- Vi proponiamo un estratto dal libro di Alain Badiou "Il
risveglio della storia. Filosofia delle nuove rivolte mondiali" in
cui il filosofo francese rispondendo alle critiche di Toni Negri
traccia un profilo dell'attuale fase del capitalismo
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Alain Badiou ✆ Jorge Ledo
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Alain Badiou | Mi
si rimprovera spesso, anche nel «gruppo» dei miei potenziali compagni di fede
politica, di non tener conto delle caratteristiche del capitalismo
contemporaneo, e di non proporne un’«analisi marxista». Di conseguenza per me
il comunismo sarebbe soltanto un’idea campata in aria, e io in definitiva sarei
soltanto un idealista senza rapporti con la realtà. Per di più, non sarei
nemmeno attento alle sorprendenti trasformazioni del capitalismo,
trasformazioni che autorizzano a parlare, con aria da intenditori, di un
«capitalismo postmoderno».
Antonio Negri, per esempio, durante una conferenza
internazionale
sull’idea di comunismo – ero e sono molto contento di
avervi preso parte – mi ha pubblicamente assunto quale esempio di tutti quelli
che pretendono di
essere comunisti senza neanche
essere marxisti. In sostanza, gli ho risposto che era sempre meglio che
pretendere di essere marxisti senza essere nemmeno comunisti. Considerando il
fatto che, per l’opinione corrente, il marxismo consiste nell’accordare un
ruolo determinante all’economia e alle contraddizioni sociali che ne derivano,
chi, oggi, non è «marxista»? I nostri padroni, che, non appena la Borsa
comincia a traballare o i tassi di crescita ad abbassarsi, tremano e si riuniscono
col favore della notte, sono tutti «marxisti». Provate invece a mettere sotto
il loro naso la parola «comunismo», e vedrete come cominceranno a dare in
escandescenze, considerandovi alla stregua di un criminale.
Qui invece vorrei dire, senza più preoccuparmi degli
avversari e dei rivali, che anch’io sono marxista, in buona fede, pienamente e
in un modo così naturale che non è neanche il caso di ripeterlo.
Un matematico contemporaneo si preoccupa forse di provare la
propria fedeltà a Euclide o a Eulero? Il marxismo reale, che si identifica con
la lotta politica razionale e che ha come scopo l’organizzazione di una società
egualitaria, è cominciato senza dubbio con Marx ed Engels nel 1848, ma in
seguito ne ha fatta di strada, con Lenin, con Mao e poi ancora con qualcun
altro. Io sono cresciuto con questi insegnamenti storici e teorici. Credo di
conoscere bene sia i problemi che sono stati già risolti e che non serve a
nulla ricominciare a studiare sia i problemi che rimangono in sospeso ed
esigono riflessione ed esperienza, sia ancora i problemi che sono stati
affrontati male e che ci impongono radicali rettifiche e faticose reinvenzioni.
Tutte le conoscenze vive sono composte da problemi che sono stati o che devono
essere costruiti o ricostruiti, e non da descrizioni ripetitive. Il marxismo
non fa certo eccezione. Non è né una branca dell’economia (teoria dei rapporti
di produzione), né della sociologia (descrizione oggettiva della «realtà
sociale»), né una filosofia (pensiero dialettico delle contraddizioni).
Rappresenta, lo ripetiamo, la conoscenza organizzata dei
mezzi politici atti a smantellare la società esistente e a sviluppare una
figura egualitaria e razionale di organizzazione collettiva, la quale prende il
nome di «comunismo».
Malgrado ciò, vorrei aggiungere che, quanto ai dati
«oggettivi» del capitalismo contemporaneo, non penso affatto di essere
particolarmente disinformato. Globalizzazione, mondializzazione? Spostamento di
un grande numero di centri di produzione industriale nei paesi fornitori di mano
d’opera a basso costo e a regime politico autoritario?
Passaggio – durante gli anni Ottanta – nei nostri vecchi
paesi sviluppati, da un’economia incentrata su se stessa, con un aumento
continuo del salario operaio e la ridistribuzione sociale organizzata dallo
Stato e dai sindacati, a un’economia liberale integrata sugli scambi mondiali,
e quindi esportatrice, specializzata, che privatizza i profitti, socializza i
rischi e accetta l’aumento planetario delle disuguaglianze?
Rapidissima concentrazione dei capitali sotto la direzione
del capitale finanziario? Utilizzo di nuovi strumenti grazie ai quali la
velocità di rotazione prima dei capitali e poi delle merci, è considerevolmente
accelerata (diffusione su ampia scala del trasporto aereo, telefonia globale,
strumenti finanziari, Internet, programmi che mirano ad assicurare il successo
delle decisioni istantanee ecc.)? Sofisticazione della speculazione grazie a
nuovi prodotti derivati e a una sottile matematica della combinazione dei
rischi? Indebolimento spettacolare, nei nostri paesi, del mondo contadino e di
tutta l’organizzazione rurale della società? Assoluta e conseguente necessità
di attribuire alla piccola borghesia urbana il ruolo di pilastro del regime
sociale e politico esistente? Resurrezione, su larga scala, e in primo luogo
presso i borghesi più ricchi, della convinzione vecchia come Aristotele che le
classi medie siano l’alfa e l’omega della vita «democratica»? Lotta planetaria,
a volte in tono minore a volte estremamente violenta, per assicurarsi materie
prime e fonti di energia a basso costo, soprattutto in Africa, il continente
oggetto di tutti i saccheggi «occidentali» e di conseguenza di tutte le
atrocità? Conosco piuttosto bene questo argomento, come tutti d’altronde.1
La questione è sapere se questo insieme aneddotico di
elementi costituisca un capitalismo «postmoderno», un capitalismo nuovo, un
capitalismo degno delle macchine desideranti di Deleuze e Guattari, un
capitalismo che sia capace di generare da solo un’intelligenza collettiva di
tipo nuovo e suscitare l’insorgere di un potere costituente fino a questo
momento asservito, che superi il vecchio potere degli Stati, che proletarizzi
la moltitudine e trasformi i piccoli borghesi in operai della conoscenza
immateriale, un capitalismo insomma rispetto al quale il comunismo possa
rappresentare l’immediato rovescio e il cui Soggetto sia in qualche modo lo
stesso di quello del comunismo latente che ne sostiene la paradossale
esistenza. Un capitalismo insomma alla vigilia della sua metamorfosi in
comunismo. Questa è, in maniera po’ grossolana ma fedele, la posizione di
Negri. Più in generale, questa è anche la posizione di tutti quelli che è da
trent’anni rimangono affascinati dalle mutazioni tecnologiche e dall’espansione
continua del capitalismo, e che, ingannati dall’ideologia dominante («tutto
cambia sempre e noi corriamo dietro a questo cambiamento memorabile»),
immaginano di assistere a una prodigiosa sequenza della Storia – qualunque sia
il loro giudizio finale sulla qualità della suddetta sequenza.
La mia posizione è esattamente opposta: il capitalismo
contemporaneo presenta tutti i tratti del capitalismo classico.
È assolutamente conforme a quanto ci si poteva aspettare da
esso, tanto più che la sua logica non è più ostacolata da azioni di classe
risolute e localmente vittoriose. Prendiamo per esempio, per quello che
riguarda il divenire del Capitale, tutte le categorie predittive di Marx e
vedremo che è solo oggi che esse si sono confermate in tutta la loro evidenza.
Marx non ha forse parlato di «mercato mondiale»? Ma cos’era il mercato mondiale
nel 1860 in rapporto a quello che è oggi, quello che si è voluto inutilmente
rinominare «globalizzazione»? Marx non aveva forse pensato il carattere
ineluttabile della concentrazione del capitale? Che cos’era questa
concentrazione, quali erano le dimensioni delle imprese e delle istituzioni
finanziarie all’epoca di questa previsione, in rapporto ai mostri che ogni
giorno nuove fusioni fanno sorgere? A Marx è stato a lungo obiettato che l’agricoltura
sarebbe rimasta ferma a un regime di sfruttamento familiare, mentre lui
prevedeva che la concentrazione avrebbe di sicuro vinto sulla proprietà
fondiaria. Sappiamo oggi che l’effettiva percentuale della popolazione che nei
paesi cosiddetti sviluppati (quelli cioè dove il capitalismo imperialista si è
insediato senza trovare alcun ostacolo) vive di agricoltura, è, per così dire,
insignificante. E qual è oggi l’estensione media delle proprietà fondiarie,
rispetto a quello che erano al tempo in cui i contadini rappresentavano, in
Francia, il 40% della popolazione totale? Marx ha analizzato in modo rigoroso
il carattere inevitabile delle crisi cicliche, le quali attestano, oltre tutto,
la sostanziale irrazionalità del capitalismo e il carattere necessariamente
consequenziale delle sue attività imperialistiche e belliche. A provare, mentre
ancora era vivo, queste analisi sono intervenute alcune gravissime crisi, e le
guerre coloniali e inter-imperialistiche ne hanno completato la dimostrazione.
Comunque, se guardiamo la quantità di beni andati in fumo, tutto questo non è
ancora nulla in confronto alla crisi degli anni Trenta o alla crisi attuale, o
in confronto alle due guerre mondiali del XX secolo, alle feroci guerre
coloniali e agli «interventi» occidentali di oggi e di domani. Se consideriamo
la situazione del mondo intero e non solo di una sua parte, non sarà necessario
arrivare alla pauperizzazione di enormi masse di popolazione per ammetterne
l’evidenza sempre più lampante.
In fondo, il mondo attuale è esattamente quello che, con una
geniale opera di anticipazione, con una specie di fantascienza realistica, Marx
aveva annunciato in quanto dispiegamento integrale delle virtualità irrazionali
e, a dire il vero, mostruose del capitalismo.
Il capitalismo affida il destino dei popoli agli appetiti
finanziari di una minuscola oligarchia. In un certo senso, è un regime di
banditi. Come si può accettare che la legge del mondo si regga sugli spietati
interessi di una cricca di eredi e di parvenu? Non possiamo forse a ragione
chiamare «banditi» uomini il cui unico principio è il profitto? E che, solo per
assecondare tale principio, sono pronti a calpestare, se necessario, milioni di
persone? In questo momento, il fatto che il destino di milioni di persone
dipenda dai calcoli di questi banditi è così palese e così lampante, che
accettare questa «realtà», come dicono i loro scribacchini, è qualcosa che
sorprende ogni giorno di più. Lo spettacolo di Stati messi miseramente in
ginocchio perché un piccolo gruppo di anonimi e sedicenti operatori di rating
ha affibbiato loro una brutta nota, come un professore di economia farebbe con
dei somari, è nello stesso tempo comico e molto inquietante.
Allora, cari elettori, avete mandato al potere gente che di
notte, proprio come in collegio, ha paura di venire a sapere che all’alba i
rappresentanti del «mercato», ossia gli speculatori e i parassiti del mondo
della proprietà e del patrimonio, hanno rifilato loro la nota AAB al posto di
AAA?
Non è forse barbaro quest’ascendente consensuale che i
nostri ufficiosi padroni, la cui unica preoccupazione è di sapere quali sono e
quali saranno i benefici alla lotteria nella quale puntano i loro milioni,
hanno sui nostri padroni ufficiali?
Senza contare che i loro belanti versi – «Ah! Ah! Beheheh!»
– verranno ripagati con l’obbedienza agli ordini della cricca, e che sempre e
invariabilmente sono: «Privatizzate tutto. Eliminate ogni sostegno ai deboli,
alle persone sole, ai malati, ai disoccupati. Eliminate tutti gli aiuti, ma non
alle banche. Non curate più i poveri, lasciate morire i vecchi. Abbassate i
salari dei poveri, ma abbassate anche le imposte dei ricchi. Che tutti lavorino
fino a novant’anni. Insegnate la matematica soltanto ai trader, insegnate a
leggere soltanto ai grandi proprietari, insegnate la storia soltanto agli
ideologi di servizio». E l’esecuzione di questi ordini rovinerà di fatto la
vita di milioni di persone.
Anche qui però la nostra realtà conferma, se non addirittura
supera, le previsioni di Marx. È stato lui a definire «procuratori del
capitalismo» i governi degli anni tra il 1840 e il 1850. E questo ci dà una
chiave del mistero: in definitiva, i governanti e i banditi della finanza
appartengono allo stesso mondo. La formula «procuratori del capitalismo» è
diventata del tutto esatta soltanto oggi, quando, su questo punto, non esiste
più alcuna differenza tra i governi di destra, Sarkozy o Merkel, e quelli «di
sinistra», Obama, Zapatero o Papandreu.
Siamo quindi proprio noi a essere testimoni di un retrogrado
compimento dell’essenza del capitalismo, di un ritorno allo spirito degli anni
della metà del XIX secolo, un ritorno che giunge dopo la restaurazione delle
idee reazionarie conseguente gli «anni rossi» (1960-1980), proprio come il
periodo intorno alla metà del XIX secolo era stato reso possibile dalla
Restaurazione controrivoluzionaria degli anni 1815-1840, in seguito alla Grande
Rivoluzione del 1792-1794.
Certo, Marx pensava che, sotto la bandiera del comunismo, la
rivoluzione proletaria avrebbe bruscamente interrotto questi eventi e ci
avrebbe risparmiato il dispiegamento integrale di cui percepiva lucidamente
l’orrore. L’alternativa era appunto, secondo lui, comunismo o barbarie. I
formidabili tentativi di dargli ragione su questo punto verificatisi nei primi
due terzi del XX secolo hanno di fatto considerevolmente frenato e deviato la
logica capitalista, in particolare in seguito alla Seconda guerra mondiale.
Dopo circa trent’anni, dopo il crollo degli Stati socialisti
come alternative percorribili (il caso dell’Unione Sovietica), o il loro
sconvolgimento operato da un violento capitalismo di Stato dopo lo scacco di un
movimento di massa esplicitamente comunista (è il caso della Cina tra gli anni
1965 e 1968), abbiamo finalmente il dubbio privilegio di assistere alla verifica
di tutte le predizioni di Marx sull’essenza reale del capitalismo e delle
società che esso regge. Alla barbarie siamo già arrivati, e vi stiamo
sprofondando dentro di gran carriera. E tutto questo corrisponde nei minimi
dettagli a ciò che Marx si augurava che la potenza del proletariato organizzato
sarebbe riuscito a impedire.
Il capitalismo contemporaneo non è dunque in alcun modo
creativo e postmoderno: pensando di essersi sbarazzato dei propri nemici
comunisti, segue quella linea di cui Marx, approfondendo l’opera degli
economisti classici in una prospettiva critica, aveva percepito l’andamento
generale.
Non saranno di certo il capitalismo o la schiera dei suoi
servi politici a risvegliare la Storia, se con «risvegliare» intendiamo
l’insorgere di una capacità distruttrice e al tempo stesso creatrice, con lo
scopo di uscire una volta per tutte dall’ordine stabilito. In tal senso,
Fukuyama non aveva affatto torto: giunto al proprio completo sviluppo, e
consapevole dell’ineluttabilità della propria morte – anche a costo, cosa
disgraziatamente probabile, di una violenza suicida – al mondo moderno non
resta altro che pensare alla «fine della Storia», proprio come quando Wotan,
nel secondo atto de La Valchiria di Wagner, spiega a sua figlia Brünnhilde che il
suo unico pensiero è «la fine! la fine!»
Se un risveglio della Storia ci sarà, non bisognerà cercarlo
nel carattere barbaro e conservatore del capitalismo o nella foga di tutti gli
apparati statali che ne tutelano il concitato andamento. L’unico risveglio
possibile sarà quello dell’iniziativa popolare in cui si radicherà la potenza
di un’Idea.
Nota
1. Per un’interpretazione molto chiara delle forme di
capitalismo contemporaneo, rimando a due libri di Pierre- Noël Giraud: L’Inégalité
du monde contemporain (Gallimard, Paris, 2001) e La Mondialisation (2008).
Giraud chiarisce, in modo molto convincente, la modificazione globale (e
reattiva) del capitalismo planetario a partire dalla fine degli anni Settanta.