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Karl Marx ✆ Wiaz
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Olympe de Gouges | Scrive Eugenio Scalfari nel suo
editoriale […] dal titolo “La società
civile e la casta dei politici”:
«Il
termine "società civile" fu inventato, niente meno, da Marx e forse,
prima ancora, da Rousseau, per designare l’insieme dei ceti che
compongono una comunità con una propria identità, propri valori, propria
cultura, propri interessi. Una società civile forte esprime anche proprie
istituzioni e lo Stato che ne è il coronamento».
La
definizione di “società civile” è data da Marx nel II capitolo dell’Ideologia
tedesca in questi termini:
«La
forma di relazioni determinata dalle forze produttive esistenti in tutti gli
stadi storici finora succedutisi, e che a sua volta le determina, è la società
civile, la quale [...] ha come presupposto e fondamento la famiglia semplice e
la famiglia composta, il cosiddetto ordinamento tribale [...]. Qui già si vede
che questa società civile è il vero focolare, il teatro di ogni storia, e si
vede quanto sia assurda la concezione della storia finora corrente, che si
limita alle azioni di capi e di Stati e trascura i rapporti reali. La società
civile comprende tutto il complesso delle relazioni materiali fra gli individui
all'interno di un determinato grado di
sviluppo delle forze produttive. Essa
comprende tutto il complesso della vita commerciale e industriale di un grado
di sviluppo e trascende quindi lo stato e la nazione, benchè, d’altra parte
debba nuovamente affermarsi verso l'esterno come nazionalità e organizzarsi
verso l’interno come Stato. Il termine società civile sorse nel secolo
diciottesimo quando i rapporti di proprietà si erano già fatti strada fuori dal
tipo di comunità antico medievale. La società civile come tale comincia a
svilupparsi con la borghesia; tuttavia l'organizzazione sociale sviluppatasi
immediatamente dalla produzione e dagli scambi, la quale forma in tutti i tempi
la base dello stato e di ogni sovrastruttura idealistica, continua ad essere
chiamata con lo stesso nome».
Scrive
Scalfari: «Questo è lo schema di Marx, che ne parla diffusamente
soprattutto in due delle sue migliori opere: "L'ideologia tedesca" e
"Il 18 brumaio" [nel Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte
la locuzione si riscontra una sola volta nel IV capitolo, mentre è nella
Critica al Programma di Ghota che Marx si diffonde sul tema dei rapporti tra
“società civile” e organismi politici statuali]. La società civile che egli
ha in mente è quella borghese; il suo obiettivo è di riuscire a sostituirla con
una società civile egemonizzata dal proletariato».
Ed
eccoci al punto, cioè alla falsificazione (se no, come altrimenti definirla?),
che messa alla fine della sua introduzione potrebbe passare (senz’altro ai più)
inosservata in quanto tale, secondo lo schema, questo sì reale e semplice, che
è il potere a produrre, secondo i propri interessi, i rituali di verità e il
tipo di conoscenza che gli individui introiettano. Pertanto il messaggio
mandato a segno è il seguente: Marx aveva per obiettivo la sostituzione
dell’attuale società civile con un’altra, egemonizzata dal proletariato.
Cos’è
un proletario? Un “libero” lavoratore, secondo la fictio juris, che
vende la propria forza lavoro, cioè un salariato, uno schiavo moderno (Il
Capitale, Libro I, cap. XXI, Utet 1974, p. 736, ). Quindi, secondo
quanto ci dice Scalfari, l’obiettivo di Marx è quello di sostituire l’attuale
società con una società in cui i salariati sono egemoni: una società
dominata dagli schiavi (*). Chiaro che Scalfari si riferisca al concetto di
“dittatura del proletariato”, cioè a quella fase, secondo Marx, in cui il
proletariato lotta per il superamento dell’egemonia borghese. Ma la dittatura
del proletariato è solo una fase della lotta, non è l’obiettivo ultimo e
fondamentale a cui allude Marx. Ne Le lotte di classe in Francia,
Marx per la prima volta fa uso della formula "dittatura del
proletariato", contro la dittatura economica della borghesia, che si
esprime in una "formale" democrazia politica. In una lettera a
Weydemeyer (1852), Marx afferma che la scoperta della lotta di classe spetta
non a lui ma agli storiografi borghesi. Il suo contributo stava semplicemente:
1) nell'aver dimostrato che l'esistenza delle classi è legata a determinate
fasi storiche di sviluppo della produzione e non è eterna, 2) che la lotta di
classe conduce necessariamente alla dittatura del proletariato, 3) “che
tale dittatura costituisce soltanto il passaggio alla soppressione di tutte le
classi e a una società senza classi”.
Commentando
queste parole, Lenin scriveva che colui che si accontenta di
riconoscere la lotta delle classi non è ancora un marxista, e può darsi
benissimo che egli non esca dai limiti del pensiero borghese e dalla politica
borghese. Ridurre il marxismo alla dottrina della lotta delle classi, vuol dire
mutilare il marxismo, deformarlo, ridurlo a ciò che la borghesia può accettare.
Marxista è soltanto colui che estende il riconoscimento della
lotta delle classi sino al riconoscimento della dittatura del
proletariato. In questo consiste la differenza più profonda tra il marxista
e il banale piccolo-borghese (e anche il grande).
Marx
ebbe a precisare ulteriormente il suo pensiero su tale questione:
«Si
domanda quindi: quale trasformazione subirà lo Stato in una società comunista?
In altri termini: quali funzioni sociali persisteranno ivi ancora, che siano
analoghe alle odierne funzioni dello Stato? A questa questione si può
rispondere solo scientificamente, e componendo migliaia di volte la parola
popolo con la parola Stato non ci si avvicina alla soluzione del problema
neppure di una spanna. Tra la società capitalistica e la società comunista vi è
il periodo della trasformazione rivoluzionaria dell'una nell'altra. Ad esso
corrisponde anche un periodo politico transitorio, il cui Stato non può essere
altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato (Critica
del programma di Gotha) ».
Quindi,
per espressa dichiarazione di Marx, l'egemonia del proletariato è intesa come
"fase di transizione". E, inoltre:
«In
una fase più elevata della società comunista [successiva
al socialismo come periodo intermedio tra la società capitalistica e il vero e
proprio comunismo], dopo che è scomparsa la subordinazione asservitrice
degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto tra
lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo
di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo
onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte
le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo
allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società
può scrivere sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno
secondo i suoi bisogni ! (ibidem)».
Pertanto
l’obiettivo di Marx, tanto per dirla come la canta Scalfari, non è l’egemonia
(dittatura) dei salariati, ma il superamento della società classista e perciò
del proletariato stesso. Il dissolvimento delle classi padronali è il
dissolvimento stesso delle classi degli sfruttati; quando cade una delle classi
separate cade anche l’altra. Quando e come questo sarà possibile è un altro
paio di maniche. Quanto
ai termini più generali dell’articolo di Scalfari, è opportuno sottolineare
quanto scriveva Marx in rapporto al carattere del riformismo:
«Il
carattere proprio della socialdemocrazia si riassume nel fatto che vengono
richieste istituzioni democratiche repubblicane non come mezzi per eliminare
entrambi gli estremi, il capitale e il lavoro salariato, ma come mezzi per
attenuare il loro contrasto e trasformarlo in armonia. Ma per quanto diverse
siano le misure che possono venir proposte per raggiungere questo scopo, per
quanto queste misure si possano adornare di rappresentazioni più o meno
rivoluzionarie, il contenuto rimane lo stesso. Questo contenuto è la
trasformazione della società per via democratica, ma una trasformazione che non
oltrepassa il quadro della piccola borghesia. Non ci si deve rappresentare le
cose in modo ristretto, come se la piccola borghesia intendesse difendere per
principio un interesse di classe egoistico. Essa crede, il contrario, che le
condizioni particolari della sua liberazione siano le condizioni generali,
entro alle quali soltanto la società moderna può essere salvata e la lotta di
classe evitata. Tanto meno si deve credere che i rappresentanti democratici
siano tutti shopkeepers [bottegai] o che nutrano per questi un’eccessiva
tenerezza. Possono essere lontani dai bottegai, per cultura e situazione
personale, tanto quanto il cielo è lontano dalla terra. Ciò che fa di essi i
rappresentanti del piccolo borghese è il fatto che la loro intelligenza non va
al di là dei limiti che il piccolo borghese stesso non oltrepassa nella sua
vita, e perciò essi tendono, nel campo della teoria, agli stessi compiti e alle
stesse soluzioni a cui l’interesse materiale e la situazione sociale spingono
il piccolo borghese nella pratica. Tale è, in generale, il rapporto che passa
tra i rappresentanti politici e letterari di una classe e la classe che essi
rappresentano (Il diciotto brumaio, III capitolo)».
Sempre
ne Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, Marx evidenzia l'essenza del
bonapartismo, ovvero il fatto che la borghesia, pur di non perdere il proprio
potere economico, è disposta anche a rinunciare alla propria democrazia parlamentare
per affidarsi alla dittatura personale di un duce. In questo colpo di stato,
Bonaparte riuscì a trovare nei contadini un efficace alleato. Marx esprime
anche la necessità di "spezzare", "demolire" la macchina
statale, evitando di trasferirla così com'è dalle mani borghesi a quelle
proletarie.
(*)
Perfino un liberale di vecchio stampo come Maffeo Pantaleoni scriveva: Allorché
un individuo è costretto a pagare e a lavorare per altri, questo individuo è lo
schiavo degli altri (La caduta della Società Generale di Credito mobiliare
Italiano, UTET, 1988).