◆ Después de muchos años de investigación, al margen de la industria
cultural y en plena hegemonía neoliberal, la editorial Carocci ha publicado en
tres volúmenes la obra ‘Storia del Marxismo’, de la cual fue encargado Stefano Petrucciani,
quien escribió la introducción, un
extracto de la cual les ofrecemos
L’impatto che Karl Marx ha avuto sulla storia del XIX
e del XX secolo è stato così forte da non poter essere paragonato
a quello di nessun altro pensatore. Solo i fondatori delle grandi
religioni hanno lasciato alla storia del mondo una eredità più grande,
influente e persistente di quella che si deve al pensatore di Treviri. Ma
per capire che tipo di influenza ha avuto la figura di Marx sulla storia del
suo tempo e di quello successivo, bisogna mettere a fuoco un aspetto
che concorre con altri a determinarne la singolarità: l’attività di Marx
si è caratterizzata per il fatto che Marx è stato al tempo stesso un
pensatore e un organizzatore/leader politico, e di statura straordinaria
in entrambi i campi. Notevolissima è stata la ricaduta che le sue
teorie hanno avuto sul pensiero sociale, filosofico e storico, ma ancor
più grande, anche se non immediato, è stato l’impatto che la sua attività
di dirigente politico (dalla stesura del
Manifesto
del Partito Comunista alla fondazione della Prima Internazionale) ha
lasciato alla storia successiva.
Certo, una duplice dimensione di questo tipo non appartiene
solo a Marx: la si può anche ritrovare in grandi leader che furono suoi antagonisti,
da Proudhon a Mazzini a Bakunin. Ma in Marx entrambe le dimensioni,
quella della costruzione teorica e quella della visione politica,
attingono una potenza che manca a questi suoi pur importanti antagonisti.
Sul piano della organizzazione politica dall’attività di Marx sono infatti
derivati, nel tempo e attraverso complesse mediazioni, i partiti
socialdemocratici e poi quelli comunisti che hanno inciso così largamente
nella storia del Novecento. Sul piano teorico, invece, Marx ha influenzato, e continua
a segnare ancora oggi, una parte non trascurabile della cultura che dopo
di lui si è sviluppata.
Un aspetto di questa duplice eredità di Marx è stato
proprio quello che si suole definire «marxismo». Anche la realtà politico-culturale
che si designa con questo termine è stata qualcosa di assai singolare
perché ha avuto una duplice natura: da un lato è stata una corrente
culturale presente in modo più o meno intenso nei vari ambiti
disciplinari, dall’altro è stata anche il riferimento «statutario» di
partiti e organizzazioni politiche (socialiste o comuniste): cosicché
le discussioni sul marxismo per un verso si sono dipanate come un libero
dibattito culturale, per altro verso sono state un elemento della lotta politica
tra frazioni e gruppi all’interno del movimento operaio e dei suoi
partiti.
Ma che rapporto c’è tra il pensiero Marx e il
«marxismo»? Un primo aspetto che deve essere messo a fuoco, se si vuole
ragionare su questo punto, è che la conoscenza e la diffusione dell’opera
di Marx è stata, durante la sua vita e nel tempo immediatamente
successivo, decisamente molto limitata. Anzi si potrebbe dire che, su questo
tema, viene alla luce una sorta di contraddizione. Colui che è divenuto la
fonte ispiratrice di un «ismo», e cioè di qualcosa che comporta
inevitabilmente una certa dogmatizzazione, aveva con la propria opera un
rapporto decisamente molto critico e problematico.
Molti dei suoi scritti, Marx li lasciò semplicemente
inediti, per la gioia di coloro che li scoprirono o li pubblicarono
quaranta o cinquant’anni dopo la sua morte. E agli inediti
appartengono, questo può essere interessante da ricordare, la gran parte dei
testi sui quali si è affaticato il dibattito marxista a partire dagli
anni Venti del Novecento: vivente, Marx non pubblicò né la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico (scritta nel
1843, a 25 anni), né i cosiddetti Manoscritti economico-filosofici
del 1844.
Non solo, abbandonò in soffitta, alla critica distruttiva
dei topi, (seppure dopo alcuni tentativi di pubblicazione non andati
a buon fine) anche quello che era un vero e proprio libro scritto con
la collaborazione dell’amico Engels, L’ideologia tedesca; un testo non certo
trascurabile, dato che vi si trova la prima e la più ampia delineazione di
quella «concezione materialistica della storia» che costituisce uno degli
apporti più significativi di Marx alla vicenda del pensiero moderno. Di una
enorme quantità di manoscritti concernenti la critica dell’economia politica
Marx pubblicò pochissimo; in sostanza, solo il primo libro del Capitale (1867,
e successive edizioni rimaneggiate) e quella anticipazione delle
prime parti di esso che è Per la critica dell’economia politica (1859).
I Lineamenti fondamentali della
critica dell’economia politica (noti anche come Grundrisse), così importanti per la discussione marxista degli
ultimi decenni del Novecento, furono conosciuti in pratica solo dopo l’edizione
che uscì in Germania orientale nel 1953.
Come Engels giustamente osservava commemorando l’amico,
però, non si può parlare di Marx tralasciando l’altro aspetto della sua
personalità, quello di militante e dirigente politico. «Lo scienziato non
era neppure la metà di Marx. Per lui la scienza era una forza motrice della
storia, una forza rivoluzionaria. Perché Marx era prima di tutto un
rivoluzionario. La lotta era il suo elemento. E ha combattuto con una
passione, con una tenacia e con un successo come pochi hanno combattuto».
In tutta la sua vita, anche se con alcune interruzioni, Marx
è stato un militante e un dirigente politico ma soprattutto, come
scriveva Engels, un combattente, che ha lottato per affermare i suoi punti
di vista sia verso l’esterno sia all’interno delle organizzazioni di cui era
parte. Come politico, dunque, Marx ha sviluppato una ben precisa visione della
lotta e della emancipazione della classe operaia, che contrastava
nettamente con quelle che venivano proposte dai molti leader con i quali
egli si confrontò in quarant’anni di lotta politica: da Proudhon a Lassalle,
da Mazzini a Bakunin.
La più netta delle opzioni politiche di Marx è la tesi
secondo la quale non vi è salvezza attraverso il miglioramento del sistema
sociale dato, ma solo attraverso il suo rovesciamento, cioè attraverso la
negazione dei pilastri su cui si basa la sua economia, la proprietà privata
delle risorse produttive e la mercificazione dei beni e del lavoro.
Sull’opzione antiriformista e rivoluzionaria Marx non avrà mai dubbi,
e questo lo divide sia da altri socialisti del suo tempo, sia da quelli
che, pur partendo dalle sue acquisizioni, le curveranno in una direzione
gradualista o migliorista.
Al testamento spirituale di Marx appartengono organicamente
le polemiche che, negli ultimi anni della sua vita, egli indirizza contro l’ala
moderata della socialdemocrazia tedesca (vedi ad esempio l’importante lettera
ai leader Bebel, Liebknecht e altri, inviata da Londra nel settembre del
1879), il grande partito che, fortemente influenzato dalla sua dottrina, si
avviava però, in alcune sue componenti, a darne una lettura riformista o
«revisionista».
Ma torniamo al processo di formazione del «marxismo»: gli
storici ci informano che l’aggettivo «marxista» viene dapprima utilizzato con
un significato dispregiativo: all’interno della Prima Internazionale (fondata
nel 1864) i nemici della corrente che fa capo a Marx, e primi
fra tutti i seguaci di Bakunin, indicano come «marxidi», «marxiani»
(termine modellato forse su quello di «mazziniani») e più tardi come
«marxisti» coloro che si rifanno alle tesi del pensatore di Treviri.
I «marxisti» sono visti dai loro nemici anarchici come una
frazione settaria e autoritaria che cerca di egemonizzare l’Associazione
internazionale dei lavoratori. Quanto al sostantivo «marxismo», si può affermare
per certo che esso (sempre con un significato polemico) compare nel 1882 nel
titolo di un pamphlet di Paul Brousse (ex anarchico francese): Le marxisme dans l’Internationale. Il
contesto in cui si inserisce il libello è quello del confronto interno al socialismo
francese tra un’ala riformista e una rivoluzionaria ispirata a Marx
e facente capo a Jules Guesde; e fu proprio in riferimento
a questa contesa che Marx ebbe occasione di osservare, conversando con
Paul Lafargue: «Una cosa è certa, che io non sono marxista». Ciò non vuol
dire che Marx non fosse d’accordo con se stesso o che fosse contrario al
«marxismo». La questione è tutt’altra: se Jules Guesde veniva accusato,
dai suoi nemici, di obbedire agli ordini di un «prussiano» che viveva a Londra
e che pretendeva di dare indicazioni al socialismo francese, Marx invece
non si sentiva così vicino al leader in questione, e dunque ci teneva
a sottolineare che non vi era una netta identificazione tra lui e la
corrente francese che al suo nome veniva accostata.
Sta di fatto, comunque, che il termine «marxista», dapprima
usato in senso critico e polemico soprattutto dagli anarchici, venne
positivamente fatto proprio, negli anni Ottanta, dall’ala più radicale dei
socialisti francesi: «A poco a poco, i discepoli di Marx in Francia
presero l’abitudine di accettare una denominazione che non avevano creato loro
e che, destinata fin dall’inizio a distinguerli dalle altre frazioni
socialiste, si trasformò alla fine in una etichetta politica e ideologica»
(Maximilien Rubel, Marx critico del
marxismo, Cappelli).
Fu così che anche Engels, che dapprima non aveva visto con
favore l’uso di un termine che, come «marxismo», personalizzava eccessivamente
la linea del movimento socialista rivoluzionario, finì per accettarlo
e legittimarne l’uso, ovvero per convertire in positivo una parola che era
nata con un senso tutto diverso. Come ha ricordato Maximilien Rubel, la cui
attitudine nei confronti del compagno di Marx è peraltro, va ricordato,
duramente polemica, in una interessante lettera dell’11 giugno 1889
a Laura Lafargue, Engels osservava con soddisfazione che gli anarchici si
sarebbero mangiati le mani per avere creato questa denominazione destinata
a divenire nel tempo la bandiera di chi la pensava in modo opposto
a loro. E, anche con l’imprimatur di Engels, il termine marxismo cominciò
ad affermarsi pure nella socialdemocrazia tedesca, della quale sarebbe divenuto
il riferimento costante e talvolta anche ossessivo.
Ma il punto più importante che deve essere sottolineato
è che il ruolo di Engels andò ben oltre quello di legittimare la parola
«marxismo». Ciò che molti (tra cui Rubel) hanno sostenuto, infatti, è che
Engels fu il vero padre del marxismo nel senso che fu colui al quale si deve non
tanto la parola ma proprio la cosa; ovvero fu colui che trasformò il pensiero
di Marx in un «ismo», cioè in un sistema di pensiero catafratto
e onnicomprensivo, da prendersi in blocco con rischi di dogmatismo
e di fideismo.
Si annida qui un problema, o se volgiamo un paradosso,
sul quale vale la pena di fermarsi per un momento a riflettere. La storia
degli effetti del pensiero di Marx è segnata allo stesso tempo, verrebbe
voglia di dire, da una vittoria e da una sconfitta: l’eccezionale
risultato che il pensiero di Marx conseguì, e che ne fa qualcosa di unico
e di difficilmente paragonabile ad altri percorsi teorici, fu quello di
riuscire effettivamente a realizzare l’obiettivo che il giovane Marx si
era posto fin dal 1845: superare la scissione tra la teoria e la prassi,
ovvero dare vita a una teoria che potesse anche diventare una operativa
forza di trasformazione del mondo. Proprio questo accadde nel momento in cui
nacquero e si svilupparono partiti e organizzazioni politiche che
assumevano questa teoria come loro punto di riferimento ideale.
Questo processo comportò però una conseguenza non
altrettanto positiva: divenendo il riferimento «statutario» di partiti
e organizzazioni il pensiero di Marx non poté più essere considerato come
l’approdo di una ricerca teorica per tanti aspetti anche problematica
e incompiuta, da svolgersi e magari da superarsi criticamente, ma fu
esposto alla conseguenza di irrigidirsi in una «dottrina», di subire un
processo di ossificazione poco compatibile con l’idea di una ininterrotta ricerca
critica.