► “…esige
un’illimitata libertà di movimento…e perciò una possibilità sconfinata di disporre
di forza lavoro addizionale”
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Rosa Luxemburgo ✆ Pedro Dorian
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Michele Cento &
Roberta Ferrari | Gli errori che compie un reale movimento operaio
rivoluzionario sono sul piano storico incommensurabilmente più fecondi e più
preziosi dell’infallibilità del miglior comitato centrale», scrive Rosa
Luxemburg in I problemi di organizzazione della
socialdemocrazia. Vale forse la pena iniziare da qui perché, nelle
pagine che seguono, ci occuperemo in fondo della fecondità degli errori, non
del movimento operaio, ma di Rosa Luxemburg. Non è certo una novità che le tesi
espresse dall’Accumulazione del capitale,
volume che Luxemburg pubblica nel 1913, siano basate sull’assunto errato che
l’affermazione mondiale del capitalismo coincida con la sua crisi definitiva.
Quale significato può allora avere rileggerle oggi, nel momento in cui
l’estensione globale del dominio capitalistico è direttamente proporzionale non
solo all’inflessibilità del suo comando, ma anche alla rimozione di ogni
scenario alternativo allo sviluppo capitalistico? Ha certamente ragione Slavoj
Žižek quando sostiene che siamo capacissimi di immaginare la fine del mondo in
seguito a un’invasione marziana, ma la catastrofe del capitalismo rimane per
noi impensabile. La fecondità politica
dell’errore di Luxemburg deve essere misurata allora su questa incapacità, non
per trarre dalla sua oepra la via finalmente rischiarata per la rivoluzione, ma
per acquisire strumenti utili alla comprensione del presente capitalistico,
nel quale crisi e ripresa si giustappongono per consolidare il dominio del
capitale sul lavoro che, nonostante le difficoltà organizzative, tenta sempre
di sottrarsi agli imperativi che gli sono imposti, sia pure in maniera per lo
più estemporanea. È cioè un presente di dominio e di lotta, di processi
consolidati e di insorgenze improvvise, di rischi e di opportunità.
Fin qui, rientreremmo però ancora nell’ambito del
«classico», inteso appunto come testo capace di parlare al presente. Un ambito
irto di confini interpretativi, che vigila sulle letture dell’opera e le vaglia
scrupolosamente. Insoddisfatti delle ottiche, spesso combacianti, che guardano
alla terra degli errori o al cielo dei classici, abbiamo cercato di guardare
dentro il processo di accumulazione descritto da Luxemburg, rinvenendo una
pluralità semantica e una potenza politica che vale la pena valorizzare. Se
l’accumulazione indica un moto proprio della modernità, la sua fenomenologia
varia infatti a seconda dei contesti: essa indica il movimento del capitale,
nella misura in cui indica quello del potere e dello scontro tra classi che
accumulano forza, sia pur apparendo talvolta nient’altro che meccanismi di un
impersonale processo di produzione. Non solo: seguendo fino in fondo l’analisi
di Luxemburg, l’accumulazione sembra individuare il movimento del globale e dei
«pezzi» che ne costituiscono l’assemblaggio. Non perché l’accumulazione indichi
un cammino evolutivo, ma semmai perché esprime la politica del capitale nella
sua connaturata tensione verso il globale. Dietro la più algida e scientifica
delle opere di Luxemburg, si nasconde così la sua mappa della valorizzazione e
della rivoluzione.
L’accumulazione del capitale
Rosa Luxemburg inizia la stesura dell’Accumulazione del
capitale alla fine del 1912, quando si convince che nel II libro del Capitale di
Marx vi sia un’incongruenza nella lettura del processo di riproduzione
allargata. Fin dai tempi di Quesnay, l’economia politica classica vede nella
riproduzione il processo che permette alla società di conservare un equilibrio
tra offerta e domanda di prodotti – siano essi mezzi di produzione o mezzi di
consumo – sicché il consumo di merci eguaglia la sua produzione. In altri
termini, i redditi complessivi della società servono ad acquistare le merci
prodotte da quest’ultima e consentire dunque la prosecuzione del processo
produttivo. Per Marx questa è riproduzione semplice, ma a contrassegnare il
processo capitalistico è in realtà la riproduzione allargata, dal momento che,
scrive Luxemburg, «per ogni capitalista la produzione ha senso e scopo solo se
gli permette, anno per anno di riempirsi le tasche […] del profitto, che rimane
in eccedenza a tutti i suoi investimenti di capitale». E tale profitto deve
essere «sempre crescente». In quest’ultima forma di riproduzione, i
capitalisti non consumano tutti i loro redditi, ma ne risparmiano una parte per
reinvestirla in nuovo capitale costante e variabile a beneficio della
produzione di nuovo valore e non del consumo di merci. Un passaggio che
consente una maggiore produzione di plusvalore, tanto che il conseguente
incremento nella domanda di beni di consumo non intacca la logica
dell’accumulazione che innesca invece un movimento progressivo e apparentemente
inarrestabile. Da questo punto di vista, la logica dell’accumulazione
capitalistica appare, infatti, inattaccabile: un argomento che sembrerebbe
perciò dare ragione a chi imputava le crisi del sistema a irrazionalità e
distorsioni emendabili attraverso un più sapiente uso degli strumenti offerti
dalla macchina statale.
Le obiezioni di Luxemburg a Marx si muovono all’interno di
questo schema. Anzitutto, Luxemburg sottolinea che l’accumulazione avviene solo
nel momento in cui i capitalisti hanno venduto le merci. La realizzazione del
loro valore sul mercato è condizione necessaria per appropriarsi sotto forma di
denaro del pluslavoro estorto all’operaio nel processo di produzione. Senza la
vendita, il plusvalore rimarrebbe ingabbiato nella merce e non potrebbe dunque
essere capitalizzato. Affinché tutte le merci siano vendute occorre però che ci
sia qualcuno che le compri. Chi sono i compratori, si domanda Luxemburg? La
risposta a questa domanda non dipende dalla generosità del capitale ma da
«rapporti sociali obiettivi». Dal momento che il capitalismo condivide con le
altre forme storiche di produzione del passato l’esigenza di soddisfare le
necessità materiali della società, «le merci capitalistiche possono essere
vendute solo se e in quanto soddisfino i bisogni della società». Perché il moto
progressivo dell’accumulazione venga costantemente alimentato occorre allora
che il fabbisogno sociale cresca. Ma come è possibile? Affinché ci sia
simmetria tra produzione e fabbisogno e quindi continuità dell’accumulazione
occorre rifiutare l’ottica del capitalista singolo e ragionare dal punto di
vista del capitale nel suo complesso, il che comporta la ricerca delle norme e
dei codici sociali che consentono un processo di produzione che, sebbene
guidato da capitalisti interessati solo al loro profitto, coinvolge l’intera
società. La possibilità di realizzare le merci prodotte da un capitalista e
dunque la possibilità di allargare la sua produzione dipenderebbero in
definitiva dall’allargamento della produzione degli altri capitalisti, che in
tal modo disporrebbero di maggiori risorse per acquistare le sue merci. E
viceversa. Fin qui l’accumulazione sarebbe una «faccenda domestica», una
questione interna alla classe capitalistica.
L’allargamento complessivo della produzione comporterebbe la
messa al lavoro di nuovi operai e quindi un incremento nella loro capacità di
acquistare merci. Eppure, il salario è la forma che il capitale variabile
assume quando finisce nelle mani degli operai e in altri termini è sempre
denaro del capitale, se non altro perché nell’atto stesso in cui gli operai
acquistano merci, che per definizione appartengono al capitalista, essi
«restituiscono» a quest’ultimo il loro salario. Come osserva Luxemburg,
seguendo questa tesi si arriverebbe alla tautologica conclusione che «quanto
più il capitale accumula, tanto più accumula». Una tautologia a ogni evidenza
insufficiente a rintracciare «il vero obiettivo del capitale: il profitto
destinato alla capitalizzazione, all’accumulazione». In effetti, Luxemburg
osserva che l’accumulazione del capitale non potrebbe avvenire se spettasse
agli stessi capitalisti il ruolo di acquirenti di quella massa di prodotti che
contengono il profitto destinato alla capitalizzazione. Se impiegassero, oltre
un certo limite, denaro per l’acquisto di merci e lo sperperassero per articoli
di lusso, essi commetterebbero «un peccato mortale contro lo spirito santo del
capitale», che comanda di accumulare denaro-capitale e non merci. Né la
soluzione può essere rinvenuta tra gli operai, poiché il salario è tarato sul
loro essere non «clienti» ma pura forza-lavoro da riprodurre. Sarebbe dunque un
assurdo logico pensare che siano gli operai coloro i quali possono risolvere il
problema dell’accumulazione del capitale. D’altro canto, ogni spiegazione che
ricorra al ruolo del ceto medio e delle «terze persone» è destinata a fallire.
Le professioni legate al ceto medio sono infatti appendici della classe
capitalistica ed esse ricavano il loro reddito o dai capitalisti medesimi o
dalla classe operaia sotto forma di imposte indirette, ovvero da chi produce
valore attraverso lo sfruttamento oppure attraverso il lavoro. Nel quadro
cioè di una società ideale interamente capitalistica e chiusa al mondo
circostante non capitalistico, l’accumulazione, conclude Luxemburg, è
impossibile. È questa l’incongruenza che lei rinviene nello schema della
riproduzione allargata di Marx, il quale appunto si serviva di un modello di
società astratta composta da soli capitalisti e operai. L’accumulazione risulta
possibile per Luxemburg soltanto finché esistano strati sociali e spazi non
capitalistici da sottoporre al dominio del capitalismo. Soltanto, cioè, fino a
quando il meccanismo dell’accumulazione intravisto da Marx non si sia esteso
fino all’intero territorio mondiale. A dispetto di Werner Sombart, nella
«maturità piena» del capitale, sono le sue forme fenomeniche a mutare, non la
sua logica interna. Inteso in questo senso, il «capitalismo maturo» è un
capitalismo che ha imposto la legge dell’accumulazione all’intero globo. Il
capitalismo può allora cambiare volto, può perfino assumere una faccia umana
per alcuni soggetti – di norma, maschi e bianchi – ma non può sottrarsi a tale
legge se vuole mantenersi fedele a se stesso, senza cioè «de-generare» verso un
diverso modo di produzione. Creare le condizioni per l’accumulazione del
capitale significa allora individuare continuamente spazi di non conformità al
capitale, all’interno dei quali avviare processi di valorizzazione. In un mondo
come il nostro, saturato dalle sue leggi, può perfino significare la
riconversione di spazi originariamente destinati a garantire la riproduzione
sociale in luoghi di una rinnovata, ma ugualmente feroce, accumulazione.
Proprio perché l’accumulazione capitalistica – e qui risiede la
novità di questo modo di produzione – necessita di tutta la società, di tutto
il suo spazio, non può limitarsi a valorizzare ciò che è già in corso di
valorizzazione, ma deve creare artificialmente le condizioni per
realizzare una mobilitazione totale in vista dei suoi fini.
Tanto più che, già per Luxemburg, tali strati e società non
capitalistici non sono situati solo in aree extraeuropee, ma coesistono
all’interno di paesi che già presentano un elevato sviluppo del modo di
produzione capitalistico. Ciò che intuisce Luxemburg, ma anche in questo ci
sembra in linea con la riflessione marxiana, è che «il capitale non può fare a
meno dei mezzi di produzione e delle forze-lavoro dell’intero globo». In tal
senso, il capitalismo «procede innanzi in continuo ricambio organico» con
l’ambiente non capitalistico. Se il merito di Luxemburg risiede proprio in
questa capacità di situarsi al limite estremo del capitalismo per registrare
come la sua affermazione dipenda in ultima analisi dall’imporre le proprie
leggi su quel confine, il suo errore sta nell’assolutizzare questa decisiva
acquisizione teorica. In altre parole, affermare che il capitalismo «può
esistere solo finché trova attorno a sé quell’ambiente [non capitalistico]» non
è corretto, ma indica e permette di ragionare su un problema reale del
capitalismo.
Se non altro perché la lettura con cui Paul Sweezy liquida
l’analisi di Luxemburg appare tarata su una fase dello sviluppo capitalistico
definitivamente tramontata. Per Sweezy, l’errore di Luxemburg risiede nell’aver
escluso la possibilità di un aumento generalizzato dei consumi, tale da
superare le interruzioni cicliche nel processo di accumulazione. Quell’aumento,
che sembrava dare nuova linfa ai meccanismi di riproduzione allargata, si
inseriva però in una stagione di lotte che avevano permesso un’accumulazione di
potere sociale sia sul terreno del salario sia su quello delle prestazioni di
welfare. La destabilizzazione operata dall’irruzione dell’ordine neoliberale di
quell’assetto di potere sociale, di quell’equilibrio tra le forze di produzione
mediato e regolato dallo Stato, ci mette nuovamente di fronte al mistero dell’accumulazione,
senza neanche fornirci un appiglio sicuro per seppellire gli errori dei nostri
morti. Se Luxemburg non riesce a concepire un mondo uniformemente dominato dal
capitalismo, concepisce però assai bene quanto inossidabili siano certe
abitudini del capitale. Ammettere i torti di Luxemburg non ci impedisce
allora di riflettere su quanto l’impoverimento materiale, il depauperamento dei
legami sociali, la devastazione fisica e naturale, l’appropriazione sfrenata di
tutto ciò da cui si possa estrarre valore costituiscono il quadro di un
processo di accumulazione che tende a riproporsi con certe caratteristiche
costanti. Risiede qui un lato della fecondità dell’errore di Luxemburg,
che ci consente di verificare quanto valore venga estratto non solo dal
nostro lavoro in senso stretto, ma anche dal nostro welfare, dal nostro modo di
fare – e disfare – società e, perfino, dai nostri movimenti quando c’è un
confine di mezzo. Un’estrazione che non cessa di affermarsi anche quando
il capitalismo sembra ormai privo di un «fuori», di un «non-capitale» da
piegare alla sua logica. Nel momento in cui il capitale esercita un dominio
esclusivo sul globo, l’accumulazione deve dunque riuscire nella funambolica
impresa di creare un «fuori» all’interno del sistema capitalistico. Si intuisce
così la potenza raggiunta dal capitalismo, ma anche la crescente difficoltà di
garantire la sua riproduzione riconfigurando continuamente rapporti di potere
apparentemente consolidati. Tanto più che ragionare in termini luxemburghiani sul
dilemma dell’accumulazione ci impone di sfuggire a ogni tentazione
economicistica e di porre il problema in termini politici. Ovvero, in termini
di rapporti di potere da cui l’esito del processo di accumulazione e la
possibilità di rovesciarlo concretamente dipendono. Proprio perché punta
«all’intero globo», sia pure arrestandosi alle sue soglie, sul piano politico
l’accumulazione descritta da Luxemburg disegna uno scenario all’interno del
quale è possibile ricostruire una trama globale delle lotte.Una trama incerta e
irregolare, ma che evoca la possibilità di connettere singole insorgenze
attorno a una comune opposizione alle molteplici facce dell’accumulazione. È
questo l’altro lato della fecondità dell’errore di Luxemburg che, a modo
nostro, ci interessa valorizzare.
L’accumulazione del potere
Non ci siamo dilungati su debolezze e potenzialità
dell’analisi luxemburghiana per amore di filologia, ma perché la sua lettura
dell’accumulazione capitalistica sollecita una serie di riflessioni attorno al concetto
stesso di accumulazione e alla possibilità di mettere in evidenza il lato
politico del meccanismo accumulativo.
L’accumulazione, secondo Luxemburg, avviene solo quando il
plusvalore estorto ai lavoratori viene realizzato e viene trasformato in capitale
per far ripartire il processo di produzione. Politicamente, ancor più che
tecnicamente, l’accumulazione è allora realizzazione dello sfruttamento. È in
questo senso chel’accumulazione di capitale diventa anche accumulazione di
potere sociale da parte del capitale. Ed è solo attraverso l’accumulazione che
il capitale può prolungare, in maniera apparentemente indefinita, l’esercizio
del suo dominio sul lavoro. Se non ci fosse accumulazione, in altri termini, il
capitale non avrebbe le risorse per proseguire lo sfruttamento dei lavoratori,
che è il perno attorno a cui ruota la riproduzione della società.
L’accumulazione diventa quindi il moto specifico della società capitalista.
Essa, come già aveva osservato Marx nel Capitale, contiene nel suo codice
genetico il meccanismo di accumulazione e si serve di apparati di potere non
solo di tipo economico, ma anche politico e ideologico, per piegare il mondo
alle leggi della valorizzazione. Anche nella sua fase di pieno sviluppo il
capitalismo continua a funzionare secondo il meccanismo dell’accumulazione,
ovvero a sottomettere alla logica dell’accumulazione capitalistica le forme
storiche di produzione precedenti.
Considerata in questi termini, l’accumulazione non può
essere un processo lineare e/o evolutivo. Nella sua avanzata si nasconde sempre
il rischio della mancata realizzazione; in questo senso, la colpa del
riformismo è di nutrire una fiducia sconfinata nelle sorti progressive del
capitalismo. Al contrario, per Luxemburg l’accumulazione è sempre un processo
che si dà in uno spazio disomogeneo e irto di contraddizioni, dalle quali
evidentemente emerge la resistenza da parte dei produttori degli ambienti
non-capitalistici. Stando alle pagine di questo volume, si tratta tuttavia di
una resistenza flebile e destinata alla sconfitta di fronte all’avanzamento
apparentemente inarrestabile del capitale. Una resistenza che quindi non è
ancora lotta di classe. Eppure, se connettiamo questi segnali di resistenza
alla visione più propriamente politica espressa nelle opere precedenti, ovvero
se proviamo a palesare il contenuto politico celato sotto pagine dense di
teoria economica, l’accumulazione si rivela un processo ambiguo, che mostra le
intrinseche debolezze del capitalismo. In altri termini, dentro
l’accumulazione apparentemente irresistibile del capitale si mostra in maniera
incancellabile la presenza ingombrante della classe operaia.
Non solo gli ostacoli all’accumulazione provengono dai
meccanismi contraddittori dello stesso capitalismo che, una volta realizzata
una società fatta di soli capitalisti e operai, sarebbe destinato a crollare,
ma la lotta di classe operaia può essere definita come lotta contro
l’accumulazione. Questo è infatti il cuore del meccanismo capitalistico, ma
anche il suo punto debole: la scommessa a cui il capitalismo non può rinunciare
dato che la produzione di merci presuppone sempre un azzardo, che è perfino
l’argine ideologico a difesa della proprietà privata. D’altronde, se la lotta
di classe è lotta per emanciparsi dalla classe, essa deve avere come obiettivo
primario proprio l’accumulazione, in quanto condizione stessa della
riproducibilità dello sfruttamento. E non a caso il momento rivoluzionario
irrompe proprio quando l’accumulazione entra profondamente in crisi, producendo
tensioni, guerre e catastrofi. Un’annotazione che è bene tenere in mente quando
si evoca, per esempio, il presunto spontaneismo di Rosa Luxemburg. Per
quest’ultima, la rivoluzione necessita di condizioni sociali oggettive e, se
può darsi anche in contesti non segnati dal pieno sviluppo capitalistico come
la Russia, deve comunque fare i conti con lo stato dei rapporti di potere tra
le forze sociali antagoniste, di cui il processo stesso dell’accumulazione
sembrerebbe essere un indicatore. Essa non è un atto che può darsi
sempre, ma un processo organizzativo (
abbiamo visto perché diverso dall’organizzazione leninista)
all’altezza dello sviluppo dei rapporti di produzione e che si articola nelle
contraddizioni innescate dalla crisi.
Ci sembra qui interessante segnalare che l’itinerario
successivo alla crisi del processo di accumulazione non è così univoco come
appare a prima vista. In primo luogo perché la crisi del processo di
accumulazione non equivale a una semplice crisi economica, ma a una vera e
propria crisi del processo di produzione di potere sociale. Sicché, è vero che
il destino del capitalismo è segnato, ma spetta alla classe operaia
internazionale il compito della «rivolta […] al dominio del capitale, prima
ancora che, sul terreno economico, esso [il capitalismo] sia andato a urtare
contro le barriere naturali elevate dal suo stesso sviluppo». Luxemburg coglie
non solo la centralità del soggetto operaio nel processo rivoluzionario, ma ci
offre anche uno spunto per affinare i nostri strumenti di fronte alle
sottigliezze del capitale. Le vie di quest’ultimo sono infinite, ma hanno dei
passaggi obbligati. Uno di questi, il principale, è l’accumulazione, il punto
dell’intero processo in cui il capitale acquista potere ma è anche più
vulnerabile. Da questo punto di vista, non solo l’accumulazione è
accumulazione di potere sociale da parte dei capitalisti, ma è anche opportunità
di accumulazione di potere politico da parte operaia.
L’accumulazione del globale: lo Stato, le imposte, la guerra
Per Luxemburg l’accumulazione è soprattutto trasformazione e
violenza necessari alla normalizzazione dei rapporti di produzione capitalistici.
Il capitale, scrive Luxemburg con espressioni che anticipano Fanon, ha bisogno
di altre razze – e in questo senso della differenza, arbitraria o meno che sia
– «di disporre senza limiti di tutte le braccia del mondo»: l’assorbimento e la
messa a lavoro di queste «razze» da parte del sistema salariale capitalistico
costituisce una delle basi storiche necessarie del capitalismo.
Innanzitutto Luxemburg mette in primo piano la
dimensione inevitabilmente globale dell’accumulazione e lo fa mostrando che il
capitale si libera dei confini spaziali ed economici per crearne di nuovi
interni, sociali e politici. Il capitale, arrivato al confine del suo regno,
«si apre una strada» al di fuori. Questa strada è stata storicamente la
ferrovia, veicolo dell’accumulazione. Nell’aprirsi questo varco all’interno
dell’ambiente non capitalistico, il capitale introduce il «fuori» all’interno
del processo capitalistico. Questo «fuori» entra a far parte del processo e ne
permette la riproduzione allargata: esso è dunque una parte del suo meccanismo,
è lo spazio dove è possibile l’accumulazione. La differenza spaziale del
«fuori» diventa, nel tentativo del capitale di imporre l’uniformità del proprio
tempo, il «non ancora» misurato sulla scala della temporalità omogenea del
capitale. A ben vedere però, oltre Luxemburg, si può osservare che la
traduzione geografica della dialettica tra dentro e fuori rischia di essere
fuorviante. Esattamente come il «non ancora», ancheil «fuori» è già il frutto
di un’astrazione circa l’esigenza del capitale di estendersi indefinitamente e
di esercitare in maniera differenziale il suo dominio. Questo tentativo, però,
non riesce mai completamente e, proprio su quel terreno irto di contraddizioni
che la stessa Luxemburg ha messo in luce, noi vediamo emergere una geografia
composita e disomogenea di differenze. La dialettica dentro–fuori è per
Luxemburg il movimento essenziale dell’accumulazione, un movimento dove tutto,
anche ciò che non è capitale, diventa capitale. La sua illimitata estensione,
la sua espansione sconfinata produce, però, anche quello che Luxemburg non può
ancora vedere compiutamente: un cortocircuito proprio di quel dentro-fuori, una
disomogeneità interna e trasversale ai confini, geografica e politica, che
emerge però, più che nella sua analisi dello sviluppo dello spazio non
capitalistico, nell’insistenza sugli ostacoli che l’accumulazione incontra
proprio perché politicamente quello spazio esterno non è omogeneo e vuoto come
vorrebbe il capitale. Esso è uno spazio esterno solo nel momento esatto in
cui il capitale se ne appropria.
Il processo di accumulazione del capitale è legato alle
forme di produzione non capitalistica attraverso tutti i suoi rapporti
materiali e di valore: capitale costante, capitale variabile, plusvalore. Mercato
interno e mercato esterno, allora, sono per Luxemburg concetti dell’economia
sociale e non della geografia politica, sono cioè spazi del capitale. Il
processo storico di accumulazione si svolge perciò sulla scena non
capitalistica del mondo e non può esistere senza di essa. Questo processo deve
inoltre avvenire seguendo strade precise e inevitabili. Luxemburg individua
perciò tre fasi dell’accumulazione: la lotta del capitale contro l’economia
naturale; la lotta contro l’economia mercantile semplice e la lotta di
concorrenza fra i capitali su scala mondiale per le residue possibilità di
accumulazione. Gli scopi economici della prima sono: impadronirsi di risorse,
«liberare» forza lavoro per costringerla a lavorare per il capitale, introdurre
l’economia mercantile, e separare agricoltura e artigianato. La
distruzione e l’annientamento delle comunità sociali non capitalistiche
sono quindi essenziali per questo processo, per la realizzazione di plusvalore
e per il rinnovo del capitale costante e variabile. Anzi questo processo,
per Luxemburg, non è provvisorio ma perdura.
Emerge evidentemente una concezione stadiale dello sviluppo
capitalistico e una visione naturalistica dello spazio. Tuttavia, l’attenzione
di Luxemburg al carattere non semplicemente progressivo del tempo del capitale
complica anche la sua concezione dello spazio, rilevando la
compenetrazione di capitalistico e non capitalistico e soprattutto mettendo in
primo piano le sovrapposizioni politiche tra l’uno e l’altro. Il perdurare del
processo di distruzione del capitale mostra una differenziazione spaziale che
non è dominata interamente dall’azione del capitale, ma che il capitale può
sempre giocare e valorizzare a suo vantaggio.
Se partiamo dal fatto che la dialettica dentro-fuori è oramai
insufficiente, oltre che fuorviante per comprendere la dinamica del capitalismo
globale, possiamo tuttavia rilevare la permanenza della sua logica sottostante:
non si tratta più un dentro e un fuori geografico, o di un dentro e un fuori
temporale, ma di spazi di accumulazione creati sulle possibilità ulteriori di
sfruttamento. Una volta diventato globale, il capitale si ritrova infatti con
lo stesso problema che segnala Luxemburg: il suo fuori oggi è necessariamente
un dentro ma la dinamica di devastazione necessaria per la sua accumulazione
rimane la stessa. Ciò di cui Luxemburg sembra consapevole è il fatto che il
capitale crea il suo “fuori” innanzitutto impoverendo e immiserendo spazi
ulteriori.
Per Luxemburg la concorrenza pacifica nel capitalismo, e
quindi l’omogeneizzazione dello spazio e del tempo globale, non è che una vana
illusione che presuppone che l’accumulazione capitalistica possa fare a meno
delle forze produttive e della domanda delle strutture sociali primitive. Il
capitale divora un «fuori» che deve rimanere tale per essere produttivo, non
può cioè mai essere del tutto fagocitato nel «dentro» del capitale, non può
coincidere con esso, né d’altra parte può restare com’è. In effetti, questo è
un paradosso tanto falso quanto vero: il capitale diventando globale ha
mostrato di poter fare a meno delle strutture sociali primitive e anzi di
sfruttarle mettendole a valore, inglobandole. Tuttavia, una qualche struttura
di questo tipo resta necessaria e in modi diversi il capitale continua oggi a produrre
spazi, zone, corridoi, o anche solo livelli sempre nuovi di precarizzazione,
dove è possibile sfruttare e impoverire, cioè accumulare, su una scala diversa
non di spazio ma di valore. Non si tratta qui di una questione geografica, ma
di rapporti sociali che il capitale è costretto a riprodurre al suo interno per
accumulare. Possiamo dire che l’impoverimento è oggi il nome
dell’accumulazione capitalistica, così come lo è la coazione al lavoro di
fabbrica in ampie regioni del pianeta. In questo senso l’insistenza di
Luxemburg sulla violenza e sull’imprescindibilità dell’accumulazione originaria
è l’intuizione di un problema cruciale del capitale globale.
Proprio dai limiti delle concezioni luxemburghiane emerge il
problema che il capitalismo globale ci pone oggi davanti e cioè quello di una
disarticolazione della frontiera che complica la geografia del capitale,
producendo una moltiplicazione di «fuori» interni al capitale. Il testo di
Luxemburg si muove sulle soglie del globale, e pur non cogliendo interamente la
dimensione politica specifica di questo movimento, vede il suo tratto
distintivo e mostra l’impossibilità di un dentro/fuori del capitale dominato da
una legge unica e immutabile. Proprio il perdurare di un rapporto di violenza,
cioè di una costante e mai definitiva trasformazione del «non capitalistico»,
lascia intravedere spazi regolati in modo differenziato, che vanno costretti al
tempo del capitale con la forza. In questo senso, le strade precise e
inevitabili che questo movimento globale del capitale percorre non hanno come
esito per Luxemburg uno spazio pacificato e uniforme. La concezione
luxemburghiana dell’accumulazione non può, come è ovvio, pensare il presente
globale, ma mostra in maniera incredibilmente attuale l’accumulazione come problema
che non si esaurisce varcando le frontiere. L’apertura dei confini di cui ci
parla Luxemburg, pur partendo da una concezione naturalistica dello spazio,
contiene importanti indicazioni per ragionare sul capitalismo andando oltre una
concezione statica e uniforme dello spazio e dei rapporti sociali, e
individuando contemporaneamente elementi costanti del suo percorso, in base ai
quali è necessario ripensare l’organizzazione politica.
L’unica soluzione del capitale al problema
dell’accumulazione è infatti la violenza, assieme con il crescente militarismo,
sostenuto dallo Stato. Nella fase di accumulazione primitiva il militarismo ha
giocato un ruolo centrale per la conquista e la subordinazione delle colonie.
Dal punto di vista economico, esso è uno strumento eccellente per realizzare il
plusvalore, cioè come campo di accumulazione. Luxemburg ammonisce così a non
pensare che si possano raggiungere stadi di definitiva marcescenza del
capitalismo, ma osserva l’emergere di fenomeni strutturali che si ripresentano
ciclicamente con intensità diversa. Solo scaricando sulla classe operaia i
costi di mantenimento degli impiegati e dei militari, i capitalisti liberano
plusvalore da capitalizzare. Non si dà però già la possibilità di
capitalizzazione, perché non si è creato nuovo sbocco per produrre nuove merci
con questo plusvalore realizzato: questo sbocco è offerto dallo Stato. La
domanda dello Stato si rivolge a una categoria specifica di prodotti: gli
strumenti bellici del militarismo. Si estorce così la stessa massa di
plusvalore senza dover cedere alla forza lavoro la stessa quantità di mezzi di
sussistenza. Contemporaneamente, l’impiego delle imposte estorte ai lavoratori
per la produzione di mezzi bellici offre al capitale una nuova possibilità di
accumulazione, perciò è il capitale ad anticipare le imposte allo Stato, perché
è al capitalista che esse saranno restituite. Qui sta un aspetto estremamente
significativo dell’analisi luxemburghiana del ruolo politico del militarismo:
non si tratta tanto di una smania irrefrenabile dello Stato per la guerra, ma
della necessità dello Stato di «governare» la guerra. La guerra non è
semplicemente un’arma di distruzione, ma una precisa modalità di estrazione di
plusvalore, libera dall’onere di riprodurre la classe operaia. In questo senso
nessun pacifismo coglie il bersaglio cruciale che non è la guerra in sé ma ciò
che la rende appetibile agli Stati.
La violenza dello Stato si esplicita però anche sotto forma
«legale», se vogliamo dare questa etichetta ai meccanismi fiscali. Il sistema
delle imposte opera infatti trasformando l’economia contadina in
economia mercantile: il contadino è costretto a trasformare in merci il suo
prodotto, e contemporaneamente ad acquistare i prodotti del capitale. Il
risparmio ipotetico dei contadini diventa nelle mani dello Stato una domanda e
una possibilità d’investimento per il capitale. In questo senso, Luxemburg può
dire che il colonialismo e la sottrazione di potere d’acquisto agli strati non
capitalistici dei paesi d’origine – che il capitale ottiene con la guerra –
danno fuoco alla miccia dell’accumulazione. La politica coloniale permette poi
con la violenza di fare dell’accumulazione un processo potenzialmente infinito,
nel tempo e nello spazio, in grado cioè di alimentare continuamente se stesso:
la politica coloniale è la nuova macchina del tempo del capitale ma ogni suo
viaggio è distruzione. Le grandi opere del passato non sono agli occhi del
capitale che cibo per il presente, indispensabile a placare quella «fame
divorante» incapace di pensare il domani e, perciò, anche di capire il valore
del passato. La distruzione del passato è la moneta del progresso, il suo
prezzo necessario. Luxemburg non considera questo fatto come un semplice dato,
il costo necessario del progresso, ma descrive nei dettagli la brutalità e
l’orrore della colonizzazione inglese e francese come condizione stessa
dell’accumulazione. Il problema di Luxemburg non è però di natura morale ma
politica; si tratta di comprendere il volto esterno del capitalismo e
della sua condizione-limite necessaria per pensare la possibilità della
rivoluzione.
L’accumulazione del globale: il capitale, l’impero, la
classe
Un momento centrale di questa prima fase è dunque
l’inserimento delle comunità a economia naturale, una volta distrutte, nel
traffico commerciale e nell’economia mercantile. Qui il capitale «si apre la
strada», squarciando e separando. Il capitale può strappare con la forza i
mezzi di produzione alle comunità e costringerle con la violenza a farsi
sfruttare, ma non può costringerle a realizzare il suo plusvalore acquistando
le sue merci. Per questo sono necessarie le grandi opere di civiltà dei moderni
sistemi di comunicazione: ferrovie, navi, canali, cioè «rapina, sfruttamento e
frode, perpetrati sotto la bandiera del commercio». Luxemburg non si limita a
esporre fatti o eventi storici, ma descrive la natura e il volto del processo
capitalistico, il ritmo del suo incedere, il suo linguaggio.
Gli ambienti non capitalistici non sono soltanto bacino da
cui prelevare. Il capitale deve trasformare la massa rurale in
acquirente delle sue merci e perciò inizialmente mira a ridurre l’economia
contadina all’unico ramo di cui non può immediatamente impadronirsi, cioè
l’agricoltura. Una volta impoverito il contadino, ed essendo questi costretto
ad abbandonare il suo terreno, le società capitalistiche private possono
accaparrarsi senza difficoltà interi terreni pubblici del tutto abbandonati.
Nel frattempo il capitale sostituisce i contadini con gli affittuari, «veri
schiavi salariati del capitale», e li costringe ad acquistare prodotti
capitalistici, compiendo così il suo piano.
Questo processo di frantumamento altro non è che la fase
imperialistica dell’accumulazione, la quale segue metodi specifici: prestiti
esteri, costruzione di ferrovie, rivoluzioni e guerre. I prestiti
internazionali costituiscono la contraddizione intrinseca della fase
imperialistica: essi sono allo stesso tempo mezzi indispensabili per
l’emancipazione degli Stati capitalistici in ascesa e armi di controllo nelle
mani degli Stati capitalistici tradizionali che dirigono la loro politica
estera, doganale e commerciale. Lo scopo della produzione capitalistica non è
infatti il consumo, ma la domanda, nuova o determinata con la forza, da parte
di altri e non delle sue classi, lavoratrice e capitalistica. Qui sta
quell’assolutizzazione che è stata a ragione criticata e che tuttavia permette
a Luxemburg di osservare il modo in cui il capitale attraversa i confini e ne
produce di sempre nuovi, di osservare cioè l’essenza del suo dominio. Il
risultato non è solo la crescente accumulazione di capitale, ma anche una
sempre più vasta «sfera d’interessi» necessaria all’ulteriore espansione
politica ed economica, ad esempio, del capitale tedesco in Turchia, e la rapida
decomposizione, rovina e dissanguamento dei contadini asiatici a opera dello
Stato turco, che a sua volta sviluppa una crescente dipendenza finanziaria e
politica dal capitale europeo. Il capitale diventa, a un tempo solo, l’artefice
della domanda nei paesi esteri, della rovina di quei sistemi di produzione e
perciò della loro dipendenza. È così compiuto il suo dominio funzionale
all’accumulazione.
Luxemburg esplora i movimenti del capitale nel mondo, nel
suo fuori/dentro, in quel processo di inglobamento che serve all’accumulazione,
ma anche come processo sempre incompiuto di differenziazione:
Il capitalismo è la
prima forma economica dotata di una forza di propagazione; una forma che reca
in sé la tendenza immanente a espandersi in tutto il mondo e a espellere tutte
le altre forme economiche; una forma che non ne tollera altre accanto a sé. Ma
nello stesso tempo la prima che non può esistere da sola, senza altre forme
economiche come suo ambiente e terreno di sviluppo; che perciò, mentre tende a
divenire forma economica mondiale, s’infrange contro l’incapacità intrinseca a
essere una forma mondiale di produzione. È una vivente contraddizione storica;
il suo moto di accumulazione è insieme l’espressione, la soluzione continua e
il potenziamento di un’antitesi interna.
L’antitesi interna non è il fuori, ma il fatto che senza
acquirenti non-capitalisti e non-operai, come i contadini turchi, non è
possibile accumulazione. Senza un costante impoverimento materiale e
politico l’accumulazione incontrerebbe a un certo punto un limite.
Questa incapacità a farsi «mondiale» e la messa a valore
continua di questa «antitesi interna» – il cortocircuito del dentro/fuori
mondiale – che Luxemburg mette in luce, ci sembrano paradossalmente connessi
con quella dimensione globale con cui facciamo i conti oggi, dove il capitale
fa apparentemente a meno di acquirenti non capitalisti e non operai, creando
però continuamente gli «altri» di cui ci parla Luxemburg, attraverso una
destrutturazione della cittadinanza e del lavoro come rapporti sociali dati.
L’accumulazione si dà in altri termini attraverso una sottrazione di reddito e
di libertà di movimento, di welfare e di salario, che passa per la violenza
dello Stato. Detto altrimenti, possiamo chiederci cos’è il non
capitalistico per l’accumulazione nell’epoca del capitalismo globale.
Non sorprende la rilevanza che quest’opera ha assunto per
gli studi postcoloniali: proprio quelle «condizioni di frontiera» di cui ci
parla la studiosa chicana Gloria Anzaldúa, emergono nel testo di Luxemburg nei
termini della violenza, della rovina, della guerra e della resistenza. Il lato
dell’accumulazione che ha per arena la scena mondiale, per protagonisti il
capitale e gli ambienti non capitalistici, non ha problemi di forma,
istituzionale o morale ‒
«la politica coloniale, il sistema dei prestiti internazionali, la politica
delle sfere d’interesse, le guerre», e «costa fatica identificare sotto questo
groviglio di atti politici di forza e di violenza esplicita le leggi ferree del
processo economico». Non è il dominio politico che qui interessa a
Luxemburg, ma il modo in cui esso agisce attraverso le leggi ferree del
processo economico. Questo aspetto, conclude Luxemburg, non è infatti, come la
teoria liberal-borghese vorrebbe, un insieme di più o meno accidentali
manifestazioni delle relazioni internazionali. Al contrario, la violenza
politica è qui il veicolo del processo economico: è nel continuo rimando tra
queste due facce che si compie il ciclo storico del capitale.
Nel descrivere la violenza e il dominio esercitato dalla
politica coloniale come condizione del processo di accumulazione, Luxemburg non
pensa però la possibilità della rivoluzione nei termini di un’immediata
sollevazione delle comunità oppresse. Esse sono a quest’altezza ferocemente
sovrastate dalla potenza del capitale, dominate, sconfitte. Portare dentro il
«fuori» non capitalistico non significa quindi per Luxemburg solamente
valorizzarlo, ma piuttosto spremerlo, usarlo: è proprio la devastazione e
l’impoverimento il modo di valorizzazione del capitale. Luxemburg si sofferma
sulla brutalità e sulla violenza del capitale che sovrasta completamente i modi
di produzione non capitalistici, le loro storie e il loro passato, determinando
totalmente il loro futuro. Non è però una celebrazione dell’enorme potenza del
capitale, perché è proprio con la devastazione che si dà a un certo punto, ma
«un attimo prima che», l’impossibilità dell’accumulazione e perciò l’occasione
della rivolta. Questo meccanismo perfetto, oliato di sangue e fango,
incontra un ostacolo proprio nelle condizioni che esso stesso ha determinato,
proprio nel suo processo di valorizzazione distruttiva. Tanto più questo
processo di accumulazione deprime il livello di vita di tutti i ceti tanto più
si trasforma in un susseguirsi di catastrofi e convulsioni politiche e sociali
che, assieme alle crisi economiche periodiche del capitalismo, rendono man mano
«impossibile l’accumulazione e necessaria la rivolta della classe operaia». C’è
qui evidentemente uno scarto tra le convulsioni di altri ceti (che non sono la
classe operaia) e la rivolta della classe operaia e che apre un problema sul
soggetto politico del discorso di Luxemburg che resta irrisolto, e
contemporaneamente indica la rilevanza di una comunicazione e connessione politica
che in realtà non è mai data spontaneamente come conseguenza dello sfruttamento
o della devastazione.
Con Gayatry
C. Spivak potremmo allora chiederci can the subaltern speak? Il
testo luxemburghiano non ci offre risposte, ma la sua riflessione sulla
violenza e sulla disarticolazione del dentro/fuori come esito dell’antitesi
interna del capitale, ci permette di ripensare i limiti e le opportunità della
rivoluzione e delle lotte in un orizzonte globale. Ciò che ci sembra utilmente
evocativo è l’audace pretesa, tutta politica, che Luxemburg ha di andare oltre
le differenze. Non si può dire che Luxemburg non le veda, per quanto la loro
specificità sia sempre e solo un effetto della ferocia capitalistica, ma la
descrizione dello spazio globale non è la questione politica cruciale del testo
luxemburghiano, tantomeno lo è la valorizzazione delle differenze, se non nella
misura in cui esse producono estensione dello sfruttamento e connessioni
politiche globali.
Il soggetto di queste lotte è infatti per Luxemburg sempre
la classe operaia globale, vale a dire che la connessione tra classe operaia
interna ai paesi capitalistici e le comunità devastate, o le nuove classi
operaie da esse scaturite, è pensata prima di tutto politicamente. Quello che
ci interessa valorizzare a partire da Luxemburg è, dunque, una riflessione
politica sulla dimensione completamente globale della lotta di classe.
Il capitalismo è «forma storica dell’organizzazione della
società moderna», e «il commercio mondiale è una condizione storica di
esistenza del capitalismo». Il suo ordine è «la ferrovia davanti e la rovina
dietro», vale a dire che nel momento del suo dispiegarsi il capitale è
vincente, domina, «si apre la strada» ed è poi la sua stessa contraddizione a
tradirlo, creando la possibilità della sua fine, cioè della presa di potere. Il
capitale vince finché non è sconfitto. Questa sconfitta è data per
Luxemburg da una simultaneità fondamentale tra convulsione generata dalla
devastazione capitalistica e necessità ineliminabile della rivolta, cioè
presenza del soggetto globale della lotta. Questa pretesa unità e simultaneità
è tanto problematica quanto utile per ripensare oggi i processi di
soggettivazione politica. Per Marx come per Luxemburg «la rivoluzione sociale
non può prendere la sua poesia dal passato ma soltanto dal futuro».
Una teoria politica della crisi
Per Luxemburg, il movimento del capitalismo genera dunque le
condizioni oggettive, ovvero le contraddizioni insolubili, che rendono la sua
riproduzione impossibile. Il socialismo è appunto il superamento dialettico
della «cattiva infinità» in cui ricade il capitalismo. In questo senso, la
realizzazione del socialismo necessita di una negazione radicale e oggettiva a
un processo capitalistico che si pretende esclusivo e onnipotente. Una
negazione che si manifesta in primo luogo come rovesciamento del meccanismo
accumulativo.
Rivoluzione, accumulazione e crisi sono dunque per Luxemburg
profondamente intrecciate nella dinamica strutturalmente contraddittoria del
capitalismo. Nella misura in cui la teoria luxemburghiana dell’accumulazione è
un’analisi della legge di moto del capitalismo, essa rappresenta altresì una
teoria della sua crisi. Tuttavia, mentre l’esito catastrofico del capitalismo
viene esaminato con estremo rigore logico, l’insorgenza operaia appare evocata
in alcuni punti ma non è mai oggetto di una trattazione specifica. Un fatto
singolare se consideriamo che per Luxemburg la classe operaia deve comunque
colmare i vuoti lasciati tanto dalla teoria quanto dall’organizzazione e
risolvere le contraddizioni insite nel capitalismo. La posizione di Luxemburg
può essere spiegata forse alla luce del suo tentativo di rivestire di
oggettività scientifica il suo lavoro più teorico. Innestare la lotta di classe
nel movimento scientificamente votato alla catastrofe del capitalismo
significava offrire un appiglio più solido tanto a quegli operai che
sceglievano la via della rivoluzione e non delle riforme, tanto a quei
dirigenti di partito che lottavano contro il riformismo.
Strutturare una teoria della crisi attorno al problema
decisivo dell’accumulazione di capitale non è un atteggiamento scontato. Non lo
è soprattutto se l’accumulazione viene descritta non soltanto come momento di
realizzazione della merce sul mercato, ma all’incrocio tra la produzione di
valore e la sua realizzazione, ovvero come realizzazione dello sfruttamento.
Essa cioè non indica semplicemente un problema oggettivo nella
costituzione del capitalismo, ma anche un campo di battaglia, un luogo di
conflitto, dove le resistenze all’introduzione dello sfruttamento capitalistico
nei paesi non capitalistici possono saldarsi alle lotte contro gli oliati
meccanismi dell’accumulazione nei paesi pienamente capitalistici.
La teoria luxemburghiana della crisi acquista allora un
evidente impatto politico nella misura in cui combatte duramente quelle teorie
che da Tugan-Baranovskij in poi, e specialmente nell’area revisionista del SPD,
avevano espresso forti perplessità sulla certezza che il capitalismo sarebbe
andato in crisi. Queste posizioni prediligono infatti un approccio che mette in
luce le sproporzioni e gli squilibri del capitalismo, più che le sue tendenze
alla crisi.
Nell’età della scienza sociale dispiegata e della sua
fusione con le politiche pubbliche, sproporzioni e squilibri possono essere
infatti temperati con interventi mirati da parte dello Stato. Tuttavia, per
Luxemburg il ruolo dello Stato non può che essere circoscritto: può ritardare
la crisi, ma non impedirla. Lo Stato, dunque, non solo sconta il limite intrinseco
a un’organizzazione strutturalmente votata a servire gli interessi di una
determinata classe, ma finisce per risultare un argine troppo debole a fronte
di una crisi che si annida nel meccanismo stesso dell’accumulazione. Una crisi
che inevitabilmente è destinata a scoppiare, sebbene necessiti di un momento
soggettivo che ne determina l’esplosione finale e che assume le forme del
rovesciamento operato dalla classe operaia contro le strutture politiche,
economiche e sociali attorno a cui fino a quel dato momento della storia si è
sviluppato il sistema capitalistico. Il risvolto riformista contenuto nella
teorie di Tugan era già stato svelato d’altronde da Kautsky, il quale invece
formulò una teoria della crisi basata interamente sul sottoconsumo e quindi
sulla necessità del capitalismo di appropriarsi di nuovi mercati di sbocco che
risolvessero le crisi di sovrapproduzione. In questo senso, però, Kautsky mette
l’accento su fattori puramente oggettivi, procrastinando a data da destinarsi
l’organizzazione di un movimento rivoluzionario, il quale, in tale ottica,
emergerà dalle cose più che dai rapporti sociali. E non a caso la teoria
kautskyana non si concentra tanto sulla produzione di valore, laddove
determinati rapporti sociali devono necessariamente sorgere, ma sulla fase del
consumo, laddove regnano invece i meccanismi impersonali e apparentemente
simmetrici dello scambio delle merci. Con Luxemburg, invece, la crisi del
sistema è da rintracciare non in un singolo momento del processo, il consumo,
ma lungo l’intera filiera dell’accumulazione. È la concatenazione che struttura
le diverse fasi del processo di accumulazione a generare così una tendenziale
sovrapproduzione, a cui il sistema cerca di rimediare non attraverso degli
automatismi regolatori, ma tramite la produzione di nuove merci che,
nell’ottica di Luxemburg, cessano prima o poi di trovare uno sbocco
realizzativo. È questa coazione a ripetere, un’insensatezza portata
all’esasperazione per raggiungere un fine «più umano dell’umano», che per Luxemburg
vizia fin dall’origine la vicenda storica del capitalismo e ne segna il
destino. Se la forza del capitalismo risiede nella sua mutevole fenomenologia,
la sua debolezza sta nell’inflessibile ostinazione della sua logica. Ed è in
questa crepa che nuovi spazi di soggettivazione potranno mettere in crisi la
realizzazione dello sfruttamento.
Mantenendo aperto uno spazio dialettico tra oggettività e
soggettività della crisi/rivoluzione, tra tendenze oggettive e curvature
storiche, Luxemburg mette in luce invece l’intreccio profondo tra il
funzionamento del capitalismo e le condizioni della sua crisi. Le figure
segnalate nel testo precedente – classe/partito, spontaneità/organizzazione,
riforma/rivoluzione – riemergono in questo spazio problematico, con un ulteriore
carico, però, di politicità nella misura in cui l’analisi di Luxemburg si
avventura fino alle soglie globali della catastrofe del capitalismo. «La fame
divorante dell’accumulazione non è in grado di pensare al domani», scrive
d’altronde Luxemburg. Ed è anche in questo senso che la rivoluzione è
sempre un problema dell’oggi o, se non altro, di quel presente assoluto che la
narrazione neoliberale ha estorto alla storia.
Dopo l’introduzione al seminario dedicato a Riforma e
Rivoluzione di Rosa Luxemburg che la rivista Connessioni Precarie ha
organizzato lo scorso autunno, pubblichiamo la seconda parte dedicata a
una lettura fedele ma libera dell’accumulazione del capitale. Lo scopo
principale non è tanto una filologia politicamente corretta dell’opera di
Luxemburg, ma la presentazione di alcuni spunti che partendo dalla sua analisi
siano all’altezza della sua intelligenza e della sua coerenza.