute un’ideologia di Stato, al punto d’assurgere al ruolo svolto
precedentemente dalla religione.
Il successo dell’opera marxiana è indissolubilmente legato
ai rapporti di forza fra le classi sociali, a dimostrazione di una tesi
fondamentali della sua Weltanschauung in cui la teoria è
indissolubilmente legata alla prassi: i prodotti del pensiero non possono
essere considerati come se fossero a sé stanti, dotati di una storia autonoma,
ma sono parte integrante dei rapporti sociali che si sono stabiliti nel corso
storico fra gli uomini, profondamente condizionati dagli interessi materiali ed
economici. Il sorgere e la fortuna del pensiero di Marx sono legati, dunque,
indissolubilmente all’emergere e all’acquisire coscienza di sé come classe del
proletariato moderno, ovvero dei lavoratori salariati che per riprodursi sono
costretti a vendere come merce la propria capacità di lavoro.
Marx è nato a Treviri (Trier) nella Germania occidentale nel
1818, assegnata dopo il Congresso di Vienna alla Prussia, in una famiglia
borghese. Siamo in piena Restaurazione anche se forti sono in questa città
universitaria al confine con la Francia le influenze della Rivoluzione
francese. Il padre, un’illuminista laico di origine ebraiche divenuto luterano
per sottrarsi alle discriminazioni, intendeva fargli studiare giurisprudenza a
Bonn. Qui è attratto dalla cultura romantica, con cui entra in contatto
seguendo le lezioni di W. A. Schlegel.
Dopo esser passato all’università di Berlino, Marx è
profondamente influenzato dal fascino della filosofia di Hegel, che aveva
insegnato in questa città fino a 5 anni prima, che conosce grazie alle lezioni
di un suo discepolo decisamente radicale: Eduard Gans. Decide così di passare
agli studi filosofici e si lega agli ambienti dei giovani della sinistra
hegeliana, punto di riferimento intellettuale per l’opposizione progressista
(Vormärz) che preparerà il terreno per la rivoluzione del 1848.
Nel 1841 discute la tesi di laurea: Differenze tra la filosofia di Democrito e
di Epicuro, che testimonia l’interesse del giovane Marx per il materialismo
non deterministico di quest’ultimo e per una visione del mondo
scientifico-filosofica che contrappone a quella mitologico-religiosa allora
dominante.
Marx a causa della repressione dell’opposizione radicale
deve rinunciare come altri esponenti della sinistra hegeliana alla carriera
accademica. Dal 1842 lavora alla Gazzetta
Renana, giornale degli intellettuali radicali e principale organo
dell’opposizione, di cui diviene redattore capo. Chiuso il giornale dalla
censura, Marx si rifugia a Parigi, ove redige la rivista Annali Franco-Tedeschi con Ruge,
Heine ed Engels.
Influenzato dalla critica di Feurbach, il fondatore
dell’ateismo filosofico moderno, alla filosofia speculativa, nel 1843 Marx
lavora alla Critica della filosofia
hegeliana del diritto. Secondo Marx l’errore della posizione idealista di
Hegel consisterebbe nel pretendere di partire dall’idea dello Stato, per
cui la realtà storica e sociale sarebbe, a causa di questo misticismo logico, prodotta da
un’astrazione intellettuale. Al contrario per Marx il pensiero è prodotto dalla
realtà, così lo stesso Stato astratto, ideale, di Hegel si rivelerebbe essere
in realtà una giustificazione ideologica dello Stato reale, prussiano.
Marx rovescia anche il primato sostenuto da Hegel
dello Stato sulla società civile, sfera in cui i rapporti fra
gli individui sono regolati dall’utile e dall’interesse. Nel modo di produzione
capitalista, infatti, lo Stato politico viene subordinato agli interessi
economici della società civile borghese. Tanto più che Marx non intende come
Hegel battersi per un dominio politico dello Stato sulla società civile, ma
intende riassorbire progressivamente le funzioni di dominio, necessariamente
autoritarie, dello Stato nella società civile, realizzando così una democrazia
integrale e diretta [1].
Nel primo scritto degli Annali
Franco-tedeschi, Introduzione alla critica della filosofia hegeliana del
diritto (1844), Marx dimostra di aver fatto propria la critica di
Feurbach alla religione che, però, intende radicalizzare estendendola al piano
sociale. La religione, in effetti, per Marx non può esser considerato il
fondamento, come sostenevano i giovani hegeliani, della limitatezza mondana,
ossia delle contraddizioni storiche e sociali, ma come una loro necessaria
conseguenza. La religione, infatti, è per Marx espressione della miseria reale
degli uomini e al contempo costituisce una forma inconsapevole di protesta
contro di essa. Perciò per superare l’alienazione non basta riconoscere la
divinità come un prodotto della storia umana, ma occorre appagare e risolvere
quei bisogni che, insoddisfatti, rendono necessario il ricorso dell’uomo alla
religione, perciò definita da Marx oppio del popolo. Le masse popolari, per
sfuggire alle tragiche condizioni reali di oppressione e sfruttamento cercavano
rifugio in un mondo artificiale in cui gli ultimi sarebbero divenuti i primi.
Non potendo cogliere in modo razionale, filosofico e scientifico, le
motivazioni reali della propria condizione di oppressione, i subalterni la
considera come un dato di fatto – per altro giustificato religiosamente dal
peccato originale – cercando consolazione nei paradisi artificiali del cristianesimo [2].
Dunque, a parere di Marx l’emancipazione religiosa non può
che essere la conseguenza di una emancipazione politica che però, a sua volta –
come dimostrano gli Stati Uniti in cui si stava affermando la democrazia moderna
sulla base del genocidio degli autoctoni e la schiavitù dei neri – presuppone
necessariamente l’emancipazione socio-economica. Tali temi sono al centro del
secondo scritto pubblicato da Marx negli Annali
Franco-tedeschi: Sulla questione ebraica (1844), recensione
critica a Sulla questione ebraica di
Bruno Bauer, le cui posizioni sono così sintetizzate:
“La forma più rigida
del contrasto tra l'ebreo e il cristiano è il contrasto religioso. Come si
risolve un contrasto? Rendendolo impossibile. Come rendere impossibile un
contrasto religioso? Eliminando la religione. Quando ebreo e cristiano
riconosceranno che le reciproche religioni non sono altro che differenti stadi
di sviluppo dello spirito umano, non sono altro che differenti pelli di
serpente deposte dalla storia, e che l'uomo è il serpente che di esse si era
rivestito, allora non si troveranno più in rapporto religioso, ma ormai
soltanto in un rapporto critico, scientifico, umano”.
Tuttavia per Marx l’emancipazione politica, il superamento
in uno Stato liberal-democratico dell’ancien régime, non costituisce, come si
illudevano Bauer e la sinistra hegeliana, la forma ultima dell’emancipazione
umana, dal momento che l’astratta eguaglianza politica non pone in discussione,
anzi finisce con l’occultare le reali diseguaglianze socio-economiche.
L’emancipazione politica non emancipa l’uomo reale, terreno, bensì l’uomo
astratto, il cittadino di uno Stato in cui l’eguaglianza giuridica e politica
cela la crescente polarizzazione fra le classi sociali.
Tornando alla critica all’idealismo, che considerava
centrali le idee nella storia, Marx al contrario considera le idee espressione
della vita materiale ovvero del differente, dal punto di vista storico e
politico, modo di produzione della vita materiale. Perciò, stimolato dalle
riflessioni che Friedrich Engels pubblicherà in La condizione della classe operaia in Inghilterra – dopo aver
fatto tirocinio nell’industria tessile del padre a Manchester – Marx affianca
agli studi storico-filosofici gli studi economici. Da qui i cosiddetti Manoscritti parigini del 1844
pubblicati postumi in Urss nel 1932 con il titolo di Manoscritti economico-filosofici.
In essi Marx non si limita ad assimilare l’economia politica
elaborata precedentemente dalla borghesia, quando era una classe
rivoluzionaria, ma ne fa una critica, dal momento che anche le più avanzate
teorie economiche consideravano il modo di produzione capitalistica il punto di
arrivo della storia umana. Al contrario per Marx il capitalismo genera il
proletariato, di cui sfrutta la forza lavoro, appropriandosi anche del lavoro
non retribuito.
Nei Manoscritti
parigini Marx analizza in particolare l’alienazione o estraniazione prodotta dal lavoro salariato. Il
concetto di alienazione era centrale nella filosofia di Hegel, anche se
indicava essenzialmente uno stato in cui l’autocoscienza dell’uomo era fuori di
sé e tendeva a perdersi. Dunque Hegel si serviva di tale concetto solo terreno
del pensiero, anche perché secondo la sua concezione idealista del mondo l’uomo
è essenzialmente pensiero, autocoscienza. Tanto più che a Hegel interessa
essenzialmente la comprensione della realtà – come sottolinea prendendo come
metafora della sua concezione della filosofia la nottola di Minerva che si alza
in volo sul fare della sera, ovvero quando il momento dell’azione è terminato –
e non avvertiva la stessa esigenza di Marx per la sua radicale
trasformazione. Del resto Hegel considerava il protagonista dello
sviluppo del reale-razionale lo spirito assoluto, che a parere di Marx era una
nuova forma di auto-alienazione dell’uomo, non distante da quella propria della
visione del mondo religiosa.
Perciò con il concetto di alienazione Feurbach aveva
denunciato il processo per cui l’uomo arricchisce la divinità di attributi che
sottrae a se stesso. Marx sviluppa sul piano socio-economico tale processo di
alienazione indicando l’estraneità fra il lavoratore e il suo lavoro in quanto:
in promo luogo il proletario moderno non dispone del prodotto del suo lavoro,
che è proprietà del capitalista e, accrescendo il suo capitale, diviene un
oggetto estraneo che domina il lavoratore. Dunque come per Feurbach quanti più
attributi l’uomo alienava nella divinità da lui prodotta, tanto più impoveriva
se stesso, così per Marx quanto più il proletariato moderno produce, tanto più
è soggiogato dal prodotto del proprio lavoro.
In secondo luogo, il lavoratore salariato nel lavoro si
aliena, in quanto non si realizza in esso, dal momento che il lavoro è divenuto
solo uno strumento per conseguire il salario che gli consente di riprodursi.
Considerato che l’uomo si distingue dagli animali proprio per la sua libera
attività consapevole e la storia è perciò considerata da Marx storia
dell’autoproduzione dell’uomo grazie al proprio lavoro, con l’alienazione l’essenza
dell’uomo diviene uno strumento, un mezzo per sopravvivere, ossia all’uomo
diviene estranea la sua stessa essenza, mentre gli restano unicamente le
attività proprie della vita animale, come la nutrizione, il riposo, la
riproduzione, ecc. Infine, il lavoro salariato nega l’essenza dell’uomo anche
in quanto animale sociale, perché invece di essere un luogo di incontro e
arricchimento reciproco diviene il teatro della lotta di classe fra il padrone,
che vuole spremere al massimo la forza-lavoro che ha acquistato dal salariato e
quest’ultimo che cercherà di limitare al massimo il proprio sfruttamento.
Per superare questa forma moderna di alienazione occorre, a
parere di Marx, eliminare la proprietà privata dei mezzi di produzione e di
riproduzione della forza lavoro. Solo così, con la realizzazione di una società
in cui saranno proprietà sociale, comune, l’uomo si riapproprierà della propria
essenza di artefice della propria storia [3].
Note