◆ “Sarebbe
del resto assai comodo fare la storia universale, se si accettasse battaglia
soltanto alla condizione di un esito infallibilmente favorevole. D’altra parte,
questa storia sarebbe di una natura assai mistica se le “casualità” non vi
avessero parte alcuna.” — Karl Marx, Lettera
a Ludwig Kugelmann, 17 aprile 1871
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La Comuna de París ✆ Lefman
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Marx e la politica. Sembrerebbe un binomio scontato. È in
effetti impensabile scindere il Marx “scienziato” – declinato in senso “forte”
come snodo di una pratica teorica che ha aperto alla conoscenza
scientifica il “Continente Storia” (Althusser 1977) – dal Marx “politico” (si
pensi solo al dirigente della I Internazionale) e quindi dalla stessa
dimensione politica intesa come “arena” in cui intervenire per mutare lo status
quo. Cos’altro sarebbe la lotta di classe se si limitasse ad una dimensione
meramente socio-economica senza diventare immediatamente politica?
Senza porsi il problema dei poteri e dei rapporti di potere e delle relative
configurazioni storicamente assunte? Senza intervenire nell’incontro/scontro di
forze che ripartiscono continuamente i confini di pubblico e privato? A ben
vedere equivarrebbe a pensare lo sfruttamento in termini meramente
contabili, dimenticando i rapporti di dipendenza in cui si articola,
la dimensione ideologica – mai sopprimibile – che li alimenta, la
necessità di (ri)produrre ed alimentare identità per quanto sempre contingenti
e dunque mai definitivamente date. Che il rapporto di Marx con la politica sia
stato lacunoso è un’ovvietà. Peraltro la natura dell’oggetto ci pare
costitutivamente inesauribile. Di certo pesa, in negativo, una lettura maggioritaria
– per quanto volgare non certo priva di ancoraggi, e successivamente letale per
un marxismo che si volle ortodosso – che ha ridotto la politica a mera
sovrastruttura. Un determinismo economico che nel tentativo di far luce nei
segreti (e mostruosi) laboratori della produzione – allora quasi esclusivamente
materiale –, avrebbe trascurato la dimensione politica, sia in termini
d’interrogazione sulla natura della macchina statale (e dunque sullo
Stato-nazione come luogo principe della politica moderna), sia
relativamente alla centralità delle dinamiche interstatali e le logiche di
dominio che le connotano e in tal senso sull’uso stesso del “mercato” da
parte degli attori statali come ha sottolineato Giovanni Arrighi soffermandosi
sugli errori marxiani (Arrighi 2010).
Da ciò la riduzione della
politica ad istanza derivata e l’interpretazione del deperimento
dello stato – successivo alla “dittatura del proletariato” (altro concetto a
dir poco travisato per quanto ambiguo) – come “fine della politica” in luogo di
una “amministrazione delle cose” che subentrerebbe nella società senza classi.
In altri termini, azzardando un’impossibile sintesi: il comunismo come fine della
storia – paradossalmente echeggiante le tesi di Fukuyama sulla fine della
storia in seguito alla caduta dell’Urss… ( Fukuyama 1992) – e riconciliazione umana che
poggia su un’antropologia “simbiotico-fusionale” più vicina al materialismo di
Feuerbach che allo stesso Hegel (Finelli 2004).
Ad ogni modo è davvero tutto qui il pensiero politico
marxiano, anzi marxengelsiano, se non vogliamo ridurre lo stesso Engels ad un
semplice “cattivo” divulgatore/traduttore di Marx, come vorrebbe un nuovo senso
comune? Se ne può dubitare. La riedizione degli scritti di Marx ed Engels sulla
Comune parigina (Inventare l’ignoto. Testi e corrispondenze sulla Comune di
Parigi, Edizioni Alegre, Roma, 2011) – dalla Guerra civile in Francia ai
primi due indirizzi dell’Associazione internazionale dei lavoratori sulla
guerra franco-prussiana, sino alla principale corrispondenza sulla Comune (pp.
93-254) – ne è una conferma. Il lungo saggio introduttivo di Daniel Bensaïd,
significativamente intitolato Politiche di Marx (pp. 15-92), è un
tentativo di recuperare un Marx che sembrerebbe “minore”, se non sconosciuto a
troppi lettori. La vulgata economicistica sfuma gradualmente, sino a mettere in
luce – in quel che Bensaïd, in un campo d’osservazione più vasto, chiama
“trilogia” riferendosi alle principali opere politiche marxiane (Le lotte di classe in Francia dal 1848
al 1850, Il 18 di Brumaio di Luigi Bonaparte e La guerra civile
in Francia) – “l’altra faccia della critica marxiana della modernità” (p. 15).
In questi scritti “l’azione politica non è mai ridotta alla piatta traduzione
di una logica storica o al compimento di un destino già segnato” (p.16).
L’analista delle singole congiunture e – aggiungiamo – il “soggetto” che interviene nella
specifica congiuntura, convivono inestricabilmente. Così come ogni rivoluzione
ha un sua “provocazione”, “ingiustizia” e livello di aleatorietà che ne accende
la miccia – nel caso della Comune il tentativo di disarmare la popolazione di
Belleville nel marzo 1871 – senza la possibilità di prevederla ex ante. Le
rotture rivoluzionarie sono oltre e contro il tempo
ordinario e la lotta politica ha ritmi specifici irriducibili, dunque “non
necessariamente sincronizzati su quelli dell’economia” (p. 17). Politica che
Bensaïd declina in termini di “arte della mediazione” tra diverse istanze – e
non espressione e/o determinazione univoca di una sfera su un’altra – ma anche
“arte del controtempo e del momento propizio”, di modo che “le rivoluzioni sono
raramente in orario. Non conoscono il just in time. Sono dilaniate tra il
‘non più’ e il ‘non ancora’, tra ciò che viene troppo presto e ciò che viene
troppo tardi” (pp. 17-18). In questi décalages si giocano gli esiti
di un rivolgimento, le conquiste come le tragedie. Ciò implica che non c’è mai
un tempo pieno della rivoluzione, ma, al contrario, come dirà Marx
nelle Lotte di classe in Francia,
la necessità di pensare “la rivoluzione in permanenza”, espressione enigmatica
in cui – come dice bene Bensaïd – si annodano “problematicamente atto e
processo, l’istante e la durata, l’avvenimento e la storia” (pp. 21-22). Per
questo, attualizzando la lezione della Comune, non c’è spazio per
riproporre una concezione della storia come processo lineare, teleologico, o,
peggio ancora, fatalistico. L’“ultimo” Althusser, da una prospettiva
chiaramente diversa e sviluppando alcuni elementi teorici già accennati nelle
opere maggiori degli anni ’60, evidenzierà la presenza in Marx di una
concezione teleologica del tempo storico contrapposta ad una aleatoria in
merito alla formazione del modo di produzione capitalistico (Althusser 2006).
Ma è lo stesso “materialismo storico” (terminologia in realtà mai utilizzata da
Marx, che parlerà di “materialismo comunista” o “pratico”) a non configurarsi
come “un passe-partout per la comprensione della storia”, bensì, in
primis, come “una modalità pratica d’intervento nella [corsivo mio]
storia” (Tomba 2010). Pertanto Bensaïd, sulla scia di Guy Debord, intravede
nella plurale eredità marxiana una contiguità con il “pensiero strategico” a
cui si correla una “temporalità storica aperta” (p. 89). Torna,
prepotentemente, la centralità del presente non più determinato in via
esclusiva dal passato, né momento di un destino nell’atto di
compiersi. Detto altrimenti torna il tempo “dell’azione e della decisone”
(politica), anche se ciò non significa di per sé – come sembra ritenere Bensaïd
– una priorità della politica sulla storia. Semmai a mutare è il quadro percettivo
di tale rapporto, sino alla possibilità di vedervi una simbiosi nei frangenti
in cui la storia si manifesta come campo di battaglia in cui si
misurano le forze contrapposte.
Alla specificità temprale della dimensione politica
corrisponde anche un mutamento spaziale. Basterebbe ricordare l’incipit del Manifesto del Partito Comunista –
“uno spettro si aggira per l’Europa, lo spettro del comunismo” – per
evidenziarne la discontinuità. È sul fronte europeo che si giocherà una guerra
civile rispetto alla quale “i territori nazionali sono i campi di battaglia
instabili e parziali” (p. 24) e Marx non fa altro che ribadirlo – memore degli
insegnamenti del 1793 e del 1848 – nelle Lotte di classe in Francia quando afferma che “la nuova
rivoluzione francese è costretta ad abbandonare prestissimo il suolo nazionale
e di conquistare il terreno europeo, il solo nel quale si può compiere la
rivoluzione sociale del XIX secolo”. Negli scritti politici marxengelsiani le
dinamiche interstatali non sono taciute ed anzi s’intravede una riflessione
strategica, sino ad una critica della produzione delle “frontiere naturali”
come invenzione funzionale agli stati maggiori (Engels 1952). In questo ambito prendere
parte per un interesse nazionale è dettato esclusivamente da finalità
“progressiste” e difensive. Nella guerra franco-prussiana la posizione marxiana
è netta: nel momento in cui le truppe di Bismarck intendono annettere l’Alsazia
e la Lorena e muovere verso Parigi, “tanto il dovere quanto l’interesse del
popolo tedesco consiste nell’accordare una pace onorevole alla Repubblica
francese” – dirà Marx nella Lettera al
comitato di Brunswick, inviata ad Engels il 2 settembre 1870. Peraltro la
tragedia dei nazionalismi e il bagno di sangue che connoterà il “secolo breve”
sono già intravisti nella medesima lettera: “una guerra tra Germania e Russia
dovrà necessariamente nascere dalla guerra del 1870 […] tranne nel caso poco
probabile che una rivoluzione scoppi prima in Russia”. La rivoluzione accennata
del 1905 – ricorda Bensaïd – non la impedirà e l’Ottobre sarà il risultato
delle macerie della “Grande Guerra”, sino a sfociare in quella che Enzo
Traverso ha definito la trentennale “guerra civile europea” (Traverso 2007).
Engels rincarerà ulteriormente la dose nell’introduzione del 1891 a La
Guerra civile in Francia quando preannuncia “una guerra di cui nulla è
certo eccetto l’assoluta incertezza del suo esito; di una guerra di razze [corsivo
mio], che sottoporrà l’Europa intera alla devastazione da parte di 15 o 20
milioni di uomini armati (p. 167).
Non è possibile discutere il pensiero politico marxiano
post-quaranttotesco senza rapportarlo all’“ascesa, declino e caduta del Secondo
Impero” (p. 31). Il bonapartismo diventa un esempio paradigmatico per ritornare
sulla questione dello Stato e del rapporto con la “società civile”. In questi
termini ciò che viene osservato e sottoposto a critica radicale è la
progressiva burocratizzazione dello Stato, ormai tramutatosi in “escrescenza
parassitaria” innestata sulla società civile, come ribadirà nella Guerra
civile in Francia. Riemerge quella critica al corporativismo burocratico – su
cui insiste Bensaïd, non nascondendo la propria matrice trotzkista, tutt’altro
che dogmatica –, già in parte presente nei testi giovanili e ripresa
recentemente da un versante non marxista, in particolare si pensi alle tesi di
Miguel Abensour che, a partire dalla Critica
del diritto statuale hegeliano, ha tentato di rinvenire in Marx un “momento
machiavelliano”, una riformulazione del politico, del suo carattere “autonomo”,
che agisce sottotraccia e riemerge negli scritti politici successivi (Abensour
2008). La Comune è delineata – ad un tempo – come “forma positiva della
Repubblica sociale” (p. 135) e, con toni libertari, “rivoluzione contro lo
Stato, questo aborto soprannaturale della società”. In questi termini il
bonapartismo – che si è manifestato come una sorta di “monarchia elettiva” per
poi diventare una “semi-dittatura” in cui si condensa “la forma normale” della
dominazione borghese, di cui il “bismarckismo” costituisce la variante tedesca
– sembra essere letto come “forma tendenziale dello Stato di eccezione nello
Stato moderno” (p. 37), anzi come “la sola forma possibile di governo in
un’epoca in cui la borghesia aveva già perduto – e la classe operaia non aveva
ancora guadagnato – la facoltà di governare” (p. 134). Tuttavia a cosa
corrisponde quell’essere “contro lo Stato”? In quelle formidabili sei
settimane la libertà comunale lo aveva davvero “abolito” come scrive il Moro?
Sembra sfumare la polemica contro l’anarchismo, sull’impossibilità di abolire
lo Stato e il lavoro salariato per decreto. In realtà “abolizione” rimanda ad
“estinzione” o “deperimento”, alla naturaprocessuale di una trasformazione immanente non
decretabile dall’esterno. Le misure politico-giuridiche che connotarono la
Comune – disegnate nel fuoco della battaglia, “con il nemico
straniero alla porta e quello di classe all’altra” – sono paradigmatiche più
per le indicazioni di rotta fornite che per le forme attuate:
dall’elezione a suffragio universale (con l’esclusione delle donne. E non è
certo un’esclusione minore…) dei consiglieri municipali, alla loro revocabilità
legandoli altresì a mandati imperativi, sino alla corresponsione di un salario
da operaio qualificato per i rappresentanti. Ciò tuttavia non implica il venir
meno di “funzioni centrali”, quanto l’essere “passate nelle mani della Comune”,
dato che non possono (o non dovrebbero) più elevarsi al di sopra della società civile
come nel vecchio apparato di governo. Continueranno ad esistere sotto il
controllo popolare (pp. 135-139). Quest’ultimo, tuttavia, non è mai omogeneo e
– potremmo aggiungere – su di esso insistono differenze non
riducibili ad un concetto sociologico di classe, peraltro assai riduttivo e non
propriamente marxiano (tanto più se pensiamo al proletariato che è tale nel
momento in cui diventa classe per sé). Differenze di genere,
culturali, religiose, etniche, generazionali, che s’intrecciano con la divisione
in classi e che non si lasciano scomporre e ricomporre in forme definitive. Il
Novecento ne ha testimoniato la rilevanza e l’ineludibilità. Pertanto, se il
pensiero di Marx sullo Stato – ma anche sulla modalità di organizzazione
propriamente politica della lotta di classe – è lacunoso, pur
lasciando presagire la possibilità di farla finita con “tutto il
ciarpame statale” quando ve ne saranno le condizioni – successivamente alla
presa del potere del proletariato –, non ci troviamo di fronte all’affermazione
univoca di una presunta fine della politica, né ad una suo assorbimento da
parte di un’indistinta sfera “sociale”. La Comune, con tutti i suoli limiti ed
errori – tra cui, ricorda Marx, non aver intaccato le riserve della Banca di
Francia – è e diventa “il movimento reale che distrugge lo
stato di cose esistenti”, connotato dal deperimento dello stato e della
divisione in classi, almeno così come si configurano nella società
capitalistica. “La grande misura sociale della Comune è stata la sua stessa
esistenza” (p. 145) in quanto processo di emancipazione del lavoro dalla costrizione
del lavoro salariato, dalle asimmetrie che strutturalmente impongono lo scambio
di quest’ultimo contro il capitale, in vista di una riconversione del
lavoro come attività socializzata (ma non anti individuale) utile ai bisogni
della società. In tal senso l’esperienza comunarda si è sforzata di “fare della proprietà
individuale [corsivo mio] una realtà trasformando i mezzi di produzione in
[…] semplici strumenti di un lavoro libero e associato” (p. 140) sulla cui base
– ricorda Bensaïd richiamando l’opposizione proprietà individuale/proprietà
privata presente anche nel I libro del Capitale – “diventa possibile
regolare la produzione cooperativa secondo un piano nazionale” (p. 43). L’intreccio tra
forma politica, in cui la Comune è vista come “associazione volontaria di tutte
le iniziative locali” e “una delegazione centrale di comuni federati” e
cooperativismo debitamente coordinato relativamente alla dimensione
socio-economica è dunque strettissimo. L’autoritarismo statale più volte
imputato a Marx, per non parlare dei marxismi più o meno ortodossi, in queste
pagine sembra svanire. Bensaïd si spinge oltre intravedendovi “una dinamica espansiva [corsivo
mio] dell’associazione che si potrebbe chiamare oggi, nel gergo
dell’eurolingua, una “sussidiarietà ascendente o democratica” (p. 45), ma è lo
stesso Marx a sottolineare “che essa ha costituito una forma politica
completamente espansiva [corsivo mio], mentre tutte le precedenti
forme di governo sono state decisamente repressive” (p. 139). Certo, guardando in
avantipermane più di un problema nella configurazione del “modello” politico
comunardo. Tra questi l’improponibilità di mandati imperativi che
rischierebbero di bloccare qualsiasi deliberazione democratica e veder sfumare
qualsiasi “interesse generale”, per quanto non possa che assumere, di volta in
volta, una configurazione mobile ed eccedente, così come la
mancata separazione dei poteri che intravedeva nella Comune un corpo, ad un
tempo, esecutivo e legislativo, rimanda ad una concezione dell’estinzione dello
Stato troppo contigua ad un’eclissi della politica da cui lo stesso Lenin non
sarà immune. Nicolao Merker, recentemente, ha intravisto nella valutazione
marxiana della Comune un vuoto d’analisi ed una contraddizione
rispetto alle posizioni marxiane precedenti (in sostanza l’assenza di un
proletariato maggioritario in termini numerici e politicamente “maturo” che
avrebbe reso impossibile qualsiasi rivolgimento politico) su cui si sono
innestate strumentalizzazioni che hanno pesato negativamente sull’eredità del
Marx “politico”. In generale l’antiparlamentarismo, non solo leniniano, ma
esteso al primo Gramsci sino a Rosa Luxemburg, non avrebbe permesso, né di
arginare efficacemente i fascismi, né di vedere la centralità dello “Stato di
diritto” riducendolo “ad arma ipocrita del dominio di classe” (Merker 2010). Si
tratta, evidentemente, di un problema reale ed irrisolto. Tuttavia si può
suggerire che non si tratta di assumere ed ipostatizzare ex post una
forma giuridica, neutralizzandone parzialità e storicità, bensì di un problema
che interroga i limiti del potere, di ogni potere politico, ancorché
rivoluzionario, quando pensa di saturare ogni spazio non contemplando altre
possibilità. È il problema del “partito rivoluzionario” che si è fatto
Stato e che in questo modo, oltre a svuotare una serie di diritti
imprescindibili (libertà d’espressione, di associazione, ecc.), ha bloccato, di
fatto, ogni trasformazione rivoluzionaria. Non ha riconosciuto il carattere contingente e singolare della
sua azione, dimenticando che “l’unità delle classi sfruttate, in
quanto esito delle lotte, non è mai compiuta” (Raimondi 2011). Diversamente
detto è il problema di un “potere costituente”, delle forme che si dà
in “una dinamica democratica e […] espansiva” (p. 80). Da un’altra prospettiva
Fabio Frosini, rileggendo i testi marxiani dalle Lotte di classe in Francia al 18 Brumaio di Luigi
Bonaparte ed assumendo un’identità tra storia e politica, pone l’accento
sulla centralità degli interventi politici marxiani (a discapito dell’eredità
più propriamente “scientifica”) e sottolinea “la peculiare ‘collocazione’ della
politica comunista” nei termini di “rappresentare l’irrapresentabile”, cioè del
proletariato non come dato sociologico specifico, bensì “dissoluzione
della società nella figura di un ceto particolare”. Pertanto “compito dei
comunisti” non è costituire un partito come gli altri – riducendo il
proletariato a “parte” (equivalente ad altre) di un sistema dato –, ma
“re-istituire sempre di nuovo nella storia l’identità di storia e politica,
cioè la storia come campo di lotte” e di farlo senza inventare nulla, ma
rendendo conto dell’antagonismo in tutte le sue forme e manifestazioni”. Il
proletariato “è insorgenza”, ma ancor prima è “assenza di potere; e dunque è resistenza”
[…], ostacolo alla totalizzazione del potere, alla sua chiusura” (Frosini
2009). Il richiamo à la mésentente rancieriana (Rancière 2007a) è
evidente ed è interessante il confronto che Bensaïd instaura con la concezione
radicalmente egualitaria della democrazia ipotizzata da Jacques
Rancière (Rancière 2007b). L’assenza di fondamenti, la qualificazione anarchica
che la connota – il potere di tutti e di chiunque –, l’irriducibilità a “stato
democratico”, delineano una critica “forte” della rappresentanza. Ma se la
democrazia eccedesempre la rappresentanza (Girometti 2012), se ne può semplicemente fare
a meno? Vi sono alternative realisticamente praticabili che non sfuggano
all’utopia di un assemblearismo permanente o alla reintroduzione (esclusiva)
del sorteggio? E quest’ultimo, a ben vedere, non sarebbe un modo per decretare
la fine della politica come progettualità e conflitto? Come può una società
costitutivamente plurale fare a meno di rappresentarsi? Come
potrebbe efficacemente insorgere una “parte” non conteggiata senza darsi una
qualche organizzazione (aspetto che Rancière volutamente non tematizza, ma
nemmeno riduce all’opposizione semplice spontaneismo/organizzazione)?
Bensaïd, richiamando criticamente Il manifesto per la soppressione dei partiti
politici di Simone Weil – e lo slittamento dalla politica alla
teologia ivi impresso – s’interroga: non occorrerà, ad esempio, ripensare la
“forma-partito” piuttosto che ridurla ad una determinata configurazione? Si
tratta sicuramente di un campo inesplorato, non disgiungibile dal piano del
conflitto sociale, le cui forme non sono prefigurabili ex ante ed
ancor meno ricalcabili sull’esistente. In tal senso lo “scandalo democratico”
di cui parla Rancière non è affatto scartato da Bensaïd: la democrazia per
“andare sempre più lontano deve trasgredire le sue forme istituite, mettere a
soqquadro l’orizzonte dell’universale, mettere l’uguaglianza alla prova della
libertà” (Bensaïd 2010). Ammesso che eguaglianza e libertà non siano solo
feticci borghesi… È sulla politica come rappresentazione complessa costellata
da continui rivolgimenti – di scena e di trama – e non (solo) eccezione
evenemenziale che si apre il campo di una problematica da
elaborare e sperimentare nella singola congiuntura.
Un’altra questione delicata è rappresentata dal concetto di
dittatura del proletariato (contrapposta da Marx alla violenza sfrenata della
borghesia ed irriducibile ad un governo arbitrario non normato) o governo
operaio. Strana dittatura questo governo “finalmente scoperto” della classe
operaia in cui si combinano suffragio universale e pluralismo politico – pur
non trattandosi di partiti come li intenderemmo oggi, ma più propriamente di
différentes tendances come ricordava Henri Lefebvre (Lefebvre 1965) –, processo
di sburocratizzazione e smilitarizzazione, promozione della partecipazione
politica e di alleanze come quella tra operai e contadini (su cui Marx si
sofferma a lungo) – che oggi definiremmo in termini di “democrazia
partecipativa reale” – e misure di giustizia sociale. Se dovessimo trarne delle
conseguenze per l’oggi diremmo che la costruzione di un tale governo
non è meramenteriflessiva, ma – come ricorda Bensaïd – è un’operazione di
continua “traduzione e trasposizione tra rapporti sociali e loro espressioni
politiche” (p. 53). Nella Comune la classe operaia ha aggregato attorno a sé la
piccola e la media borghesia, così come la grande massa della guardia
nazionale. Per dar forza a questa alleanza ha preso misure in favore dei
debitori ed in questo modo la Comune è diventata “la vera rappresentazione di
tutti gli elementi sani della società francese, e perciò il vero governo
nazionale, […] e allo stesso tempo, in quanto governo operaio, campione audace
dell’emancipazione del lavoro” (p. 144). Si configura come “un particolare
universale”, suggerisce Bensaïd, la cui potenzialità vittoriosa non scompare
con la sconfitta patita ed interroga (o avrebbe dovuto interrogare) i
successivi tentativi rivoluzionari. In particolare nel riproporre il suo
carattere di classe una politica di emancipazione non poteva essere vincolata
solo ad una parte. Se la prospettiva socialista non è prerogativa di un’unica
classe – designando un’altra formazione sociale – deve diventare
maggioritaria. Le stesse critiche, osteggiate da Lenin, all’“esperimento
sovietico” incentrate sul carattere non puramente operaio degli
organi di governo, pur vedendo le derive burocratiche e la centralità dei
rapporti di produzione da mutare (e non la sola natura proprietaria dei mezzi
di produzione), sembrano rimanere prigioniere di un carattere corporativistico.
Non pare esserci spazio per la formazione (non rigida) di un “interesse
generale”, e la stessa critica leniniana che riconosce tali limiti accetta, di
fatto, l’idea di un deperimento dello Stato in termini di “gestione” – che poi
è la stessa idea rovesciata di uno Stato super partes che
gestisce e compone gli interessi mediati dal mercato nell’orizzonte liberale,
dove non ha cittadinanza un eventuale rivolgimento sociale, di natura
collettiva, che superi la mediazione mercantile – e dunque di “amministrazione
delle cose”. La politica sembra esaurirsi in una semplice tecnologia di
gestione del sociale abolendoun spazio, necessariamente plurale, in cui
far emergere delle scelte. A ciò si correla la stessa ammirazione leniniana per
il taylorismo come modello d’impresa “neutrale”, rispetto al quale la divisione
del lavoro rimane non problematizzata. Guardandola a ritroso – suggerisce
Bensaïd – la posizione luxemburghiana sulla critica dello Stato come semplice strumento
di una classe diventa ancora più pregnante. Tanto più se al “dominio
proletario” si è associata la soppressione di quegli elementi democratici come
libertà d’espressione, di stampa, di riunione, ancorapiù essenziali per
costruire una nuova società – costruzione sempre da
riprendere ed il cui esito è tutt’altro che scontato – ed invece ritenuti, a
torto, una sovrastruttura borghese. Si tratta tuttavia di riconoscere le
trasformazioni dello Stato, oltre la stessa critica delle burocrazie,
classificato da Foucault come “una maniera di governare” – che un certo
“foucaultismo volgare” vorrebbe ormai disciolto “nelle reti di potere della
società liquida, dimostrando che non sarebbe più necessario prendere il potere
per cambiare il mondo” (p. 73) –, sino a vederne, suggeriamo, le implicazioni
nell’intreccio complesso tra apparati ideologici e repressivi con il modo
di produzione capitalistico, e ancor prima di accumulazione, rilevandone – per
riprendere le tesi di Giovanni Arrighi – le mutazioni ed i poli egemonici che
storicamente hanno unito e uniscono gerarchicamente il sistema-mondo (Arrighi
1996). Su queste basi si tratta di smontare e spezzare quella “simbiosi mutualistica” tra “potere
politico-territoriale” (quello dello Stato-nazione. Dove gli stati non sono
tutti sullo stesso piano) e “potere economico” (capitalistico) in cui i
processi di finanziarizzazione dell’economia, ovvero “la natura del
capitalismo” (Arrighi 1999), sono tutt’altro che senza patriainnescando
“la concorrenza tra stati nei periodi di transizione egemonica” (Turchetto
2008). Compito smisurato, a cui può rispondere, di volta in volta, solo
una varietà di “soggetti collettivi”, o meglio di agenti collettivi e plurali,
capaci di organizzarsi su scala locale e globale.
La Comune fu proprio il tentativo di arginare la dismisura in
atto: “il grande e supremo tentativo da parte della città di ergersi a misura e
norma della realtà umana” – sostiene Henri Lefebvre – rispetto
“all’artificiosità del denaro e del capitale” che prendeva il sopravvento
(Lefebvre 1965). E allo stesso tempo – ricorda Bensaïd citando i situazionisti
– fu “l’unica realizzazione di un urbanesimo rivoluzionario combattendo sul
terreno dei segni pietrificati dell’organizzazione dominante della vita”; o
ancora un “momento orizzontale” (Ross 1988) simbolicamente visibile nella
caduta della colonna Vendôme, e dunque nell’occupazione di un “territorio
ostile” in uno scenario in cui la città diventa “un teatro strategico” e la
posta in gioco è “la capitale di un territorio” (pp. 76-77). Non è certo
casuale – rincara Bensaïd – se “per tutto il XX secolo, i piani di sviluppo
urbano non hanno smesso di scongiurare gli spettri della Comune, del Fronte
popolare, della Liberazione o del Maggio ’68, privando la capitale delle sue
energie popolari a vantaggio dell’edificazione monumentale e dell’esposizione
fieristica della merce trionfante” (p. 78). Infine la Comune fu anche un
esempio del nodo irrisolto tra “legalità e legittimità”. Sintetizzato nella
contrapposizione tra il comitato centrale della Guardia nazionale – che di
fatto si innalzava a nuovo potere decidendo di togliere l’assedio e organizzare
nuove elezioni – e sindaci e vice sindaci legalmente eletti, con tutte le
difficoltà che contraddistinguevano un potere in via di scioglimento ed uno ancora
non pienamente tale anche a causa della disomogeneità e dei contrasti in seno a
quest’ultimo. Riassumendo: “la Comune è un evento politico complesso in cui si
articolano e si intrecciano tempi e spazi discordanti, e altrettanti motivi
politici strettamente mescolati” (p. 80). Un’esperienzaeccedente, non
archiviata. Forse è anche per questo che la repressione fu brutale.
Terrificante. Friedrich Engels nell’introduzione all’edizione del 1891 della Guerra
civile in Francia ricorda così quegli ultimi giorni del maggio 1871:
soltanto dopo una
lotta di otto giorni gli ultimi difensori della Comune caddero sulle alture di
Belleville e Ménilmontant; e l’eccidio di uomini inermi, delle donne, dei
fanciulli, che infuriò con rabbia crescente per tutta la settimana, raggiunse
qui il suo punto più alto. Il fucile a ripetizione non uccideva abbastanza
rapidamente; i vinti vennero trucidati collettivamente a centinaia dalle
mitragliatrici. Il “Muro dei federati” nel cimitero di Père Lachaise, dove fu
consumato l’ultimo eccidio in massa, rimane ancor oggi come un muto ma
eloquente documento della furibonda follia di cui è capace la classe dominante,
non appena il proletariato osa farsi innanzi per far valere i suoi diritti
(p. 175).
È una storia nota, soprattutto per chi non smette, se non d’inventare, almeno di ricercare l’ignoto.