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Logic of Disappearance. A Marx Archive ✆ Madhusudhanan
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Pietro Bianchi |
Vi è una celebre sequenza all’inizio di
Grapes of Wrath, il film
capolavoro di John Ford tratto dal romanzo di Steinbeck, in cui vediamo Tom
Joad che dopo essere uscito di prigione torna nella fattoria di famiglia e la
trova vuota, distrutta e abbandonata. La terra è stata confiscata dalle banche
e la sua famiglia se n’è dovuta andare verso la California a cercare un lavoro
e un salario migliori. Ma com’è possibile – si chiede Tom – che una banca possa
impossessarsi della terra dove i Joad vivevano da più di cinquant’anni come se
niente fosse? Che cosa è successo? Muley – un uomo che si era accampato tra le
rovine della casa abbandonata dei Joad e che si era rifiutato di fuggire in
California – interpellato da Tom Joad racconta chi sono i veri responsabili di
ciò che è successo. In tre minuti di emozionante flashback John Ford non solo
ci fa vedere come funziona concretamente il procedimento di confisca delle
terre nell’Oklahoma con grande lucidità politica, ma ci mostra anche in un
distillato di fulminante chiarezza uno dei problemi più enigmatici e complessi
della modernità capitalistica:
come
si manifesta il capitalismo? Che volto ha quando appare
nelle nostre vite? Qual è la sua immagine?
Il flashback ci
riporta al giorno in cui arriva un emissario dei proprietari terrieri che
affittavano il campo dove lavorava Muley e che consegna un ordine di sfratto ai
contadini affittuari. L’uomo spiega come ormai il sistema di mezzadria non
funzioni più: gli investitori non riescono nemmeno ad arrivare in pari perché
oggi basta un uomo e un trattore per coltivare 12 o 14 di quei campi. È
sufficiente pagarlo con un salario e prendersi tutto il raccolto. Discorso
chiuso. Muley prova a replicare dicendo che per loro è già difficile andare
avanti con quello che prendono adesso: i bambini fanno la fame, sono vestiti di
stracci. Al che l’uomo taglia corto dicendo che lui non ha deciso nulla e sta
solo eseguendo degli ordini. «E allora di chi è la colpa?», chiede un
bracciante. «È della Shawnee Land and Cattle Company» risponde l’uomo. «E chi
è?» replica il contadino. «Nessuno. È una società». Al che il contadino
iniziando a spazientirsi comincia a chiedere a chi debba andare a chiedere
conto di quanto sta succedendo, magari con un fucile. Ma con un regresso
all’infinito le responsabilità scivolano via continuamente: ci sarà pur un
presidente di quella società? Ma gli viene risposto che non è colpa sua. Allora
la colpa è forse della banca che gli dice cosa fare? Ma anche lì le decisioni
vengono prese semplicemente da un direttore, che nemmeno è in grado di stare
dietro a tutte le cose che deve fare. «Dunque a chi spariamo?» chiede uno dei
braccianti; al che l’uomo d’affari replica: «Amico, proprio non lo so. Se lo
sapessi te lo direi. Non lo so di chi è la colpa».
Già, di chi è la colpa per quella disperazione e
quell’ingiustizia? Delle banche? Dell’uomo d’affari che viene a portare la
notizia di sfratto? Del proletario loro amico, che è disperato quanto loro e
che guida il trattore che va a distruggergli la casa per qualche manciata di
dollari all’ora? Chi di loro è il vero volto del capitalismo? Qual
è la causa e il motivo di questo processo che pare così
astratto e impersonale da risultare costantemente opaco? Con chi dobbiamo
prendercela? Questa domanda rappresenta ancor’oggi un rebus politico di
capitale importanza, soprattutto in un’epoca in cui il circuito di produzione
del valore è diventato ormai così stratificato e complesso da rendere
invisibili i centri decisionali reali. Se tutti, dai piccoli caporali ai grandi
manager dei gruppi finanziari internazionali sono solo degliemissari del
capitale, che devono eseguire delle decisioni che vengono prese altrove –
esattamente come l’uomo d’affari di Grapes of Wrath – chi è allora la
causa e il responsabile del capitalismo? Dove sta la sua agency? La
domanda per l’azione politica che vuole trasformare il capitalismo è allora
ancora oggi quella del bracciante delle dust bowls: a chi bisogna puntare
il fucile? Chi è il colpevole?
1. Questa domanda che ci pone l’urgenza di riconoscere
il volto e l’immagine del capitalismo a fronte della molteplicità confusa e
dispersiva del reale è implicitamente il filo rosso che guida l’ultima
Biennale d’Arte di Venezia (in programma fino al 22 Novembre 2015, tutti i
giorni dalle 10 alle 18, escluso il lunedì), curata dal nigeriano Okwni Enwezor
e che era già stata analizzata criticamente su questo sito da
Felice Mometti. Il capitale, per usare le parole del
curatore, «oggi incombe più di qualsiasi altro elemento su ogni sfera
dell’esistenza» e organizza non soltanto «lo stato delle cose» ma anche
«l’apparenza delle cose»: ovvero, come le cose si rendono manifeste e
acquisiscono un volto e diventano un’immagine nel nostro mondo.
È un punto di grande importanza e nient’affatto scontato: il modo di produzione
capitalistico non è solo un principio di organizzazione della struttura
produttiva del mondo, è anche la logica del suo apparire sensibile e concreto. La
sfera dell’estetica dunque, che si sforza di pensare il sensibile, dovrà
necessariamente fare i conti con il capitalismo, la produzione di valore e la
sua logica. Tuttavia qui si pone subito un problema: perché il capitalismo –
come sa bene Muley in Grapes of Wrath quando vuole andare a prendere
a fucilate i responsabili del suo sfratto – non si dà mai a vedere in
quanto tale. Quello che noi quotidianamente abbiamo di fronte agli occhi è una
realtà strutturata come una molteplicità disordinata di particolari: una
miriade di punti di vista che sembrano tutti irrelati gli uni agli altri e che
paiono tutti in competizione l’uno con l’altro. Il capitalismo non è un
particolare tra gli altri. È semmai la logica che sottostà al principio della
loro relazione. È la forma della loro struttura connettiva. Come dice
il geografo David Harvey in una delle istallazioni video in mostra a Venezia (
Kapital
2013 di Isaac Julien) il capitale è come la forza di gravità: non è da
nessuna parte eppure i suoi effetti si vedono ovunque.
Questo problema diventa evidente quando si vuole andare a
cercare l’immagine per eccellenza del capitalismo: ad esempio in
quei documentari politici che pensano che per comprendere lo sfruttamento del
mondo del lavoro basti andare a osservare l’attività lavorativa nella sua
concretezza immediata (cosa che, detto per inciso, in sé fa tutt’altro che
male, come si vede in questa Biennale nel bellissimo video The Guilds and
Unions Film di Joachim Schönfeldt che ci mostra l’attività lavorativa come
un puro dispendio di energia fisica). Il problema non è che andare a vedere
come la gente lavori sia sbagliato: il problema è che per capire la specificità capitalistica dello
sfruttamento del lavoro è necessario andare a vedere anche quello che c’è prima e
che c’è dopo l’attività lavorativa concreta. Bisogna riuscire a
vedere accanto al dispendio di energia fisica anche l’organizzazione della
produzione, il mondo del credito e della finanza che regola le politiche
d’investimento, i mercati azionari, il circuito della logistica, la sfera della
circolazione e il consumo etc. Bisogna vedere tutte queste cose in
una sola immagine. Il capitalismo ci richiedere di cogliere i particolari non
per come sono in sé, ma dal punto di vista del loro tessuto connettivo. Il
problema è che banalmente questo tessuto connettivo non ha un modo di
manifestazione immediato. Non c’è un luogo in particolare in questo
mondo dove lo possiamo andare a vedere con i nostri occhi. Questa immagine
insomma, ce la dobbiamo creare noi tramite una mediazione estetica e sensibile.
Ed è qui che le arti visive e il marxismo entrano in relazione l’una con
l’altra.
2. Nel testo di presentazione firmato da Enwezor che si può
leggere all’ingresso del Padiglione Centrale dei Giardini vediamo citato il
nome del regista sovietico Sergej Ėjzenštejn, che è una figura
fondamentale per comprendere questi problemi relativi alla rappresentazione del
capitalismo. Fu infatti proprio lui, prima di ogni altro, che nel 1928 iniziò a
riflettere sul problema della messa in forma d’immagine del capitale tramite il
progetto di un film – che purtroppo non venne mai portato a termine e che è
arrivato a noi sottoforma di appunti di lavoro – che doveva basarsi proprio sul
libro di Marx. Ėjzenštejn aveva ben in mente che il capitalismo non è un
oggetto che può essere osservato e guardato come se avesse uno statuto di
realtà empirico. La natura del capitalismo è quella di essere il principio
connettivo di una molteplicità di particolari: bisogna quindi mettere insieme
in una stessa immagine la molteplicità degli elementi di cui è composto
(secondo la celebre formula di Ėjzenštejn «il cinema ‘antico’ riprendeva
un’azione da molti punti di vista. Quello nuovo monta un punto di vista da
molte azioni»). Il modo di produzione capitalistico è infatti composto nello
stesso tempo della sfera della produzione agricola e manifatturiera e dei
mercati azionari; del sistema bancario e del circuito della logistica
e dei trasporti; della sfera della circolazione e del consumo e dei
lavori domestici e di cura, etc. Sono capitalistici i broker di Wall Street
come gli ingegneri di Bangalore, i camionisti del polo della logistica di
Piacenza come gli operai della Boeing negli Stati Uniti, le badanti moldave che
si prendono cura degli anziani non autosufficienti come i braccianti agricoli
nordafricani. Il capitale è la coesistenza di tutti questi particolari (o meglio,
di tutti questi spazi) all’interno di una stessa logica. Come possono
allora il cinema o le arti visive dare corpoa ciò che esiste nel
capitalismo senza limitarsi a guardare i singoli particolari irrelati e
separati tra loro?
Secondo Ėjzenštejn la risposta stava nel montaggio
dialettico: un procedimento che attraverso la giustapposizione di immagini
anche molto lontane tra loro, riusciva a «mettere in scena» la loro causalità
non empirica e invisibile. Per lui il cinema sarebbe stato in grado di spiegare
al contadino analfabeta o all’umile operaio come funzionasse lo sfruttamento
del modo di produzione capitalistico senza passare per la faticosa complessità
dell’opera di Marx, attraverso la pura connessione di immagini.
Sebbene questo procedimento non mantenne in definitiva le
promesse che il regista sovietico si augurava, tuttavia il problema estetico
posto da Ėjzenštejn con i suoi appunti su Il Capitale rimane ancora
oggi di grande attualità. È infatti lo stesso problema che si è posto Okwni
Enwezor nel momento in cui si è chiesto quale potesse essere il principio
connettivo che mettesse insieme la molteplicità centrifuga delle forme
estetiche del contemporaneo. Ci si domanda spesso, soprattutto in occasione di
eventi come le biennali d’arte o Manifesta, quale possa essere la chiave di
lettura o il filo rosso che tiene insieme la proliferazione di forme estetica
che caratterizza la contemporaneità: una molteplicità che pare aver perso
qualunque tipo di norma o razionalità, se è vero – come sostiene Fredric
Jameson – che la specificità del tardo capitalismo dopo la crisi del modernismo
è proprio quella di non avere uno stile dominante.
La forma-biennale costringe però a fare ciò che parrebbe
massimamente impossibile: ovvero compiere un’operazione di organizzazione e
di catalogazione dell’arte contemporanea; in altre parole spinge i
curatori a cercare un filo rosso laddove un filo rosso in realtà non c’è.
Enwezor – con un termine molto significativo anche se forse non privo di qualche
ambiguità – ha allora voluto definire la molteplicità di forme artistiche
presenti a Venezia come un «parlamento delle forme». Tuttavia il richiamo alla
democrazia parlamentare, con la sua coesistenza regolamentata di differenze,
rischia di essere ingannevole. La presenza così diffusa di Marx tra i
riferimenti teorici di Enwezor ci suggerisce di adottare un’altra chiave di
lettura, che invece che accettare l’assenza di una qualsivoglia norma estetica
nella molteplicità di oggetti artistici la va a cogliere nel loro tessuto
connettivo invisibile: c’è effettivamente qualche cosa che orchestra
e organizza questa polifonia sensibile. E si chiama capitale.
3. Il riferimento a Marx alla Biennale di Venezia non va
allora letto in termini direttamente politici (tra le opere della mostra di
Enwezor si parla pochissimo di capitalismo contemporaneo) quanto più
prettamente formali. Il problema della molteplicità delle forme che assume il
capitalismo è infatti per Enwezor analogo alla molteplicità di forme e di
immagini che si affastellano nel «modello biennale» stesso, con il suo
tentativo di dare una rappresentazione onnicomprensiva dello stato dell’arte
della contemporaneità. Era infatti questo il punto sul quale si era soffermata
la splendida Biennale del 2013 di Massimiliano Gioni: per quest’ultimo la
riflessione sulla «forma Biennale» era inseparabile dal bisogno
(psicoanaliticamente ossessivo) della catalogazione onnicomprensiva del sapere.
In un gesto meta-curatoriale Gioni si era allora concentrato su tutte quelle
esperienze artistiche e intellettuali che avevano messo al centro il bisogno di
totalizzazione del sapere: cioè la volontà di dire l’ultima parola –
di chiudere il cerchio, di trovare il luogo esterno e fondativo – della
molteplicità delle forme estetiche del reale. Gioni invece che tentare di
trovare lui un filo rosso che razionalizzasse il molteplice artistico
contemporaneo aveva deciso di mettere a tema il bisogno stesso di quella
ricerca.
Il gesto marxiano, o meglio ejzenštejniano, di Enwezor
invece – e sta qui la sua tesi curatoriale forte di quest’edizione – è quello
di vedere il molteplice dal punto di vista della sua impossibile
totalizzazione. Perché quello che il problema della rappresentazione del
capitale insegna al mondo dell’arte è che il molteplice non può mai diventare
un «Uno» ed essere guardato e rappresentato come se fosse un oggetto. Il
capitale è il tutto che organizza e orchestra le miriadi di particolarità che
fanno parte del mondo, ovvero tutte quelle cose che appaiono in
questo mondo e di cui si dovrebbe occupare l’estetica e l’arte. Quello che però
non possiamo fare – noi come spettatori ed Enwezor come curatore – è di pensare
di totalizzarle: perché non esiste il luogo da cui poterle guardare
tutte insieme. Non c’è l’elemento stand-in che segna il cortocircuito
tra la parte e il tutto e che ci indica il punto di vista particolare
che incarna l’universalità del tutto: come in Grapes of Wrath non c’è il responsabile
a cui può essere imputata la colpa dello sfratto e che possiamo andare a
prendere a fucilate. Così non possiamo pensare che sia possibile portare a
termine una catalogazione onnicomprensiva del sapere, come invece pensava
Massimiliano Gioni, perché il capitale è ovunque e in nessun luogo. In un certo
senso non possiamo che guardarlo dall’interno, a partire da
un’irriducibile parzialità. Il problema della rappresentazione del capitalismo
– se lo consideriamo dal punto di vista dell’estetica – è allora un problema
topologico: si tratta di uno sguardo che è sempre interno al proprio
oggetto e che è destinato inevitabilmente a mancare la sua
totalizzazione definitiva.
La prima scelta che allora Enwezor prende per darci l’idea
di questa impossibile totalizzazione è riempire le corderie dell’Arsenale e il
Padiglione Centrale dei Giardini di opere che sono troppo «grandi» o troppo
lunghe per poter essere viste per intero. Va letta in questo modo la decisione
di mettere nell’Arena costruita da David Adjave nel Padiglione Centrale la
performance di lettura pubblica de Il Capitale di Marx – una serie di
attori che lungo tutti i sette mesi di apertura della Biennale si alternano a
leggere per 4 sessioni di 30 minuti ogni giorno i tre volumi del libro di Marx
per intero. Quella che sembrerebbe quanto meno una bizzarria – Il Capitale è
uno dei libri meno adatti in assoluto ad una lettura pubblica – si comprende
invece con il tentativo di far sentire sempre lo spettatore «in mezzo» a
un’opera che gli è impossibile vedere per intero. Sempre nell’Arena vi è anche
un programma di 23 film che riguardano in qualche modo la presenza del
capitalismo al cinema (da Chahine a Chris Marker, da Isaac Julien a
Straub/Huillet, da Charlie Chaplin Ritwik Ghatak) e che vengono proiettati a
rotazione ogni giorno: contando che alcuni di essi durano anche diverse ore è
letteralmente impossibile che uno spettatore abbia la possibilità di vederli
tutti nella loro interezza. Ma anche alle Corderie vi è un’installazione con
tutti i film della carriera di Harun Farocki, così come ai Giardini vi è
un’installazione con 3 schermi dove si può vedere News from Ideological
Antiquity, il lungometraggio di 9 ore (ovvero, più dell’orario di apertura
della biennale stessa) che Alexander Kluge ha dedicato al mancato film di
Ėjzenštejn su Il Capitale.
Ma vi sono anche molte altre opere che mettono a tema la
presenza di un’impossibilità interna e di una mancata totalizzazione del campo
visivo o normativo: come Des Jeux dont j’ignore les règles di
Boris Achour o come il bellissimo S 969 (
lo si può vedere su YouTube)
che ci mostra la soggettiva di Nancy Holt che cammina in una palude e che può
vedere quello che le sta davanti solo attraverso l’obiettivo della macchina da
presa: gli unici riferimenti per l’orientamento sono allora le indicazioni
spesso frammentarie che le dà la voce off di Robert Smithson. Anche qui il tema
è lo sguardo topologico che è interno all’oggetto che deve guardare e che non
riesce mai ad appropriarlo nella sua interezza. Con tutta l’angoscia e il
disorientamento che una condizione del genere provoca.
4. Vi sono due conclusioni che possiamo trarre dalla
Biennale di Enwezor. Innanzitutto c’è da notare come il curatore nigeriano
non abbia in alcun modo provato a fare una riflessione sulla rappresentazione
del capitalismo di oggi. Durante la mostra veneziana non si parla se non
marginalmente del lavoro contemporaneo ed è – forse sorprendentemente – tre le
ultime biennali una delle meno attraversate da temi esplicitamente politici
(anche se vi sono delle eccezioni importanti come la Theory of Justice di
Peter Friedl o come i quadri di Inji Efflatoun). Si tratta invece di una mostra
che attraverso il problema dalla modalità di manifestazione sensibile del
capitalismo che l’opera di Marx, Ėjzenštejn, Kluge, Julien e altri ci pongono,
si domanda se sia ancora possibile oggi ricercare una totalizzazione del
molteplice delle forme sensibili. Vuol dire prendere Marx dal punto di vista
delle conseguenze che può avere nella sfera sensibile. Marx è allora utile
proprio perché attraverso Il Capitale si è posto un problema formale
oltre che politico: qual è il principio connettivo che organizza il molteplice
in dispersione delle merci della modernità?Dopo la crisi del modernismo e delle
avanguardie, dopo l’arte come indistinguibile dalla forma-merce, è ancora possibile
trovare un filo rosso nel molteplice delle forme sensibili? In questo senso la
riflessione di Enwezor si inserisce nel solco delle ultime due biennali di
Massimiliano Gioni e di Bice Curiger perché è anche una riflessione
sull’istituzione biennale stessa e sull’operazione di base che la rende
possibile: ovvero, la totalizzazione del molteplice. Si tratta in un certo
senso un’ulteriore meta-Biennale, con tutti i rischi che un’operazione del
genere comporta.
Uno dei principali è proprio quello di intrappolare la
riflessione di Enwezor in un eterno loop meta-riflessivo. Dato che il problema
di questa Biennale è esattamente il modo con cui si opera una logica connettiva
all’interno del molteplice,finisce per essere una Biennale che parla in
continuazione di se stessa. È questo uno dei rischi principali di chi vuole
tentare costantemente di superare l’immediatezza del particolare per trovare la
sua ragion d’essere invisibile: il particolare sensibile finisce per
essere cancellato. Non è allora forse senza ironia che l’artista che ha vinto
il Leone d’Oro sia stato proprio Adrian Piper, che con Everything Will Be
Taken Away (ma anche con The Probable Trust Registry: The Rules of
the Game #1-3) ha proprio messo in luce il processo di sparizione del
sensibile. Non si può insomma porsi il problema della ragione connettiva del
molteplice in modo puramente astratto, tirandosi fuori dal molteplice stesso.
Così forse non è possibile nemmeno porsi il problema di come il capitale
organizzi l’apparire delle forme sensibili senza partecipare al modo attraverso
cui il capitale oggi concretamente organizza il molteplice nel quale viviamo. Lo
sguardo, come in Swamp di Smithson e Holt, non si muove mai da un
soggetto a un oggetto, ma non può che essere topologico. Ovvero, parziale.