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Karl Marx ✆ David Levine |
“Im düstern Auge keine Träne, Sie
sitzen am Webstuhl und fletschen die Zähne: Deutschland, wir weben dein
Leichentuch, Wir weben hinein den dreifachen Fluch - Wir weben, wir weben!” 1
Étienne Balibar
| Nel presente articolo vorrei riesaminare, e se possibile
chiarire, una questione ricorrente dell’interpretazione del pensiero di Marx:
quale rapporto c’è tra il suo concetto di politica e la sua dimensione
religiosa (teologica)? In vista del confronto che questo numero della
Revue Germanique Internationale vuole indicare, ma
anche in ragione dell’importanza strategica che bisogna, credo, conferirgli, mi
interesserò essenzialmente ad
un testo: l’articolo
pubblicato nel marzo 1844 negli
Deutsch-Französische Jahrbücher sotto
il titolo
Zur Kritik der Hegelschen Rechtsphilosophie.
Einleitung, nel quale appare per la prima volta in Marx il nome di
“proletariato”
2. Sosterrò che, preso alla lettera e
ricollocato nel suo contesto, esso rappresenta il “momento messianico” del suo
pensiero, e permette di interrogare la permanenza ma anche le metamorfosi di
questa dimensione lungo tutta la sua opera.
Isolando così un momento singolare, mi vorrei porre al di là dei dibattiti sul rapporto tra la “formazione del pensiero di Marx” e la sua “sistematizzazione” o il suo “sviluppo”, visto secondo i casi come continuità o discontinuità, che hanno la tendenza a decontestualizzare le formulazioni e a sostituire delle ricostruzioni totalizzanti alle necessarie letture differenziali.
Scelgo l’espressione di “momento messianico” per
simmetria con quella di “momento machiavelliano” (attinta da Pocock) di cui si
è servito Miguel Abensour in uno studio che ha fatto epoca, centrato
sull’interpretazione del testo immediatamente anteriore: il “Manoscritto del
1843” conosciuto con il titolo di Critica del diritto statuale
hegeliano, redatto da Marx prima del suo arrivo a Parigi, dove è
possibile che egli abbia avuto quell’intenzione a cui l’Einleitung avrebbe dato inizio3. Quel che voglio mostrare è che tra
questi due scritti dal titolo quasi identico, ma di stile radicalmente
differente, c’è un contrasto di fondo riguardo alla concezione della politica e
all’enunciazione dei suoi fini. Ciò non risiede tanto
in un capovolgimento dell’idealismo nel materialismo, o nella transizione dal
democratismo al comunismo, sebbene queste questioni meritino di essere poste,
quanto nel sorgere di una dimensione “impolitica” nel cuore della politica
stessa, associata alla funzione redentrice che vi assume il proletariato4. Filosoficamente, la questione essenziale
è allora comprendere come si articolino in un’autentica unità di contrari il
“momento machiavelliano” (prevalentemente politico, a-teologico e radicalmente
democratico, se seguiamo l’interpretazione di Abensour) e il “momento
messianico” non soltanto dal punto di vista della loro concatenazione, ma anche
da quello della loro correlazione concettuale e per così dire della loro mutua presupposizione. Se fosse proprio così, e qualunque sia
l’estrema differenza delle figure sotto le quali è stata richiamata
manifestandosi in seguito in Marx e nei suoi successori, avremmo a che fare con
una struttura di pensiero in quanto tale irriducibile.
Cominceremo descrivendo la struttura dell’
Einleitung a partire dalle sue caratteristiche
stilistiche e dalla sua economia concettuale
5. E probabilmente, considerando il nostro
obiettivo, conviene farlo cominciando
dalla fine: «Quando
le condizioni interne [ad es. l'alleanza della filosofia o “teoria” tedesca e
del proletariato, di cui l'una è la “testa” e l'altra il “cuore”
dell'emancipazione umana] saranno soddisfatte, il canto del gallo francese
suonerà come una tromba per annunciare il giorno della resurrezione tedesca [
wird der deutsche Auferstehungstag verkündet durch das Schmettern
des gallischen Hahns]». Fra i commentatori che non riducono questa
riga profetica ad un effetto giornalistico, nessuno a mia conoscenza ne indica
la provenienza, tuttavia decisiva
6. Essa non esclude l’ironia, e non impone
di attribuirgli un significato univoco, ma proibisce di farne una semplice
trovata. Variando un verbo simile, si tratta della ripresa di un celebre testo
di Heine, scritto per salutare la Rivoluzione di Luglio, nel quale si trova
anche evocata la relazione storica tra la Riforma luterana, la Rivoluzione
francese e la Filosofia tedesca che si ritroverà nell’
Einleitung: «Ecco che il gallo francese ha cantato (
gekräht) per la seconda volta, e anche in Germania il
giorno sorge (…) Ma che facevamo durante la notte? Eh certo sognavamo alla
nostra maniera tedesca, cioè facevamo filosofia (…) Non è strano, però, che
l’attività pratica del nostro vicino dell’altro lato del Reno abbia questa
affinità elettiva con il sogno filosofico che noi perseguiamo nella
tranquillità tedesca? (…) La filosofia tedesca non sarebbe nient’altro che la
Rivoluzione francese riprodotta in sogno? … »
7. Il canto del gallo francese che annuncia
il giorno dell’emancipazione segnala dunque un’interpretazione delle
rivoluzioni moderne come un ciclo storico e intellettuale trans-europeo di cui
Marx crede di poter profetizzare la “risoluzione” imminente (come farà
nel
Manifesto del partito comunista del 1847), nello
stesso tempo in cui egli proclama nella comparsa del proletariato l’arrivo di
un salvatore del mondo
8. Questa congiunzione dipende quindi da un
dispositivo di scrittura caratterizzato da una sovrapposizione breve, ma
intensa e reciproca, tra le “voci” proprie di Marx e di Heine, che soltanto
oggi comincia ad essere conosciuto meglio
9. Cosa chiarisce l’insieme del significato
del testo? Io proporrei schematicamente tre chiavi di lettura.
La prima concerne il rapporto tra questa
conclusione e le formule introduttive molto più celebri che riguardano la religione («oppio dei popoli»): «In Germania la
critica della religione, che forma la condizione di tutta la critica, adesso è
stata essenzialmente portata a termine (…) Il fondamento della critica irreligiosa
è il seguente: non è la religione che fa l’uomo, è l’uomo che fa la religione
(…) Ma l’uomo è il mondo dell’uomo,
ovvero lo Stato, la società. Questo Stato e questa società producono, con la
religione, una coscienza invertita, perché formano essi stessi un mondo
all’inverso (…) La lotta contro la religione è dunque mediatamente la lotta
contro questo mondo di cui essa è come l’aroma spirituale. La miseria religiosa
è simultaneamente l’espressione della miseria
reale e la protesta contro la miseria reale
(…) La critica della religione è dunque nel centro critico di quella valle di
lacrime di cui la religione è essa stessa la sacralizzazione illusoria …».
Lasciamo qui da parte il dibattito su ciò che
queste formule debbano a Feuerbach, il cui «capovolgimento antropologico» della
teologia, come sappiamo, ha rivestito un’importanza capitale per i giovani
hegeliani in generale, così come l’ateismo proveniente dagli “illuministi
radicali” a cui Marx è molto vicino e che ispira la sua denuncia della restaurazione
europea monarchica e clericale, e passiamo subito al significato
teologico-politico generato dal confronto tra l’inizio dell’articolo, che
formula l’atto di morte della religione, e gli enunciati messianici della fine
relativi al proletariato. Potremmo esprimerlo in latino maccheronico (o della
Chiesa) con la formula: exit religio, adveniunt
proletarii. Rapportando l’illusione o mistificazione religiosa
all’espressione contraddittoria di un mondo reale alienato, Marx coglie un
problema politico, ma che appare nell’immediato senza soluzione, perché ad esso
non corrisponde attore o forza pratica. Questa forza si “trova” però, al
termine di una discussione storico-teorica complessa, nella figura materiale
del proletariato (sotto la condizione, sulla quale tornerò, di un’alleanza o
fusione organica con la filosofia che si è resa autonoma nel corso di una lunga
contesa con la religione). Il proletariato è dunque l’altro (o l’antagonista) della religione, ma è
anche l’espressione della sua contraddizione interna, la rivelazione del
segreto di cui, in quanto “protesta” contro la sofferenza, essa era stata
portatrice. Abbiamo a che fare qui con uno schema che viene da molto prima di
Marx e che si prolungherà oltre lui: quel che la religione tradisce o perverte
(una promessa di emancipazione o di redenzione), il messia, o meglio, la “forza
messianica” lo rivela, lo ristabilisce e lo fa trionfare contro di essa. Stiamo
attenti a non vedere qui una “sostituzione” dialettica della religione: si
tratta piuttosto di una rottura o di una interruzione, anche se è concepita
come un ritorno all’autenticità originaria.
Questo movimento era al cuore della riforma
protestante, in quanto denunciava nell’istituzione della Chiesa “visibile” una
nuova Babilonia che prostituisce la rivelazione al servizio delle potenze di
questo mondo, prima di essere respinto in secondo piano dal conflitto tra
Lutero e Thomas Müntzer e dalla guerra dei contadini10. Sarà presente inoltre nella maniera in
cui i “nuovi cristianesimi” e i socialismi romantici annunceranno l’avvento di
una religione dell’Uomo sgombra dalle superstizioni teologiche11. È più vivente che mai ai nostri giorni
nella maniera in cui i “teologi della liberazione” oppongono, all’idolatria che rappresenterebbe il culto
capitalista del denaro, la funzione escatologica del “Dio liberatore” che fa
dei poveri collettivamente una reincarnazione di Cristo, vittima offerta in
sacrificio ma anche figura di protesta e di rivolta12. Più significativamente forse per
l’interpretazione del nostro testo, ciò attraversa tutte le interpretazioni sia
cristiane che ebree (cabaliste), che in maniera antinomica, identificano
l’avvento del messia con l’abolizione della legge scritta, istituita. In Marx
questa interruzione della religione attraverso l’elemento messianico, al centro
della storia moderna in modo da (ri)divenire quella dell’uomo (o della
realizzazione dell’umanità), è rappresentata dall’avvento di una forza
paradossale, essenzialmente passiva («Die
Revolutionen bedürfen nämlich eines passiven Elementes…») e tuttavia
radicalmente trasformatrice, abitata dall’“entusiasmo” del nuovo e capace di
comunicarlo: le masse dei proletari.
Può darsi, evidentemente, che affinché queste si
trovino investite di caratteristiche antitetiche, congiungano il nulla dell’abbandono, dell’annientamento e della
pauperizzazione assoluta con il tutto di una
realizzazione dell’essenza umana in quanto “comunità” o pienezza del “genere” (einer Sphäre endlich … welche mit einem Wort der völlige
Verlust des Menschen ist, also nur durch die völlige
Wiedergewinnung des Menschen sich selbst gewinnen kann…).
Questa “rappresentazione negativa della società” nell’essere del proletariato
si esprime nelle varie lingue tra le quali il testo di Marx circola
incessantemente. Una fra queste rinvia alla tradizione rivoluzionaria francese
e alle rivendicazioni politiche che associano la sovranità del popolo
all’uguaglianza: «Io non sono nulla, allorché dovrei essere tutto», scrive Marx
in una personificazione della classe rivoluzionaria, evocando le formulazioni
di Sieyès che lanciarono la Rivoluzione francese13 e che preannunciano i versi dell’Internazionale.14Ma queste formule stesse si inscrivono in
una lunga scena significante che passa per la mistica (il todo y nada, o nada per todo, di
Jean de la Croix) e la teologia negativa15. Marx li assocerà ad una fenomenologia
della crisi della società civile-borghese di cui bisogna seguire da molto
vicino la terminologia per comprenderne il doppio significato storico ed
escatologico: Auflösung (la “dissoluzione”
della società nelle condizioni d’esistenza del proletariato, strappata alle
condizioni di vita e alle forme di riconoscimento istituzionale che “integrano”
una classe all’ordine sociale) comunica con Lösung (la
“soluzione” o “risoluzione” del problema politico dell’emancipazione, che non
hanno potuto apportare né la Riforma religiosa né la Rivoluzione politica
borghese), e di conseguenza invoca la redenzione (Erlösung) e il
redentore (die Rolle des Emanzipators).Quindi, a beneficio del proletariato che la sua
oppressione ha ridotto ad un’umanità elementare e generica allo stesso tempo,
privo di tutta la “proprietà” o che non possiede nulla «in proprio» (Eigentumslos), Marx può riattivare il mito biblico
dell’elezione liberatrice: la schiavitù “radicale” si capovolge in missione
redentrice di un “popolo del popolo” operante per tutta l’umanità. Questa
missione si radica nella sofferenza e nell’umiliazione (è, se vogliamo,
l’elemento “cristico” del proletariato)16. Ma essa riposa soprattutto sull’idea
(che siamo tentati di considerare, questa volta, come più prossima al
messianismo ebraico) di un’ingiustizia “in sé” o di un “torto assoluto” («keinbesondres Unrecht, sondern das Unrecht schlechthin») che determina l’uscita dalla
storia e l’entrata nell’umanità («welche nicht mehr auf einen historischen, sondern nur noch auf den menschlichen Titel provozieren kann…»)17. Come nella Cabala, e particolarmente
nelle varianti “utopistiche rivoluzionarie” del messianismo ebraico, la
risoluzione dell’ingiustizia storica è concepita come unaricreazione del mondo, al prezzo della sua distruzione
(«Auflösung der bisherigen Weltordnung»), piuttosto che come un’uscita dalla
vita, o un passaggio nell’altro mondo18. E da questo punto di vista la
straordinaria insistenza del termine «mondo» (Welt) (e dei suoi
composti) da un’estremità all’altra dell’Einleitung ha
un carattere emblematico: nello stesso tempo in cui significa (nel linguaggio
stesso di una teologia che oppone il “secolo” al “cielo”, all’ “al di là”) la
critica radicale di tutto il dualismo (caratteristica precisamente della
“religione”, comprese le forme secolarizzate della politica borghese), essa
insiste sulla materialità di questa Terra
Promessa alla quale perveniamo attraverso l’emancipazione “umana”. Ma ben
inteso, quando non cessa di attingere dalle tradizioni della “resurrezione” e
della “redenzione”, eterogenee fra loro benché niente affatto disgiunte
storicamente, è un messianismo nuovo che Marx
abbozza qui (o con il quale egli gioca, di un gioco di cui, nel suo proprio
“entusiasmo”, non è forse veramente il maestro): ciò che le Tesi su Feuerbach, un anno più tardi, riformuleranno
identificando la “prassi rivoluzionaria” con la “trasformazione del mondo”, e
che il Manifesto comunista riassumerà nella forma, di
nuovo, di un avvertimento profetico, indirizzato a tutte le “classi dominanti”:
«Tremino davanti alla possibilità di una rivoluzione comunista. I proletari non
hanno nulla da perdere che le loro catene. Essi hanno un mondo da guadagnare»19. Questo messianismo non è soltanto
militante, esso afferma che la trasformazione del mondo è fin d’ora in corso
dal momento in cui un certo ordine sociale ha forgiato o
“formato” delle scene insopportabili, incompatibili con la sua propria
sopravvivenza. Sotto i nostri occhi la “passività” radicale si trasforma allora
in “attività”.
Fermiamoci qui un istante. Ciò che noi abbiamo
appena descritto, abbreviando i riferimenti ma provando a riprodurre le
formulazioni più caratteristiche, dipende da una retorica, o meglio da una
stilistica. Pur essendo significativa, essa non basta per determinare una
problematica20. Per passare a questo livello, bisogna
procedere per delle letture comparative, alcune delle quali riguardano i
materiali e le formule che tali frasi hanno attinto dal contesto nel quale sono
state scritte, e gli effetti di identificazione o, al contrario, di distacco
che ne risultano, mentre le altre riguardano il rapporto che esse intrattengono
con l’insieme degli scritti di Marx dello stesso periodo, quello delle
evoluzioni e delle cristallizzazioni più rapide del suo pensiero.
Accontentiamoci qui di evocarle schematicamente.
Bisognerebbe innanzitutto prendere la misura della
pregnanza del vocabolario teologico, e soprattutto profetico e apocalittico,
nella letteratura europea del periodo che va dalla Rivoluzione francese del
1789 alla rivoluzione del 1848 passando per la “restaurazione”. Ciò non vale
soltanto per le produzioni del socialismo e del comunismo “utopistici”,
ispirati o meno dall’idea di un “nuovo cristianesimo”, o inversamente per
quelle della controrivoluzione “teocratica”, ma anche per il nazionalismo. Ci
sono a questo proposito delle grandi differenze di tonalità tra i contesti,
cioè tra il seguito della grande affermazione nazionale francese che apre come
aveva detto Goethe «un’era nuova nella storia dell’umanità», e l’attesa
interminabile dell’unità nazionale tedesca. Non è impossibile che Marx (vicino
su questo punto a Hess) si sia appoggiato sulla retorica rivoluzionaria
francese per elaborare un discorso più “attivista” rispetto a quello dei
comunisti tedeschi come Weitling che cercavano semplicemente nella tradizione
evangelica il modello di una società fondata sulla comunione dei beni21. Ma per l’interpretazione delle formule
dell’Einleitung – in cui possiamo dire che Marx si
«approccia tutt’al più alle preoccupazioni di un pensiero nazionale tedesco»22 – il confronto più decisivo sarebbe
quello che si stabilisce con l’idea della salvezza nazionale e della missione
universale della Germania, in ragione stessa dell’idea che forma il filo
conduttore della sua analisi: il blocco delle possibilità della rivoluzione
antifeudale e anticlericale dopo la svolta conservatrice della monarchia
prussiana, alla quale si aggiunge l’incapacità della borghesia tedesca di
trasformarsi in “classe universale”, ossia di farsi la rappresentante degli
interessi e dei diritti di tutta la società (e dell’anima popolare: Volksseele) contro un regime di oppressione, sfociano
nella possibilità paradossale di proiettare l’Europa intera al di là del regime
politico borghese. Sono sorprendenti le analogie con la maniera in cui Fichte,
nel Discorso del 1807, aveva descritto la nazione
tedesca come una forza spirituale metapolitica, la cui liberazione dal dominio
straniero sarà anche quella di tutta l’umanità perché ne concentra l’energia
morale23. Così come sono sorprendenti con la
maniera in cui Cieskowski, inventore della filosofia dell’azione ripresa da
Hess e da Marx, combinava l’idea del superamento dell’antinomia tra teoria e
prassi nella storia universale con la funzione redentrice della nazione polacca24
Ben inteso, il senso di questo confronto non è
di identificare, sostituendo un “soggetto della storia”
con un altro (la nazione, la classe), i discorsi del messianismo nazionale e
del messianismo proletario, almeno nella sua forma marxiana originale – come
tende a fare Voegelin. È piuttosto di comprendere meglio, in un contesto
discorsivo conflittuale, come l’uno si definisca e si enunci contro l’altro25. Da questo punto di vista anche l’omogeneità
di pensiero e di scrittura fra Marx e Heine nell’anno 1844 costituisce un
argomento fondamentale: vi troviamo l’origine dell’idea secondo la quale «i
proletari non hanno patria», più tardi rimessa al centro dall’argomentazione
del Manifesto comunista, dove figura simultaneamente una
delle manifestazioni della negazione generalizzata che conferisce al
proletariato il suo statuto di «classe che non è una classe della società», e
il punto d’appoggio della parola d’ordine internazionalista nella quale si
esprimerà l’universalismo della rivoluzione comunista. Nello stesso tempo in
cui Marx redigeva l’Einleitung, e per così dire nel
saggio affine, Heine scriveva il suo grande ciclo poetico Deutschland: Ein Wintermärchen, la cui prefazione
trasforma il patriottismo in missione cosmopolitica26.
All’esame del contesto storico e letterario,
conviene tuttavia aggiungere quel che costituiscono, presi insieme, gli scritti
marxiani degli anni 1843-1844, pubblicati o inediti. La complessità della
configurazione teorica in seno alla quale, nello spazio di qualche mese, si
effettua la “mutazione” del pensiero di Marx da un “umanesimo democratico” ad
un “comunismo rivoluzionario”, distinto simultaneamente dal ritorno ad una
comunità immediata e da una generalizzazione della proprietà privata27, è stata spesso discussa e lo sarà
ancora a lungo. Da parte mia, vorrei attirare l’attenzione su una
caratteristica notevole di questi testi, che regga ciò che la costellazione dei
concetti generalmente considerati come determinanti il cuore della problematica
del “primo Marx” (prima delle rivoluzioni del 1848): comunismo, emancipazione umana
o “sociale”28, proletariato come
“classe universale”, “fine dello Stato politico”, alienazione (Entfremdung) ed «esteriorizzazione» (Entäusserung)29dell’essenza generica dell’uomo, prassi rivoluzionaria, non sia mai interamente data in nessuno dei testi
tradizionali, in cui ognuno del resto nota un genere di scrittura differente e
corrispondente ad una destinazione distinta (pubblica o privata)30. Questa dispersione non significa che ci
sarebbeincompatibilità pura e semplice tra concetti
corrispondenti, ma che il loro confronto resta fonte di tensione tra più punti
di vista e più discorsi, la cui unità non può che essere problematica. È
esattamente nella comprensione di queste tensioni che possiamo sperare di
trovare le chiavi della mobilità e l’incompiutezza intrinseca del pensiero di
Marx, perciò anche dei suoi rilanci possibili nelle altre congiunture31. Per concludere questa analisi
necessariamente parziale, mi soffermerò dunque come avevo annunciato su un
confronto pertinente: quello che riguarda le due “critiche della filosofia del
diritto di Hegel”, dette altrimenti il Manoscritto del 1843 e
l’Einleitung del 1844, e che possiamo ricondurre
all’oscillazione tra il punto di vista del “démos” e quello del
“proletariato”, rispettivamente portatori dell’aspetto politico e dell’aspetto
impolitico della rivoluzione.
Io propongo di riassumerne il senso leggendovi due
modi di rapportare la questione dell’attività o
della prassi alla definizione di un “soggetto
collettivo”, e di conseguenza alle trasformazioni (e all’interminabile
decomposizione) dell’idea di sovranità. Non si tratta di considerare che una
fra esse sarebbe più “materialista” dell’altra, in virtù dell’accento messo da
un lato sulla realtà empirica dei conflitti della società civile-borghese, e
dall’altro sulla condizione determinante delle rivoluzioni, ossia l’incontro di
una forza sociale e di una teoria radicalmente critica. Bisogna piuttosto, mi
sembra, considerare che la sintesi della filosofia della prassi e del
materialismo, che le Tesi su Feuerbachpresenteranno
come una dialettica che attraversa tutto il pensiero moderno, resta in sospeso
in questa tensione persistente fra i due punti di vista.
Miguel Abensour ha molto giustamente mostrato come
la critica sviluppata da Marx ai margini dellaFilosofia del diritto di
Hegel (una parte della sezione consacrata al “diritto pubblico interno”, che va
dal §261 al § 313) non si accontenti di dimostrare, attraverso una lettura del
testo hegeliano che possiamo ben dire “sintomale”, che la dialettica
speculativa si areni in attesa del suo obiettivo: fare dello Stato
costituzionale la risoluzione in atto, nel sistema delle sue istituzioni, dei
conflitti della “società civile” (così come della famiglia), ed erigerlo così ad
assoluto politico in cui l’idea di libertà (che è l’idea stessa del diritto) sarebbe allo stesso tempo realizzata ed
autonomizzata32. Da questo capovolgimento, che prende
per bersaglio l’astrazione delle
determinazioni dello Stato moderno (come lo Stato degli “individui” proprietari
e della loro rappresentazione politica nel sistema della divisione dei poteri),
alla quale Hegel si è accontentato di aggiungere l’apparato di una deduzione
speculativa per produrre l’illusione della sua necessità (accentuando da quella
stessa parte la sua analogia con il dualismo teologico del “cielo” e della
“terra”), Marx non ha estratto l’astrazione inversa di una teoria della
“società” in quanto base o soggetto reale (economico) delle figure della
politica, come sarà la tentazione permanente del marxismo (e forse di egli
stesso nella sua sistematizzazione dei principi del materialismo storico)33. Al contrario, ne ha tratto l’idea di un
soggetto politico che sarebbe allo stesso tempo all’origine dell’emergenza
dello Stato moderno, fondamentalmente laico e universalista, contro le
istituzioni clericali e gerarchiche dello Stato dell’Ançient
Régime, e del suo superamento o della sua “fine” prevedibile,
inscritta nell’insostenibilità dei suoi propri limiti. Cogliendo un’espressione
convincente che sorge dalla penna di Marx nel momento in cui egli denuncia il
tentativo hegeliano di concentrare l’espressione della sovranità politica nel
“momento” della decisione monarchica (cioè del
“capo dello Stato”), Abensour chiama questo soggetto istituente o costituente
il «demos totale»34. Egli lo mette in relazione, da una
parte con la tesi di Marx (di nuovo prodotta da un capovolgimento delle
formulazioni di Hegel) secondo la quale, nella storia degli Stati moderni, è il
«potere legislativo» che «ha fatto le grandi rivoluzioni organiche universali»
(in opposizione alle “piccole rivoluzioni”, cioè alle reazioni), e di
conseguenza è lui che, presentandosi come il rappresentante della totalità del
popolo,precede di diritto e di fatto le costituzioni
invece di formarne semplicemente un organo o di legiferare attraverso la loro
autorizzazione; e d’altra parte con l’idea che, nei conflitti della società
civile con se stessa che hanno in ultima analisi la loro origine nella
“religione della proprietà privata” e alle quali lo Stato “politico” non
apporta che una soluzione formale (che alimenti il suo proprio interesse
particolare, burocratico), si annuncia la possibilità di una vera democrazia (o di una «democrazia contro lo
Stato», non statale e non rappresentativa) nella quale il potere legislativo si
“realizza” “abolendosi”, cioè trasformandosi in associazione35. È questo processo, che conduce il
popolo al di là della formalizzazione statale dei
conflitti sociali (e dunque del controllo esercitato sull’agire
politico della comunità da quella burocrazia di cui Hegel è stato il vate), a
partire dalla potenza stessa che lo ha fatto esistere nella storia delle
rivoluzioni, che Abensour considera come il “momento machiavelliano” di Marx.
Detto altrimenti è la possibilità di pensare una pratica politica autonoma che
non sia assoggettata ad una sovranità, sia trascendente o immanente, e che
“istituisce il sociale” in maniera permanente invece di riflettere passivamente
le sue divisioni: «Marx, vicino in ciò all’ispirazione di Machiavelli (…) ha
per oggetto di introdurre nell’“ambiente proprio della politica”, di aiutare a
pensare l’essenza del politico, a circoscriverne la particolarità» (che non è
né nello Stato, né nella Società)36. Seguendo una via stretta tra
l’anarchismo (al quale possiamo unire le proposizioni contemporanee di Moses
Hess) e un socialismo del lavoro che vuole riassorbire la politica
nell’«amministrazione delle cose» (come prima la scuola saint-simoniana), Marx
vorrebbe fare dell’emancipazione del soggetto popolare il luogo pubblico
stabile della sua autocostituzione, il luogo di emergenza della dimensione
“generica” dell’esistenza umana.
Abensour è ben cosciente però delle difficoltà
interpretative che incombono su questa figura del soggetto, alla quale
riconducono in fin dei conti tutte le questioni relative alla “vera democrazia”
e alla possibilità di pensare una politica non-statale. Ed è questa la ragione
per la quale, nelle ultime pagine del suo saggio, egli giunge praticamente a
spiegare che è mancato a Marx quell’elemento critico presente in Machiavelli
come una “finitudine” essenziale al pensiero del politico. Ciò dipende dalla
sua incapacità di pensare il popolo come “totalità” senza conferirgli anche,
nello stesso tempo, le caratteristiche dell’unità: «È giocoforza
osservare che Marx pensa la vera democrazia sotto il segno dell’unità, cioè
agitata in permanenza da una volontà di coincidenza con sé, dunque al margine
di un pensiero della democrazia come forma di società che si costituisce per
dare accoglienza alla divisione sociale, che si distingue per riconoscere la
legittimità del conflitto nella società. Contrariamente a Machiavelli […] Marx
vede nell’unità un bene schiettamente positivo, senza sospettare, sembra, che
possa esistere un legame tra alcune forme di unità e il dispotismo, e
inversamente dei legami tra la divisione sociale e la libertà…»37.
Potremmo, mi sembra, riformulare la difficoltà
dicendo che nella teorizzazione del 1843, nonostante la sua funzione critica (o
forse a causa di essa, cioè a causa della maniera in cui è pensato a partire
dall’idea hegeliana e del suo capovolgimento), il demos come soggetto istituente,
essenzialmente pieno o effettivo, è minacciato permanentemente da due pericoli
simmetrici, in qualche modo per difetto o per eccesso38. Da una parte resta un soggetto virtuale, che si proietta al di là delle sue forme di
esistenza presenti nel “fondo” delle contraddizioni dello Stato politico, o
come il superamento delle divisioni della società prodotte dalla proprietà
privata, che Marx non chiama ancora “lotte di classe” e le cui modalità restano
completamente nebulose. In altri termini, il tempo della sua emergenza storica non
è l’idea speculativa di un rilancio del “movimento delle rivoluzioni” venute
“dal basso”, che il Manoscritto identifica anche con l’idea del “progresso”39. Ma dall’altra parte lo stesso soggetto
tende ad apparire di fronte allo Stato non tanto come un principio di
dissoluzione quanto come una sua immagine capovolta, o almeno l’immagine
capovolta della sua sovranità: non
soltanto in ragione della maniera in cui Marx rivendica la tradizione
costituente del popolo rivoluzionario che si eleva sovranamente «dalla
particolarità al dominio»40 contro il compromesso
corporativista hegeliano tra il liberalismo e la monarchia, ma in ragione della
“coscienza” del suo ruolo storico senza la quale appunto non potrebbe liberarsi
dall’alienazione politica incarnata dai meccanismi burocratici di
rappresentanza.
Ciò che vorrei allora suggerire, è che, nel momento
messianico immediatamente successivo, Marx non ha, propriamente parlando,
risolto queste aporie (forse inerenti a tutto il pensiero della
democratizzazione come movimento “ininterrotto” della storia), ma le ha
spostate da un estremo all’altro. Al proletariato cui egli rivendica per la
prima volta il nome, egli conferisce in effetti delle caratteristiche ontologiche
e una funzione storica che sono, per molti aspetti, esattamente opposte a
quelle che ho appena riassunto sulla scia di Abensour: non quelle di un
“soggetto pieno”, ma quelle di un “soggetto vuoto”, se non addirittura di
un soggetto come vuoto. Per questo, tale vuoto che
esprimono una dopo l’altra le formulazioni “negative” dell’Einleitung (e per cominciare quella della
“dissoluzione” della società civile-borghese nell’essere del proletariato,
immediatamente assimilabile ad un nulla politico) non è in nessun modo privato
delle determinazioni pratiche. Forse al
contrario forma la condizione affinché alcune dimensioni della pratica, in
quanto “trasformazioni rivoluzionarie” delle condizioni esistenti, siano
pensate come tali, benché sotto una forma che possiamo dire “impolitica”. Mi
sembra lo si veda bene in due punti, in cui il discorso dell’Einleitung contrasta fortemente con quello del
Manoscritto del 1843.
Lo vediamo nella maniera in cui nell’Einleitung si rappresenta la temporalità
rivoluzionaria, elevando alla generalità di una struttura ciò che appariva
innanzitutto come un’eccezione contingente: il “ritardo politico” della
Germania del Vormärz, e dunque l’anacronismo che caratterizza il suo rapporto
simultaneamente sfasato e necessario con l’evoluzione europea. Meglio, l’Einleitung fa di questa contingenza e di questa
eccezione la struttura stessa della storicità, poiché è essa che permette di
comprendere come una forza del passato (o venuta dal passato) vada a trovarsi
nella posizione di far entrare l’umanità nell’avvenire. Siamo tentati di dire
che, nella descrizione di Marx, irriducibile alla logica del processo stesso
della “dialettica”, come a quella per cui il proletariato è una «classe della
società che non appartiene alla società», la Germania è una «nazione della
storia che non appartiene alla storia», e nel caso del proletariato tedesco
queste due determinazioni negative ne fanno più di una. Perché la Germania, in
un certo modo, «non ha presente», ma cristallizza in maniera “aberrante” una
“preistoria” e una “post-storia”, essa rappresenta già l’avvenire in seno al
passato, essa non può rientrare nel movimento della storia altrimenti che
facendone esplodere i “limiti” di tutte le evoluzioni precedenti, che sono i
limiti della politica come tale («Deutschland als der zu einer
eigenen Welt konstituierte Mangel der politischen Gegenwart wird
die spezifisch deutschen Schranken nicht niederwerfen können, ohne die
allgemeine Schranke der politischen Gegenwart niederzuwerfen»). Sappiamo che
questa condensazione del ritardo e dell’anticipo nella struttura dell’evento
rivoluzionario sarà periodicamente riaffermata nella tradizione marxista,
talvolta come tesi programmatica (Lenin a proposito della rivoluzione russa, e
dopo di lui i marxisti “terzomondisti”), talaltra come matrice di un “concetto
del tempo storico” non-lineare, dunque non-determinista, fondato sull’idea
della “non-contemporaneità” a sé (concetto comune, sorprendentemente, a Ernst
Bloch e a Louis Althusser, Eredità del nostro tempo 1935
e Per Marx 1965)41.
Lo vediamo poi nella maniera in cui l’Einleitung pensa il rapporto del proletariato con
la filosofia, attraverso la celebre metafora della “testa” e del “cuore”, che
risponde a ciò che Marx chiama la «difficoltà principale» (Hauptschwierigkeit) su cui si imbatte l’idea di una
«rivoluzione tedesca radicale»: l’assenza di una “base materiale” di cui la
teoria dell’emancipazione umana elaborata dalla filosofia potrebbe
“impadronirsi”, per diventare a sua volta una forza storica dopo aver
“capovolto” la critica dell’autorità religiosa in critica dell’alienazione
umana. «Come la filosofia trova nel proletariato le sue armi materiali, allo
stesso modo il proletariato trova nella filosofia le sue armi spirituali (…) La
testa di questa emancipazione è la filosofia, il suo cuore è il proletariato».
Di nuovo queste formulazioni sono da interpretare in un contesto, o piuttosto
in una serie di contesti. Il confronto è stato spesso fatto, per sottolineare
la sorprendente coincidenza di terminologia e di data, con le tesi di August
Comte pubblicate lo stesso anno sull’«alleanza dei proletari e dei filosofi»42. Ma il confronto, chiaramente, è
interessante anche con la concezione kantiana della sintesi trascendentale (che
evoca almeno indirettamente la formula: «La filosofia non può realizzarsi senza
l’abolizione del proletariato, il proletariato non può abolirsi senza la
realizzazione della filosofia»)43. Senza dubbio abbiamo qui formalmente
l’applicazione di un vecchio schema filosofico, destinato a pensare i rapporti
del corpo e dell’anima, dunque la costituzione dell’individualità, e che
possiamo far passare successivamente all’intelligibile e al sensibile, al
concetto e all’intuizione, alla teoria e alla pratica. Ma precisamente il
“cuore” non è esattamente il “corpo” (benché attraverso un lapsus rivelatore
alcuni commentatori abbiano operato la sostituzione)44. E ciò che Marx cerca di pensare, o di
designare allegoricamente, non è tanto la costituzione di una
individualità (o di una soggettività collettiva dotata
contemporaneamente di una materia e di una forma) quanto il fatto di un intervento storico, che risulta dalla
congiunzione su scala mondiale della “coscienza” e della “sofferenza”, o almeno
dell’imminenza di questo fatto45. In questa teorizzazione del
rovesciamento della passività in attività che è essa stessa il cuore del
momento messianico, la “prassi” non è dunque uno dei lati della
sintesi, ma sarebbe piuttosto il risultato della
congiunzione di due condizioni di possibilità dell’azione, di cui ciascuna
presa in sé non è che una passività, o ancora una mancanza. L’evento (comparato
da Marx ad un «lampo»: Blitz des Gedankens)
non è più dell’ordine della rappresentazione, ma ne costituisce piuttosto il
limite, il punto di realtà che dissolve le forme della rappresentazione, in
senso politico come in senso metafisico («die faktische Auflösung dieser
Weltordnung»)46.
Il momento messianico non è dunque altra cosa, in
un certo modo, che l’inverso o la controparte del momento machiavelliano,
quindi questo libera un’aporia che non riguarda soltanto la possibilità di
pensare la politica al di là dello Stato e perfino contro di esso, ma la
rappresentazione del “soggetto politico” al quale dobbiamo imputarne le azioni,
e che bisognerebbe potersi rappresentare simultaneamente come una totalità (il
popolo), e come una mancanza (il popolo del popolo, sempre ancora da venire)47. Sarebbe certamente errato credere che
le formulazioni qui presentate – se caratteristiche della congiuntura del 1844,
nella quale Marx ha “cambiato luogo”, in tutti i sensi del termine –
rappresentano un punto di realizzazione. Ma sarebbe anche errato credere che il
“differenziale” teorico di cui esse testimoniano sia destinato a sparire: al
contrario, possiamo avanzare l’ipotesi che esso non cesserà di approfondirsi,
non foss’altro in ragione della persistente difficoltà persistente del marxismo
nel caratterizzare la “lotta delle classi” (paragonata dal Manifesto del 1847 ad una “guerra civile” ora
aperta e ora latente) come “politica” o come “non politica” o “apolitica”48. Quanto al lato messianico della
definizione del proletariato, se dipenderà dal cedere il posto ad una
definizione più “positiva” della classe operaia o della «classe dei lavoratori»
(Arbeiterklasse) in rapporto con il meccanismo di sfruttamento
della forza lavoro e dell’organizzazione del pluslavoro, si sposterà infatti
sulla rappresentazione apocalittica dello scontro finale tra la rivoluzione e
la contro-rivoluzione, indotti dalla violenza della repressione statale delle
insurrezioni popolari e proletarie del XIX secolo (Le lotte di classe in Francia, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte). Comprendiamo dunque,
mi sembra, contemporaneamente l’interesse e i limiti di una presentazione della
teoria di Marx come una filosofia della storia, che avrebbe ripreso a sue spese
lo schema della “storia della salvezza” attraverso la secolarizzazione
hegeliana, non tanto per fornirne un equivalente realista quanto per
intensificarne la «tensione escatologica»49. Essa designa il luogo – o uno dei
luoghi – delle operazioni discorsive praticate da Marx, ma ne semplifica la
posta in gioco e ne inverte, in un certo modo, le intenzioni riconducendole
sotto la categoria inglobante della “religione”.
Traduzione di Giovanni Campailla
*Questo saggio è già apparso in “Théologies
politiques du Vormärz. De la doctrine à
l’action (1817-1850)”, Revue Germanique Internationale,
8/2008, p. 143-160. È stato poi ristampato nel libro Citoyen
Sujet et autres essais d’antropologie politique, Presses
Universitaires de France, Paris 2011. L’autorizzazione alla presente traduzione
è stata gentilmente concessa dallo stesso Étienne Balibar
Notes
1 Heinrich Heine, Die armen Weber [Die
schlesischen Weber], pubblicato il 10 giugno 1844 nelVormärz (1ª
strofa).
2 Per la critica della filosofia
del diritto di Hegel. Introduzione, in K. Marx, F. Engels,
Opere, vol. III, Editori Riuniti, Roma 1972, pp.
190-204, che citerò qui di seguito
Einleitung (Marx-Engels
Werke, Dietz Verlag, Berlino 1970, vol. 1, p. 378-391).
3 Marx,
Kritik des Hegelschen Staatsrecht, M.E.W., vol. 1, p.
201-333 [trad. it.,
Critica del diritto statuale
hegeliano, traduzione, cura e commento di R. Finelli e F. S.
Trincia, Edizioni dell'Ateneo, Roma 1983]. Citerò la prima edizione del saggio
di Miguel Abensour,
Marx et le moment
machiavélien.“Vraie démocratie” et “modernité”, in
Phénoménologie et politique. Mélanges offerts à Jacques Taminiaux,
Editions Ousia, Bruxelles 1989, p. 17-114 (vedere anche la nuova edizione
apparsa nel 2004 per le Editions du Félin,
La démocratie contre l’Etat [trad.
it.,
La democrazia contro lo Stato.Marx e il momento machiavelliano,
a cura di M. Pezzella, Cronopio, Napoli 2008]
)
4 Nel suo articolo
Proletariat, Pöbel, Pauperismus (
Geschichtliche Grundbegriffe. Historisches Lexikon der
politisch-sozialen Sprache in Deutschland, Klett Verlag Stuttgart
1972-1997), Werner Conze mostra come, nel corso degli anni 1835-1840, la parola
“proletariato” importata dall’uso dei socialisti francesi sia stata sostituita
in Germania con quella di
Pöbel (“plebaglia”)
impiegata da Hegel per designare la massa “senza” (proprietà, domicilio,
professione, statuto…) o la classe impoverita esteriore al sistema corporativo
della «società civile-borghese» (
bürgerliche Gesellschaft).
Sullo sfondo dell’inasprimento degli antagonismi sociali, egli ha finito per
designare i lavoratori salariati i cui interessi si oppongono a quelli del
capitale manifatturiero. Conze confronta allora gli usi che ne sono stati fatti
da due “hegeliani”: Lorenz von Stein (1842) e Marx (1844), rispettivamente
sotto il titolo di nemico interno della società industriale e di agente della
“decomposizione” dell’ordine esistente. Da parte sua Georges Labica (articolo
“Prolétariat” del
Dictionnaire critique du marxisme,
PUF 1982) insiste sul ruolo di Moses Hess nella ricezione del termine
proletariato in Marx a partire dalla lettura di Stein, e nella combinazione di
una critica della pauperizzazione con una filosofia dell’azione.
5 A rigore bisognerebbe qui ricordare
le principali interpretazioni esistenti dell’
Einleitung, sia
quelle che le consacrano uno studio separato sotto il titolo di “svolta” nella
storia della costituzione del marxismo, sia quelle che la citano per
predilezione nel loro tentativo di caratterizzare quel che ne fa l’essenza
(come teoria della lotta delle classi, critica del capitalismo, filosofia della
storia, e perfino «religione secolare»). Non dispongo dello spazio per farlo, e
ci tornerò brevemente in conclusione. Ricordiamo, in maniera non limitata, i
nomi di Shlomo Avineri, Ernst Bloch, Auguste Cornu, Hal Draper, Jürgen
Habermas, Eustache Kouvélakis, Georges Labica, Karl Löwith, Michael Löwy,
Pierre Macherey, Emmanuel Renault, Eric Voegelin…
6 Eustache Kouvélakis, nel suo
importante studio, rinvia molte volte a questo “segno” della comunità di
pensiero tra Marx e Heine nel 1844 (op. cit., p. 90, 117, 335). Egli ne propone
un’interpretazione congiunturale incontestabile legata alla circolazione della
problematica rivoluzionaria tra la Francia e la Germania nella prima metà del
XIX secolo (rinviando in particolare ai lavori di Lucien Calvié), ma non ne
esplora la dimensione allegorica alla quale qui mi riallaccio.
7 Introduzione a Kahldorf über den Adel, in
Briefen an den Grafen M. von Moltke, 1831 (Heinrich Heine,
Historisch-Kritische Gesamtausgabe der Werke, Hamburg 1979, Bd. XI, s. 174).
Dell’influenza di questa frase su Marx testimonia la sua ripresa nell’articolo
del 12 novembre 1848 della
Neue Rheinische Zeitung,
che commenta il ciclo delle rivoluzioni e delle contro-rivoluzioni in Europa:
«Von Paris aus wird der gallische Hahn noch einmal Europa wachkrähen». L’opera
dalla quale Marx ha attinto l’essenziale della sua concezione dell’influenza
della Riforma luterana sulla filosofia e del significato “rivoluzionario”
comune tanto all’idealismo tedesco (Kant, Fichte, Hegel) quanto alla politica
francese moderna è “Sur l’histoire de la religion et de la philosophie en
Allemagne” (1834/1835) (riedita nel 1993 dalla Imprimerie Nationale da J. P.
Lefebvre).
8 Nel canto del gallo francese
identificato con una tromba escatologica (
schmettern) è lecito
vedere la condensazione di due linee allegoriche. Il “gallo” è un simbolo
nazionale francese inventato nel Rinascimento, associato durante la Rivoluzione
all’idea di fratellanza, poi iscritto sulle monete dal Consolato e sulle
bandiere dalla rivoluzione del Luglio 1830, prima dei suoi usi nazionalisti e
sportivi più recenti. Il canto del gallo che annuncia l’imminenza del giorno è
un tema messianico allo stesso tempo cristiano (inizialmente legato
all’episodio del “rinnegamento di San Pietro”, nei vangeli di Matteo e di Luca)
ed ebraico medievale (risalente all’esilio di Babilonia: cfr.
JewishEncyclopedia.com, art.
«cock»).
9 Cfr. in particolare J.P. Lefebvre, Marx und
Heine, in Schriften aus dem Karl-Marx
Haus, Trier, 1972; J. Grandjonc, Marx et les communistes
allemands à Paris, François Maspero, Paris 1974; Lucien
Calvié, Le renard et les raisins. La Révolution française et les
intellectuels allemands (1789-1845), Paris, Edi, 1989; Christoph
Marx, Heinrich Heine als politischer Dichter und das ideologische
Verhältnis zu Karl Marx 1843/44, Studienarbeit, GRIN Verlag für
Akademische Texte, 1997 (ebook); Eustache Kouvélakis, Philosophie et
Révolution de Kant à Marx, Paris, PUF, 2003[trad. it. Filosofia e
Rivoluzione. Da Kant a Marx, Edizioni Alegre, Roma 2010].
10 Sappiamo che i marxisti dopo
Engels, e al suo seguito Ernst Bloch, gli attribuiranno il significato di una
prima apparizione storica del proletariato rivoluzionario in Germania. Questo
conflitto è periodicamente riattivato nella storia del protestantesimo, con o
senza traduzione “politica”, in particolare sotto la forma di un’opposizione
tra il “Gesù storico” e il “Cristo della Chiesa” (cfr. John Lewis, “The Jesus
of History”, in
Christianity and the Social Revolution,
New York, 1935/1972).
11 Pierre Leroux,
De l’Humanité. De son principe et de son avenir (1840),
riedito nel Corpus des Œuvres de philosophie en langue française, Fayard 1985.
12 H. Assmann et F.J.
Hinkelammert,
L’idolâtrie du marché, Editions du
Cerf 1993 [trad. it.
Idolatria del mercato, Cittadella
editrice, Assisi 1993]; cfr. il commentario di Michaël Löwy,
“Le Marxisme de la Théologie de la Libération”,
http://www.lcr-lagauche.be/cm…,
19 luglio 2000 (e il suo libro
La guerre des dieux, Religion
et politique en Amérique Latine, Editions du Félin, Paris 1998).
13 «
Il piano di questo scritto è
molto semplice. Abbiamo tre domande da farci: 1° Che cos’è il
terzo stato? Tutto. 2° Che cos’è stato finora nell’ordinamento politico? Nulla.
3° Che cosa domanda? Diventare qualcosa» (Abate Sieyès,
Qu’est-ce que le tiers-état? 1789 [trad.
it.,
Che cos'è il terzo stato?, a cura di U. Cerroni,
Editori Riuniti, Roma 1992]). Sull’importanza che rivestono per il Marx del
1843 il pensiero e l’azione di Sieyès, in quanto fondano l’unità della nazione
politica sull’“autodeterminazione del popolo”, cfr. J. Guilhaumou, “Marx, la
Révolution française et le
Manuscrit de Kreuznach”,
in E. Balibar et G. Raulet (a cura di),
Marx démocrate. Le Manuscrit de
1843, PUF 2001, p. 79-88.
14 Tutta la prima strofa è infatti
analoga al testo dell’
Einleitung di Marx: «In piedi!
Dannati della terra / In piedi! Forzati della fame / La ragione tuona nel suo
cratere: / È l’eruzione finale / Del passato facciamo tabula rasa / Folle,
schiavi, in piedi! In piedi! / Il mondo sta cambiando radicalmente: / Non siamo
niente, saremo tutto!» (Eugène Pottier, 1871). [La versione italiana, scritta
nel 1901 da Bergeret, è diversa da quella francese, n.d.t.]
15 Per questo esse hanno trattenuto
l’attenzione di Stanislas Breton: «La forza del primo marxismo, profetico e
critico allo stesso tempo, è di aver convertito, in controtendenza all’epoca,
la massa umana, presunta inerte, di una “classe nulla” in un’energia
trasformatrice, di ampiezza universale e d’intensità senza pari. Tale è, se non
mi inganno, il senso profondo del “nulla” e del “tutto”; nella loro reciproca
implicazione, che sottende la fiducia di un nuovo popolo eletto, dopo secoli di
disprezzo…» (
Esquisses du politique, Messidor, Paris 1991, p.
37-38).
16 Si leggano le spiegazioni di
Georges G. M. Cottier sull’eredità della cristologia dello “svuotamento”
[kenosis] nella figura del proletariato come lo caratterizza, o piuttosto lo
annuncia, l’
Einleitung di Marx («Il
Proletariato, caricato della sofferenza universale, è
l’eco del Servitore sofferente di Isaia. Egli è il Messia, e come il Cristo di
una certa teologia di ispirazione luterana, deve per compiere la sua missione
redentrice, essere innanzitutto peccato e maledizione (…) per essere il
positivo deve
svuotarsi nel suo
altro» (
L’athéisme du jeune Marx. Ses origines
hégéliennes, Librairie Vrin, 1959, p. 176 [trad. it.
L'ateismo del giovane Marx. Le origini hegeliane, ed.
Vita e Pensiero, Milano 1981]). Ma soprattutto bisogna interessarsi alla
traiettoria teologico-politica che il motivo dell’identificazione messianica
del proletariato al Cristo come incarnazione della sofferenza umana universale
ha conosciuto passando dal “marxismo utopistico” di Ernst Bloch alla “teologia
della croce” (Moltmann), e da qui ai teologi della Liberazione (cfr. Richard J.
Baukham,
Moltmann. Messianic Theology in the
Making, Marshall Pickering, London 1987). Jean-Luc
Nancy confronta su questo punto il testo di Marx e quello di Hegel
(“L’insacrifiable”, in Une pensée finie,
Galilée, 1990, p. 79 [trad. it. Un pensiero finito, trad. Luisa
Bonesio, Marcos y Marcos, Milano 1992]).
17 Alcuni filosofi sono stati
particolarmente sensibili a questa dimensione etica del messianismo di Marx,
legato alla problematica del “torto assoluto”: in un passaggio cruciale del suo
libro
Le Différend(Editions de Minuit, 1983) [trad. it.
Il dissidio, trad. A. Serra, Feltrinelli, Milano 1985],
Jean-François Lyotard cita l’
Einleitung e
interpreta la rivendicazione di un’emancipazione derivante da un «torto
assoluto» (
Unrecht schlechthin) come quella di un’abolizione dei
generi, e dunque di una comunicazione dell’umanità con sé stessa
nell’enunciazione delle sue sofferenze (§§ 236-237).
18 Vedere in particolare G. Scholem,
“L’idée de rédemption dans la Kabbale”, in
Le messianisme juif,
Essais sur la spiritualité du judaïsme, tr. fr.
Calmann-Lévy, 1974, p. 71. In una certa tradizione ebraica il popolo di Israele
in esilio dal mondo intero di cui prepara la “riparazione” è egli stesso il
Messia: un “popolo-messia” al servizio di tutta l’umanità che possiamo per
questa ragione chiamare “popolo dei popoli”, come il proletariato di Marx è,
per la risoluzione che egli apporta al problema della rivoluzione, il “popolo
dei popoli”.
19 La tematica delle
catene della schiavitù (che, con la strana
espressione, «delle catene radicali», lega l’
Einleitung alla
conclusione del
Manifesto, ma che ritroviamo anche
nel
Capitale sotto forma di «catene invisibili» che
vincolano il proletariato alle sue condizioni di sfruttamento), è indice
dell’appartenenza del testo di Marx al discorso messianico dell’“uscita
dall’Egitto”. Sarebbe però semplicistico non rendersi conto di questa
relazione, perché anche l’antichità greco-romana ha lasciato la problematica
del rovesciamento della schiavitù in sovranità. Esse si fondono nell’opera di
San Paolo con l’idea di un apostolo che si fa «schiavo del tutto» (cfr. Dale B.
Martin,
Slavery as Salvation. The Metaphor of Slavery in Pauline Christianity, Yale University Press 1990).
20 Enrique Dussel ha studiato le
«metafore teologiche di Marx» in
Las metaforas teologicas de
Marx (El Verbo Divino, Estella 1993), ma il suo studio riguarda
soprattutto la teoria del “feticismo del mercato” e dipende più
dall’ermeneutica che dalla storia delle idee.
21 Cfr. Jacques Droz, “Le socialisme allemand du Vormärz”, in Histoire générale du socialisme,
tomo I, Des origines à 1875, PUF, Paris 1972, p. 424 e sgg.;
Auguste Cornu, Karl Marx et Friedrich Engels. Leur vie et leur
œuvre, tomo secondo,
Du libéralisme démocratique au
communisme, PUF 1958, p. 150 e sgg.
22 Eric Voegelin, “Marx: The Genesis of Gnostic Socialism”, in From Enlightenment to Revolution, Duke University
Press, 1975, p. 282.
23 Cfr. É. Balibar, “Fichte et la
frontière intérieure. À propos des
Discours à la nation allemande”,
in
La crainte des masses. Politique et philosophie avant et après
Marx, Galilée, Paris 1997 [trad. it. “Fichte e la frontiera interna:
a proposito dei
Discorsi alla Nazione tedesca”,
in
La paura delle masse. Politica e filosofia prima e dopo Marx,
trad. A. Catone, Mimesis, Milano 2001]. Ciò che Fichte chiama «nazione» o
«popolo» non si lascia ridurre all’alternativa divenuta oggi banale tra
il
démos e l’
ethnos; per
interpretarlo bisogna fare appello ad una terza categoria, quella del
laos (
parola omerica
di cui i Settanta si sono serviti per “tradurre” il
‘am ebreo, popolo (eletto) di Dio in opposizione
ai
goyim)
. Uno studio
comparativo generale non potrebbe del resto limitarsi al contesto europeo.
Così come ha mostrato Pocock, precisamente in The Machiavellian Moment (Princeton 1975) [trad.
it. Il
momento machiavelliano. Il pensiero politico fiorentino e la tradizione
repubblicana anglosassone, Il Mulino, Bologna 1980], il tema della «Nazione
Eletta», nel XVII secolo, è passato in America con i puritani inglesi. Ed è
negli anni 1840 che è stata forgiata negli Stati Uniti la terminologia del
«destino manifesto» del popolo americano che permette di vedere in sé una
«nuova Israele» (cfr. Anders Stephanson,
Manifest destiny :
American Expansionism and the Empire of Right, New York 1995 [trad.
it.
Destino manifesto. L'espansionismo americano e l'Impero del Bene,
trad. U. Mangialaio, Feltrinelli, Milano 2004]).
24 Cfr. Selected Writings of August Cieskowski,
edito e tradotto con un saggio introduttivo di André Liebich, Cambridge
University Press, 1979.
25 Si darebbe così la possibilità di
completare, e forse di rettificare, le brillanti intuizioni di Foucault nel suo
corso al Collège de France (1975-1976) sul dibattito relativo al tema della
“lotta delle razze” tra il XVII e il XIX secolo, e il suo contributo alla
formazione dei discorsi moderni sulla nazione, sulla classe e sulla razza (
«Il faut défendre la société», corso edito da M.
Bertani et A. Fontana, Editions du Seuil/Gallimard, 1997 [trad. it.
«Bisogna difendere la società», Feltrinelli, Milano
2009]).
26 «Quando avremo annientato la
servitù fino al suo ultimo sbarramento celeste, salvando così il Dio che abita
nell’Uomo sulla terra del suo avvilimento, quando saremo diventati i redentori
di Dio, quando avremo ristabilito nella loro dignità il povero popolo privato
del suo diritto alla felicità, il genio trasformato in derisione, la bellezza
disonorata, così come hanno annunciato i nostri vecchi maestri (…) il mondo
intero diventerà tedesco! Sogno spesso una tale missione e una tale dominazione
universale quando passeggio sotto le querce.
Ecco qual è il mio patriottismo…» (cit. in Christoph Marx, Heinrich Heine als politischer Dichter…, p. 19). Kouvélakis
(op. cit. p. 116 e sgg.) dà a mio avviso una buona interpretazione insistendo
sul rovesciamento del discorso dei “teutonici” al quale procede qui Heine.
Nello stesso momento Engels scopre questa disposizione rivoluzionaria e questa
missione universale nel proletariato industriale inglese (cfr.
Die Lage der arbeitenden Klasse in England. Widmung,
M.E.W., cit., vol. 2, p. 230-231).
27 Karl Marx,
Manoscritti economico-filosofici del 1844, a cura di N.
Bobbio, Einaudi, Torino 2004.
28 Sui riferimenti storici e gli usi
del termine “emancipazione”, cfr.
Geschichtliche Grundbegriffe,
cit. (article de K.-M. Grass et R. Koselleck), e
Dictionnaire critique du marxisme, cit. (l’articolo di
G. Bensussan).
29 O, come propone oggi di tradurre
Fischbach, seguendone da più vicino l’etimologia: «perdita dell’espressione».
30 Ciò vale in particolare per
il
proletariato, che “segna” l’
Einleitung,
ma che i
Manoscritti del ’44ignorano a profitto del
lavoro e del
lavoratore, a parte
un’eccezione che è veramente notevole: «Comprendiamo facilmente che l’economia
nazionale non considera il
proletariato (…)
che in quanto
lavoratore (…)
Essa non lo considera
nel tempo in cui non lavora, cioè in quanto uomo, ma abbandona questa
considerazione alla giustizia criminale, ai medici, alla religione, ai dati
statistici e al prevosto dei mendicanti…» (op. cit., p. 83). Inversamente l’
Einleitung ignora la democrazia come pure il
comunismo.
31 Su questo punto faccio
completamente mia l’osservazione di Abensour: «in questo momento del suo
cammino, Marx non non si impegnava in maniera univoca nella direzione
apparentemente sovrana che, retrospettivamente, egli intende conferire al
manoscritto non pubblicato del 1843 (…) al disprezzo delle tensioni e delle
virtualità multiple che [lo] attraversano…» (op. cit., p. 60). Sono queste
virtualità, evidentemente oggi più interessanti rispetto alle sistematizzazioni
del “marxismo”, che cerco qui di completare di un elemento supplementare.
32 Non torno qui su quel che ho
sottolineato altrove (
Marx démocrate, op. cit.), ossia la
singolarità della scrittura del testo di Marx che si installa nel “dialogismo”
del testo di Hegel stesso, e così lo smaschera.
33 Non discuto qui questo punto
ultrasensibile per l’apprezzamento del pensiero di Marx e l’uso che ne faranno
i suoi successori: cfr. la mia opera
La philosophie de Marx,
Editions La Découverte, Paris 1993 [trad. it.
La filosofia di Marx,
Manifestolibri, Roma 2005].
34 È discutibile questa traduzione,
presa da A. Baraquin [K. Marx,
Critique du droit politique hégélien,
traduzione francese di A. Baraquin, Editions Sociales, 1975], che serve bene il
progetto di Abensour: il testo tedesco parla piuttosto di «momenti della
totalità del
démos» («Die Demokratie ist die
Wahrheit der Monarchie, die Monarchie ist nicht die Wahrheit der Demokratie …
In der Demokratie erlangt keines der Momente eine andere Bedeutung, als
ihm zukommt. Jedes ist wirklich nur Moment des ganzen Demos. In der Monarchie
bestimt ein Teil den Charakter des Ganzen», M.E.W., vol. 1, p. 230).
35 Qui possiamo ancora discutere
alcune letture: il testo di Marx sul quale egli si appoggia (e di cui egli
mostra bene il rapporto con gli scritti dei socialisti francesi contemporanei,
in particolare il
Manifeste de la démocratie au 19ème siècle di Victor Considérant, pubblicato nel 1843)
non evoca la “vera democrazia” come una figura, ma dice che «die neueren
Franzosen haben dies so aufgefasst, das in der wahren Demokratie der
politische Staat untergehe …» (M.E.W., I, 232).
Cioè che, secondo gli autori francesi più recenti, lo Stato politico si
estingue, o si abolisce, nella “democrazia autentica”, quando essa diventa
autenticamente ciò che deve essere. Non c’è dubbio però che questa prospettiva
corrisponde all’ipotesi di un principio democratico o popolare radicale che
agisce nella successione dei regimi politici (di cui essa costituisce la
“verità”), e sfocia almeno idealmente sul deperimento dello Stato in quanto
organismo separato.
Shlomo Avineri, in The social and political thought of Karl Marx(Cambridge
University Press 1968) [trad. it. Il pensiero sociale e politico di Marx, Il Mulino,
Bologna 1997] va più lontano di Abensour nella sostanza dell’espressione «true
democracy». Il suo riferimento non è il «
démos totale»
ma la «classe universale»: Hegel al posto di Machiavelli come pensatore del
“politico”.
36 Abensour, op. cit., p. 101.
37 Abensour, op. cit., p. 107.
38 Nel suo commentario dei testi di
questa costellazione (
L’être et l’acte. Enquête sur les fondements
de l’ontologie moderne de l’agir, Vrin 2002, capitolo IV, “L’agir
libéré (Marx)”, p. 131 e sgg.), Franck Fischbach insiste sulla fusione, nel
soggetto sociale o trans-individuale della trasformazione rivoluzionaria, delle
determinazioni dell’
agire e del
fare (che tradurrà ne
L’Ideologia tedesca la categoria di
Selbstbetätigung). Mi sembra che questa fusione sia
anche la risorsa di quel che qui chiamo la “pienezza” del soggetto politico.
39 M.E.W., I, 259: «… damit der Mench
mit Bewusstsein tut, was er sonst ohne Bewusstsein durch die Natur der Sache
gezwungen wird zu tun, ist es notwendig, dass die Bewegung der Verfassung, dass
der
Fortschritt zum Prinzip der Verfassung gemacht
wird, dass also der wirkliche Träger der Verfassung, das Volk, zum Prinzip der
Verfassung gemacht wird…».
40 «… wo sie in ihrer Besonderheit als das Herrsschende auftrat…»
(M.E.W., I, 260).
41 Non possiamo eludere l’affinità con la maniera in cui Derrida,
in Spettri di Marx (1993) [trad. it. G. Chiurazzi,
Raffaello Cortina Editore, Milano 1994], usa l’immagine escatologica dell’Amleto di Shakespeare per interpretare la
concezione marxiana della rivoluzione da venire: «Time is out of joint». Tuttavia
Derrida cita molte opere di Marx, ma mai l’
Einleitung: Ciò
dipende, mi sembra, dal fatto che la sua interpretazione tenta di cogliere
l’eredità della «messianicità senza messianismo». E dunque, a fortiori, senza
la figura del messia – ciò che è per eccellenza il proletariato del 1844. Su
questo punto almeno c’è contraddizione tra i due punti di vista.
42 Auguste Comte,
Discorso sullo spirito positivo, 1844, Capitolo terzo
[trad. it. a cura di A. Negri, Laterza, Roma-Bari 2003]. Il progetto di
«alleanza» elaborato da Comte riposa essenzialmente su un programma
d’insegnamento popolare “superiore”, destinato a superare la cesura sociale che
minaccia il progredire del progresso come sviluppo dell’ordine, e a fondare sulla
riunione delle forze opposte allo spirito teologico e metafisico (la scienza,
l’industria) la possibilità di un nuovo potere spirituale, che metta fine
all’era delle rivoluzioni. In questo senso, è esattamente l’inverso del
progetto di Marx. Il parallelo è stato discusso dettagliatamente da Pierre
Macherey nel suo commentario dell’espressione «Im Anfang war die Tat» e delle
sue interpretazioni successive, disponibile sul sito:
stl.recherche.univ-lille3.fr/seminaires/philosophie/macherey/Macherey20012002/
43 Marx arriva a questa formula alla
fine dell’
Einleitung al termine di tre saggi successivi di cui
essa rappresenta la «soluzione» ma anche la conversione in «parola d’ordine» (
Lösung/Losung): « Ihr könnt die Philosophie nicht
aufheben, ohne sie zu verwirklichen (…) Sie glaubte, die Philosophie
verwirklichen zu können, ohne sie aufzuheben», «Die Waffe der Kritik kann
allerdings die Kritik der Waffen nicht ersetzen», che approcciano di bene in
meglio una reciprocità trascendentale della forma: i concetti senza intuizione
sono vuoti, le intuizioni senza concetto sono cieche.
44 Michaël Löwy,
La théorie de la révolution chez le jeune Marx,
Maspero, Paris 1979, p. 69 [trad. it.
Il giovane Marx e la teoria
della rivoluzione, Massari, Bolsena 2001] (non intendo sminuire i
meriti di questo libro, che implicava a suo tempo spiegazioni molto utili, e a
cui il suo autore ha fatto seguire, poi, degli studi fondamentali
sull’importanza degli elementi “utopistici” e “messianici” nel marxismo).
45 Vedere anche le formulazioni della
corrispondenza con Ruge, pubblicati in apertura dei
Deutsch-Französische Jahrbücher, sulla critica come
interiorizzazione (
innewerden) attraverso il “mondo”
della propria coscienza (M.E.W., I, 346).
46 Immediatamente dopo la redazione
dell’
Einleitung, Marx vedrà nell’insurrezione dei tessitori
della Slesia la verifica della sua concezione. Questa sarà l’occasione della
sua rottura con i democratici liberali come Ruge, coeditore dei
Deutsch-Französische Jahrbücher (vedere
Kritische Randglossen zu dem Artikel « Der König von Preussen
und die Sozialreform. Von einem Preussen del 31 luglio 1844,
M.E.W., I, 392 e sgg.). Il fatto che la poesia di Heine,
Die armen Weber, che aveva pubblicato egli stesso
nel
Vormärz, sia stata ripresa dagli insorti come canto di
lotta e di lutto, gli apparirà come la prova del fatto che il proletariato
tedesco sia il “più teorico” d’Europa. In esso la differenza tra la testa e il
cuore svanisce, i due lati della passività critica non sono più realmente
separati, e dunque la pratica è
già lì.
47 A dire il vero questa congiunzione
non è assente in Machiavelli: non tanto quello dei
Discorsi, che serve da riferimento privilegiato ad
Abensour, ma quello del
Principe, il cui
ultimo capitolo fa appello alla venuta di un “redentore” dell’Italia contro
l’azione dissolvente e antinazionale della Chiesa.
48 E prima del
Manifesto, questa formulazione è centrale nelle
formulazioni di
Miseria della filosofia (1846)
sul carattere “politico” della “lotta da classe a classe” tra il capitale e i
proletari coalizzati contro si esso, che approdano ad una “rivoluzione totale”
esclusiva di tutto il “nuovo potere politico”(Seconda parte, § 5, “Gli scioperi
e le coalizioni degli operai”).
49 Karl Löwith, Weltgeschichte und
Heilgeschehen. Die theologischen Voraussetzungen der Geschichtsphilosophie,
cap. II: Marx (in Sämtliche Schriften, K.B.
Metzlersche Verlagsbuchhandlung, Stuttgart, 1983, Bd. II, p. 61).