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Karl Marx & Friedrich Engels ✆ Ricardo Viera
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◆ «Lo spettro del
comunismo ha cessato di inquietare l’Europa, ma il Manifesto non ha cessato di
inquietare i rivoluzionari». Wal Suchting, What is Living and What is Dead in the
Communist Manifesto?, p. 163.
Riccardo Bellofiore | Riprendere in mano, a centocinquant’anni
dalla sua comparsa, il
Manifesto del
partito comunista può essere fatto con metodi e obiettivi diversi1. E’
possibile, evidentemente, collocare l’opuscolo nella temperie politica e
culturale degli anni in cui vide la luce; come è possibile soggiacere alla
tentazione di un confronto immediato tra il testo e la realtà che abbiamo di
fronte. Un approccio “storico”, il primo; un approccio “attualizzante”, il
secondo. Esemplare, in un certo senso, del primo è la riedizione della Einaudi,
con la lunga e utile postfazione di Bruno Bongiovanni, mentre esemplare del secondo,
è l’introduzione che Eric Hobsbawm ha premesso alla ristampa inglese della
Verso, uscita anch’essa quest’anno. Entrambe, però, mettono bene in rilievo i rischi
di operazioni del genere. Da una parte, la riduzione del
Manifesto a “classico”, quando non a documento di un’altra epoca,
con una nascosta, ma non meno efficace, sterilizzazione dell’impatto presente
di quelle pagine. Dall’altra parte, all’opposto, la rivendicazione al
Manifesto di una dimensione profetica,
sia pure dimezzata: dove la profezia sta nell’avere anticipato - con la sola
colpa di averlo fatto con troppo grande anticipo - i caratteri del capitalismo
mondializzato dei nostri giorni; e il suo essere dimezzata sta nella spiacevole
circostanza che, giusto quando le previsioni “analitiche” di Marx si sarebbero
concretizzate, esse avrebbero al contempo distrutto il soggetto sociale che
doveva farsi messaggero di una società futura, meno disumana e portatrice di
una libertà più autentica nell’eguaglianza2 .
Vi è qui, a me pare, un difetto dovuto a un eccesso di
“empirismo”. Si ragiona quasi come se i “fatti” fossero lì, neutri, a
consentire di saggiare la validità del costrutto teorico; dal che consegue un
ammirato stupore nel verificare quanto lo sviluppo delle forze produttive
tratteggiato da Marx nel Manifesto
assomigli al nostro presente. E’ evidente, peraltro, che, visto che i fatti
neutri non lo sono mai, in questo modo ci si ritrova pressoché sempre a
spacciare come non problematica la ricostruzione dominante della realtà
attuale, e ci si limita a rivestire l’interpretazione di senso comune di una
retorica radicale - tanto più radicale, in effetti, quanto più la descrizione
prevalente di come stanno le cose nega qualsiasi possibilità di intervento alle
classi dominate.
In queste pagine percorrerò - per mestiere, per così dire,
ma anche per convinzione- una via diversa. Il criterio di valutazione cui
sottoporrò il Manifesto sarà di
natura eminentemente “logica” e “categoriale”. Assumerò lo scritto di Marx ed
Engels come parte di un percorso teorico e ,sempre, implicitamente o
esplicitamente, politico più complessivo, che raggiunge la sua maturità
soltanto nei lavori del Marx “critico dell’economia politica”, cioè nei Grundrisse e nel Capitale. La domanda che mi porrò sarà, insomma, in che misura una
rilettura “all’indietro” di Marx - una rilettura, cioè, che interpreti alla
luce delle successive conquiste concettuali del Marx delle opere maggiori le
proclamazioni brillanti ed efficaci del Manifesto
- sia produttiva. Produttiva, innanzitutto, nel senso di mostrare la permanente
attualità degli affondi che il Manifesto
lancia per una interpretazione della dinamica di classe dell’ultimo secolo e
mezzo, senza lasciarsi intralciare dalle parti più datate e deboli di quel
pamphlet. Produttiva, inoltre, nel senso di fornirci le armi per una diversa
rappresentazione del capitalismo contemporaneo, “globalizzato” e
“postfordista”, che sfugga a quella visione senza conflitto e senza politica
che va oggi per la maggiore tanto a destra quanto, purtroppo, anche a sinistra;
e che discenda invece dal metodo, che a me sembra prettamente marxiano, di
mettere sotto processo i “fatti”, rilevandone la natura contraddittoria.
Produttiva, infine, per rimettere sul tappeto il nodo politico della teoría
marxiana, cioè, da un lato, l’inseparabilità della dimensione analitica da
quella politica nel Manifesto come
nella critica dell’economia politica, e, dall’altro lato, la questione della
natura e della costruzione del soggetto antagonista.
La struttura di questo contributo è la seguente. Nella
seconda sezione, ricapitolerò brevemente le tesi portanti del Manifesto, mettendo in evidenza le
questioni controverse e le critiche principali a cui esso ha dato origine.
Nella terza sezione, presenterò quello che è a mio parere il nocciolo della
“critica dell’economia politica” sviluppata da Marx principalmente negli anni
cinquanta e sessanta del secolo scorso, e mostrerò in che senso da questo punto
di vista molte delle difficoltà ad una interpretazione convincente del processo
capitalistico che emergono dal Manifesto
possano essere superate. Nella quarta sezione, accennerò in modo sintetico alle
conseguenze che una esegesi del lascito marxiano di questo tipo ha per una
diagnosi del capitalismo contemporaneo. Nella quinta e ultima sezione,
interverrò sul tema del soggetto sociale e del soggetto politico come questione
“aperta”, nel Manifesto così come nel
marxismo. 3
1. Il Manifesto del partito comunista
«Si dissolvono tutti i
rapporti stabili ed irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti
antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di
potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di
stabile, è profanata ogni cosa sacra, e gli uomini sono finalmente costretti a guardare
con occhio disincantato la propria posizione e i propri reciproci rapporti».
Karl Marx e Friedrich Engels, Manifesto
del Partito comunista, p. 87.
Apriamo dunque di nuovo il Manifesto. La struttura della argomentazione è chiara e lineare. Il
punto di avvio è il ruolo rivoluzionario della borghesia, che «non può esistere
senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di
produzione, dunque tutti i rapporti sociali» (p. 87). Della borghesia, nelle
prime pagine dell’opuscolo, Marx ed Engels tratteggiano l’ascesa economica e
politica: attraverso la fase mercantile, lo stadio manifatturiero, la grande
industria moderna, infine lo sviluppo del mercato mondiale che retroagisce sul
ritmo di espansione dell’industria; e passando da ceto oppresso, a contrappeso
alla nobiltà e fondamento primo delle grandi monarchie, al dominio politico
esclusivo nello Stato rappresentativo moderno. A colpire oggi l’immaginazione
sono, come è naturale, le pagine dedicate all’«impronta cosmopolitica» data
«alla produzione e al consumo di tutti i paesi» dalla borghesia (ivi), al fatto
che l’introduzione di industrie nuove che soppiantano le antichissime industrie
nazionali «diventa questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili»
(p. 89), al subentrare di una interdipendenza universale al posto della antica
autosufficienza e dell’antico isolamento. Alla “tesi”, costituita dall’inedito
e veloce progresso delle forze produttive e del grado di civiltà seguito
all’ascesa della borghesia, fa però da subitaneo contraltare l’“antitesi”,
ovvero l’annuncio che le crisi commerciali ricorrenti e sempre più acute
segnalano che il capitalismo è in un’era terminale della sua esistenza. La
contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti sociali di produzione
è oramai talmente profonda che questi secondi «sono divenuti troppo angusti per
poter contenere la ricchezza da essi stessi prodotta» (p. 92).
L’approssimarsi di una crisi “oggettiva” trova
corrispondenza nella costituzione, sul versante «soggettivo», di una classe
operaia in crescita quantitativa e potenzialmente organizzabile. In effetti,
secondo il Marx e l’Engels del 1848, non soltanto la storia è sempre stata
storia di lotte di classe, ma la stessa struttura sociale si è venuta, grazie
al capitalismo, “semplificando” in una polarizzazione duale radicale: «L’intera
società si va scindendo sempre più in due grandi campi nemici, in due grandi
classi direttamente contrapposte l’una all’altra: borghesia e proletariato» (p.
83). Il quadro della condizione operaia che viene fornito dal Manifesto tutto è meno che consolatorio.
Il lavoratore è divenuto un accessorio della macchina, poiché «il lavoro dei
proletari ha perduto ogni carattere indipendente», e all’operaio «si richiede
soltanto un’operazione manuale semplicissima, estremamente monotona e
facilissima ad imparare» (p. 94). A questa degradazione della prestazione
lavorativa corrisponde una riduzione del “prezzo” del “lavoro”, per cui «il
salario decresce nella stessa proporzione in cui aumenta il tedio del lavoro»
(ivi); come anche corrisponde un aumento della durata e dell’intensità del
lavoro. Lo stesso lavoratore è oramai equiparato a uno strumento di lavoro tra
gli altri, e vede dipendere la propria vita dalle oscillazioni della domanda e
dell’offerta della “merce” che vende sul mercato del lavoro, dalla concorrenza
di altri essere umani più a buon mercato, e dal progresso tecnico. Ciò non di
meno, la stessa accumulazione capitalistica si incarica di addensare masse di
operai nelle fabbriche, e di unificarne le condizioni di esistenza, consentendo
così coalizioni difensive contro il padronato, in grado di strappare vittorie
temporanee: «Il vero e proprio risultato delle loro lotte non è il successo
immediato, ma il fatto che l’unione degli operai si estende sempre di più» (p.
97). Unione che viene periodicamente infranta dalla dinamica capitalistica, ma
che «risorge sempre di nuovo, più forte, più salda, più potente» (p. 98). La
«lotta delle classi si avvicina al momento decisivo» (p. 99).
Il nesso tra tendenza “oggettiva” alla crisi e movimento
“soggettivo” rivoluzionario è talmente stretto che, con espressione rimasta
celebre, Marx ed Engels scrivono che «Con lo sviluppo della grande industria,
dunque, vien tolto di sotto ai piedi della borghesia il terreno stesso sul
quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa produce anzitutto i suoi
seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono del pari
inevitabili» (p. 104). Mettendo le mani sulla leva statale – che non è altro «che
un comitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese» (p.
85) – il proletariato, elevatosi a classe dominante, può abolire la proprietà
privata, accentrare gli strumenti di produzione in mano pubblica, accelerare lo
sviluppo delle forze produttive, e infine creare le condizioni affinché alla
società capitalistica subentri «una associazione in cui il libero sviluppo di
ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti» (p. 121).
La sintesi delle proposizioni del Manifesto che abbiamo presentato fa risaltare le difficoltà a
malapena celate dal fascino lucido e trascinante del discorso. Difficoltà che
hanno dato luogo, nel tempo, a insistenti critiche alla teoria marxiana. I
problemi più evidenti hanno a che vedere con, da un lato, il discutibile
crollismo che traspare dalle pagine di Marx ed Engels. Tanto le leggi che
regolano il decorso strettamente economico dell’accumulazione quanto la
costituzione del soggetto antagonista, che in qualche modo “riflette” quelle
leggi, appaiono condurre all’“inevitabile” catastrofe della società borghese e
alla vittoria del proletariato, in una visione dove determinati processi
“materiali”, indipendenti dalla volontà degli essere umani, ne determinano la
coscienza sociale, facendo del capitalismo «l’ultima forma antagonistica del
processo di produzione sociale» che «chiude dunque la preistoria della società
umana», come recita la Prefazione del
1859 a Per la critica. Un interprete
simpatetico a Marx ha osservato che «sembra qui che il capitalismo produca, per
partenogenesi, le condizioni necessarie e sufficienti della sua dissoluzione»4
, mentre un interprete meno ben disposto, ma una volta di grande finezza, vi
trova qui le tracce di una concezione della storia a “disegno”5 . Sia pure per
ragioni diverse, il responsabile ultimo di questa deriva marx-engelsiana
sarebbe Hegel. Per Wal Suchting, il tentativo di rovesciare la dialettica
hegeliana non riesce nel suo intento quando si limita a sostituire la materia
allo Spirito Assoluto, facendo della realtà economica una successione di stadi
predefiniti e della coscienza degli agenti storici il riverbero del processo
storico materiale. Per Lucio Colletti, la teleologia e il finalismo di Hegel
trapassano in Marx quando la visione del rapporto capitalistico come rapporto
“alienato” comporta la ripresa dell’idea hegeliana secondo cui l’alienazione
segna la rottura dell’Unità originaria che lo sviluppo storico si incarica di
ricostituire.
E’ indubbio che il Manifesto
si presta, in qualche misura, a tali rilievi critici. E’ noto, d’altronde, che
la teoria del “crollo” - nelle forme più sofisticate in cui essa viene ripresa
nel Capitale, ovvero come teoria
della caduta tendenziale del saggio del profitto e come teoria della crisi da
realizzo – non è convincente (e non lo è, per di più, per ragioni che lo stesso
apparato categoriale di Marx aiuta a chiarire). Altrettanto dubbia è la tesi
della pauperizzazione che Marx ed Engels introducono nel corso della loro
argomentazione sulla tendenza alla crisi, almeno nella forma che essa prende
nel Manifesto. Tale tesi, infatti,
afferma proprio l’abbassarsi assoluto della sussistenza del lavoratore, e vede
in ciò la premessa della rottura rivoluzionaria:
«l’operaio moderno,
invece di elevarsi man mano che l’industria progredisce, scende sempre più al
di sotto delle condizioni della sua propria classe. L’operaio diventa un
povero, e il pauperismo si sviluppa anche più rapidamente che la popolazione e
la ricchezza. Da tutto ciò appare manifesto che la borghesia non è in grado di
rimanere ancora più a lungo la classe dominante della società e di imporre alla
società le condizioni di vita della propria classe come legge regolatrice. Non
è capace di dominare, perché non è capace di garantire l’esistenza al proprio
schiavo neppure entro la sua schiavitù, perché è costretta a lasciarlo
sprofondare in una situazione nella quale, invece di esser da lui nutrita, essa
è costretta a nutrirlo. La società non può più vivere sotto la classe borghese,
vale a dire l’esistenza della classe borghese non è più compatibile con la
società» (pp. 103-104).
Una enunciazione del genere non è accettabile: non perché
essa non possa contingentemente risultare plausibile (basta, a questo
proposito, osservare la situazione in cui è costretta a vivere la popolazione
del pianeta nell’era del c.d. capitalismo “mondializzato”), ma perché essa
viene avanzata nella forma di una predizione incondizionale; una predizione,
per di più, che è stata smentita per oltre un secolo dalla crescita
contemporanea del capitale e del salario reale.
Una forma particolare di “pauperizzazione”, se si vuole, è
quella che colpisce il lavoratore in quanto tale, se si presta fede al quadro
che Marx ed Engels nel 1848 forniscono della prestazione lavorativa, destinata
a una ineluttabile e progressiva dequalificazione. Lasciamo per un attimo da
parte la questione della conferma o meno dell’ipotesi secondo cui le macchine
cancellerebbero le differenze del lavoro – una questione che, come è noto, è
non poco controversa. Il punto è concettuale. Una lunga, e non ingloriosa,
tradizione ha visto in questo spogliamento del lavoro concreto di ogni qualità,
in questa – per dirla con Braverman – “degradazione” del lavoro all’interno
della produzione, il fondamento della nozione cruciale della critica dell’economia
politica, il lavoro “astratto”, che sarebbe tale in quanto, appunto, nel
processo lavorativo lo stesso lavoro concreto diverrebbe una “astrazione
reale”. Questa lettura si è opposta alla linea che è venuta col tempo
prevalendo, e che insiste sulla circostanza che Marx nel primo capitolo del Capitale deduce il lavoro astratto dallo
scambio generalizzato di merci. L’“astrazione reale” è in questo secondo caso,
all’opposto, il prescindere nello scambio dal fatto che le merci sono beni
qualitativamente diversi, prodotti da lavori concreti differenti. Il lavoro
astratto, in questa diversa accezione, non ha nulla a che vedere con la qualità
del lavoro nella produzione. La posizione di Marx con Engels nel Manifesto sembra propendere per il primo
corno dell’alternativa – ma, come dirò nella prossima sezione, entrambe le tesi
sono da rigettare.
Le difficoltà del Manifesto
non si fermano certo qui. Il dualismo classista del Manifesto è stato oggetto di comprensibili rimostranze, visto che
la storia della formazione sociale capitalistica ha progressivamente
“complicato” invece di semplificare i rapporti di classe, estendendo e
variando, in particolare, le classi “intermedie”. Ancora Wal Suchting,
recentemente e del tutto a ragione, ha osservato che la categoria di “classe”
appare nell’opuscolo del 1848 in forma gravemente inadeguata e vaga, e che,
soprattutto, in quell’opera il modo con cui viene delineata la lotta di classe
nel capitalismo trascura il fatto saliente che si è trattato spesso e
volentieri di lotte interne alla classe dominante, piuttosto che tra borghesia
e proletariato (qualcosa che il Marx del 18
brumaio di Luigi Bonaparte e de Le
lotte di classe in Francia mostra invece di aver ben appreso). Si potrebbe
ovviamente continuare con l’elenco delle previsioni smentite, da quelle a breve
termine, sulla imminente rivoluzione in Germania, a quelle di più lungo
termine, sul fatto che fra tutte le classi che stanno di fronte alla borghesia
«il proletariato soltanto è una classe autenticamente rivoluzionaria» (p. 99) –
qualcosa che, con il senno di poi, appare tutt’altro che garantito.
Dobbiamo dunque concludere per il “fallimento” del Manifesto del partito comunista? Non
credo. Non credo che le cose stiano in questi termini perché, come ho
anticipato nelle righe introduttive, non guardo a quello scritto principalmente
come opera “puntuale”, ma come parte dell’iniziale progetto teorico-politico
sviluppato poi essenzialmente da Marx nei decenni a venire. Nelle sezioni che
seguono mi proverò allora a tornare di nuovo sui temi del Manifesto a partire da una particolare interpretazione della
“critica dell’economia politica” marxiana. Non condivido infatti una lettura
“discontinuista” di Marx, ma a patto che la continuità venga letta
“all’indietro” e non “in avanti”. Non è vero, insomma, che il Marx giovane
detti le mosse del Marx maturo. E’ vero, al contrario, che il Marx maturo
ridefinisce radicalmente la risposta da dare alle domande teoriche e politiche
che egli si era posto, assieme ad Engels, negli anni quaranta.
2. Il Marx
della maturità
«Per cui non si deve
più dire che un’ora di un uomo vale un’ora di un altro uomo, ma piuttosto che
un uomo di un’ora vale un altro uomo di un’ora. Il tempo è tutto, l’uomo non è
più niente; è tutt’al più l’incarnazione del tempo.» Karl Marx, Miseria
della filosofia, p. 48.
E’ bene, per essere il più sintetici possibile, dichiarare
da subito le linee lungo le quali leggo i
Grundrisse e il Capitale, con un
particolare riferimento ai problemi sollevati dal Manifesto6 . E conviene cominciare dal “perno” della costruzione
teorica marxiana, la nozione di lavoro “astratto”. Come ho detto, trovo
riduttive ambedue le interpretazioni che si contendono il terreno: tanto quella
che vede nel lavoro astratto qualcosa che si produce soltanto nello scambio,
quasi che il valore fosse “creato” nella circolazione, quanto quella che vede
nel lavoro astratto il lavoro che ha perso ogni carattere di concretezza nel
processo produttivo, sicché la circolazione si limita a “realizzare” un valore
già interamente formato nella produzione. Personalmente, trovo più convincente
leggere l’astrazione del lavoro come un processo. L’interpretazione più
diffusa, quella che vede la determinazione del lavoro astratto soltanto nello
scambio finale sul mercato delle merci dove i lavori “privati” vedono
sanzionata la loro socialità per il tramite dello scambio di cose contro
denaro, si limita a registrare il fatto che il lavoro in quanto “risultato”, il
lavoro “morto” nel prodotto, rappresenta indirettamente un processo di
“alienazione” della soggettività dei lavoratori nella circolazione.
Evidentemente, però, le cose sono più complicate. Infatti, lo scambio di merci
è scambio generale soltanto nel capitalismo, quando cioè il lavoro non è lavoro
di semplici produttori indipendenti ma è lavoro salariato – di conseguenza, è
chiaro che gli scambisti del primo capitolo del primo libro del Capitale non hanno nulla a che vedere
con una mitica “società mercantile semplice”, ma sono in realtà imprese
capitalistiche che organizzano al loro interno un lavoratore “collettivo”. Per
questo, nei Grundrisse Marx presenta
una seconda deduzione del lavoro astratto, dove il lavoro astratto è inteso
simultaneamente come il lavoro “vivo” del
lavoratore salariato opposto al capitale della produzione – il lavoro vivo,
scrive Marx, come lavoro astratto “in divenire”. Qui l’astrazione reale deve
investire in un qualche senso il lavoro come “attività”, cioè il lavoro in atto
estorto alla forza lavoro. Il lavoro “vivo” non è altro che il valore d’uso del
lavoratore in quanto forza lavoro: è cioè la capacità lavorativa acquistata dal
capitale monetario e messa in movimento nel processo di lavoro come mezzo al
processo di valorizzazione.
In quel che precede sono evidenti due “sequenze”
intrecciate. La prima sequenza, più evidente, è quella monetaria. Il processo
capitalistico è un circuito monetario che si apre con un finanziamento iniziale
alla produzione, dove il capitale in forma monetaria, prestato dal capitalista
“monetario” al capitalista “industriale”, acquista forza lavoro; prosegue con
la produzione immediata dove il capitale “comanda” il lavoro all’interno di una
data tecnologia e di una data organizzazione del lavoro; e si conclude con la
vendita dei risultati della valorizzazione sul mercato finale dei prodotti, il
recupero delle somme inizialmente stanziate, la loro restituzione al
finanziatore, e l’ottenimento di un sovrappiù di valore. La seconda sequenza,
più nascosta, è quella attinente al lavoro. La successione in questo caso va
dalla forza lavoro come “potenza” di lavoro, alla erogazione di lavoro come
capacità di lavoro “in atto” e valore “in potenza”, al lavoro oggettivato come
lavoro “alienato” nello scambio e denaro “in potenza”, da “attualizzare” sul
mercato finale7 . Non insisterò su un punto, peraltro fondamentale, della
visione marxiana, cioè sul fatto che tanto la traduzione di forza lavoro in
lavoro vivo, quanto la traduzione della forma valore della merce in denaro,
sono eventi altamente incerti, che non possono essere dati per scontati senza
fornire una rappresentazione gravemente mutilata del capitalismo. Per questo la
teoria marxiana non può essere ridotta puramente e semplicemente a una teoria
dell’equilibrio: il movimento fuori dall’equilibrio ne è componente essenziale.
Piuttosto, metterò in chiaro altri due punti importanti, e interconnessi, che
ci sono utili per tornare ai temi del Manifesto.
Il modo, innanzitutto, con cui il Marx maturo configura quella vera e propria
inversione di soggetto e oggetto che l’opuscolo del 1848 anticipa quando parla
di «lavoro appendice delle macchine». Il modo, quindi, in cui va intesa
l’astrazione del lavoro nella produzione, e la connessa questione della qualità
del lavoro, a cui pure rimandano Marx ed Engels quando scrivono di «lavoro dei
proletari» che «ha perduto ogni carattere indipendente».
Per quel che riguarda il primo punto, l’inversione di
soggetto e predicato – ovvero, il processo di “ipostasi reale” che sia il Marx
giovane come il Marx maturo individuano come tipico del modo di produzione
capitalistico – è evidente che il Marx degli scritti economici è giunto a
configurarla con una ricchezza inimmaginabile rispetto al torso del Manifesto. Ed è anche chiaro che tale
inversione non caratterizza soltanto lo scambio sul mercato finale, dove il
lavoro dei produttori, da attributo dell’essere umano, si capovolge in entità
indipendente, cioè in “valore” dei prodotti, che lo domina. L’inversione si
estende ora anche al mercato iniziale, al mercato del lavoro. Quando l’operaio
vende la propria forza lavoro al capitalista, la capacità di lavorare, ovvero
la merce venduta su quel mercato, da attributo dell’individuo diviene, appunto,
la determinazione particolare, il predicato, che assurge a soggetto di cui il
lavoratore empirico, che cede i propri servizi al capitale è mera appendice.
D’altra parte – spiacevolmente per il lavoratore, ma spiacevolmente anche per
il capitale – questo rapporto tra capacità lavorativa e lavoratore empirico può
essere rovesciato ma non può essere “sciolto”, ovvero la prima non può essere
definitivamente separata dalla corporeità del secondo. Ma vi è di più -
tocchiamo così il secondo punto, quello attinente alla natura e alla qualità
del lavoro nella produzione - l’inversione finisce con il caratterizzare la stessa
produzione immediata. L’argomentazione propria di Marx è che, quando si passa
dalla sussunzione formale alla sussunzione reale del lavoro al capitale, quando
cioè si sviluppa un modo di produzione specificamente capitalistico, il lavoro
diviene “senza qualità”.
Vi è qui, nota giustamente Chris Arthur8 , un errore
concettuale in cui è facile scivolare, e che è invece da evitare; un errore dal
quale non sono sicuro lo stesso Marx sia esente nella sua opera matura, e in
cui certo, lo abbiamo documentato, cade con Engels nel Manifesto. L’errore è quello «di identificare il lavoro astratto,
cioè la sostanza di valore, con il presunto carattere “astratto” del lavoro
moderno nella sua forma fisica». Negli stessi Grundrisse, in un brano di grande suggestione, Marx equipara
l’attività puramente “astratta” con l’attività meramente “fisica”: di qui, il
salto all’equazione sussunzione reale del lavoro al capitale = dequalificazione
del lavoro è di molto facilitato. A me sembra che il discorso più complessivo
di Marx spinga invece in un’altra direzione, quella secondo cui il lavoro non
soltanto “conta” come generico nello scambio ma diviene, cioè “è” generico
nella stessa produzione, nella misura in cui nel modo di produzione
specificamente capitalistico le caratteristiche e le abilità concrete del
lavoro, che permangono sempre, sono però “dettate” dalla tecnica e
dall’organizzazione capitalistica, cioè sono funzione dell’incorporazione dei
lavoratori al capitale. Ogni rivoluzione tecnologica e organizzativa riproduce,
nella forma che le è specifica, il “mestiere” e momenti di lavoro più o meno
“qualificato”, senza che sia possibile determinare a questo proposito una
definita e immutabile linea di tendenza a priori. La sussunzione reale del
lavoro al capitale comporta che è il capitale il soggetto che, determinando la
configurazione produttiva, fissa anche le qualificazioni interne al lavoratore
collettivo. Si tratta di un fenomeno che è compatibile tanto con ondate di
dequalificazione quanto con ondate di riqualificazione della prestazione
lavorativa. Ad essere essenziale, nella costruzione teorica marxiana, non è,
insomma, la “degradazione” del lavoro, ma il suo carattere forzato ed
eterodiretto, il fatto cioè che il lavoro è subordinato ad una tecnologia ed
una organizzazione pensate “fuori” e “contro” il lavoro, e nei quali il
lavoratore viene “incorporato” come un “altro” senza la cui attività il
processo non potrebbe comunque mettersi in moto. Il nocciolo sostanziale della
questione è qui il controllo sul lavoro, “qualificato” o meno.
Tiriamo le fila. Il lavoro astratto nelle sue tre dimensioni
che coinvolgono la forza lavoro come capacità di lavoro, il lavoro vivo come
attività, il lavoro oggettivato come risultato, è il valore nel movimento della
valorizzazione, che coinvolge produzione e circolazione ad un tempo. E’
soltanto quando il lavoro nella produzione diviene oggetto dell’iniziativa
capitalistica che incessantemente ne ridisegna le modalità, e quando viene
quindi “trattato” dalle imprese come astratto in vista dell’ottenimento di un
profitto monetario, che l’identità dei prodotti in quanto merci nello scambio,
il presupposto della teoria del valore marxiana, viene ad essere fondata, cioè
posta, da un proceso autenticamente reale9 . Il lavoro nella produzione rimane,
come sempre, lavoro “concreto”, ma tale concretezza materiale assume ora un
“contenuto” adeguato alla “forma” della “valorizzazione”. Così come la merce si
sdoppia in valore d’uso e valore, così il lavoro, si sdoppia nel momento stesso
dell’attività, in lavoro “concreto”, in quanto tale incommensurabile, e in
lavoro “astratto”, in quanto tale misurabile - e la cui misura immanente è il
tempo di lavoro10. Tale astrazione del lavoro nella produzione, che non ha
nulla a che vedere – ribadiamolo - con una riduzione effettiva del lavoro a
lavoro deconcretizzato11, è, in senso proprio, più fondamentale dell’astrazione
del lavoro nello scambio “finale”12. Rispetto al Manifesto questi sviluppi teorici confermano che il lavoro
individuale “appendice” delle macchine ha perso ogni carattere di indipendenza,
ma il quadro del rapporto capitalistico di produzione che ne emerge non patisce
più dell’impropria identificazione con una immaginaria tendenza
all’impoverimento del lavoro, secondo cui il lavoro capitalistico sarebbe il
lavoro privo di determinazioni concrete.
A seguito dell’approfondimento dovuto alla conquista delle
categorie di lavoro “astratto” e di “sussunzione reale del lavoro al capitale”,
è possibile ridefinire nei suoi termini esatti la questione della
pauperizzazione. Una volta che il capitalismo rivoluziona incessantemente le
tecniche e i modi del lavoro, è perfettamente possibile che l’aumento della
forza produttiva del lavoro si accompagni ad un continuo innalzamento della
sussistenza dei lavoratori, cioè ad un aumento del salario reale, e,
eventualmente, ad una contrazione della durata della giornata lavorativa, pur
in presenza di una riduzione del “lavoro necessario”, cioè della quantità di
lavoro richiesta per il mantenimento e la riproduzione del lavoratore. Detto
altrimenti: l’estrazione di plusvalore relativo equivale a una diminuzione del
salario relativo, e perciò a un restringimento della quota del neovalore
prodotto che torna ai lavoratori. La caduta del salario relativo è, secondo
Rosa Luxemburg, una vera e propria “legge”, e legge “oggettiva”, della
distribuzione nel capitalismo, una legge contro cui si può lottare soltanto se
si ha nel proprio orizzonte il superamento del capitalismo. Infrangere quella
legge equivale, infatti, a mettere in crisi la valorizzazione, e perciò
l’economia e la società capitalistiche13. E però quella legge non comporta
affatto le conseguenze del Manifesto,
secondo cui nel capitalismo inesorabilmente si producono la riduzione del
salario monetario e del salario reale. Le cose stanno anzi all’opposto. Al di
qua della soglia che vede crescere il salario reale unitario allo stesso ritmo
della produttività per addetto esistono margini per un accordo “riformistico”
che veda crescere insieme salari reali e quota dei profitti.
Come per la condizione del lavoro dentro la sfera della
produzione, così per la condizione del lavoro dentro la sfera del consumo si
può dire allora che la realtà capitalistica è duplice: per quel che riguarda il
terreno del valore, la relazione di classe non può che essere antagonistica,
senza rimedio; ma per quel che riguarda la sfera del valore d’uso è nell’ordine
delle cose una possibile convergenza tra le classi, in quanto maggiore
“soddisfazione” e “partecipazione” dei lavoratori - sino a che essi beninteso,
accettano la posizione subordinata - possono essere un propellente
dell’accumulazione. Non ho usato a caso il modo della “possibilità”. Che un
patto riformistico sia, di tempo in tempo, praticabile non significa affatto
che esso sia “naturale”, o – come qualcuno ha voluto pensare – che “il capitale
lavori (abbia lavorato, lavorerà) per noi”. Al contrario, le imprese
perseguiranno sempre la via del massimo profitto con il minimo sforzo nelle
condizioni date: una strada diversa deve essergli imposta, grazie alle armi del
conflitto sociale e della politica. Quello che è certo, di nuovo, è che il Marx
maturo torna sulla questione della pauperizzazione con tutt’altri accenti
rispetto alle proposizioni un po’ ingenue del Manifesto. Rimane comunque, sotterranea ma ineludibile, la
contraddizione profonda e insanabile di lavoro e capitale.
L’uscita da tale contraddizione non può in ogni caso essere
configurata sulla base di un esaurirsi della spinta propulsiva impressa alle
forze produttive dal carattere “finale” quale quella implicita nel crollismo
dell’opuscolo del quarantotto. Non è possibile farlo anche perché, come si è
anticipato, risultano inattendibili persino le più elaborate versioni della
“teoria del crollo” che è possibile rintracciare negli inediti del secondo e
del terzo libro del Capitale. La
“caduta tendenziale del saggio di profitto”, intesa come tendenza secolare alla
diminuzione del saggio di profitto, è stata contestata, a ragione, in quanto
non vi è motivo per cui l’aumento della “composizione organica del capitale”
non potrebbe in linea di principio essere controbattuto dall’incremento del
saggio di plusvalore, esso stesso funzione dell’introduzione del progresso
tecnico14. Si può, certo, ribattere che l’argomentazione marxiana è declinata
mettendo in prima linea i limiti alla giornata lavorativa totale della massa
operaia, dal che discenderebbe, a prima vista, una irreparabile tendenza alla
riduzione del saggio di profitto massimo15 al crescere del capitale costante
causato dalla meccanizzazione e dalla automazione. La replica è però immediata:
effetto delle nuove tecniche produttive è la riduzione del valore unitario
delle merci, e quindi niente esclude a priori che il saggio del profitto possa
invece aumentare qualora, pur con giornata lavorativa data o in caduta, la
svalorizzazione delle merci costitutive del capitale costante sia adeguatamente
più veloce. La “crisi da realizzo”, a sua volta, è stata sostenuta in modi
alternativi o complementari, facendo leva tanto sulle possibili “sproporzioni”
tra settori quanto sul limitato consumo delle masse, cioè sul “sottoconsumo”.
Entrambe le versioni vanno rigettate, in forza proprio di uno strumento
concettuale introdotto da Marx, gli “schemi di riproduzione”. Gli schemi
dimostrano che la domanda al capitale proviene dal capitale medesimo. Di nuovo
in linea di principio, non è detto che la declinante domanda di consumi
proveniente dai lavoratori, che è l’altra faccia della caduta del salario
“relativo”, non potrebbe essere sostituita da una domanda di investimenti che
cresce, come ammontare e come quota, al declinare dei consumi operai rispetto
al reddito. Gli schemi dimostrano che, in generale, l’equilibrio è sempre
possibile, anche se mai garantito.
Anche in questa circostanza, però, il bilancio per le
ipotesi del Manifesto non può essere
considerato come completamente negativo. E’ vero che la tesi del “crollo”
deterministico non può essere dimostrata. Ciononostante, l’arsenale marxiano si
rivela produttivo di ipotesi feconde per una ricostruzione della tendenza alla
crisi, sia pure non del tipo “finale”; e può dare vita a una ricostruzione di
“storia ragionata” che corrisponde abbastanza bene alla sequenza delle “grandi
crisi” attraversate dal modo di produzione capitalistico. Financo Michele
Salvati, recentemente, ha potuto scrivere che «è anche probabile che la
reazione contro il marxismo si sia spinta un po’ troppo oltre, almeno nel mio
paese: il marxismo (come strumento, non come ideologia) può ancora generare
preziose intuizioni sul funzionamento dell’economia di mercato»16. Sarà perciò
consentito a chi scrive spendere qualche buona parola, e lavorare un po’, sulla
teoria della dinamica capitalistica di Marx.
Si tratta di questo. “Caduta tendenziale del saggio di
profitto” e “crisi da realizzo” possono essere articolate tra di loro.
L’antagonismo con la forza lavoro e la conflittualità infracapitalistica
spingono le singole imprese ad un aumento del capitale fisso per lavoratore. E’
sicuramente possibile che, come si è appena ricordato, la crescita della
composizione “organica” possa essere battuta dall’innalzamento del saggio di
plusvalore; o, ancora, che la stessa composizione in valore del capitale cada
in conseguenza del progresso tecnico. Condizione dell’uno e dell’altro
accadimento è però una aumentata “pressione” sul lavoro e il tendere al massimo
l’estrazione di lavoro vivo in rapporto al lavoro necessario. D’altronde,
quanto più ha successo questa “controtendenza” alla caduta del saggio del
profitto, tanto più, evidentemente, si vengono a modificare le condizioni di
equilibrio intersettoriali, e tanto più si allarga perciò il divario tra
consumo dei produttori diretti e neovalore prodotto. Circostanze del genere
rendono sempre più plausibile l’insorgere di “sproporzioni”, e sempre più
improbabile che un aumento “autonomo” degli investimenti sia in grado di
impedire la crisi da realizzo.
Il processo capitalistico si trova insomma tra Scilla e
Cariddi. La prima evenienza, una caduta del saggio del profitto dovuta alla
lievitazione della composizione organica del capitale, sembra spiegare
abbastanza bene la Grande Depressione della fine del secolo scorso, mentre la
seconda evenienza, una sovraccumulazione del capitale indotta da elementi di
crisi da realizzo, appare una componente essenziale per dar conto della Grande
Crisi degli anni trenta di questo secolo. Pure in quest’ultimo caso si è
trovata la via d’uscita dalla crisi: con la spesa bellica, con l’ulteriore
estensione del consumo “improduttivo”, con l’intervento “keynesiano” (che ha
assunto esso stesso, non per colpa di Keynes, caratteri di “improduttività”)17.
La quota dei lavoratori “produttivi”, se non il loro ammontare assoluto, aveva
già iniziato a decrescere nelle punte avanzate dello sviluppo. Il lavoro vivo
non cessava peraltro di restare al centro del modo di produzione capitalistico.
I massicci prelievi dal sovrappiù, la svalorizzazione del capitale costante, le
aspettative positive degli imprenditori – tutti elementi indispensabili perché
il processo di accumulazione procedesse nel nuovo regime che è stato spesso
qualificato come “fordista-keynesiano” – si fondavano sul persistente ruolo
“passivo” della classe operaia. Dalla metà degli anni sessanta alla metà degli
anni settanta la congiunzione di una accentuata concorrenza infracapitalistica
(tra le aree economiche americana, europea, giapponese) e di una conseguente
spinta all’intensificazione del lavoro, conducevano, in presenza di una stabile
“piena occupazione”, ad una crisi direttamente sociale della valorizzazione, segnata
da un aumento dei salari reali in eccesso rispetto alla produttività, e
dall’interruzione, temporanea ma drastica, della caduta del salario relativo.
Quanto si è appena detto a proposito della crisi è un indice
del fatto che nella teoria del Marx maturo un altro approfondimento da tenere
in conto riguarda il quadro della struttura di classe. Non soltanto negli
scritti storici, ma nella stessa “critica dell’economia politica” Marx
abbandona la tesi del Manifesto
secondo la quale lo sviluppo dell’accumulazione si accompagnerebbe a una
riduzione a due delle classi. E’ noto, per esempio, che una delle critiche che
Marx rivolge a Ricardo è segnatamente che egli «dimentica di rilevare il
continuo accrescimento delle classi medie che si trovano nel mezzo fra workmen
da una parte, capitalista e landlord dall’altra», classi che, direttamente
nutrite in sempre maggiore ampiezza sul reddito prodotto dai lavoratori,
«gravano come un peso sulla sottostante base working e aumentano la sicurezza e
la potenza sociale degli upper ten thousand»18. La citazione dimostra,
peraltro, come l’abbandono dell’idea di una progressiva “semplificazione” della
struttura di classe non significa affatto
rinunciare a dar conto della complessità sociale a partire dal confronto
antagonistico tra le due classi, e da come questo antagonismo incida sulla
divisione del tempo sociale. Il Manifesto
lascia in eredità alla riflessione successiva proprio questa idea, che la modernità capitalistica ruota
attorno a questa dualità di classe “fondamentale”, così come l’idea che
esista una intrinseca dimensione politica di questo antagonismo, che della
politica è certo oggetto di manipolazione. Per quanto il Marx maturo abbandoni
il modo primitivo in cui questi principi orientano la sua ricerca in gioventù,
soprattutto sul terreno dell’economia politica, essi rimarranno ciò non di meno
al cuore della sua costruzione teorico-politica.
3. Marx e il
capitalismo “globale”
«Il termine
“mondializzazione” designa una configurazione particolare del capitalismo nella
quale il capitale, tanto industriale quanto finanziario, ha recuperato, grazie
all’aiuto attivo degli stati più forti, una libertà d’azione pressoché totale.»
François Chesnais, La mondialisation du
capital et ses consequences, p. 26.
Cosa ha da dire il Manifesto
al lettore di oggi? Una risposta diffusa a questa domanda, negli ultimi tempi,
è quella che dà autorevolmente Eric Hobsbawm: «Il punto è che il mondo
trasformato dal capitalismo, che egli descrisse nel 1848 in frasi di cupa e
laconica eloquenza, è riconoscibile come il mondo nel quale viviamo
centocinquant’anni dopo»19. Quale sia il mondo nel quale viviamo secondo
Hobsbawm lo si ricava abbastanza bene dal suo, per molti versi ammirevole,
libro di qualche anno fa, The Age of
Extremes20 L’idea portante è che a partire dagli anni settanta il
capitalismo si sia “liberato” della politica, e in grande misura anche del
conflitto sociale. La rivoluzione tecnologica, nei trasporti e nelle
comunicazioni, consente a partire da allora la delocalizzazione delle imprese,
e infrange il nesso positivo tra accumulazione e occupazione. Il capitalismo è
oramai “transnazionale” e “mondializzato”. La lettura alla Hobsbawm è divenuta
oggi il senso comune, di cui lo storico inglese rappresenta una delle versioni
più degne. Quel senso comune secondo il quale vivremmo oggi una “inedita”
globalizzazione dei mercati, della produzione e della finanza che, riducendo i
livelli di occupazione, abbatte il tempo di lavoro erogato nell’area
capitalistica. Se le cose stessero così, si deve dire, Marx avrebbe sicuramente
colto nel segno nell’individuare le tendenze storiche di lungo periodo; egli
avrebbe però al tempo stesso individuato le ragioni per le quali la “vittoria
del proletariato” era altamente improbabile, se non addirittura certamente da
escludere. Hobsbawm, come la gran parte dei commentatori attuali, deve invece
constatare che Marx e Engels accoppiavano la sua descrizione dell’impulso del
capitale a creare un “mercato mondiale” alla previsione di un possibile, anzi “inevitabile”
rovesciamento rivoluzionario – salva la possibilità, che i due autori non
scartavano, di una comune rovina delle classi in lotta.
C’è evidentemente qualcosa che non torna in questa linea
interpretativa. Per mio conto, sono convinto che le categorie marxiane della
critica dell’economia politica, e la conseguente rilettura del Manifesto alla loro luce, siano uno
strumento potente di spiegazione di ciò che accade in questa fase. La ragione
però sta esattamente in un motivo che mi oppone alla visione dominante, e cioè
nel fatto che il riferimento a Marx può permettere di vedere il carattere
contraddittorio e limitato della “globalizzazione” contemporanea, i conflitti
sociali che hanno determinato la crisi a cui essa risponde, la parte cruciale
che ha giocato la politica statuale nel consentirla. Marx può dunque aiutare a
individuare i tratti di reversibilità di questo processo, nel bene e nel male;
e le forze potenziali per governarla o contrastarla. Su questi temi sono
intervenuto ripetutamente negli ultimi tempi, per cui in questa sede mi
limiterò a poche osservazioni di sintesi21.
Nessuno dubita dell’accresciuto grado di
internazionalizzazione delle economie. E’ pure chiaro che i discorsi critici
che sottolineano come per molti aspetti l’internazionalizzazione della fine del
ventesimo secolo non abbia carattere assoluto di “novità”, soprattutto se
comparata all’internazionalizzazione a cavallo tra il secolo scorso e il
nostro, benché corretti in sé, trascurano differenze qualitative significative
che caratterizzano le dinamiche più recenti. Ma è proprio sul carattere
distintivo della “globalizzazione” attuale che la vulgata corrente mostra i
suoi limiti. Esso certamente non è individuabile in una inesistente
globalizzazione dei mercati. I mercati sono semmai in gran parte ancora
regionali, dominati dalla vicinanza geografica; la quota predominante della
produzione e del consumo è ancora nazionale. Se è vero, inoltre, che il
commercio mondiale cresce, esso cresce a ritmi minori che nella cosiddetta “età
dell’oro” dei trent’anni dopo la seconda guerra mondiale, e tende ad escludere
molto più di allora la “periferia”. Gli scambi “intra-firm”, ovvero la
percentuale elevata dell’interscambio mondiale che si svolge tra filiali
diverse della medesima multinazionale, quelli sì, hanno raggiunto livelli
eccezionali nella storia del capitalismo; d’altra parte, i dati disponibili
(relativi a Stati Uniti e Giappone) ne fanno un mutamento portato non dal
postfordismo ma dal fordismo, visto che le percentuali del commercio interno
alle grandi imprese multinazionali sono grosso modo stabili dalla metà degli
anni settanta.
Le novità autentiche sono il ruolo centrale assunto dagli
investimenti diretti all’estero e la sempre maggiore mobilità del capitale
finanziario. Bisogna, evidentemente, anche qui stare attenti nell’indagine
delle tendenze in questione. Per quel che riguarda gli investimenti diretti
all’estero, non bisogna mai dimenticare che essi hanno prevalentemente il
carattere di trasferimento di diritti di proprietà, e non di creazione di
capacità produttiva aggiuntiva; e che quando effettivamente si ha a che fare
con macchinari e impianti, molte volte si tratta di un mezzo per aggirare le
barriere, tariffarie e non tariffarie, poste dalla “regionalizzazione” del
commercio mondiale di cui si è detto. Localizzare sul posto la produzione,
vicino ai mercati emergenti – quella, che con orrendo neologismo è d’uso
chiamare glocalizzazione, e che è larga parte della presente ridislocazione
territoriale della attività manifatturiera - nuota paradossalmente contro,
invece che a favore, della “globalizzazione” in senso proprio. Ancora, gli
investimenti diretti all’estero costituiscono una percentuale ridotta
dell’investimento totale interno, si concentrano sempre più nel Nord del mondo,
e sono quota largamente minoritaria dei movimenti internazionali di capitale.
Per quanto riguarda questi ultimi, la dimensione planetaria della mobilità del
capitale finanziario, è certo la meno contestabile delle dimensioni
dell’odierna “globalizzazione”. La quantità e volatilità dei capitali spostati
sulle diverse piazze, come che siano misurati, è cresciuta a dismisura nel
secondo dopoguerra, e a velocità esponenziale dopo il 1982, sino a raggiungere
i 1.300 miliardi di dollari di giro d’affari quotidiano. Anche in questo caso è
peraltro bene distinguere la mobilità a breve del capitale da quella a lunga:
se la prima si è accresciuta, la seconda, riflessa dai flussi netti di capitale
registrati nel conto corrente della bilancia dei pagamenti, si è ridotta
rispetto all’inizio del secolo.
Vale la pena, su questo tema, di lasciare la parola a
Suzanne de Brunhoff:
«Malgrado l’immensità
dei flussi dei capitali ad alta mobilità che circolano tutti i giorni per il
pianeta, tuttavia, non si può dire che esista un unico mercato globale: non c’è
nulla di equivalente, infatti, né ad un unico tasso di interesse, né ad un
unico sistema di prezzi per i beni prodotti, che siano validi a livello
internazionale. Lo slogan “un mercato, un prezzo” è dunque una finzione
teorica, qualunque possa essere il grado di convergenza dei prezzi e dei tassi
di rendimento tra le varie economie. Un fattore responsabile della relativa
segmentazione finanziaria è proprio, a monte, la segmentazione monetaria dei
sistemi economici, intendendo con ciò il fatto che le attività finanziarie
vengono denominate nelle differenti valute, e che queste non sono tra loro
“perfetti sostituti” (i differenziali fra i tassi di interesse nominali,
infatti, non coprono le variazioni dei tassi di cambio). I regimi dei tassi di
cambio fra le diverse monete, siano essi fissi o fluttuanti, sono così chiamati
a supplire alla mancanza di un’unica moneta mondiale.»22
Regimi di cui tutto si può dire meno che siano indipendenti
dall’influenza della politica. Quella stessa politica che, con particolare
determinazione e con crescente presa di velocità, dalla metà degli anni
settanta, si è fatta, prima negli stati guida, poi anche negli altri,
promotrice di quelle misure di deregolamentazione finanziaria e di liberalizzazione
dei movimenti di capitale all’origine del ricatto che costantemente i “mercati”
impongono all’autonomia politica dei governi.
Insomma: il commercio mondiale di oggi, per un verso,
decelera, per l’altro è manovrato – soprattutto, come è ovvio, dai grandi
stati-nazione - al punto che si parla talora, autorevolmente, di
“neomercantilismo”. La diffusione della produzione in alcune aree di recente
industrializzazione frammenta, più che rendere omogeneo, il sistema
capitalistico. Tutto ciò si accompagna a una rinnovata gerarchia nel controllo
della tecnologia, oltre che della domanda, che è anche una gerarchia politica.
La globalizzazione della finanza, lungi dal segnare la liberazione finale del
capitale dalla politica, ne è, per un verso, il risultato, e per l’altro verso,
il campo di battaglia23
Una comprensione più adeguata della fase attuale richiede di
riandare alle radici della rottura che interruppe lo sviluppo capitalistico
dell’“età dell’oro”. Sono da rigettare tutte le letture dal sapore
meccanicistico – diffusesi non si sa come, probabilmente per disperazione,
anche a sinistra, e dove uno meno se lo aspetterebbe. Per esempio, quelle che
riconducono la “crisi” alla saturazione della domanda di consumi, o all’aumento
del prezzo del petrolio, datandola alla metà degli anni settanta; così come
quelle che, anticipandone l’inizio di qualche anno, la attribuiscono ad un
esaurimento delle basi tecnologiche del “fordismo” o al fatto che le economie
europee e giapponesi avrebbero terminato a quell’epoca l’inseguimento degli
Stati Uniti. Si trattò piuttosto del convergere di tre fattori alla metà degli
anni sessanta: l’esaurirsi dell’egemonia statunitense, che nel giro di poco
tempo produrrà il crollo del sistema di cambi “fissi ma aggiustabili” di
Bretton Woods; i caratteri particolari del riaccendersi della conflittualità
tra differenti capitalismi, che andava a colpire il paese leader in una fase di
profitti calanti e di conflitto sociale riacceso da una prolungata piena
occupazione; infine, e soprattutto, la generale ripresa del conflitto
industriale, in forme nuove che si estendevano dalla classica spinta salariale
alla contestazione interna alla produzione dei modi organizzativi e tecnici
attorno a cui essa era strutturata. La crisi fu dettata, a un tempo, dai
conflitti interni al capitale e dall’antagonismo lavoro-capitale che minava il
fondamentale “rapporto sociale di produzione”.
Non è il caso, ovviamente, di seguire nei dettagli la catena
delle cause e delle reazioni24. Basti richiamare solo alcuni punti essenziali.
Il processo di liberalizzazione dei movimenti di capitale ha un inizio politico
nei primi anni sessanta, con le scelte degli Stati Uniti e della Gran Bretagna,
che facilitarono la creazione del mercato dell’eurodollaro. Le decisioni di
questi due paesi, cioè dei due centri egemoni della finanza tra fine ottocento
e fine novecento, nel corso degli anni settanta sull’abolizione dei controlli
di capitale e la liberalizzazione della borsa, hanno poi messo in moto la
concorrenza alla deregolamentazione finanziaria. Giocavano nello stesso senso
il riciclaggio dei petrodollari e gli interessi del sistema bancario privato.
Il fronte favorevole alla libertà di movimento per il capitale finanziario e
reale si è poi progressivamente ingrossato, vista la strategia tedesca e
giapponese di mantenere permanentemente avanzi di bilancia commerciale. Un
potente fattore di accelerazione – un vero e proprio “salto qualitativo” – fu,
tra il 1979 e il 1982, la svolta deflazionistica impressa all’economia mondiale
da Reagan e dalla Thatcher. La restrizione monetaria, per di più in
concomitanza con una politica fiscale vigorosamente espansiva oltre atlantico,
ha fatto balzare verso l’alto i tassi di interesse nominali e reali, il che ha
comportato l’avvitarsi su se stessi dei disavanzi pubblici, e quindi l’esigenza
degli stati di ricorrere al finanziamento del debito con titoli, piazzati su
mercati obbligazionari sempre più internazionali.
di classe, indebolendo oltre misura il lato del lavoro nel
suo confronto con il capitale. La mobilità accordata ai capitali, scrive
François Chesnais, «è l’elemento che permette agli investitori finanziari,
ancora nazionali al 75%-80%, di far pesare sui governi la minaccia di disertare
la piazza finanziaria d’origine»25. Inoltre, la mobilità accelerata dei
capitali impone una alta profittabilità, e su un orizzonte temporale ristretto,
obbligando, quasi si trattasse di una costrizione naturale, a rendere
“flessibili” e “mobili” all’estremo gli stessi lavoratori. Il regime di
accumulazione del capitale reale che si è così prodotto è a bassa velocità, con
rendimenti elevati a breve termine e stagnazione della domanda. Esso esige un
controllo ferreo del lavoro per impedire il ritorno del conflitto sociale, e
tale controllo nasce altrettanto dagli effetti di una acuta lotta di
concorrenza fra imprese nel debilitare la posizione dei lavoratori, qualificati
e non, che dal comando interno all’impresa. La “crisi”, in un certo senso, è
divenuta essa stessa lo strumento primo delle estensione e intensificazione del
processo capitalistico. Gestita a questo scopo dalla politica economica dei
vari paesi: a cui rischia però, costantemente, di sfuggire di mano riesumando
lo spettro di una grande crisi finanziaria, o di una nuova Grande Crisi.
L’impianto analitico marxiano è qui di notevole utilità, se
non altro per i quesiti originali che induce a formulare, e al di là delle
suggestioni ad effetto che discutibilmente estraggono da qualche citazione del Manifesto la descrizione dei tempi postmoderni.
La ricostruzione che ne abbiamo dato fa perno su due assi: il ruolo centrale
del lavoro vivo nella valorizzazione; la natura circolare e monetaria del
processo capitalistico.
Per quel che riguarda il primo aspetto, si può, per la
verità, andare oltre la lettera – anche se non contro lo spirito – di Marx. Si
può cioè osservare come lo “sfruttamento” adeguato alla teoria del valore
lavoro “astratto” dell’autore del Capitale non possa essere ridotto alla mera
estrazione di un pluslavoro. In realtà, ciò che la “critica dell’economia
politica” mette in evidenza è che la natura speciale della forza lavoro – merce
inseparabile dal suo venditore – obbliga il capitalista a estrarre lavoro tout
court ad una manodopera che è sempre potenzialmente recalcitrante26.
L’estrazione di un pluslavoro positivo, lo sfruttamento nell’accezione
tradizionale del termine, è “secondario”, nel senso di conseguente, a questo
sfruttamento più essenziale e radicale. Da questo punto di vista il nodo non è
meramente distributivo, come buona parte del marxismo ha sempre inteso. Il
problema non è, in altri termini, che la giornata lavorativa non si identifica
con il lavoro necessario, ma lascia un residuo, il pluslavoro appunto. Il nodo
è ben più profondo, ed investe il tempo di lavoro nella sua interezza. La
questione è la natura forzata del lavoro, la sua eterodirezione, la sua
qualità. Ne discende un punto, insieme teorico e politico, su cui torneremo
nell’ultima sezione, ovvero il fatto che la “lotta di classe” non è qualcosa che
si possa espungere dalla prospettiva scientifica di Marx, perché l’oggetto
specifico d’analisi non può essere colto se non attraverso la tensione tra
“lato del capitale” e “lato del lavoro” attorno a questo “centro” del modo di
produzione capitalistico che è il processo di lavoro come mezzo al processo di
valorizzazione27. Ma ne discende anche una constatazione: l’evoluzione storica
in questo secolo, e anche le cose dette in questo paragrafo, non hanno fatto
altro che confermare – in certo senso, addirittura, confermare sempre più -
questa centralità del lavoro, tanto come condizione dello sviluppo quanto come
causa della crisi. Il molto discorrere attuale di scomparsa del lavoro è, da
questo punto di vista, chiaramente infondato. Ciò che la teoria di Marx suggerisce
non è un mitico proletariato sempre all’offensiva, ma semmai che il capitale ha
necessità vitale di subordinare a sé l’attività dei lavoratori. Chi sogna di
una autonomia operaia incondizionata, come chi all’opposto lamenta una
riduzione del lavoro allo statuto inerte di un qualsiasi mezzo di produzione, è
fuori strada. La scomparsa dei soggetti, con la minuscola, sarebbe la fine del
capitale, cioè del soggetto con la maiuscola. Il “postfordismo”, mediante il
suo intersecare una parziale ma autentica riqualificazione del lavoro con una
intensificazione spinta del lavoro, è la più vistosa prova a favore di Marx e
della sua visione della subordinazione reale del lavoro al capitale, se mai ve
ne fosse bisogno. La dualità borghesia-proletariato al centro del Manifesto, poi trasformata in quella
capitale-lavoro negli scritti della maturità, rimane, più o meno nascosta, il
motore essenziale della dinamica capitalistica.
Per quanto riguarda il secondo aspetto, il sottolineare la
natura circolare e monetaria del capitale non è altro che riandare alla
“formula generale” del capitale secondo Marx, DM-D’. La formula segnala
l’intrecciarsi del fondamentale antagonismo capitale-lavoro con il frazionarsi
del capitale in capitale monetario e capitale produttivo. Forza lavoro e denaro
vi appaiono come le merci “speciali” di cui è necessaria una gestione politica.
Di nuovo la de Brunhoff, e giustamente, apre e chiude il suo volume sulla
politica economica con la frase, condivisibile, secondo cui «il capitale privato
ha sempre bisogno dell’esistenza di un potere statuale»28. Può cambiare, e
sicuramente cambia, la politica adeguata alle diverse fasi capitalistiche: ma
si tratta di una metamorfosi, non di un declino, della politica. Fantasticare
di un capitale senza politica sarebbe innocuo se non privasse, ahimé, delle
categorie necessarie a capire come, e perché, si modificano le relazioni di
classe dei nostri giorni. E’ per queste ragioni condivisibile quanto ha scritto
recentemente Rossana Rossanda, secondo la quale
«uno iato si produce
anche fra Marx e le recenti ipotesi di riappropriazione del o dal lavoro che
prescindono da un rivoluzionamento generale, dunque politico. Benché queste –
da forme di cooperazione fuori mercato al “reddito sociale garantito” – siano un
prodotto degli ultimi anni in alcuni “punti alti”, specie europei, è certo che
la critica di Marx nei loro confronti si eserciterebbe in forme non molto
diverse dall’asprezza dedicata ai partiti socialisti europei nell’ultimo
capitolo del Manifesto, e nella Critica al programma di Gotha. In Marx, sociale
e politico sono inseparabili.»29
C’è, infine, una lezione di metodo di Marx, del Marx
successivo al Manifesto. Lungi dal
ridurre lo sviluppo economico e sociale della società presente ad una sequenza
lineare, si individuano tendenze e controtendenze: la dialettica tra le une e
le altre può dare luogo – di più: normalmente dà luogo – alla forma ciclica in
cui si svolge la storia del capitale. Le letture della globalizzazione e del
postfordismo che trascurano questo aspetto rischiano grosso, per due ragioni.
Innanzitutto, perché estrapolano indebitamente nel futuro una soltanto delle
plurali, e in conflitto, linee di tendenza attuali del capitalismo, dandola
inoltre per già compiuta – quando invece, per dirla con Alain Bihr, «siamo
ancora, in pieno, nel fordismo, e nella sua crisi».30 Ma anche perché sfugge a
queste letture la contraddittorietà sociale e politica cui l’attuale
transizione può dare vita, e la stessa reversibilità della tendenza su cui
unilateralmente esse mettono l’accento.
4. La
questione del soggetto
«Alla vecchia società
borghese con le sue classi e i suoi antagonismi fra le classi subentra una
associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero
sviluppo di tutti». Karl Marx, Friedrich Engels, Manifesto del Partito comunista, p. 120
Vi è però una questione, centrale nel Manifesto, che è stata sin qui trattata solo di striscio, e che è
invece, con tutta chiarezza, “la” questione, almeno per chi abbia ancora a
cuore un Marx non ridotto a tranquillizzante “classico” del pensiero, ma
risorsa attuale per una trasformazione sociale radicale all’insegna di una
autentica libertà nell’eguaglianza. E’ la questione posta, brutalmente ma
efficacemente, ancora da Rossana Rossanda: «perché centocinquant’anni dopo, la
classe spossessata, e tuttavia arricchita da innovatrici esperienze di lotta in
occidente, e in presenza di una rete prima sconosciuta dei mezzi di
comunicazione, non si associ, non si organizzi, non si pensi unita e come soggetto
transnazionale capace di unificarsi.»31 Non ho la pretesa, in quel che segue,
di dare una risposta a questa domanda. Cercherò invece di presentare dei
materiali utili, per lo meno, a intendere in modo un po’ diverso da quello
consueto questa difficoltà.
Conviene, a questo fine, prendere le mosse da una
descrizione sommaria di quello che è forse il ragionamento più diffuso. Marx,
si dice, avrebbe pronosticato l’esito rivoluzionario della lotta tra borghesia
e proletariato sulla base dell’idea secondo la quale lo sviluppo capitalistico
avrebbe progressivamente ingrossato quantitativamente le fila degli operai
dell’industria, concentrandoli nelle grandi imprese. Si costituisce in tal modo
la condizione “soggettiva” per imporre una riduzione del tempo di lavoro, ma
anche per una liberazione del lavoro, per un superamento del carattere
eterodiretto della prestazione lavorativa, per una presa politica del potere.
Nel medesimo tempo, l’accumulazione del capitale costruisce la condizione
“oggettiva” di tale liberazione, nella misura in cui nelle macchine si
condensa, sia pure in forma estraniata, la potenza produttiva del lavoro
sociale. Secondo questa prospettiva, dunque, il corso stesso della storia
agevola il proletariato costituitosi in classe nell’unificare lavoro e sapere
sociale, superando lo sfruttamento. Ora però, si aggiunge, la “rottura” nel
legame investimenti-occupazione dell’ultimo quarto di secolo smentisce le basi
stesse di questo ragionamento. Da un lato, la classe operaia sarebbe in
riduzione tanto percentuale quanto assoluta, al punto che non parrebbe
esagerato parlare di fine del lavoro (salariato). Dall’altro, il mutamento
tecnologico e organizzativo avrebbe natura tale da rendere inconsistente la
speranza di un uso non capitalistico delle macchine e prefigurerebbe al
contrario una incorporazione definitiva del lavoratore nell’organismo
produttivo. In conclusione, se mai la “centralità del lavoro” si è data, essa
sarebbe ora negata dalla realtà. Peraltro, quella centralità del lavoro è il residuo
“industrialista” e “lavorista” di Marx. Incarna, per così dire, una
antropologia fondata sull’idea della centralità della produzione nel definire
la natura dell’essere umano, antropologia che si è tradotta politicamente nella
presunzione secondo la quale la classe operaia, o il partito che pretende di
rappresentarne la coscienza, avrebbe titolo a una posizione di primato nel
blocco sociale anticapitalistico, e nella costruzione della nuova società. Il
fallimento del marxismo sarebbe allora in certa misura benvenuto, e in ogni
caso inevitabile, come ha proclamato la critica femminista e quella proveniente
dal pensiero verde. Se via d’uscita dalle relazioni capitalistiche esiste, essa
andrebbe individuata nella ricerca, qui ed ora, di un “altrove” di relazioni
produttive e interumane non mercantili, “ingranata” materialisticamente proprio
in quella distruzione del lavoro salariato che indica il restringimento
dell’area capitalistica.
Non intendo negare che tracce di una logica argomentativa
“industrialista” e “lavorista” siano rintracciabili in Marx - nel Marx della
prefazione del 1859, ad esempio. Né, quindi, contesto la legittimità delle
critiche rivolte dal femminismo e dal pensiero verde a gran parte del marxismo
vecchio e nuovo. Credo però che l’insieme del discorso non faccia giustizia al
Marx migliore, né regga come interpretazione della realtà attuale e dei dilemmi
che abbiamo dinanzi.
Per quel che riguarda Marx, vale la pena riprendere il filo
dell’argomentazione dei paragrafi precedenti. La tesi che voglio avanzare si
condensa in poche frasi. Nel Manifesto
del partito comunista, non è possibile separare la parte “analitica” dei
primi due capitoli da quella “politica” degli ultimi due, e in particolare non
è possibile leggere le parti sul destino della lotta di classe se non alla luce
dell’ultima frase («Proletari di tutti i paesi, unitevi»). Questo vale in tutto
Marx. La lotta di classe è, come direbbe un filosofo, costitutiva
dell’ontologia relazionale con cui Marx legge il capitalismo. Ciò non configura
affatto una “centralità della produzione” nell’autore del Capitale come ideale
normativo. Il lavoro come dimensione essenziale della natura dell’essere umano,
insieme ad altre, è un portato dello stesso capitalismo, che però
contemporaneamente lo nega, svuotando il lavoro di ogni ricchezza ed
assolutizzando questa “astrazione” di attività a sostanza fondamentale della
ricchezza capitalistica. La “centralità del lavoro” in Marx non ha dunque
niente a che vedere con una prospettiva “produttivista”. La lotta nella
produzione è “centrale” esclusivamente nel senso che la necessaria messa in
crisi dell’universo capitalistico non può non toccare il cuore del meccanismo
sociale. Tale centralità, ancora, non ha rapporto alcuno con un preteso
incremento quantitativo del proletariato, ed è compatibile anzi con una
riduzione del peso percentuale del lavoro “produttivo”. Vediamo perché.
Quella di Marx è una “critica” dell’economia politica per
due ragioni, dove, in entrambe, scienza e rivoluzione risultano inseparabili.
La prima ragione è che a Smith e Ricardo Marx contesta di non riconoscere nel
lavoro e nella forza lavoro due categorie distinte, benché unificate nella
figura concreta del lavoratore. Per quanto abbiamo detto nel terzo paragrafo,
riconoscere quella distinzione avrebbe significato per gli economisti classici
dover risalire alla categoria di lavoro “astratto”: perciò all’idea del
capitalismo come realtà retta dall’inversione di soggetto e predicato, e di
conseguenza alla constatazione della non naturalità della società presente. La
seconda ragione ha a che vedere con le condizioni pratiche di questa scoperta
marxiana. E’ chiaro che essa è stata resa possibile dalla presenza di movimenti
di lotta operaia che mettevano in discussione nella realtà delle cose la
pretesa che la traduzione effettiva della capacità lavorativa in lavoro vivo
fosse qualcosa di ovvio, non problematico. Una volta che la lotta di classe
viene riconosciuta dalla teoria come fattore cruciale, è essa che, non
meccanicamente, determina tanto il rivoluzionamento delle forze produttive
quanto il mutamento dei rapporti sociali di produzione. Qui non si vede proprio
come la coscienza possa avere altra base che l’essere sociale, in altri termini
l’individuo in relazione, per come tale relazione si dà dentro il capitale. Ed
è su questa base, che è materiale e ideale a un tempo, che già nel Manifesto si incardina il mutamento
rivoluzionario. Ed è in questo senso, a me pare, che Marx e Engels scrivono:
«Le proposizioni teoriche dei comunisti non poggiano affatto su idee, su
princìpi inventati o scoperti da questo o quel riformatore del mondo. Esse sono
semplicemente espressioni generali di rapporti di fatto di una esistente lotta
di classi, cioè di un movimento storico che si muove sotto i nostri occhi» (pp.
106-107)32. Questo atteggiamento, per quel che mi riguarda, va messo all’attivo
del marxismo: ed è palese a tutti, credo, quanta distanza vi sia dalla sinistra
radicale di oggi.
La ricostruzione che abbiamo suggerito del Marx successivo
al Manifesto, dove la dualità
capitale-lavoro viene mantenuta pur in presenza di una composizione delle
classi in via di crescente complicazione, dovrebbe già rendere plausibile
l’affermazione secondo cui la centralità economica e sociale dello sfruttamento
è indipendente dall’allargamento quantitativo della classe degli sfruttati. Che
poi, di fatto, si sia avuta una riduzione del lavoro eterodiretto, è leggenda
di scarso fondamento. Quella riduzione è contestabile empiricamente: non
soltanto perché su scala mondiale il proletariato continua ad aumentare, ma
anche perché nei paesi a sviluppo maturo la diminuzione della percentuale del
lavoro salariato occupato nella grande impresa si è accompagnata all’estensione
delle altre figure del lavoro eterodiretto. Se vi è poi un’epoca in cui il
lavoro si allunga, e diviene il metro dell’esistenza degli individui, sembra,
ahinoi, proprio quella in cui viviamo.
A dimostrazione di quanto Marx sia ben lontano da una
raffigurazione della nuova società come generalizzazione della condizione di
proletario dovrebbe bastare questa limpida citazione dalla Sacra Famiglia: «Se vince, il
proletariato non diventa il lato assoluto della società; infatti esso vince
soltanto togliendo sé e il suo opposto.»33 Realizzare la potenza del lavoro
autenticamente sociale significa, sì, uscire dalla passività del lavoro
eterodiretto, ma significa anche impedire al lavoro come essenza dell’essere
umano di assorbire esaustivamente l’esistenza, significa cioè dar spazio alla
“contemplazione”, alla “cura” e al “gioco”. L’errore delle critiche femministe
e verdi a Marx, che si è poi diffuso in una rappresentazione caricaturale e di
maniera del marxismo negli anni novanta, non sta però soltanto nell’avere
indebitamente ridotto Marx al (peggio del) marxismo storico34. Sta, più di
fondo, nel non aver colto che, se l’analisi marxiana ha qualche freccia al suo
arco, combattere la centralità della produzione presuppone appunto la capacità
di riattivare una centralità del (conflitto sul) lavoro dentro e contro il
capitale. L’errore della vecchia e della nuova sinistra è stato, d’altro canto,
quello di tradurre indebitamente la centralità “sociale” del lavoro in una
centralità “politica” del lavoro, nella quale la relazione tra i diversi
soggetti si configura come gerarchica che invece che su un piano di parità.
Non voglio però essere frainteso. Ciò che si è sostenuto non
elimina affatto la difficoltà rilevata da Rossana Rossanda. Una difficoltà che
diviene anzi, se possibile, più sostanziale e drammatica in quanto è stata
ricondotta allo scheletro logico derivabile dalla critica dell’economia
politica. Per come l’ho riletta, nulla garantisce che la contraddizione
capitale-lavoro sia “tolta” dall’evoluzione spontanea delle cose. Si può dire
di più: tutto il problema della teoria politica marxiana sta proprio nel come
passare dalla necessaria centralità dell’antagonismo interno alle condizioni
del lavoro alla costruzione di un fronte anticapitalistico dove tutti i
soggetti abbiano pari dignità, e dove la questione divenga la “divisione” e la
qualità del tempo di vita di tutti35. Tanto più che i caratteri di un diverso
modo di produzione sono per forza di cose confusi in uno schema teorico che si
rifiuta di redigere ricette per la cucina dell’avvenire. Per dirla tutta,
confesso persino di trovare sensata l’imputazione che Michele Salvati eleva a
Marx, secondo la quale «sarebbe stato non solo possibile, ma facile,
organizzare la cooperazione umana su basi consensuali e a bassa
specializzazione.»36
Per comprendere meglio come stanno le cose a questo
proposito, vale la pena di indugiare un attimo sulla nozione di libertà
adeguata all’antropologia relazionale di Marx. La libertà di Marx è sì libertà
negativa, libertà “da”: libertà dai vincoli personali e dall’arbitrarietà politica,
superamento degli ostacoli, uscita da una visione del condizionamento
naturale-sociale che lo vede come immodificabile. Essa è però al contempo anche
libertà positiva, libertà “di”: autodeterminazione, costruzione e
trasformazione delle proprie scelte di vita. Questo punto è stato colto bene da
Amartya Sen:
«Ritengo si possa
pensare al comunismo in due maniere diverse: in primo luogo il comunismo è
stato un importante sistema di idee preesistente alla sua realizzazione
istituzionale … Questo insieme di idee sottolineava taluni obiettivi, in
particolare la necessità di un allargamento della libertà della gente di
condurre la vita che desiderava senza essere vittima della povertà, delle
calamità naturali e via dicendo. Questo era il nucleo delle idee che si
incentravano sulla libertà positiva e sulla possibilità di conquistarla con
efficienza ed equità … Per quanto concerne la struttura istituzionale, non vi è
dubbio che essa ha subito un brusco declino. Intendo dire che la capacità
funzionale dei sistemi comunisti di conseguire questi obiettivi non si è
rivelata all’altezza. Gli obiettivi sono stati raggiunti per alcuni limitati
aspetti ma per molti versi è stato un fallimento. Al contempo le idee che erano
alla base, le idee consistenti nel mettere in primo piano la libertà positiva
dell’uomo, quelle ovviamente rimangono, e meritano considerazione.»37
L’idea di Marx – di nuovo: un’idea che si trova già negli
scritti giovanili, ad esempio nei Manoscritti
del 1844, ma di cui soltanto il Marx maturo, dai Grundrisse al Capitale, acquisirà in pieno i termini esatti - è
che il capitalismo, per la prima volta nella storia, renda possibile un essere
umano autenticamente sociale. L’individuo “autonomo” non è (più) concepibile,
al suo posto subentra l’individuo costruito dalla reciproca relazione, dove
l’interazione non è vista come un limite ma come una risorsa38: risorsa,
esattamente, per il perseguimento della libertà positiva, rispetto alla quale
il superamento della divisione in classi e dell’eterodirezione nel lavoro sono
premesse necessarie, perché, come scrivono Marx ed Engels nel Manifesto, la libertà “positiva” degli
altri è condizione della mia. D’altra parte, abbiamo visto che nella peculiare
scienza di Marx la capacità di smontare teoricamente la realtà e la sua
trasformazione pratica sono due facce della stessa medaglia. Per una scienza e
per una antropologia di questo tenore acquisisce sempre più importanza il modo
come nello sviluppo storico l’essere umano pensa di sé e delle relazioni in cui
è immerso. Non per un idealismo arbitrario, ma in conseguenza di una
possibilità concreta nascosta nella realtà stessa.
|
Riccardo Bellofiore |
Per una teoria siffatta la “verità”, se vogliamo usare
questo termine, sta evidentemente nel suo farsi oggettivo. E’ proprio questa
dimensione “pratica” dell’approccio marxiano che rende drammatica l’impasse
attuale. Per le stesse ragioni, però, quell’impasse è anche un’interrogazione
alla nostra responsabilità. E’ proprio così strano che dopo una crisi sociale
radicale come quella degli anni sessanta-settanta, e a seguito della
finanziarizzazione del capitale, nella transizione oltre il fordismo che stiamo
vivendo, il lavoro sia così frammentato, e dunque disorganizzato? Non è forse
comprensibile che in una fase del genere ci si debba apprestare a una lunga
marcia di ricostruzione, sperimentale e articolata, delle forme di
organizzazione, di lotta e di contrattazione senza certezze in anticipo39, se
non che il nuovo lavoro riunificato, se mai vedrà la luce, sarà diverso dal
precedente? E non è manifesto che tale percorso, se non potrà che vedere il
protagonismo dei diretti interessati, al tempo stesso non è per nulla sganciato
dal tipo di categorie e dal tipo di analisi con cui movimenti, forze politiche
e intellettuali si confrontano con la dinamica attuale del capitale?
Se una posizione è lontana da Marx quant’altre mai, è quella
che formula una critica del capitalismo a partire da un giudizio morale. Ciò
nonostante, per quel che riguarda lo stato della discussione teorico-politica
in Italia viene da avanzare, sottovoce, una preoccupazione etica. Insistere nel
rappresentare la realtà economica e sociale in cui viviamo come una realtà dove
il conflitto sarebbe scomparso, la politica sarebbe impotente, e ci troveremmo
- felicemente o infelicemente, poco importa – “oltre” la civiltà del lavoro,
non significherà “disarmarsi”, e nel momento peggiore, in un doppio senso: di
non vedere più come stanno davvero le cose, innanzitutto; ma poi, non meno
gravemente, di contribuire in prima persona al verificarsi dei propri incubi
peggiori. Una sorta di tragica deriva teorica “performativa”. Per quel che mi
riguarda, la penso come Simone Weil nel 1933: «Se, com’è fin troppo possibile,
dobbiamo morire, facciamo in modo di essere esistiti.»40
Note
1 Lo scritto che
qui viene pubblicato costituisce la versione integrale di una relazione che è
stata originariamente presentata al Convegno su “Il Manifesto del Partito
comunista di Karl Marx e Friedrich Engels 150 anni dopo” (tenutosi a Roma
il 4-5 dicembre 1998, per iniziativa del quotidiano “il manifesto” e
delle riviste “Critica Marxista” e “Finesecolo”), e che
sarà inclusa, in una versione ridotta, negli Atti in corso di pubblicazione per
i tipi dell edizioni manifestolibri. L’ultima sezione su “La questione del
soggetto” è comparsa con questo titolo sul fascicolo n. 6 de “la rivista
del manifesto”, in forma leggermente modificata e senza l’apparato di note.
I numeri di pagina delle citazioni dal Manifesto
fanno riferimento a Karl Marx e Friedrich Engels, Manifesto del Partito comunista, Laterza, Roma-Bari, 1985. Per
quel che riguarda i riferimenti bibliografici contenuti nelle note essi non
hanno alcuna pretesa di completezza, e rimandano semplicemente a pochi testi di
critica al Manifesto che
reputo in qualche modo significativi, alle posizioni di alcuni amici le cui
letture di Marx mi sembrano non lontane da quelle che qui presento, e infine a
miei lavori che il lettore interessato ad approfondimenti del ragionamento
presentato nelle pagine che seguono potrebbe trovare utili.
2 «Mai la classe
lavoratrice è stata tanto internazionale, mai il programma socialista […] è
stato tanto impotente, se non addirittura assente», scrive Bruno Bongiovanni.
Ciò non vuol dire, prosegue il commentatore, che il Manifesto, «così irrimediabilmente antico e così
sorprendentemente moderno», sia da ritenersi inattuale. Esso sarebbe «più che
mai indispensabile per comprendere criticamente il mondo che ci circonda e per
riafferrare, obiettivo credo condiviso da tutti gli uomini di buona volontà,
l’imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti nei quali l’uomo è un
essere degradato, assoggettato, abbandonato, spregevole». Certo, purgando Marx
della «dicotomia classistica sempre improponibile», e ammettendo, da buon
storico, che il giungere a compimento del processo storico individuato da Marx
arriva «largamente fuori tempo massimo dal punto di vista delle roventi
aspettative politiche e palingenetico-religiose degli anni ’40 del XIX secolo»
(Postfazione di Bruno Bongiovanni a Karl Marx e Friedrich Engels, Manifesto del Partito Comunista,
Einaudi, Torino, 1998, pp. 214-5). Non potrebbe essere più evidente la
scissione tra piano analitico e piano pratico-politico, legati oramai soltanto
da una urgenza etica di cui non si saprebbero indicare le basi materiali, se
non limitandosi a osservare che la risposta alla dinamica capitalistica non può
che collocarsi sullo stesso terreno internazionale dove si muove oggi l’agire
delle imprese.
3 Chi scrive
condivide la frattura operata da Maximilien Rubel - autore cui meritoriamente “Vis-à-Vis”
dedica da sempre grande attenzione, traducendone e pubblicandone su ogni
fascicolo scritti inediti in Italia - tra Marx e il Marxismo. La ricchezza del
primo è persa dal secondo, e si ritrova soltanto nel filone minoritario che
potremmo definire “marxiano” del novecento, che comprende autori come Rosa
Luxemburg, Heinrich Grossmann, Isaak I. Rubin, Karl Korsch, Paul Mattick e
pochi altri. Ciò non di meno, nel seguito, per non appesantire troppo il testo,
e a rischio di qualche ambiguità, impiegherò il termine generico “marxismo”,
convinto che il contesto renderà chiaro al lettore il riferimento del mio
discorso. Vi è però una ragione più di sostanza, che potrebbe essere mascherata
dal far riferimento a un filone marxiano “buono” e a un marxismo “deteriore”.
Lo stesso Marx e il filone che è più fedele al suo spirito critico non sono
esenti da difficoltà analitiche e politiche. Una ripresa della teoria marxiana
non può in alcun modo presentarsi oggi come un puro e semplice “ritorno a
Marx”.
4 Cfr. Wal Suchting, What is Living and What is
Dead in the Communist Manifesto, in Mark Cowling (Ed.), The
Communist Manifesto. New Interpretations, Edinburgh University Press,
Edinburgh, 1998, p. 160.
5 Cfr. Lucio Colletti, Prefazione, Karl Marx e Friedrich Engels, Manifesto del Partito comunista,
Laterza, Roma-Bari, 1985.
6 Il lettore è
rimandato per un discorso più disteso a Riccardo Bellofiore, Marx
rivisitato: capitale, lavoro e sfruttamento, “Trimestre”, XXIX, n.
1-2; L’abstraction au travail. Une approche monétaire de la theorie marxienne
de la valeur, comunicazione presentata alle giornate di studio Marx
aujourd'hui : fondements et critiques de l'économie politique tenutesi
a Parigi il 27-28 novembre 1997; The value of value: the Italian debate
on Marx: 1968-1976, presentato al convegno Classical and
Marxian political economy: the Legacy of Claudio Napoleoni,
Bergamo, 12-13 giugno 1998, e ora pubblicato anche in italiano sulla “Rivista
di Politica Economica”, Aprile-Maggio1999. Da segnalare anche i
contributi contenuti nei due volumi da me curati, in inglese: Marxian
Economics: A Reappraisal, Macmillan, London 1998,
rappresentativi dei filoni di ricerca internazionalmente più rappresentativi
su valore, moneta e crisi, e però pressoché sconosciuti in Italia.
7 Seguiamo qui
l’insegnamento di Calogero su Aristotele, dove l’“attualizzazione” implica il
divenire esplicito della forma implicita nella «potenza». Cfr. Guido Calogero,
“Possibilità”, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell’Enciclopedia
Italiana, Roma, 1949. Il vedere nel valore l’attualizzazione del lavoro
astratto presente in potenza nella produzione consente di superare il falso
dilemma di “creazione” o “realizzazione” del valore nella circolazione.
8 Chris Arthur, Napoleoni
on Labour and Exploitation, p. 6, presentato al convegno Classical
and Marxian political economy: the Legacy of Claudio Napoleoni,
Bergamo, 12-13 giugno 1998 (e ora pubblicato anche in italiano
sulla “Rivista di Politica Economica”, Aprile-Maggio1999): «Questo
errore consiste nel confondere il concetto marxiano di lavoro
astratto, che è determinazione pertinente alla forma sociale, con un
tipo particolare di lavoro concreto, con una semplificazione
materiale del lavoro richiesto al lavoratore, qualcosa che può talora ben
conseguire a quella forma sociale, ma che va inteso al più come una
approssimazione al “contenuto” della nozione di “lavoro
astratto”» (p. 7, corsivi nel testo). Di Chris
Arthur vanno ricordati, in funzione del discorso che qui si sta svolgendo,
almeno questi altri due lavori: Dialectics and Labour, in Issues
in Marxist Philosophy, vol. I, eds. J. Mepham and D.H. Ruben,
Harvester, Brighton, 1979; Dialectics of Labour, Blackwell,
Oxford, 1986.
9 Il ragionamento
di questa sezione conferma l’esistenza di un rapporto di continuità tra il Marx
maturo ed Hegel. Non però nel senso imputatogli da critici come Colletti,
secondo il quale l’autore del Capitale erediterebbe una dubbia
“filosofia della storia”. Ciò che Marx riprende da Hegel è, per un verso, la
logica dell’inversione “reale” di soggetto e oggetto come carattere tipico
della realtà (solo capitalistica, secondo Marx; metastorica, secondo Hegel), e,
per l’altro verso, il metodo del “presupposto-posto”. Da tempo Roberto Finelli
ha meritoriamente sottolineato questo secondo aspetto. Cfr., da ultimo, Logica
analitica e logica sintetica, in “Trimestre”, XXIX, n. 1-2, 1996. Il
primo aspetto, che rimanda ovviamente ai lavori seminali di Rubin, e da noi di
Colletti e Napoleoni, è al centro delle riflessioni di Raffaele Sbardella. Si
veda per esempio, Astrazione e capitalismo. Alcune note su Marx, “Vis-à-Vis”,
n. 6, 1998, dove a p. 198 si osserva che il ragionamento di Marx «può sembrare
un ragionamento di tipo hegeliano, ma in realtà non lo è: è la realtà sociale
stessa ad essere semmai strutturata come il pensiero di Hegel.» La stessa tesi
è stata portata avanti, e da lungo tempo, da Chris Arthur, di cui si veda per
esempio From the critique of Hegel to the critique of
capital, in The Hegel-Marx Connexion, eds. T. Burns and I. Fraser, Macmillan, London, di prossima
pubblicazione.
10 La misura
esteriore è ovviamente il lavoro come si rappresenta nel denaro. Una analisi
marxista adeguata debe tener conto ad un tempo di entrambe le misure, e
svolgersi perciò tanto nei termini del lavoro astratto “incorporato” quanto in
quelli del lavoro astratto “comandato” dalla moneta. Il revival internazionale
degli studi sulla teoria del valore lavoro marxiana degli ultimi vent’anni – e
di cui solo tardivamente e parzialmente si sta prendendo atto nella discussione
italiana: si veda il comunque stimolante Stefano Perri, Prodotto netto e
sovrappiù, Utet Libreria, Torino, 1998 – si appoggia, nella sua dimensione
quantitativa, esclusivamente sul lavoro “rappresentato” dalla moneta, il che
conduce a perdere la profondità della costruzione di Marx e non poche delle sue
proposizioni più significative, per esempio nella teoria dei prezzi e della
distribuzione. Una rassegna dei filoni più recenti è il mio scritto citato alla
nota successiva; lo sforzo di articolare lavoro “incorporato” nella merce e
lavoro “comandato” dal denaro è una costante dei miei lavori; per quel che
riguarda la distribuzione si veda, da ultimo, Riccardo Bellofiore- Riccardo
Realfonzo, Finance and the Labor Theory of Value. Toward a Macroeconomic Theory of Distribution from a Monetary Perspective, in Marxian
Theory: the Italian Debate, numero monografico a mia cura dell’
“International Journal of Political Economy”, XXVII, n. 2, Summer
1997. Visti
gli intenti di questo scritto, peraltro, trascureremo del tutto la possibile
divergenza tra lavoro “incorporato” e lavoro “comandato”. Per lasciar intuire
la rilevanza della questione ci limitiamo a osservare quanto segue: con
“prezzi” divergenti dai “valorilavoro” le espressioni “valore del capitale
costante” e “valore del capitale variabile” significano cose diverse a seconda
che si faccia riferimento al lavoro “contenuto” negli elementi che
compongono il capitale costante e il capitale variabile, o al lavoro
“rappresentato” nel capitale monetario che acquista quegli elementi.
11 Anche nel caso
in cui empiricamente ci si trovi dinanzi un lavoro “semplice” e “dequalificato”
– osserva a ragione Chris Arthur nello scritto citato – «è pur sempre vero che
il lavoro impiegato dal capitale è formato come “astratto” quale che sia il
grado di corrispondenza tra contenuto del lavoro e forma sociale. L’opposizione
tra lavoro concreto e astratto rimane sino a che rimane quella tra valore
d’uso e valore di scambio. Ciò che è importante è che il capitale organizza il
processo di produzione al fine di massimizzare la produzione» (p. 14, grassetti
nel testo). Il punto essenziale da comprendere è che il lavoro astratto è, in
effetti, una categoría “relazionale” che sta all’incrocio di due determinanti:
il confronto antagonistico tra lavoro e capitale nella produzione (e perciò
come il lavoro si trasforma in conseguenza dell’agire imprenditoriale e della
resistenza dei lavoratori); ma anche tutto ciò che incide sulla pre-validazione
sociale del lavoro all’interno delle imprese e sulla validazione finale nello
scambio (quindi i rapporti di collusione e conflitto infracapitalistici). Nel suo scritto Chris Arthur critica la posizione sul
lavoro astratto sostenuta, in polemica con la “scuola di Rubin”, da David
Gleicher in A Historical Approach to the Question of Abstract Labour,
“Capital and class”, n. 21, 1983, ora incluso in Simon Mohun ed.,
Debates in Value Theory, Macmillan, London, 1994. La medesima
critica era stata anticipata in Riccardo Bellofiore, A Monetary Labour
Theory of Value, “Review of Radical Political Economics”,
XXI, n. 1-2, 1989, con riferimento allo stesso Gleicher, e a posizioni italiane
a lui omogenee. Quest’ultimo
scritto è disponibile in italiano in una versione ampliata e rivista, Per
una teoria monetaria del valore lavoro. Problemi aperti nella teoria
marxiana, tra radici ricardiane e nuove vie di ricerca, “Valori e prezzi”,
a cura di Giorgio Lunghini, Utet, Torino, 1993.
12 Per essere
precisi, si deve rilevare che l’astrazione del lavoro nella produzione di cui
si parla nel testo, se precede l’alienazione del lavoro nello scambio “finale”
sul mercato dei beni, segue però lo, e dipende dallo, scambio “iniziale” sul
mercato del lavoro astrazione del lavoro, anche prima della metamorfosi
finale della merce con il denaro, e non può essere ricondotto al solo momento
della produzione immediata che determinerebbe tutto il resto senza alcun
ruolo, se non passivo, della circolazione. Anche autori vicini alla posizione
che sto sostenendo, come Finelli e Arthur, non cogliendo adeguatamente la
“sequenzialità” del processo di astrazione del lavoro, finiscono con
l’incorrere in problema analitici che possono essere evitati. Finelli, non
sottolineando a sufficienza che il rapporto tra lavoro e capitale è costituito
in primo luogo da una relazione di scambio (che “anticipa” i risultati della
produzione immediata e dello scambio “finale”), ricade talora in una visione
puramente “fisicalista” dell’astrazione del lavoro. Arthur, a partire dalla
definizione della forma valore come conseguente alla mera astrazione del lavoro
nello scambio “finale”, sembra sovente ridurre il lavoro astratto a categoria
esistente nel solo scambio sul mercato dei beni, e i cambiamenti del processo di
lavoro capitalistico ad adeguamenti del lavoro concreto alla “forma”
capitalistica che non danno però luogo ad un momento particolare, e centrale,
dello stesso lavoro astratto come valore “in movimento”. Se ben intendo,
compatibile con quanto sostengo è la posizione di Raffaele Sbardella, quale
traspare dalla seguente citazione, che condivido integralmente: «Tutti i
passaggi analitici di Marx si manifestano come momenti particolari di vita
dell’Astratto: la forza-lavoro, il lavoro vivo, il lavoro oggettivato, il
valore, il plusvalore, il profitto; e ancora la merce, il denaro, i prezzi …,
sono tutti momenti fenomenici dell’Astratto; luoghi in cui si manifesta
occultandosi il movimento stesso dell’astrarre, unico principio di reale
unificazione della società e assieme fondamento del feticismo e origine di ogni
alienazione», in Astrazione e capitalismo. Alcune note su Marx, “Vis-à-Vis”,
Op.Cit., pp. 197-98.
13 Sulla Luxemburg
sia consentito il rimando a Riccardo Bellofiore, Una candela che brucia
dalle due parti. Rosa Luxemburg tra critica dell’economia politica e
rivoluzione, “Storia del pensiero economico”, n. 33-34, 1997.
14 In quel che
segue si impiegheranno i termini di composizione “organica” del capitale e di
composizione “in valore” come sostanzialmente sinonimi, il che è a rigore,
secondo le definizioni di Marx, scorretto. E’ comunque chiaro che il
verificarsi effettivo della caduta tendenziale del saggio di profitto dipende
in realtà dalla composizione in valore del capitale.
15 Si tratta del
saggio di profitto conseguibile nel caso estremo di capitale variabile nullo, e
che è pari al rapporto tra il lavoro vivo corrispondente alla giornata
lavorativa sociale totale e il lavoro morto incorporato nell’insieme dei mezzi
di produzione.
16 Michele Salvati,
Terza via e lib-lab: tra vecchie vie e vere novità, “Reset”,
Novembre-Dicembre 1998, n. 51, p. 28. Giudizi di questo tenore Salvati in
genere li pronunzia di fronte a uditori della sinistra internazionale, che oggi
mal comprenderebbero atteggiamenti liquidatori sul marxismo che sono invece
correnti in Italia.
17 La crescita dei
prelievi improduttivi sul plusvalore giustifica la conclusione della Luxemburg
sulla presenza di una “legge” capitalistica della caduta del salario relativo
anche per coloro che, come chi scrive, non credono ad un progressivo aumento
della composizione in valore del capitale.
18 Karl Marx, Teorie
sul plusvalore, vol. II, Editori Riuniti, Roma, 1979, p. 628.
19 Eric Hobsbawm, Introduzione
a Karl Marx e Friedrich Engels, Manifesto
del partito comunista, p. 26, Rizzoli, Milano, 1998. Vedi anche Eric
Hobsbawn, Lo spettro si aggira per l’Europa, “The Guardian”,
traduz. in italiano in “Internazionale”, n. 223, 13 marzo 1998.
20 Tradotto in
italiano come Eric Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, Milano, 1995.
21 Cfr. da ultimo,
di Riccardo Bellofiore: La globalizzazione del capitale: miti e realtà,
“Collegamenti Wobbly”, n.s., n. 4-5, 1997-98; Le
contraddizioni della globalizzazione. Una prospettiva marxiana, AA.VV., Capitalismo
e conoscenza. L’astrazione del lavoro nell’era telematica, a cura di
Lorenzo Cillario e Roberto Finelli, manifestolibri, Roma, 1998; Dopo il
fordismo cosa? Il capitalismo di fine secolo oltre i miti, “Parole chiave”,
n. 14-15, 1997. Si vedano anche i saggi contenuti nel volume da me curato, e
che è stato appena pubblicato: AA.VV., Il lavoro di domani. Globalizzazione
finanziaria, ristrutturazione del capitale e mutamenti della produzione,
BFS, Pisa, 1998, a cui si rimanda anche per ulteriori indicazioni bibliografiche.
22 Suzanne de
Brunhoff, Di quale Europa abbiamo bisogno oggi?, in AA.VV., Il lavoro
di domani. Globalizzazione finanziaria, ristrutturazione del capitale e
mutamenti della produzione, Op. Cit., p. 72. Colgo l’occasione
per citare il bell’intervento di questa autrice al convegno sul Manifesto tenutosi a Parigi nel
maggio di quest’anno: Marx, la bourgeoisie et la critique de
l’économie politique.
23 Il ruolo tuttora
essenziale del conflitto e della politica è chiaramente sottolineato da Augusto
Graziani, La globalizzazione conflittuale, “Critica Marxista”, n.
1, 1998.
24 Per maggiori
considerazioni si rimanda a Riccardo Bellofiore, I lunghi anni settanta.
Crisi sociale e integrazione economica internazionale, presentato al
convegno “Le radici della crisi. L’Italia dagli anni sessanta ai settanta”,
svoltosi a Bologna il 28-30 ottobre 1998, in corso di pubblicazione negli atti
a cura di Luca Baldissara.
25 François Chesnais, La mondialisation du capital
et ses conséquences, in Démocratie ou mondialisation, Les
Éditions Arléa, Paris, 1998. Chesnais è autore di uno dei migliori volumi su
queste questioni, giunto alla seconda edizione francese, ma malauguratamente
ancora non tradotto in italiano: La Mondialisation du capital,
Syros, Paris, 1997.
26 Anche se non
posso sviluppare in questa sede il punto, vale la pena di segnalare che la
sussunzione reale del lavoro al capitale comporta il trasferimento della
produttività materiale al capitale, come anche una “indiretta” produttività di
(plus)valore di quest’ultimo. Tale produttività è però limitata dalla abilità
del capitale di “succhiare” lavoro alla forza lavoro. A questo proposito Chris
Arthur ha scritto efficacemente che «dialetticamente parlando, qui [nella
distinzione di forza lavoro e lavoro] la differenza del valore d’uso e del
valore si acuisce sino a divenire una contraddizione vera e propria. La
conseguenza di questo aspetto particolare del lavoratore [l’essere egli
potenzialmente recalcitrante allo “sfruttamento”, circostanza che non si
riscontra per nessun altro input] è che la relazione tra capitale e
lavoro è intrinsecamente antagonistica e che in questo senso non vi è ragione
di parlare di lavoro salariato come di un lavoro “produttivo” quanto piuttosto
come di un lavoro “controproduttivo”, nella misura in cui i lavoratori sono
effettivamente o potenzialmente recalcitranti rispetto ai tentativi del
capitale di forzarli a prestare lavoro.» (art. cit., p. 16). Sicché la
produttività del capitale dipende in ultima istanza dalla capacità di sfruttare
il lavoro. Ciò significa, d’altronde, che il tempo di lavoro che determina il
valore è a sua volta, in quanto risultato dell’agire capitalistico e
dell’antagonismo dei lavoratori, determinato dal procedere conflittuale della
dinamica capitalistica.
27 Utili spunti in
questa direzione erano stati forniti da Etienne Balibar, La philosophie
de Marx, La Découverte, Paris, 1993 e Wal Suchting, Marx: An
Introduction, Wheatsheaf Books, Brighton, 1983.
28 Suzanne de
Brunhoff, Stato e capitale. Ricerche sulla politica economica,
Feltrinelli, Milano, 1979, pp. 5 e 162.
29 Rossana
Rossanda, A centocinquant’anni dal Manifesto
del partito comunista, “Finesecolo”, n. 1, 1998, p. 12.
30 Alain Bihr, Post-fordismo
o adattamento alla crisi del fordismo?, AA.VV, Il lavoro di domani.
Globalizzazione finanziaria, ristrutturazione del capitale e mutamenti della
produzione, Op. Cit., p. 207, grassetto nel testo. Dello
stesso autore sulle medesime questioni merita di essere ricordato anche Le
post-fordisme: realité ou illusion?, manoscritto dell’intervento
tenuto all’Unione culturale Franco Antonicelli, Torino, 28 ottobre 1996,
tradotto in “Vis-à-Vis”, n. 7, 1999. Questi lavori recenti di
Bihr sono importanti anche per diradare qualche equivoco originato della
ricezione italiana del suo libro Dall’“assalto al cielo” all’“alternativa”.
La crisi del movimento operaio europeo, a cura di Oscar Mazzoleni, BFS,
Pisa 1995, e su cui l’autore è intervenuto chiarendo la sua posizione
nell’introduzione, molto bella, alla seconda edizione. Colgo anzi l’occasione
per dire che le risposte che Bihr dà alle obiezioni che gli avevo
rivolto nella mia recensione, peraltro largamente positiva, Liberazione dal
lavoro, apparsa su “L’Indice dei libri del mese”, n. 5, maggio 1996,
lasciano sospettare che le differenze tra le nostre posizioni, che pure
esistono, siano minori rispetto a quanto avevo in origine pensato: si veda, per
esempio, la presa di distanza che ora Bihr ritiene di dover marcare rispetto ad
alcuni degli interventi che avevano introdotto il suo volume in Italia e
che però, secondo l’autore francese, ne avrebbero distorto il senso; come anche
l’altrettanta netta critica nei confronti di troppo facili entusiasmi sul
terzo settore.
31 Rossana
Rossanda, A centocinquant’anni dal Manifesto
del partito comunista, Op. Cit., p. 14, grassetti nel testo.
32 Frasi del genere
sono rintracciabili nell’intero arco di vita di Marx.
33 Friedrich Engels
– Karl Marx, La sacra famiglia, Editori Riuniti, Roma, 1972, p. 44.
34 Il lettore
interessato a considerazioni meno telegrafiche è rimandato al mio (pressoché
introvabile, temo) Il rosso, il rosa e il verde. Considerazione inattuali su
centralità operaia e nuovi movimenti, “Quaderni del Cric”, n. 3, 1988.
Una prospettiva in larga misura compatibile è quella di Moishe Postone, Time,
labor and social domination. A reinterpretation of Marx’s critical
theory, Cambridge University Press, Cambridge 1993, secondo il quale la
centralità della produzione è in Marx l’oggetto dell’analisi, non il
punto di vista dal quale essa viene svolta – si veda alle pp.
5-6, 16-7, 388-9. Quando espressi posizioni di questo tenore negli anni
ottanta, esse venivano, nell’ambiente della sinistra che allora si
chiamava “di classe”, criticate piuttosto per una scarsa adesione ai canoni dell’operaismo
e, talora, del “vero” marxismo. Negli anni novanta, spesso dai medesimi
ambienti, l’obiezione sollevata è quella di attardarsi in una
“resistenza” residuale. Ma questa, come direbbe quel grande saggio, e anche grande
filosofo, che è il barista in Irma la douce (Billy Wilder, 1963)
«è tutta un’altra storia».
35 In quel che
segue, riprendo alcuni spunti, e anche qualche frase, dalla parte finale di
Riccardo Bellofiore, Teoria del valore e processo capitalistico. Note di
teoria marxiana, “Vis-à-Vis”, n. 6, 1998. Sulle medesime problematiche
cfr. anche L’altro come primo bisogno, l’ultimo paragrafo del mio libro La
passione della ragione. Scienza economica e teoria critica in Claudio Napoleoni,
Unicopli, Milano, 1991.
36 Michele Salvati,
Realismo e utopia, in Paolo Sylos Labini, Carlo Marx: è tempo di un
bilancio, Laterza, Roma-Bari, p. 66.
37 Cfr.
l’intervista ad Amartya Sen di Furio Colombo, Il terzo dopoguerra.
Conversazioni sul post-comunismo, Rizzoli, Milano, 1990, alla p. 198. Un
riferimento più rigoroso in Amartya Sen, Inequality reexamined,
Clarendon Press, Oxford, 1992, p. 41, 52 e 118-21. Il fatto che l’eguaglianza
di Marx sia eguaglianza nella libertà positiva consente di chiarire il senso
della critica al diritto “eguale” espressa da Marx, per esempio, nella Critica
al programma di Gotha.
38 Stimolanti per un eventuale sviluppo lungo questa
linea sono gli scritti contenuti in Nancy J. Chodorow, Feminism and
Psychoanalitic Theory, Yale University Press, New Haven, 1989, in
particolare Beyond Drive Theory: Object Relations and the
Limits of Radical Individualism e Toward a Relational
Individualism: the Mediation of Self through Psychoanalysis.
39 Vittorio Rieser,
Mutamenti nella divisione del lavoro e nella segmentazione della forza lavoro,
in AA.VV., Il lavoro di domani. Globalizzazione finanziaria,
ristrutturazione del capitale e mutamenti della produzione, Op. Cit. Sul
lavoro oggi è di grande utilità l’ultimo numero di “Parole chiave”.
40 Prospettive.
Andiamo verso la rivoluzione proletaria?, in Simone Weil, Sulla Germania
totalitaria, a cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi, Milano, 1990, p. 196.
Titolo originale: "Le condizioni della libertà — Dinamica capitalistica e questione del soggetto nell’epoca della “globalizzazione”: Una rilettura teorica e politica del Manifesto del Partito Comunista"