Francesco
Macheda | Con l’esplosione e la diffusione della crisi
economico-finanziaria, le medicine proposte sono essenzialmente due. Da un
lato, i sostenitori dell'austerità, le cui convinzioni seguono i precetti della
teoria economica neoclassica. Sul campo opposto, i sostenitori dell’intervento
pubblico allo scopo di sostenere produzione ed occupazione. In questo caso, la
teoria economica di riferimento è quella keynesiana. Tuttavia, esiste anche una
terza ipotesi, riconducibile alla critica dell’economia politica di Marx.
L’obiettivo di questo articolo è comparare i fondamenti delle tre teorie,
tentando di sottolineare le rispettive implicazioni politiche.
1. Teoria neoclassica
Nella
teoria neoclassica, la produzione è un rapporto puramente tecnico tra fattori –
lavoro e capitale – allo scopo di produrre merci. Le forme sociali che si sono
succedute, come feudalesimo e capitalismo, sono distinte in base al modo in cui
tali fattori si combinano. Il capitale è dunque indipendente dal contesto
storico-sociale, e la peculiarità del capitalismo starebbe nell’utilizzo del
mercato per portare a termine questa combinazione, in un contesto di proprietà
privata dei mezzi di produzione. Ne seguono tre conclusioni.
In primo luogo, poiché il lavoro è definito come un input al
pari di materie prime e macchinari, ogni individuo è padrone di almeno un
fattore di produzione. Certo, è contemplato che alcuni individui possano essere
più fortunati poiché posseggono quantità di capitale maggiori. Nel capitalismo
vige una sostanziale eguaglianza tra gli individui. Ogni concetto di classe è
escluso a priori.
In secondo luogo, data la libertà individuale di utilizzare
il proprio fattore di produzione, le differenze tra i vari tipi di reddito sono
solamente formali, non riconducibili al fatto che gli individui siano divisi o
meno in classi sociali. Piuttosto, la questione se l’individuo tragga i suoi
redditi dal lavoro o dal capitale può essere risolta solo esaminando le
preferenze individuali. Le persone che preferiscono spendere il proprio reddito
immediatamente per acquistare beni di consumo offriranno ore lavorative,
ricevendo pertanto solo redditi da lavoro. Coloro che si astengono dal consumo,
saranno remunerati da redditi da capitale. Il punto chiave è che la decisione
di occupare una o più di queste posizioni è solo funzione delle preferenze
individuali, e non ha nulla a che fare come le decisioni altrui. Inoltre, sia L
sia K ricevono dalla società una quota di ricchezza proporzionale alla
produttività marginale del proprio contributo alla produzione. E poiché è
eticamente legittimo che ognuno riceva un reddito in relazione a ciò che ha
contribuito a produrre, la teoria neoclassica si distingue per la sua equità
intrinseca. Nel frattempo, scompare il concetto di sfruttamento.
Infine, l’interazione tra gli attori, che sottende il
processo di crescita economica, può essere ricondotta a un problema di libera
scelta tra consumi odierni e consumi futuri. Più nello specifico, ogni
individuo sceglie, in conformità alla utilità che ne ricava, di risparmiare o
meno il suo reddito corrente al fine di renderlo disponibile per finanziare
l’acquisto futuro di beni. Dopo aver scelto l’ammontare dei risparmi, gli
individui decidono di renderli disponibili, sotto forma di prestiti, alle
imprese che avranno i fondi necessari per incrementare la produzione di beni
capitali con i quali produrranno più beni e servizi, pronti ad essere assorbiti
dalle famiglie che aumenteranno così il livello di consumo futuro. La prima
scelta determina quindi l’offerta di capitale disponibile per l’investimento,
mentre la seconda fissa la quantità di lavoro da impiegare nella produzione. Il
punto centrale qui è che la diminuzione del consumo odierno è la precondizione
di un maggiore consumo futuro. Il premio dell’astensione dal consumo deve
corrispondere al tasso di ritorno reale guadagnato dall’uso produttivo di
questo capitale da parte del soggetto indebitato, ossia l’impresa. Il
prestatore individuale riceve un premio reale, un tasso di ritorno sul
risparmio, uguale al contributo fornito dal capitale prestato all’output. Ciò
implica, da un lato, che i risparmi derivano solamente dalle decisione di
consumo delle famiglie poiché si assume che le imprese paghino tutti i loro
profitti come dividenti alle famiglie e dall’altro che le imprese ricalchino il
comportamento del consumatore individuale.
Il luogo demandato alla raccolta del risparmio familiare per
farlo fluire, sotto forma di capitale, alle imprese risiede nei mercati
finanziari. Lo strumento che assicura l’uguaglianza tra offerta di risparmio
dei detentori di ricchezza (famiglie) e domanda di finanziamento delle imprese
è il tasso d’interesse tramite la sua influenza sulle decisioni di risparmio:
ad un suo aumentare, gli individui risparmieranno maggiormente, ritirando moneta
dalla circolazione. Tuttavia, l’eccesso di risparmio causerà la caduta del
tasso d’interesse che stimolerà l’investimento. Ciò significa che la moneta
immessa nella circolazione come investimento corrisponderà sempre e comunque
alla moneta ritirata dalla circolazione come risparmio.
Il fenomeno del risparmio, e quindi dell’investimento, non
sottende il riconoscimento delle classe sociali, poiché si postulano solamente
due gruppi di individui distinti da decisioni differenti: da un lato, le
famiglie che decidono la composizione ed il livello del consumo, e quindi il
livello del risparmio; dall’altro le imprese che scelgono il livello e la
composizione della produzione e dell’investimento. Inoltre, le decisioni di un
gruppo non dipendono né da quelle dell’altro, né dal tipo di reddito ricevuto.
Non c’è alcuna connessione tra la tipologia di reddito e lo schema di spesa,
tra profitti e salari, da una parte, e consumo e investimento, dall’altra. In
altri termini, basandosi su un settore indifferenziato chiamato ‘famiglie’,
l’analisi neoclassica non distingue tra propensione al risparmio dei
lavoratori, percettori di redditi da lavoro, e propensione al risparmio dei
capitalisti, percettori di profitti. Ne segue che non viene alcuna distinzione
tra risparmio personale e d’impresa, e dei loro differenti obiettivi. L’offerta
di capitale nella società che si sostanzia nella crescita economica non
riflette altro che le decisioni di risparmio del settore delle famiglie (per
investirlo per guadagnare di più in futuro) conformemente alle loro preferenze
individuali.
Dopo aver santificato la libertà individuale e il duro
lavoro con la teoria della produttività marginale, la teoria neoclassica loda
ora le virtù della frugalità: maggiore è la porzione di reddito che si decide
di risparmiare e che contribuisce (come capitale investito) alla produzione,
maggiori saranno i profitti delle imprese che, una volta redistribuiti
interamente alle famiglie, consentiranno l’espansione del consumo futuro.
Questa è la giustificazione teorica al concetto di austerità.
2. Teoria keynesiana
Keynes rigetta il ruolo assegnato dall’economia neoclassica
alle scelte di risparmio delle famiglie come variabile dietro l’offerta di
capitale con cui finanziare l’investimento delle imprese. Piuttosto, risparmi e
investimenti sono grandezze distinte. Da un lato, il risparmio riflette la
psicologia di massa e convenzioni sociali di comportamento data l’incertezza
del futuro fronteggiata dai consumatori. Dall’altro, l’investimento è il
risultato degli ‘animal spirits’, un termine che sintetizza le
influenze che agiscono sulle decisioni degli imprenditori di investire, e delle
aspettative sul futuro che stanno dietro la valutazione dell’efficienza
marginale del capitale (profittabilità dell’investimento). Tali aspettative
dipendono in primo luogo dalla presenza di una domanda aggregata in grado di
assorbire i beni prodotti dalle imprese.
Lo stimolo della domanda aggregata dipende dai modelli di
consumo e risparmio degli agenti economici: gli individui non spenderanno
interamente il loro reddito a causa di una propensione psicologica di massa a
risparmiare. L’altra faccia di questa legge psicologica è quella che determina
il consumo reale: quanto gli individui non spendono, lo consumano. Essendo
funzione inversa della prima e diretta della seconda propensione, il principio
keynesiano del moltiplicatore ha nella domanda aggregata la spinta propulsiva
per il suo funzionamento. In breve, l’investimento iniziale si traduce in una
medesimo aumento del reddito. Una parte di questo reddito è risparmiata, mentre
l’altra è consumata. A sua volta, questo consumo è reddito addizionale che crea
ulteriore consumo e risparmio. Ad ogni ciclo, la crescita di consumo e reddito
aumenta meno che in quello precedente a causa del fatto che parte del reddito è
risparmiato piuttosto che essere speso. Ciò significa che maggiore è la
propensione al risparmio, minori saranno gli effetti cumulativi del
moltiplicatore una volta effettuato l’investimento, e quindi minore sarà la
crescita di reddito da cui ricavare il risparmio con cui finanziare
l’investimento iniziale.
Questa è la logica che sottende sia la massima keynesiana “è
l’investimento che genera il risparmio, e non viceversa”, sia i paradossi del
risparmio e del costo. Il primo paradosso postula che l’aumento della
propensione al risparmio si traduce in una riduzione della domanda di beni di
consumo e conduce ad un rallentamento della crescita economica, e quindi in una
riduzione del risparmio. II secondo paradosso è speculare al primo poiché un
aumento salariale avrebbe la capacità di accrescere la domanda di beni salario
e per questa via la capacità di utilizzazione, che genererebbe gli investimenti
necessari ad autofinanziarsi. Contrariamente ai neoclassici, in Keynes una redistribuzione
del reddito dai profitti ai salari, cosi come un aumento di questi ultimi
avrebbero pertanto l’effetto di stimolare gli investimenti piuttosto che
deprimerli.
Sebbene l’efficienza marginale del capitale sia l’aspetto
determinante, la decisione di effettuare o meno l’investimento dipende anche
dalle altre opportunità di guadagno offerte all’imprenditore il quale, essendo
dotato di un certo stock di ricchezza, valuta la sua allocazione al fine di
ottenerne il ritorno monetario più vantaggioso. E’ qui che entra in scena la
‘preferenza alla liquidità’: stante la condizione d’incertezza che caratterizza
l’economia monetaria, gli individui tenderanno a preferire di detenere la loro
ricchezza in forma liquida (domandando moneta) rifuggendo dall’impiegarla in
altre forme come obbligazioni o azioni emesse dalle imprese, che non
garantirebbero la conservazione del suo valore in maniera altrettanto sicura.
Conformemente a questo schema, Keynes introduce il tasso d’interesse: poiché il
risparmio è funzione del reddito, il tasso d’interesse gioca un ruolo
fondamentale sulle decisioni attinenti al modo in cui detenere tale
risparmio, se in forma liquida, oppure per acquistare asset illiquidi. Nello
specifico, Keynes intende il tasso d’interesse come “la ricompensa
all’abbandono della liquidità per un certo periodo di tempo”, ovvero la
ricompensa che spetta a colui che rinuncia a detenere la sua ricchezza in forma
liquida. Dato che le decisioni di investimento dipendono dall’imprenditore,
prese a partire dalla differenza tra profitti attesi e costo di finanziamento,
se cresce la preferenza per la liquidità, aumentano i tassi e, a parità di
profitti attesi, gli investimenti potranno diminuire. Qualora il tasso
d’interesse salisse, infatti, la domanda di moneta scenderebbe poiché la
detenzione di ricchezza in forma liquida sarebbe meno conveniente di un
eventuale acquisto di obbligazioni che garantirebbero ritorni maggiori.
Inoltre, all’aumentare dei tassi d’interesse, le aspettative tendono a
conformarsi attorno l’idea che in futuro tali tassi scenderanno. L’individuo
tenderà quindi ad acquistare immediatamente obbligazioni, dal momento che il
loro prezzo salirà ulteriormente quando i tassi d’interesse sul capitale
effettivamente scenderanno. Ad ogni modo, qualora i risparmiatori decidessero
di impiegare i propri risparmi per acquistare obbligazioni emesse dalle
imprese, una parte del reddito rifluirebbe sui mercati dei capitali per
finanziare gli imprenditori.
Tuttavia, quale che sia la disponibilità di risparmio derivante
dalle decisioni autonome delle famiglie, attratti da tassi d’interesse
vantaggiosi, secondo Keynes l’investimento avrà luogo se, e solo, gli
imprenditori avranno aspettative positive riguardanti il futuro. Se questi
soggetti, delegati a impiegare concretamente i beni capitali, non desiderano
investire, l’investimento non si verifica. Non esiste dunque alcun meccanismo
che garantisca la conversione dei risparmi in investimenti. In questo senso, si
capisce bene perché nello schema keynesiano i risparmi sono funzione del
reddito, e non del tasso d’interesse, e perché, sebbene influenzate dal tasso
d’interesse, le decisioni d’investimento sono indipendenti da quelle di
risparmio. Inoltre, se anche gli investimenti pianificati eccedessero il
risparmio disponibile si potrebbe fare ricorso al credito bancario per ridurre
il gap endogenamente. Quel che è richiesto per l’accumulazione del capitale è
l’accesso al credito. Ciò significa che l’aumento del risparmio oltreché essere
depressivo per la crescita, risulta anche privo di significato, poiché la
fattibilità dell’investimento dipende solamente dall’offerta endogena di
credito delle banche. Ogni espansione della domanda, pertanto, deve essere
preceduta dalla creazione di moneta creditizia da parte delle banche, che
consente di finanziare l’investimento prima ancora che il valore della
produzione sia stato realizzato mediante la vendita delle merci.
L’investimento, quindi, crea il risparmio attraverso il processo della finanza.
In ultima analisi, anche in Keynes il funzionamento del
mercato dei beni e della moneta è spiegato facendo ricorso alla psicologia
umana. Da un lato, sarebbe sufficiente conoscere il tasso d’interesse per
determinare i livelli d’investimento, inversamente dipendenti dall’efficienza marginale
del capitale. Il problema è che i ritorni dell’investimento, sulla cui base è
calcolata l’efficienza marginale del capitale, non sono altro che congetture
degli imprenditori circa il futuro trend dell’economia. Ciò significa che,
qualunque sia il tasso d’interesse, gli investimenti diminuiscono in
concomitanza di un peggioramento delle aspettative delle imprese. Ne risulta la
scomparsa delle contraddizioni che scaturiscono dalle caratteristiche
strutturali del modo di produzione capitalista, tralasciando le determinanti
causali – ossia le relazioni economiche – che sottendono la ‘psicologia’ e
l’azione delle imprese e degli speculatori finanziari.
D’altro canto, la spiegazione psicologica sottende anche il
funzionamento del mercato monetario. È la coscienza degli agenti che agiscono
per fini speculativi a determinare sia l’attrattività degli asset liquidi
rispetto ai beni d’investimento, sia le aspettative su possibili oscillazioni
del tasso d’interesse – l’altra variabile che condiziona l’investimento.
Sebbene la teoria keynesiana ponga il sostegno alla domanda aggregata
come conditio sine qua non per il rilancio degli investimenti,
ribaltando il nesso causale risparmi-investimenti, un’analogia fondamentale con
la teoria mainstream si trova a livello metodologico: i consumatori con
preferenze date che interagiscono sul mercato per soddisfare i loro bisogni,
tipici dello schema neoclassico, lasciano il posto ad agenti con preferenze
date che interagiscono sul mercato per soddisfare il loro desiderio di detenere
moneta o altri asset finanziari.
Più verosimilmente, la preferenza alla liquidità può essere
co-determinata da altre variabili, come il tasso di profitto, che la teoria di
Keynes dovrebbe invece spiegare. L’‘utilità’ fornita da particolari assets
finanziari può cambiare rapidamente a causa delle mutevoli condizioni di
prosperità o della volontà degli altri agenti di accettarli come pagamenti. In
questo senso, la preferenza alla liquidità è un bisogno socialmente
determinato. La costituzione di riserve monetarie seguite alla crisi
finanziaria scoppiata nei paesi occidentali nell’agosto 2007 chiarisce bene
questo concetto: sebbene sia un fenomeno reale, la detenzione di ricchezza in
forma liquida non risiede solamente in una preferenza innata, quanto nella
restrizione di opportunità profittevoli dove effettuare nuovi investimenti.
Analogamente, molti degli assets che durante il periodo precedente venivano
accettati come mezzi di pagamento, oggi sono considerati ‘spazzatura’. Nello
schema keynesiano, ciò può essere mostrato come un cambio delle preferenze tra
diversi assets. Ma ciò non dice nulla delle determinanti oggettive dietro la
crescita della liquidità, poiché non si indagano le determinanti economiche che
hanno dato luogo a questo fenomeno, ovvero l’andamento dei profitti.
Il vizio della teoria keynesiana è che, oscurando il
processo di produzione della ricchezza, le determinanti oggettive che
consentono l’appropriazione di profitti da parte dei proprietari dei beni
capitali, e il ruolo dei diversi assets finanziari nel processo di produzione,
sono totalmente ignorate. Al loro posto, gli ‘animal spirits’ degli
imprenditori e le preferenze degli speculatori vengono assunti a cause
primitive e non spiegabili. L’uscita dalla crisi tramite il sostegno pubblico
alla domanda aggregata diviene una mera questione tecnica e di buon governo di
cui, in ultima analisi, potranno beneficiare tutti, lavoro e capitale.
3. Teoria Marxista
Il punto d’entrata di Marx per analizzare il capitalismo
sono le classi sociali, divise conformemente alla fonte del loro reddito: i
percettori di salario (lavoratori), di profitti (capitalisti) e di rendite
(rentier). Le classi sociali sono gruppi d’individui accomunati dal posto
occupato nel sistema di produzione sociale storicamente determinato, dalla loro
relazione rispetto ai mezzi di produzione e, in relazione a ciò, dalla quota di
ricchezza sociale di cui dispongono, dal modo di acquisirla, e dalla sua
origine. All’interno del capitalismo troviamo una classe, quella lavoratrice,
che produce valore, ed un altra, quella capitalistica, che se ne appropria.
Un’altra ancora, quella dei rentier che, dopo aver prestato denaro a quella
capitalista per dare avvio al processo produttivo che impiega la classe
lavoratrice, detrae una fetta di valore aggiunto qui prodotto, addizionato
degli interessi. Poiché il capitalismo è un sistema volto alla produzione di
valore, significa che vi una classe che lo produce, quella lavoratrice, e
un’altra che, dopo averne dedotto i costi di riproduzione della forza lavoro (e
di eventuali interessi), se ne appropria. Questa classe è quella capitalista.
Ciò è possibile perché vi è una classe privata dei mezzi di produzione, e
un’altra che li possiede.
Mentre i neoclassici e Keynes rivolgono la loro attenzione
rispettivamente alla scambio ed alla distribuzione, il focus diviene ora la
produzione e appropriazione di un surplus di ricchezza in conformità alla
struttura di classe del capitalismo, affinché possa essere reinvestito per
sostenere l’accumulazione del capitale. In altri termini, il valore creato
all’interno della società non appare più come una risorsa economica ben
definita, quanto una relazione sociale. È in questo senso che la teoria di Marx
è ‘economia politica’: perché ha la necessita d’indagare il potere, e quindi il
controllo, del e sul surplus prodotto. Ciò che distingue Marx dai due approcci
precedenti è pertanto il ruolo centrale del surplus (l’eccedenza del prodotto
dopo averne dedotto le spese necessarie al mantenimento della società) e della
profittabilità del capitale (il rapporto tra surplus e capitale investito)
quale condizione necessaria alla crescita e alla accumulazione del capitale.
Posto che ogni società abbia il suo modo peculiare di produzione e
appropriazione del surplus, è la relazione sociale specifica del capitalismo a
trasformarlo in denaro, rendendo quest’ultimo come il fine in sé, conformemente
alla formula D-M-D1. Nello specifico (vedi figura 1), il capitalista
appare sul mercato come detentore di denaro (D) che gli permette di acquistare
due tipi particolari di merci (M), ossia mezzi di produzione (Mp) e
forza-lavoro (Fl). Nel processo di produzione (P), M sono usate al fine di
creare un outflow di merci, un prodotto M1, il cui valore eccede M. Infine,
affinché questo surplus di merci possa trasformarsi in surplus di valore, M1
deve essere venduto sul mercato in cambio di moneta D1.
Figura
1. D........M(Mp+Fl)....(P) processo
di produzione........M1........ D1
Se D1>D allora nel processo produzione è creato valore aggiunto che media le
sfere della produzione, circolazione e distribuzione tra le classi: mentre una
parte di questo valore serve a soddisfare le esigenze di consumo della classe
capitalista, la restante è trasformata in capitale, ossia è investita nell’acquisto
di quote addizionali di macchinari, materie prime e forza-lavoro, necessarie
all’espansione della produzione. Quest’ultimo stadio del ciclo, la conversione
del valore aggiunto in capitale, è definito ‘accumulazione del capitale’, ed è
attraverso di essa che l’economia capitalista si riproduce su scala allargata.
Mentre viene riconosciuto che, sul breve periodo e
conformemente al pensiero di Keynes, i profitti siano determinati dalla
domanda, Marx si focalizza sul lungo periodo, laddove la crescita è guidata dal
tasso di profitto, le cui determinanti sono la distribuzione del reddito e la
tecnologia. Il tasso medio di profitto r, che regola il processo di crescita
può essere espresso come:
r = s/c+v
ossia il rapporto tra il valore aggiunto creato dalla forza
lavoro e la somma dello stock di capitale, forza lavoro (v) e capitale costante
(c) utilizzato per produrre tale valore aggiunto. Se la quota dei profitti
investita, equivalente alla propensione al risparmio del capitalista, è uguale
a Qr, il tasso di crescita dello stock di capitale, ossia il tasso di
accumulazione gk, sarà :
gk = Qr r
Quest’ultima relazione mostra come, sul lungo periodo, il
tasso di crescita dipenda dalla propensione al risparmio della classe
capitalista e dal tasso di profitto. Si nota come la distribuzione del reddito
risponda ai cambiamenti dei parametri lungo una linea intuitiva. Il tasso di
accumulazione dipende dalla profittabilità, ossia la quota del surplus prodotto
sul capitale investito, e dal comportamento di risparmio della classe
capitalista, divenendo positivamente correlato ad entrambe le variabili.
L’accento sulla centralità del risparmio potrebbe sembrare accomunare le teoria
di Marx alla teoria neoclassica. In realtà una differenza sostanziale risiede
nella fonte di tale risparmio, poiché il motore dell’investimento non risiede
nel risparmio aggregato, bensì nel risparmio della classe capitalista. La
ragione dietro questa assunzione è che, per Marx, i lavoratori, come classe,
consumino internamente ed interamente il loro salario. Mentre i modelli
neoclassici ignorano ogni questione distributiva alla luce dell’assunto della
‘famiglia rappresentativa’, gli economisti classici riconoscono i distinti
gruppi sociali: da un lato i capitalisti, che risparmiano per motivi dinastici,
e i lavoratori, il cui risparmio segue un tradizionale schema del ciclo di
vita. Infatti, se è vero che a livello individuale il lavoratore può
risparmiare, ad esempio risparmiando durante la giovinezza e la maturità per
finanziare la sua pensione, a livello aggregato il risparmio di alcune unità
lavoratrici è compensato dal consumo del risparmio accumulato da altre famiglie
di lavoratori. Come classe, quindi, i lavoratori spendono interamente il loro
salario. Anche qualora accumulassero risparmi sia direttamente, astenendosi dai
consumi, sia indirettamente sotto forma di dividendi, la massa totale del
risparmio famigliare sarebbe in ultima analisi un residuo del processo di
accumulazione del capitale. Da un lato, determinando i livelli di occupazione,
l’investimento stabilisce per via indiretta anche i redditi da lavoro, da cui
vengono attinti i risparmi della classe lavoratrice. Dall’altro, determinando
l’ammontare dei profitti, l’investimento regola anche quello dei dividendi
delle imprese distribuiti alle famiglie lavoratrici.
Nella tradizione marxista della crescita, dunque, ciò che
assume rilevanza primaria nella determinazione degli investimenti sono i
profitti delle imprese, ossia la massa totale di valore aggiunto prodotto nel
processo produttivo, da cui vengono attinti gli utili trattenuti (i risparmi
della classe capitalista) con cui effettivamente vengono finanziati gli
investimenti. Poniamo che f sia il settore delle imprese ed h quello delle
famiglie. Considerando il bilancio del settore privato, si può mostrare come la
domanda dell’investimento pianificato dalle imprese, I, sia finanziati dalla
somma tra (a) i risparmi delle imprese dedotti della loro liquidità e delle
loro obbligazioni; (b) il capitale azionario, (c) il credito bancario.
(1) I = [Sf – (ΔMd
+ ΔBNG )f] + ΔEQ + ΔDB
Dove Sf =
utili trattenuti; Md = liquidità ; BNG = obbligazioni governative; EQ = titoli
azionari; DB = credito bancario. A sua volta, il capitale azionario dipende dal
risparmio temporaneo delle famiglie di lavoratori, dalla loro liquidità e dalle
obbligazioni governative da esse detenute.
(2) ΔEQ = [Sh –
(ΔMd + ΔBNG)h]
Combinando le equazioni 1 e 2 avremo:
(3) I = [Sf – (ΔMd
+ ΔBNG )f] + [Sh – (ΔMd + ΔBNG)h]
+ ΔDB
Che mostra come gli investimenti siano eguali alla somma
degli utili trattenuti delle imprese e del risparmio famigliare, entrambi
dedotti delle loro rispettive liquidità e obbligazioni, più il credito
bancario. Rapportiamo ora le grandezze assolute al reddito prodotto, Y
(4) I/Y = [ Sf
– (ΔMd + ΔBNG )f]/Y + [Sh – (ΔMd
+ ΔBNG)h]/Y + ΔDB/Y
La 4 mette in relazione l’investimento del settore delle
imprese alla sua disponibilità finanziaria, ossia al risparmio delle imprese e
delle famiglie dei lavoratori dedotto delle proprietà monetarie e obbligazionarie
di questi settori, più il credito bancario.
L’espressione:
[Sf – (ΔMd + ΔBNG )f]/Y + [Sh – (ΔMd + ΔBNG)h]/Y
rappresenta quel che chiameremo surplus
investibile, ossia la quota di risparmio privato disponibile per
l’investimento nel settore delle imprese dopo che il rimanente è stato
accantonato in forma monetaria e obbligazionaria. In altri termini, il surplus
investibile costituisce l’ammontare di flusso di cassa del settore delle
imprese, che può essere utilizzato per finanziare l’accumulazione del capitale.
L’equazione 4 mostra che, dato il tasso di profitto, un incremento del
risparmio sociale, aumentando il surplus investibile, conduce ad un aumento
degli investimenti e quindi della crescita economica. Tuttavia, è importante
sottolineare che in un contesto di stagnazione economica, un incremento degli
utili trattenuti potrebbe non tradursi in investimenti produttivi in mancanza
di opportunità profittevoli.
Certamente, un aumento del flusso di credito
bancario, ΔDB/Y, sarebbe in grado di finanziare l’accumulazione. La
teoria classica riconosce che il sistema creditizio, creando moneta e
rastrellando capitale monetario momentaneamente inutilizzato al fine di
imprestarlo alle imprese per finanziarie i loro investimenti, giochi un ruolo
chiave nell’economica capitalista, e come tale può aumentare l’efficienza del
processo di accumulazione. Tuttavia, a differenza della teoria keyenesiana, in
Marx è nel turnover del capitale reale che le banche e le istituzioni
finanziarie attingono credito, la cui disponibilità dipenderà dal valore
aggiunto generato nella sfera produttiva, e il cui costo rifletterà la domanda
avanzata dalle imprese che ne necessitano2. I pericoli derivanti
dall’accrescimento del debito delle imprese (e delle famiglie) condurrebbe ad una
fragilità in seno alle istituzioni finanziarie, il cui rimborso del capitale
prestato, maggiorato degli interessi, dipende dalla creazione di nuovo valore
creato nel ciclo di accumulazione.
A livello teorico, la sostanza oggettiva del debito implica
che gli animal spirits keynesiani siano una condizione necessaria ma
non sufficiente all’investimento, poiché il loro aumento deve essere sostenuto
da una dilatazione del surplus investibile. Ciò equivale a dire che
l’incremento del flusso di cassa del settore delle imprese necessario a
finanziare gli investimenti pianificati passa attraverso lo spostamento nella
composizione del risparmio privato, dalla liquidità e dalle
obbligazioni, dipendenti dal deficit pubblico, in direzione dello
stock di capitale e del capitale azionario. La necessità di questo spostamento
distingue la prospettiva marxista da quella keynesiana riguardo l’utilizzo
della spesa pubblica come antidoto alla crisi: una sua espansione, infatti,
implica un’iniezione di moneta e obbligazioni addizionali nell’economia
assorbiti dal settore privato. Tale assorbimento, dati i
rapporti Sf/Y e Sh/Y, determinerebbe una diminuzione del
surplus investibile del settore privato, che si tradurrà in una caduta
ulteriore del tasso di accumulazione.
Sebbene gli effetti negativi di questa espansione sul tasso
di crescita accomunino la teoria marxista a quella neoclassica, è necessario
distinguere il livello della spesa pubblica dalla sua quota sul prodotto
totale. Infatti, se quest’ultimo fosse fisso, una crescita permanente delle
spesa implicherebbe l’ ingrandimento della sua quota sulla produzione totale.
Tuttavia, in un contesto di crescita del prodotto, il livello della spesa
pubblica deve aumentare allo stesso tasso per mantenere costante la sua quota
sul prodotto. Ciò significa, ad esempio, che un ampliamento sul breve periodo
del livello della spesa pubblica non dice, in sé, se sul lungo periodo il
surplus investibile ne sia influenzato poiché, in un contesto di crescita
economica, la quota di spesa sul prodotto tornerà al livello iniziale,
lasciando pertanto immutato il rapporto tra surplus investibile e produzione
totale. Questa distinzione risulta essenziale per cogliere il fatto che, dato
il tasso di risparmio, è solamente l’aumento della quota della spesa pubblica
sul prodotto a restringere il surplus investibile che può essere utilizzato per
finanziare gli investimenti privati, frenando pertanto la crescita economica
sul lungo periodo. Al contrario, la prospettiva neoclassica asserisce che anche
un singolo aumento del livello della spesa pubblica necessariamente conduce ad
una crescita della sua quota sul prodotto perché quest’ultimo è sempre in una
condizione di piena occupazione.
Nondimeno, il pensiero che si rifà a Marx diverge da quello
keynesiano in quel che concerne gli effetti re-distributivi di un’espansione
del debito pubblico: talora si verifichi un aumento deficit, infatti, saliranno
anche i suoi interessi, che dovranno essere finanziati da lavoratori e dai
capitalisti (non è possibile accumulare debito infinitamente)3. Tuttavia,
poiché i secondi risparmiano ad un tasso maggiore rispetto ai primi, gli
interessi sul debito rappresentano una sorta di trasferimento regressivo: parte
delle tasse dei lavoratori finanzieranno gli interessi netti pagati ai
capitalisti. Inoltre, riducendone la ricchezza, il peso della tassazione mina
anche l’abilità dei lavoratori di risparmiare per finanziarie le proprie
pensioni. Ne risulta che un debito pubblico maggiore sarà associato ad una
minore quota di ricchezza detenuta dai lavoratori.
Nonostante queste divergenze, già sufficienti a mettere in
dubbio la neutralità delle risposte più o meno austere alla crisi, il tratto
distintivo dell’economia politica di Marx è che, contrariamente ai neoclassici
e a Keynes, il capitalismo è inteso come un sistema tendente alla crisi.
Richiamiamo la formula del tasso di profitto:
r = s/c+v
La composizione organica del capitale, ossia il rapporto tra
macchinari e lavoratori è:
c/v
La causa ultima della crisi risiede nell’aumento della
composizione organica del capitale dovuta alla competizione che obbliga le
singole imprese a reinvestire una frazione crescente dei loro profitti per
accedere alle innovazioni tecnologiche, con cui aumentare la produttività
necessaria ad assicurarsi un tasso di profitto maggiore dei concorrenti. Se, in
un primo momento, ciò conduce all’aumento dell’occupazione, dei salari, e ad
un’estensione della divisione del lavoro, accrescendone la sua forza
produttiva, in seguito saranno le stesse tecniche labour-saving a
ripristinare l’esercito industriale di riserva che, riducendo il potere
contrattuale dei lavoratori, porrà un freno ai loro salari. Tuttavia, essendo
il lavoro l’unica fonte di valore, a livello sistemico il progressivo impiego
di macchine in rapporto alla forza-lavoro causerà la caduta del tasso di
profitto, e quindi degli investimenti che sorreggono l’accumulazione del
capitale.
4. Conclusioni
La consistenza concettuale di una teoria va giudicata
rispetto ai suoi risultati nella pratica sociale. L’apparato ideologico della
teoria neoclassica serve a celare la natura di classe del capitalismo. Gli
economisti che fondarono questa scuola erano ben coscienti delle implicazioni
politiche della loro operazione. La paura delle classi lavoratrici ha motivato
le teorie di Jevons; allo stesso modo, il tentativo di rifiutare le tenderze
socialiste spinse Walras e Menger a ridefinire la teoria del valore al fine di
mostrare come la mano invisibile del mercato conducesse al migliore dei mondi
possibili. Turbato dal sentimento popolare secondo cui il lavoro fosse
sfruttato, Clark s’impegnò alacremente contro Marx allo scopo di confutarne la
teoria dello sfruttamento. Il suo concetto di produttività marginale colpisce
nel segno, facendo dipendere la distribuzione del reddito da leggi naturali
che, se lasciate operare senza impedimenti, attribuiscono ad ogni agente la
quota di ricchezza da lui creata. In realtà, le conclusioni cui giunge la
teoria neoclassica rispecchiano ancora oggi la piena consapevolezza, da parte
delle classi possidenti, che la loro sopravvivenza deve passare attraverso
misure che colpiscono duramente il lavoro. La gestione della crisi tramite
politiche di austerity sono giustificate a livello teorico dalla dipendenza
dell’investimento dal risparmio – dipendenza che necessita il restringimento
dei consumi, ossia dei salari, al fine di accumulare risparmi per finanziare
gli investimenti. Non è un caso che, indipendentemente dal colore, tutti i
governi dei paesi capitalisti colpiti dalla crisi attuale stiano compiendo le
medesime manovre all’insegna dell’austerità.
La collocazione della teoria keynesiana nell’ambito
distributivo presenta anch’essa i tratti del problema economico oscurando i
rapporti sociali, la struttura di classe e le relazioni di proprietà specifici
del capitalismo. Per Keynes, l’ordine di determinazione causale dietro
l’accumulazione del capitale va dall’investimento al risparmio attraverso il
‘moltiplicatore’ azionato dall’intervento statale. Proponendosi di sconfiggere
i neoclassici sul loro terreno, Keynes mostra come non sia l’offerta a creare
la domanda, quanto il contrario. Nonostante le differenti implicazioni in
termini di gestione della crisi, il posizionamento della sequenza causale
all’interno della sfera distributiva non muta la rappresentazione concettuale
del sistema capitalista poiché, anche in Keynes, il fine dell’attività
economica è il consumo.Ciò è in diretta antitesi con gli economisti
classici che avevano colto immediatamene come la produzione capitalistica non
fosse orientata ai bisogni di consumo, quanto alla produzione di capitale. È
vero che l’impresa deve produrre allo scopo di consumare; ma per produrre deve
prima vedere la luce verde della redditività.
Ciò non significa che Keynes fosse così ingenuo: il suo
reale obiettivo era la costituzione di un compromesso tra capitale industriale
e lavoro che riducesse il ruolo della finanza attraverso il controllo pubblico
sugli investimenti. In questo quadro, la piccola borghesia salariata e
intellettuale si ricava un ruolo di garante, custode e mediatore del sistema.
Il loro sogno ancora oggi. Ma la tensione che lo spinse a cercare questo
compromesso risiede nelle condizioni storiche in cui fu elaborata la Teoria
Generale, laddove le politiche basate sull’austerità stavano mettendo in serio
pericolo la sopravvivenza stessa del capitalismo. La crisi del 1929 e la
stagnazione successiva diedero luogo, sia negli Stati Uniti che oltreoceano, ad
una ondata di scioperi senza precedenti; inoltre, i progressi dell’Unione
Sovietica stavano attirando le simpatie di milioni di lavoratori occidentali,
le cui richieste non si limitavano più a semplici miglioramenti sindacali e
sociali. Un conservatore come Keynes aveva colto lucidamente le conseguenze
politiche di un possibile ribaltamento delle priorità, dai bisogni del mercato
a quelli delle persone:
“Eppure io penso con
terrore al ridimensionamento di abitudini e istinti nell’uomo comune, abitudini
e istinti concresciuti in lui per innumerevoli generazioni e che gli sarà
chiesto di scartare nel giro di pochi decenni [...] Per la prima volta dalla
sua creazione, l’uomo si troverà di fronte al suo vero, costante problema: come
impiegare la sua libertà dalle cure economiche più pressanti, come impiegare il
tempo libero che la scienza e l’interesse composto gli avranno guadagnato, per
vivere bene, piacevolmente e con saggezza. [...] Eppure non esiste paese o
popolo, a mio avviso, che possa guardare senza terrore all’era del tempo libero
e dell’abbondanza.”4
Il terrore riguardante il sorgere di un sistema
socio-economico che assegnasse prorità al ‘vivere bene’ dell’uomo, all’impiego
della sua ‘libertà’ in modo potenzialmente creativo, tuttavia, doveva condurre
la borghesia, di cui Keynes era un lucido esponente, al rispetto degli
imperativi del sistema capitalista:
“Per almeno altri
cento anni dovremmo fingere con noi stessi e con tutti gli altri che il giusto
è sbagliato e che lo sbagliato è giusto, perchè quel che è sbagliato è utile e
quel che è giusto no. Avarazia, usura, prudenza devono essere il nostro dio
ancora per un poco, perchè solo questi principi possono trarci dal cunicolo del
bisogno economico alla luce del giorno.”5
Coerentemente alla sua posizione sociale, e alla difesa dei
suoi interessi, Keynes spiegava infine perché mai si sarebbe iscritto ad un
partito seppur moderato come quello Laburista:
“Perché non mi iscrivo
al Partito Laburista? In primo luogo, è un partito di classe, e di una classe
che non è la mia. Se devo difendere interessi particolari, difenderò i miei.
Quando arriverà la lotta di classe vera e propria, il mio patriottismo locale e
il mio patriottismo personale si schiereranno con i miei simili. Posso essere
mosso da quello che reputo che sia giusto e di buon senso, ma la lotta di
classe mi troverà dalla parte della borghesia colta.”6
Sebbene il successo delle politiche keynesiane risieda
nell’immane distruzione di capitale avvenuta con la Seconda Guerra Mondiale
(nel 1939, dopo sei anni di politiche di fatto keynesiane da parte di
Roosevelt, il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti superava
abbondantemente il 20 percento), le proposte odierne di ‘sostegno della domanda
aggregata’ paiono ignorare il portato di classe della medicina keynesiana. Non
paiono essere altrettanto sprovvedute le classi politico-dirigenti
dell’emisfero capitalista le quali, in assenza di pressioni paragonabili a
quelle degli anni Trenta da parte del mondo del lavoro, non hanno alcun dubbio
riguardo la soluzione più efficiente per uscire dalla crisi.
Il punto di arrivo della critica all’economia politica di
Marx è che la crisi sia la precondizione per un nuovo ciclo di accumulazione.
Essa consiste nella svalutazione del capitale – capitale inteso come relazione
sociale – che permetterà di effettuare nuovamente investimenti profittevoli.
Concretamente, la funzione rigenerativa della crisi si manifesta attraverso il
calo della composizione organica del capitale (c/v), ossia mediante la
riduzione del valore della forza-lavoro e dei macchinari (il denominatore della
formula del tasso di profitto) e ad un contemporaneo aumento del valore
aggiunto prodotto dalla manodopera, ossia della quota di valore prodotto dai
lavoratori espropriato dalle imprese (il numeratore della formula del tasso di
profitto). In questo senso, l’austerità non è né di destra né di sinistra: la
distruzione della concorrenza che consente alle imprese maggiori di
accaparrarsi macchinari e impianti di quelle fallite a prezzi altamente
svalutati; la disoccupazione che obbliga i lavoratori ad offrirsi ad un salario
minore e a lavorare a ritmi più intensi; e le guerre che aprono mercati di
sbocco per le imprese del centro – fenomeni che vengono sistematicamente
realizzati nei momenti di crisi come quello attuale – non sono semplici errori
compiuti da politici miopi. Al contrario, costituiscono le medicine necessarie
per curare la crisi, pur rimendo nel capitalismo. In assenza di spinte
provenienti dai lavoratori – debitamente cooptati all’interno delle
compatibilità capitaliste durante e per merito dell’epoca keynesiana –
l’austerità è la soluzione più pragmatica per abbassare il denominatore ed
aumentare il numeratore del tasso di profitto, motore dell’accumulazione del
capitale.
L’ineluttabilità delle crisi nel capitalismo non significa
accettare passivamente il corso della storia. Al contrario, le crisi ed i
soggetti sociali che ne stanno pagando i costi confermano la contraddittorietà
degli interessi in gioco. Keynes, avendone piena consapevolezza, scelse
coerentemente la squadra con cui schierarsi. Tale contraddittorietà è insita
nelle relazioni di proprietà capitalistiche, intelligentemente sottaciute
dall’economista inglese, che a sua volta determinano come e perché chi possiede
ricchezza (i mezzi di produzione) decide – e il lavoratore deve accettare – cosa
produrre, per chi produrlo e come produrlo. Gli imperativi delle imprese
risiedono nella loro necessita di estrarre la quantità maggiore di profitto
dalla loro attività, che significa allargare la forbice tra produttività del
lavoro e salari dei lavoratori sottoposti ai loro comandi. Questa è la
necessità dell’impresa di resistere agli aumenti salariali, di cercare lavoro
più a buon mercato internamente o all’estero, di introdurre tecnologie in grado
di tagliare i costi. Inoltre, il motivo del profitto regola anche la
competizione tra capitali, dove le singole imprese lottano per sottrarre quote
di mercato ai loro rivali. La razionalità che muove l’impresa capitalista è
quindi basata sulla divisione tra proprietari e non proprietari dei mezzi di
produzione, sull’ineguaglianza e sulla competizione. D’altro lato, l’azione
della classe lavoratrice è volta al bisogno di restringere tale forbice
(produttività del lavoro meno salari), che si sostanzia nello sviluppo di una
razionalità basata sulla solidarietà, sull’uguaglianza e
sull’auto-determinazione. La soddisfazione delle necessità della prima è
funzionale alla riproduzione dell’accumulazione del capitale. La soddisfazione
delle esigenze della seconda, invece, ne è un freno. Detto altrimenti, i
guadagni delle imprese significano perdite per i lavoratori, mentre eventuali
guadagni di questi ultimi indeboliscono le prime. Questa doppia razionalità
rappresenta il contenuto sociale contraddittorio delle relazioni di proprietà
capitalistiche.
La disparità di risorse e potere all’interno del capitalismo
preclude l’autodeterminazione di alcuni dei suoi agenti riguardo cosa produrre,
per chi produrre, come produrre e perchè. Alienati dalla loro attività, resi
estranei dal loro prodotto e dalla loro attività, i lavoratori trovano
difficoltà a divenire il soggetto della produzione, ossia a manifestare la
peculiarità del genere umano che consiste nell’azione libera e cosciente
dell’appropriazione su, e in armonia con, la natura. Sebbene Keynes avesse
colto pienamente questo aspetto, essendone terrorizzato, i suoi seguaci odierni
paiono non accorgersi della natura di classe, e della contraddittorietà di
interessi, che sottendono il funzionamento del capitalismo. Incuranti del
fallimento delle politiche keynesiane all’inizio degli anni Settanta, una volta
esaurita la spinta propulsiva della fase precedente, ciò li conduce a suggerire
scappatoie alla crisi vantaggiose sia per la classe lavoratrice, sia per la
classe capitalista.
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Note
1 Ringrazio Leonardo Bargigli per i suoi preziosi consigli. Qualsiasi errore ed
imprecisione è da attribuire al sottoscritto. Contatti:
2 Tramite la leva finanziaria è possibile eccedere il
capitale reale. Ma la fonte per ripagare il capitale finanziario generato
endogenamente può solo provenire dall'accumulazione reale anche se ciò avviene
successivamente, convalidando o meno i piani di investimento.
3 Negli USA questo non è avvenuto grazie al ruolo del
dollaro come moneta internazionale di riserva, e grazie ai suoi mercati
finanziari che hanno rastrellato liquidità mondiale, consentendogli di
mantenere bassi tassi d’interesse.
4 John Maynard Keynes, “Esortazioni
e profezie”.
5 Ibid.
6 Ibid.