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Lev Vygotskij ✆ 1896-1934
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Felice Cimatti | L’animale
non umano, per Marx «è immediatamente una cosa sola con
la sua attività vitale. Non si distingue da essa. È quella stessa [attività
vitale]» Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844.
1. «La coscienza è un rapporto sociale»
Prendiamo un esempio determinato, un castoro. Per esplicare la sua
‘attività vitale’, ad esempio il costruire dighe sul corso dei fiumi, un
castoro si basa essenzialmente su abilità innate, abilità appunto che non deve
imparare, che non sono fuori di lui. Essere un castoro significa appunto
nascere con un insieme di aspettative e abilità innate. In questo senso se il
costruire dighe è una attività che distingue il castoro dalle altre specie
animali, se questa è la sua essenza animale, allora questa stessa essenza è
presente in modo implicito dentro di lui già alla nascita: l’essenza del
castoro è dentro il castoro, come un chilo di rigatoni sta
dentro la scatola di cartone che lo contiene. Questo non significa che non sia
importante anche l’esperienza né che tutto il comportamento animale sia innato;
il punto è che ciò che l’animale può imparare è vincolato in modo più o meno
rigido dalla sua costituzione biologica innata. Per l’animale non umano,
allora, non vale la frase di Marx dei Manoscritti economico filosofici
del 1844 che abbiamo scelto come titolo, al contrario, qui l’individuo
coincide con l’essere individuale, cioè l’essenza è dentro ogni singolo animale
non umano. Espresso in altro modo, ogni castoro è ogni altro castoro, nel senso
che dovunque ci sia un castoro troveremo più o meno le stesse attività, la
stessa forma di vita, le stesse esperienze.
Per l’animale umano, al contrario, questa identificazione fra essenza e
individuo non vale, perché
«l’uomo fa della sua attività vitale
l’oggetto stesso della sua volontà e
della sua coscienza. Ha
un’attività vitale cosciente. Non c’è una sfera determinata in cui l’uomo
immediatamente si confonda [p. 254]. L’attività vitale cosciente dell’uomo
distingue l’uomo immediatamente dall’attività vitale dell’animale. Proprio
soltanto per questo egli è un essere appartenente ad una specie [Gattungswesen]» [Ivi]
Mentre
per il castoro il costruire una diga sul corso di un fiume è una attività
spontanea e naturale, e infatti nessun castoro adulto gli spiega che è il caso
di costruirla, né tantomeno gli viene in mente di costruire qualche altra
struttura, per l’animale umano ogni attività presuppone una presa di posizione
cosciente rispetto alla propria esistenza. Il castoro, appena è fisicamente in
grado di farlo, comincia ad occuparsi del fiume e della diga; il castoro, cioè,
non deve interrogarsi su quel che c’è da fare, il compito di ogni castoro è già
inscritto nella sua natura; è la selezione naturale che ‘ha pensato’ a quello
che devono fare i castori. L’umano, invece, fin dall’inizio si trova nella
situazione di doversi chiedere che fare, dove farlo e perché farlo, e così,
appunto,
«fa della sua attività vitale
l’oggetto stesso della sua volontà e della sua coscienza»
[Ivi].
Il
castoro è libero di costruire una diga, nel senso che non occorre che qualcuno
lo spinga con la forza a costruirne una,ma non è libero di non costruire una
diga, e invece costruire un ponte. L’umano è libero in questo secondo senso,
ogni volta si trova nella situazione di dovere scegliere fra costruire una diga
o un ponte, o non costruire proprio niente:
«soltanto
per ciò la sua attività è un’attività libera» [Ivi].
Se
ora ci chiediamo qual è la caratteristica distintiva, specie-specifica,
dell’Homo sapiens, ci troviamo di fronte ad un caso molto diverso da quello del
Castor canadensis o del Castor fiber: ci sono esseri umani che costruiscono
dighe, altri invece che costruiscono ponti, però ce ne sono altri che dighe e
ponti invece li distruggono, altri ancora che i fiumi li attraversano a nuoto,
e così via. Ogni corpo umano, alla nascita, può diventare costruttore di dighe
oppure di ponti, ma anche nuotatore e ogni altra attività che può venire in
mente: qui l’essenza umana non coincide con l’individualità di ogni esemplare
della specie Homo sapiens, qui l’essenza della specie umana è nell’insieme
delle attività di questa specie, sia di quelle effettivamente esistenti che di
quelle ancora soltanto possibili.
Ma
c’è di più, perché mentre il castoro – per costruire una diga – deve seguire il
programma innato che è già dentro di sé, per costruire un ponte un umano deve
prima imparare a parlare una lingua, poi deve imparare a progettarlo, poi deve
convincere qualcuno che è in grado di costruirne uno in cemento e acciaio.
Questo signifi ca che l’essenza umana si trova al di fuori del singolo
individuo umano, nell’insieme delle relazioni sociali umane. Non è soltanto che
l’animale umano è un animale fortemente sociale, perché molte altre specie
animali sono fortemente se non più sociali: il punto è che l’umano diventa
umano soltanto al di fuori di sé, nelle relazioni sociali con gli altri umani
[T. Wartenberg, «Species-Being and Human Nature in Marx», 1982].
«L’individuo [umano] è l’essere
sociale», infatti, non un essere sociale. Le sue manifestazioni di vita – anche
se non appaiono nella forma immediata di manifestazioni di vita in comune, cioè
compiute ad un tempo con altri – sono quindi una espressione e una conferma
della vita sociale. La vita individuale dell’uomo e la sua vita come essere appartenente
ad una specie non differiscono fra loro, nonostante che il modo di esistere
della vita individuale sia – e sia necessariamente – un modo più particolare o
più universale della vita dellaspecie [Manoscritti ec-fil. del
1844].
Il caso esemplare di questa situazione, in cui l’essenza si trova non
dentro di sé bensì al proprio esterno, è quello della autocoscienza. Se c’è una
caratteristica distintiva dell’umano, almeno così ci rappresentiamo (non a caso
ci definiamo, come specie animale, Homo sapiens sapiens), è l’autocoscienza,
cioè la capacità di essere coscienti del fatto di essere coscienti. Questa è
l’essenza umana. Ma questa essenza, a sua volta, ha una storia sociale, è una
essenza che entra nel corpo umano dall’esterno, è, come scrive Vygotskij, un
«trapianto […] dall’esterno
all’interno» [Storia dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori, 1930-31].
Un piccolo umano diventa autocosciente quando impara ad usare la lingua
pubblica in modo privato [F. Cimatti, La scimmia che si parla. Linguaggio,
autocoscienza e libertà nell’animale umano, 2000], quando impara a parlare
a se stesso così come gli altri parlano a lui:
"La produzione della vita
[umana], tanto della propria nel lavoro quanto dell’altrui nella procreazione,
appare già in pari tempo come un duplice rapporto: naturale da una parte,
sociale dall’altra, sociale nel senso che si attribuisce a una cooperazione di
più individui [...]. Solo a questo punto [...] troviamo che l’uomo ha anche una
‘coscienza’. Ma anche questa non esiste fin dall’inizio, come ‘pura’ coscienza.
Fin dall’inizio lo ‘spirito’ porta in sé la maledizione di essere ‘infetto’
dalla materia, che si presenta qui sotto forma di strati d’aria agitati, di
suoni, e insomma di linguaggio. Il linguaggio è antico quanto la coscienza, il
linguaggio è la coscienza reale, pratica, che esiste anche per altri uomini e
che dunque è la sola esistente anche per me stesso, e il linguaggio, come la
coscienza, sorge soltanto dal bisogno, dalla necessità di rapporti con altri
uomini. Là dove un rapporto esiste, esso esiste per me [...]. La coscienza è
dunque fin dall’inizio un rapporto sociale e tale resta fintanto che in genere
esistono uomini [Marx, Engels, L’ideologia tedesca].
Se la coscienza è la nostra essenza, allora questa presunta essenza
individuale «è dunque fin dall’inizio un rapporto sociale», cioè è una
paradossale essenza transindividuale, una essenza esterna e diffusa – come
appunto una lingua – fra gli individui. Questa prospettiva non si limita a
sostenere che, per comprendere la psicologia di un essere umano, è importante
anche tenere conto delle sue relazioni sociali e del necessario rapporto che la
mente individuale deve intrattenere con gli strumenti esterni10. In realtà, con
Marx si propone un modo completamente diverso di intendere la mente umana, che
– con molta più coerenza delle scienze cognitive e della cosiddetta grounded
cognition – pone all’origine la nozione di ‘rapporto sociale’.
In effetti è uno strano materialismo quello di chi sostiene che per
naturalizzare la psicologia, cioè per escludere che
«nella
mente esistano componenti riconducibili allo spirito vitale, all’anima
incorporea, ai piani astrali e a qualsiasi altro fattore che non risulti
integrabile nella scienza naturale» [G. Botterill, P. Carruthers, Filosofia
della psicologia,2001, p. 17],
si debba ricondurre tutto il comportamento
umano a quello che succede nella mente individuale, e in prospettiva nel
singolo cervello. In effetti questo curioso e miope naturalismo (che non riesce
a vedere oltre le ossa del cranio) alla fine propone una nuova essenza, il
cervello appunto, che – con le parole di un famoso scienziato cognitivo – crea
il ‘me’ che viene reso pubblico nel mondo sociale […] [ed] è sempre lui che mi
rende capace di condividere la mia vita mentale con gli amici e mi consente, in
tal modo, di creare qualcosa più grande di qualunque cosa saremmo in grado di
fare da soli.
Un naturalismo che per un verso si inventa un nuovo homunculus, il
cervello, che è un doppione nascosto dell’individuo esterno (cambia la parola,
ma fa esattamente tutto quello che un tempo faceva l’anima; non sembra proprio
un grande passo in avanti), per un altro non riesce a scorgere la differenza
esistente fra l’esistenza di un castoro e quella di un essere umano. È il cervello, infatti, che «mi consente […] di
creare qualcosa più grande di qualunque cosa saremmo in grado di fare da soli»:
come nel caso dei castori la vita sociale e alla luce del sole non è che
l’effetto esterno di quella individuale, l’essenza è dentro l’individuo [J.
Tooby, L. Cosmides, «On the Universality of Human Nature and the Uniqueness of
the Individual: The Role of Genetics and Adaptation», in Journal of
Personality, 58, 1990, 1, pp. 17-67].
È infatti l’individualismo cognitivo il marchio di fabbrica del
cognitivismo,e paradossalmente anche del suo antagonista, il comportamentismo
(per il cognitivismo la mente è piena, per il comportamentista la mente è
vuota: sono le due alternative possibili se si presume che la mente sia
un’entità individuale): la mente umana è originariamente una entità autonoma e
indipendente. Così, nelle parole del primo teorico delle scienze cognitive,
cognitivismo significa «la convinzione che, parlando delle attività cognitive
umane, sia necessario parlare di rappresentazioni mentali», che, in
particolare, sono distinte dal «livello […] sociologico o culturale»16. I
contenuti della mente individuale sono quindi ‘rappresentazioni mentali’ che
sono diverse da quelle che si possono trovare al di fuori della mente, nella
società.Un individualismo cognitivo che discende dal modello che è stato alla
base delle scienze cognitive, il calcolatore:
«il computer» infatti «fornisce […]
il modello più promettente del modo in cui funziona la mente umana» H.
Gardner, La nuova Scienza della mente. Storia della rivoluzione cognitiva, tr.
it. di L. Sosio, Feltrinelli, Milano 1994, p. 18.
Un computer è un dispositivo fisicamente distinto, che contiene
programmi e dati. Questo modello dura anche oggi che le scienze cognitive
vengono sempre più criticate perché poco embodied e grounded: in effetti oggi
le neuroscienze mettono, nel posto che nei primi tempi delle scienze cognitive
era occupato dal computer, il cervello. Un cervello è un’entità più biologica
di un computer, ma svolge, in questo quadro teorico, le stesse funzioni che
venti anni fa svolgeva quest’ultimo. Di qui il persistente individualismo
cognitivo delle scienze cognitive. Così oggi come allora vale la scarsa
attenzione teorica (non empirica) per i fenomeni transindividuali, cioè i
fenomeni che si collocano fra i cervelli, e non al loro interno: un
individualismo che impone, perché così impone il modello teorico di fondo, di
mettere fra parentesi certi fattori che possono essere importanti per il
funzionamento cognitivo ma la cui discussione complicherebbe oggi senza
necessità l’impresa della scienza cognitiva. Questi fattori comprendono
l’influenza di fattori emotivi o emozionali, il contributo di fattori storici e
culturali e il ruolo del contesto generale in cui particolari azioni e pensieri
si verificano (cfr. Gardner, La nuova scienza della mente storia della
scienza cognitiva, 1994, p. 18].
Le scienze cognitive dei nostri giorni si occupano proprio di questi
fattori, allora trascurati, ma senza mettere in discussione l’ipoteca
dell’individualismo cognitivo: pertanto si cerca di allargare i confini della
mente individuale, oppure di situare la mente in un corpo, a sua volta immerso
in un particolare ambiente, o ancora si studia come le diverse menti entrano in
rapporto fra loro (è il campo, per citare un caso oggi molto alla moda, dei
cosiddetti neuroni specchio). Una grande attenzione empirica, da cui tuttavia
non si estrae il succo teorico che contiene:non si tratta tanto di ampliare i
confini della mente individuale, quanto piuttosto abbandonare un modello che
impone l’individualismo cognitivo. Non si tratta di sottolineare che sono
importanti anche le relazioni sociali, quanto piuttosto di mettere la nozione
di relazione al centro dello studio della mente umana.
Solo in questo modo si può dare conto del fatto che, per tornare
all’esempio iniziale, le nostre esistenze sono diverse da quelle dei castori,
perché nessuna essenza interna mi costringe a costruire dighe anziché ponti.
Questo naturalismo non sa spiegare questa differenza, ed in realtà nemmeno la
vede. Con Marx, allora, nasce un materialismo della relazione che considera
l’individuo come entità radicalmente sociale: si vede [allora] come la storia
dell’industria e l’esistenza oggettiva già formata dell’industria sia il libro
aperto delle forze essenziali dell’uomo, la psicologia umana, presente ai
nostri occhi in modo sensibile [Marx, Manoscritti economico-filosofici, cit.,
p. 115].
Per studiare la psicologia individuale non è sufficiente cercare dentro
il cervello, lì si trovano neuroni e biochimica, che certo sono necessari per
comprendere la fisiologia umana, ma non per capire in che credono esseri umani,
e perché vivano come vivano, e perché desiderino vivere in modo diverso.Così
«una
psicologia, per la quale sia chiuso questo libro, cioè sia chiusa proprio la
parte della storia più presente e accessibile ai sensi, non può diventare una
scienza effettiva, ricca di contenuto e reale» [Marx, Manoscritti, cit.,
p. 120].
2. Vygotskij e la relazione individuo-società
Chi ha cercato di aprire ‘questo libro’, e quindi di costruire una
psicologia ‘ricca di contenuto e reale’ è stato Lev Semenovic Vygotskij
(1896-1934).
Si tratta di una psicologia che, ponendosi d’un solo colpo al di là
della contrapposizione fra internalismo (oggi le scienze cognitive) ed
esternalismo (le varie e ricorrenti forme di comportamentismo), pone al centro
del suo apparatoteorico la nozione di relazione. Per l’internalismo prima viene
il dentro, l’essenza, il cervello, poi – come aggiunta importante ma non
necessaria – le relazioni sociali. Così un suo inevitabile corollario è
l’innatismo. Per l’esternalismo, al contrario, dentro la mente propriamente non
c’è nulla, e quindi la nozione centrale è quella di apprendimento. Qui è
l’individuo ad essere secondario e accessorio, invece. Per Vygotskij al
contrario si tratta di partire dalla relazione fra l’individuo e la società, e
ricostruire il percorso ontogenetico attraverso il quale si forma l’individuo,
cioè il suo processo di individuazione.
È ciò che sta fra gli individui, nel transindividuale, la natura umana,
e per questo, con Marx, l’umano è un «essere appartenente ad una specie»:
"nella
produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti
determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di
produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro
forze produttive materiali.L’insieme di questi rapporti di produzione
costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla
quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale
corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione
della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e
spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro
essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro
coscienza [Marx, Per la critica dell'economia politica, Ed.
Riuniti, 1974, p. 5].
Questo celebre passo non sostiene che la coscienza individuale non
esista, sostiene che la coscienza – oggigiorno si preferisce parlare di mente,
o di cervello se si vuole essere dei naturalisti integrali – non è il punto di
partenza del percorso di sviluppo individuale; all’inizio ci sono i ‘rapporti
di produzione’, in cui gli esseri umani vivono e pensano, ossia ‘forme
determinate della coscienza sociale’; quindi, su questa base, che è insieme
materiale e trascendentale, si forma la ‘loro coscienza’, la loro
individualità.
L’originale psicologia materialista di Vygotskij, che è materialista
senza essere eliminativista (senza cioè fare a meno della mente individuale),
ma anche senza essere internalista (cioè privilegiando la mente individuale e
innata rispetto alle relazioni sociali), è tutta intorno a questo schema
generale: prima la relazione storico-sociale (prima in senso trascendentale),
poi il processo di individuazione:
«le relazioni fra [le] funzioni
psichiche superiori» della mente individuale, la sua coscienza, «sono state un
tempo relazioni fra persone» [L. S. Vygotskij, Storia
dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori, cit., p. 197]
cioè appunto transindividuali.
All’inizio di questo processo c’è, naturalmente, un corpo di una specie
animale, la specie Homo sapiens, che ha la potenzialità biologica di ricevere
il ‘trapianto’ delle relazioni sociali esterne. Un corpo di un animale della
specie Castor fiber non ha questa predisposizione. Ma appunto, si tratta di una
predisposizione, che di per sé non predetermina lo sviluppo successivo. Tutto
il modello basato sulla nozione di transindividuale esclude che esista qualcosa
come una essenza interna che debba poi soltanto maturare e riversarsi
all’esterno. La precondizione per lo sviluppo di una individualità umana è
allora
«la presenza degli organi e delle
funzioni peculiari dell’uomo. L’acquisizione dei valori della civiltà da parte
del bambino è condizionata alla maturazione delle funzioni e degli apparati
corrispondenti. A un determinato stadio del suo sviluppo biologico il bambino
apprende l’uso della lingua, se il suo cervello e l’apparato fonatorio si
sviluppano normalmente» [Ivi].
Sulla biologia dell’animale umano Vygotskij non si concentra
ulteriormente, proprio perché quella biologia – di per sé – è una condizione
necessaria ma non sufficiente a formare un individuo umano:
"come nel processo dello
sviluppo storico l’uomo modifica non i propri organi naturali, ma i propri
strumenti, così nel processo dello sviluppo psicologico l’uomo perfeziona il
funzionamento del suo intelletto principalmente mediante lo sviluppo di
particolari ‘mezzi ausiliari’ tecnici di pensiero e di comportamento. La storia
della memoria umana non può essere compresa senza la storia della scrittura,
così come la storia del pensiero umano senza la storia del linguaggio. Basta
solo ricordare la natura e l’origine sociali di qualsiasi segno culturale per
capire che lo sviluppo psicologico, esaminato da questo punto di vista, è
essenzialmente sociale, condizionato dall’ambiente. Esso entra a far parte del
contesto di tutto lo sviluppo sociale e si rivela come sua parte organica
[L.S. Vygotskij, A. Lurija, La scimmia, l’uomo primitivo, il bambino.
Studi sulla storia del comportamento, 1934, trad. it. 1987, p. 6].
Accanto ed insieme allo sviluppo biologico, quello in cui opera la
selezione naturale, si affianca, nel caso dell’animale umano, quello culturale.
Qui è ancora più evidente l’originalità del lavoro di Vygotskij, per il
qualenon si tratta di aggiungere, dopo una prima fase di sviluppo
esclusivamente biologica, una sorta di completamento o aggiunta culturale. Per
Vygotskij fin dall’inizio lo sviluppo organico si intreccia a quello
socio-culturale, che quindi è ‘parte organica’ dello sviluppo dell’individuo.
Le relazioni sociali contribuiscono a formare lo stesso corpo dell’animale
umano, la sua fisiologia come la sua psicologia. Così il corpo impara una particolare andatura
bipede [K Adolph, Learning in the Development of Infant Locomotion, Monographs
of the Society for Research in Child Development, 1997, serial number No. 251,
vol. 62, n. 3.27], ciò che comporta ristrutturazioni radicali del suo sistema
scheletrico e muscolare, impara a parlare, e quindi a controllare, sviluppare e
modificare le parti del corpo implicate nella produzione materiale dei suoni
linguistic [P. Kuhl, «A New View of Language Acquisition», in Proceedings of
the National Academy of Sciences, 97, 2000, (22), pp. 11850-11857] oppure dei
gesti comunicativi, impara a controllare il proprio stesso comportamento, a
prestare attenzione alla propria attenzione:
«sul piano della filogenesi […] tali
funzioni si sono formate non come il prodotto dell’evoluzione biologica ma per
lo sviluppo storico del comportamento» [L.S. Vygotskij, A. Lurija, Strumento
e segno nello sviluppo del bambino, cit., p. 60]
"nel sistema delle categorie
psicologiche rientrano anche le forme simboliche esterne di attività come le
relazioni verbali, la lettura, la scrittura, il calcolo e il disegno. Di solito
questi processi sono considerati estranei e secondari rispetto ai processi
psichici interni, ma dal nuovo punto di vista da cui partiamo vengono inclusi
nel sistema delle relazioni psichiche superiori come equivalenti a tutti gli
altri processi psichici superiori. Tendiamo a considerarli anzitutto come forme
particolari di comportamento, che si costituiscono durante lo sviluppo
socio-culturale del bambino e rappresentano una linea esterna di sviluppo
dell’attività simbolica, accanto alla linea interna che rappresenta lo sviluppo
culturale di formazioni come l’intelligenza pratica, la percezione e la
memoria" [L.S. Vygotskij, A. Lurija, Strumento e segno nello sviluppo
del bambino, trad. it. 1997, p. 60].
La psicologia tradizionale, al cui interno rientrano ancora e pienamente
anche le scienze cognitive, è sostanzialmente dualista, nel senso che separa
(per come si forma, oppure per il modo di funzionare) la mente individuale
dalle relazioni che può intrattenere con il suo ambiente (questo vale anche per
la teoria della cosiddetta extended mind di Clark [Cfr. A. Clark, Natural-Born
Cyborgs. Minds, Technologies, and the Future of Human Intelligence] che è
una mente individuale che viene appunto estesa, che si avventura all’esterno
del cranio; questo è un cognitivismo ammorbidito, ma che non mette in
discussione l’individualismo originario del paradigma). Anche lo psicologo
eliminativista, cioè chi sostiene che il campo del mentale in realtà non
esiste, distingue un interno – che per lui si identifica con il cervello – da
un esterno, le relazioni fra quel corpo/cervello con il resto del mondo. In
effetti si può essere dualisti anche se al posto dell’animaincorporea si mette
un cervello materiale: è un dualismo che privilegia l’interno rispetto
all’esterno, il dentro rispetto al fuori. La mossa innovatrice della teoria di
Vygotskij, che generalizza la prospettiva di Marx, è invece di collocare
all’inizio la relazione fra corpo/mente e società; qui nasce la psicologia,
questo è il primo e fondamentale elemento di una teoria effettivamente
materialistica della mente umana:
"dire che un processo è
‘esterno’ equivale a dire che è ‘sociale’. Ogni funzione psichica superiore è
stata esterna perché è stata sociale prima ancora che interiore e psichica, è
stata cioè originariamente un rapporto sociale tra due persone. Il mezzo per
esercitare un’azione su se stessi è inizialmente un mezzo per esercitare
un’azione sugli altri, o un mezzo che gli altri adoperano per esercitare
un’azione sulla persona [L.S., Storia delle funzioni
superiori .. p. 32]. comunicare"
Allo stesso tempo è un materialismo che tiene conto dei fenomeni umani,
e parte appunto da ciò che è immediatamente evidente, le concrete azioni degli
esseri umani, come parlare, ricordare, afferrare un oggetto, lavorare, prestare
attenzione ad un dettaglio visivo, e così via.È un materialismo che, come ogni
materialismo, è tutto alla luce del sole, che non invoca entità invisibili, che
non moltiplica gli enti oltre quelli assolutamente necessari. Così, invece di
immaginare una inaccessibile vita interiore e originaria, è un materialismo che
considera le attività mentali interne come l’uso per sé di prassi un tempo
pubbliche.
Lo schema generale del processo di individuazione, per Vygotskij, è
quindi del tutto diverso sia da quello delle scienze cognitive che da quello
del loro antagonista, ilcomportamentismo. Per quest’ultimo la mente umana è
originariamente vuota, e viene riempita dagli stimoli esterni. Qui c’è solo
l’esterno, e l’interno non è che un sottoprodotto dell’esterno. La principale
conseguenza teorica di questo approccio è che per il comportamentismo
l’esistenza della mente individuale è del tutto inspiegabile (se non nel senso
impoverito e vuoto di riflesso interno di uno stimolo esterno).
Al contrario, per le scienze cognitive, la mente è piena di contenuti e
abilità innate, che poi vengono in parte trasmessi all’esterno, ad esempio
mediante la comunicazione linguistica. Qui il problema, teoricamente insolubile
(perché è una conseguenza necessaria del pregiudizio individualistico di questo
approccio), è invece l’esistenza delle altre menti: della mia sono certo, ma di
quella altrui no, perché non posso entrare nella loro mente.
Vygotskij rifiuta entrambe queste alternative: all’inizio c’è la
relazione sociale, il rapporto fra esseri umani, ed in particolare c’è un
piccolo della specie Homo sapiens che comincia il suo percorso di
individuazione. All’inizio sono gli adulti, cioè appunto delle relazioni
sociali incarnate, che si prendono cura di lui, lo accudiscono, gli parlano,
gli insegnano – dapprima in modo implicito poi anche in modo esplicito – come
agire, come muovere il corpo, come provare emozioni. Poi, lentamente, il
piccolo della specie umana comincia ad usare su di e per sé quello che gli
altri, prima, avevano fatto con lui:
«ogni funzione nel corso dello
sviluppo culturale del bambino fa la sua apparizione due volte, su due piani
diversi, prima su quello sociale, poi su quello psicologico, dapprima fra le
persone, come categoria interpsichica, poi all’interno del bambino, come
categoria intrapsichica» [L. S. Vygotskij, Storia
delle funzioni superiori, p. 201].
3. Dal transindividuale all’individuo
Proviamo a seguire questo processo con un esempio determinato, la storia
naturale(che è insieme storia ma anche naturale) del gesto con cui il bambino
impara ad indicare ad un altro qualcosa che ha attirato la sua attenzione. Si
tratta intanto di sgombrare il campo di ogni presupposizione mentalista.
All’inizio c’è una operazione automatica: lo sguardo del bambino è attirato da
qualcosa, e quindi, naturalmente, prova ad afferrare ciò che l’ha interessato:
«il gesto dell’indicazione», allora,
«rappresenta originariamente un semplice movimento incompiuto volto ad
afferrare l’oggetto, e che sta appunto a indicare l’azione. Il bambino tenta di
afferrare un oggetto che è collocato troppo lontano, le sue mani sono protese
verso l’oggetto, e restano sospese nell’aria, le dita compiono movimenti di
presa: tale situazione è punto di partenza per ogni successivo sviluppo» [[L.
S. Vygotskij, Storia delle funzioni superiori, p. 199].
All’inizio – come vale per ogni materialismo – c’è l’azione. In questo
caso un’azione trainata dalla percezione. Qui non c’è nessuna intenzione
comunicativa, c’è un riflesso scatenato dalla vista di un oggetto interessante.
Propriamente, proprio perché si tratta di un riflesso, non c’è nemmeno
pensiero. Quel gesto, però, accade in un contesto transindividuale, perché ci
sono delle persone presenti, anche se il gesto del piccolo umano non era
diretto a loro.
Infatti
«la madre giunge in aiuto del bambino
e concettualizza il suo movimento come un’indicazione»
[Ivi].
L’intenzione, che non è nel gesto del bambino, che in realtà è un atto
incompiuto, viene attribuita al bambino dalla madre. È la madre che vede in
quel movimento uno scopo, raggiungere l’oggetto, e che quindi lo trasforma in
azione mirata, in segnale per attirare la sua attenzione: così ora
«la
situazione muta completamente. Il gesto dell’indicazione» – in realtà ancora
soltanto supposta – «diventa un gesto per gli altri».
È allora il contesto transindividuale a trasformare un riflesso in un
gesto, in un segnale comunicativo, in una indicazione. A questo punto la
reazione della madre si riflette sul comportamento del bambino, che ora scopre
che quel movimento può assumere tutt’altro valore. Qui vediamo il congiungersi
della linea di sviluppo naturale – l’oggetto che attira lo sguardo e
l’immediato tentativo di afferrarlo – con quella culturale, cioè con
l’attribuzione di un valore comunicativo da parte di un altro essere umano:
così il suo gesto
«viene ricollegato dal bambino con
tutta la situazione oggettiva» e quindi lo stesso bambino «comincia a
considerare questo stesso movimento come un’indicazione. Avviene così una
modifi cazione della funzione del movimento stesso: da movimento rivolto
verso l’oggetto diventa movimento rivolto verso un’altra persona attraverso un
mezzo di comunicazione: la prensione si trasforma in indicazione».
Si parte dalla relazione sociale, a cui in realtà uno dei due
partecipanti non sa, ancora, di partecipare; ne basta uno, purché anche l’altro
sia capace di accorgersi del comportamento altrui. Dal transindividuale emerge
l’individuo, perché alla fine «il bambino giunge […] alla consapevolezza del
proprio gesto» [Ivi, p. 200].
Prima allora la relazione ‘interpsichica’, cioè appunto il
transindividuale, poi quella ‘intrapsichica’, cioè quella mentale individuale.
L’operatore storico-sociale della individuazione, l’operatore che media fra
questi due momenti è la‘interiorizzazione’, cioè la «ricostruzione interna di
una operazione esterna»[L. S. Vygotskij, Il processo cognitivo, trad. it. 1978,
p. 86] sociale. Fin dall’inizio in questo modello prevale il rapporto fra
esseri umani, la relazione sociale. È la prima mossa del materialismo di
Vygotskij, partire dalla realtà dei fenomeni umani. In effetti se è la mente
umana che si sta studiando, non si vede da quali altri fenomeni bisognerebbe
partire. Il curioso materialismo delle scienze cognitive pretende invece di
risalire alle condizioni non umane dell’umanità.
Ora, è un materialismo affatto peculiare, questo, che per studiare un fenomeno
umano comincia collocandosi al di qua dell’umano; a questo materialismo Marx
ribatte mostrando il carattere intrinsecamente paradossale di questa stessa
domanda:
«quando tu ti poni la domanda intorno
alla creazione dell’uomo e della natura, fai astrazione dell’uomo e della
natura. Tu li poni come non esistenti, eppure vuoi che te li provi come
esistenti» [Marx, Manoscritti, cit., p. 119].
Il materialismo di Vygotskij cerca allora di tenere insieme i due
elementi, quello naturale e quello storico, che il materialismo delle scienze
cognitive tiene invece separati: da un lato c’è il processo per cui «l’uomo è
debitore della sua esistenza anche fisicamente all’uomo» [ibidem]; dall’altro
lato presta però anche «attenzione al movimento circolare […] in base al quale
l’uomo nella generazione riproduce se stesso, e l’uomo rimane quindi sempre
soggetto» [ibid]. Il materialismo storico consiste in questi due movimenti
congiunti. Così il piccolo umano, che nasce come esemplare della specie
animaleHomo sapiens, come esito temporaneo di un lungo e intricato processo di
evoluzione naturale, diventa umano quando viene accolto in una comunità umana:
qui, introiettando al suo interno le particolari relazioni sociali del suo
ambiente – lingua, tradizioni, prassi collettive, modi di fare, gesti
consuetudinari ecc. – sviluppa le ‘funzioni psichiche superiori’, che possono
anche essere definite le funzioni storico-sociali della sua mente (questo
processo si riproduce anche a livello cerebrale, ovviamente, perché certe potenzialità
cognitive sono il risultato di una ristrutturazione sociale e storica delle
stesse strutture cerebrali).
L’individuo si forma all’incrocio fra le potenzialità naturali e le
forme storico-sociali che effettivamente incontradurante il suo sviluppo [Vygotskij
(1930), The Vygotskij Reader, 1994, p. 201], così «il risultato principale
della storia dello sviluppo culturale del bambino» è «la sociogenesi delle
forme superiori di comportamento» [L.S. Vygotskij, Storia delle
funzioni psichiche superiori, cit. p. 201].
4. Il ‘pensiero verbale’
Il prototipo di tutte le operazioni di ‘interiorizzazione’ è quella in
cui la lingua del proprio ambiente sociale diventa il principale sostegno
cognitivo del pensiero individuale. All’inizio del processo di individuazione,
scrive Vygotskij, nella mente del bambino, come in quella di ogni altro animale
non umano, il pensiero (evidentemente non linguistico) e le forme naturali di
espressione sono separate, infatti
«il pensiero e il linguaggio hanno
radici genetiche completamente diverse» [L.S. Vygotskij, Pensiero e
linguaggio,1934, trad. it. 1992, p. 95.
Il punto di svolta nell’ontogenesi della mente individuale è quando
queste due distinte linee evolutive si incontrano e danno vita ad un nuovo
sistema storico-naturale, quell’intreccio che Vygotskij definisce ‘pensiero
verbale’, in cui
«il linguaggio diventa intellettivo e
il pensiero diventa verbale» [Ivi, p. 111].
Ancora una volta è da ribadire l’originalità di questa formazione. La
discussione sul tema dei rapporti fra linguaggio e pensiero oscilla fra chi
sostiene la priorità e indipendenza del pensiero dal linguaggio (a lungo la
posizione delle scienze cognitive), e chi invece sostiene la priorità del
linguaggio sul pensiero. In questa forma si tratta di una contrapposizione
ormai sterile.Vygotskij sposta la discussione sul piano dello sviluppo ad uno
stesso tempo biologico e culturale dell’animale umano: non si tratta di
affermare la priorità dell’uno o dell’altro elemento, bensì di vedere come dal
loro incontro si formi una nuova forma di attività cognitiva.
Il ‘pensiero verbale’, infatti, più che un modo di comunicare è un modo
nuovo di organizzare l’esperienza, interna ed esterna, da parte degli animali
della specie biologica Homo sapiens. È una operazione naturale perché solo la
nostra specie è predisposta in modo innato per l’incontro fra pensiero e
linguaggio; è una operazione storico-culturale perché questo incontro avviene
fra una dotazione biologica universale e una lingua particolare. Così il
‘pensiero verbale’ è allo stesso tempo un modo di stabilire relazioni
linguistiche con i propri simili ma anche se non soprattutto un modo di
organizzare il proprio pensiero. La tappa intermedia dello sviluppo di questa
particolare forma di azione linguistica è il cosiddetto ‘linguaggio
egocentrico’, che il bambino usa parlando ad alta voce in assenza di
interlocutori: qui il parlare non ha uno scopo comunicativo, appunto perché non
si parla a nessuno, bensì è la prima forma di auto-organizzazione del proprio
comportamento da parte del bambino.
Fino a quel momento erano stati gli adulti a guidare le sue azioni, ora
che gli adulti non ci sono il bambino comincia ad usare le forme linguistiche
che ha ascoltato da loro per imparare a controllarsi anche da solo:
«il linguaggio egocentrico appare
sulla base di un percorso sociale, quando il bambino trasferisce le forme
sociali di comportamento, le forme di collaborazione collettiva nella sfera
delle funzioni psicologiche personali» [L.S. Vygotskij, Pensiero e
linguaggio, cit., p. 58].
L’esito finale di questo processo di sviluppo è il ‘linguaggio interno’,
cioè appunto il ‘pensiero verbale’, il pensiero che fa tutt’uno con le parole
di una lingua e che non richiede più di essere espressamente articolato: qui
«il pensiero non si esprime nella
parola, ma si realizza nella parola» [Ivi, p. 334].
Lo schema complessivo dello sviluppo individuale delle funzioni
psichiche superiori è quindi, per Vygotskij,
«linguaggio sociale – linguaggio
egocentrico – linguaggio interno» [Ivi, p. 59].
Con il ‘linguaggio interno’ diventa possibile lo sviluppo delle funzioni
psichiche superiori, che sono tutte forme diverse di ‘autocontrollo’, in
particolare ‘l’intenzionalità’ e la ‘volontà’ [ibidem]. Qui si coglie la
distanza radicale fra l’impostazione di Vygotskij e anche le forme più avanzate
del cognitivismo contemporaneo. Per Tomasello, ad esempio, le relazioni
culturali sono possibili perché nella mente umana esisterebbe un dispositivo
innato per la joint attention, che permetterebbe di cogliere le intenzioni
altrui. Per Tomasello, allora – e qui svela fino in fondo la sua fedeltà al
paradigma delle scienze cognitive, cioè il suo individualismo cognitivo –
esiste nella mente umana la capacità innata degli esseri umani «di comprendere
i conspecifici come esseri simili a loro stessi, con vite intenzionali e
mentali simili alla propria» [M. Tomasello, Le origini culturali della
ognizione umana, p. 23]. Il punto di partenza di questa impostazione è una
forma di autocoscienza originaria, come appunto pensava il fondatore moderno
del dualismo, Cartesio. Così il piccolo umano – quando ancora non è capace
nemmeno di tenersi in piedi, tantomeno di dire una parola, in realtà nemmeno di
chiudere bene la bocca quando viene imboccato – sarebbe però capace di
«mettersi nei ‘panni mentali’ degli altri» [ivi, p. 24].
Qui Tomasello ci sta implicitamente dicendo che nel mondo naturale
esistono, oltre alle carote e ai contratti over the counter, anche le
intenzioni, e che per di più i piccoli umani riescono anche a vederle, forse
come i fedeli vedono le lacrime delle statue della madonna. Ora tutto questo,
per Tomasello, sarebbe una forma di naturalismo. In realtà qui si mostra
chiaramente il vicolo cieco a cui conduce l’individualismo cognitivo che caratterizza
in modo strutturale il modello delle scienze cognitive. Dovrebbe anche essere
evidente allora la novità della impostazione di Vygotskij, che muovendo dal
transindividuale, dalle relazioni sociali, dalle funzioni ‘interpsichiche’
arriva a quelle ‘intrapsichiche’. La ‘volontà’, in questo processo, non è il
punto di partenza dello sviluppo individuale, al contrario, è l’esito finale di
un processo storico-sociale di progressiva liberazione della mente umana dai
vincoli che il nesso ambiente-percezione esercita sulla mente naturale.
La selezione naturale ha infatti guidato lo sviluppo di un apparato
cognitivo prontissimo a reagire agli stimoli ambientali; in questo senso la
mente animale è guidata dalla percezione, il pensiero è subordinato all’azione,
il ricordo all’occasione che lo evoca. Con la nascita del ‘pensiero verbale’,
invece, il piccolo umano rovescia questa situazione: imparando, attraverso il
‘linguaggio interno’, a controllare il proprio comportamento, impara di fatto a
controllare la propria stessa attenzione. Ora i rapporti fra percezione e
pensiero si ribaltano: non occorre più percepire uno stimolo esterno per
concentrare su di esso la nostra attenzione. Diventa ora possibile pensare a
ciò che non si percepisce:
"grazie all’azione pianificatrice
del linguaggio, diretta alla propria attività, il bambino crea accanto ad una
serie di stimoli, che gli provengono dall’ambiente, una seconda serie di
stimoli ausiliari che si frappongono fra lui e l’ambiente e dirigono il suo
comportamento. Proprio per questa seconda serie di stimoli, formatasi mediante
il linguaggio, il comportamento del bambino si eleva ad un livello più alto,
acquisendo una relativa libertà dalla situazione che attrae direttamente, e i
tentativi impulsivi vengono trasformati in un comportamento pianifi cato e
organizzato [L.S. Vygotskij, A. Lurija, cit., p. 26].
La ‘volontà’, in questa prospettiva, non è affatto – come nelle scienze
cognitive – originaria, non è la premessa nascosta di una cattivo naturalismo,
che presuppone proprio ciò che più dovrebbe spiegare; non è nemmeno, però,
esclusa, come accade in tutte le impostazione speculari e contrarie, cioè in
tutte le varie forme di comportamentismo ed eliminativismo.
La mente individuale è il punto di arrivo di un processo di emancipazione
dalle condizioni naturali, ma anche da tutte le relazioni storico-sociali che
si presentano di fronte all’individuo come se fossero naturali [L.S. Vygotskij,
The Vygotsky Reader]. L’individuo non è la premessa della relazione, è il suo
effetto. Il transindividuale prende infine forma concreta e storica
nell’individuo: il segno, che si trova al di fuori dell’organismo, ed è, come
lo strumento, separato dalla persona, è sostanzialmente un organo collettivo, o
uno strumento sociale. Potremmo ulteriormente dire che tutte le funzioni
superiori non si sono venute costituendo nell’ambito della biologia, e neppure
semplicemente della sola filogenesi, ma che il meccanismo che sta a loro
fondamento è il calco di quello sociale. Tutte le funzioni psichiche superiori
rappresentano delle relazioni sociali interiorizzate, il fondamento della
struttura sociale della persona [L. S. Vygotskij,Storia delle funzioni
psichiche superiori, p. 201].
5. Individuazione e transindividuale
Questa immagine dell’umano contiene anche una potenzialità politica,
come peraltro era evidente anche allo stesso Vygotskij. L’individuo è l’esito
finale, ma non definitivo, di un processo di individuazione. Non definitivo
perché il transindividuale, come ci ricorda Simondon, eccede sempre
l’individuo, perché
«il vivente serba in sé una
permanente attività di individuazione» [G. Simondon, L’individuation
psychique etcollective. À la lumiere des notions de Forme, Information,
Potentiel, Métastabilité, 1989, trad. it. p. 30]
Nella teoria di Vygotskij è quindi implicita una carica dinamica,
proprio perché l’individuazione non è mai compiuta una volta per tutte, perché
il transindividuale è sempre più denso e ricco di ogni individuo, che, al
contrario, è come una mancanza che cerca sempre nuove individuazioni, sempre
nuove determinazioni. Si stabilisce così un rapporto fra la ricchezza sociale e
quella individuale, fra le potenzialità sociali – che peraltro lo stesso
individuo contribuisce a creare – e le loro concrete realizzazioni individuali.
Il nesso è evidente rispetto alla creatività individuale.
Coerentemente con la sua impostazione generale, che vede sempre
l’individuo come individuazione, come esito di un processo di
‘interiorizzazione’ delle risorse sociali, per Vygotskij la creatività non è
originaria, non nasce con l’individuo. Al contrario,
«l’immaginazione costruisce sempre
con materiali forniti dalla realtà» [L. S. Vygotskij, 1930, Immaginazione
e creatività infantile, p. 29].
L’individuo ricco – in senso umano – è l’individuo che ha vissuto
esperienze diverse e che ha saputo assimilarle; è l’individuo che è riuscito a
rimanere in contatto con il transindividuale, cioè con la ricchezza sociale:
l’attività creatrice dell’immaginazione è in diretta dipendenza dalla ricchezza
e varietà della precedente esperienza dell’individuo, per il fatto che questa
esperienza è quella che fornisce il materiale di cui si compongono le
costruzioni della fantasia. Quanto più ricca sarà l’esperienza dell’individuo
tanto più abbondante sarà il materiale di cui la sua immaginazione potrà
disporre. Ecco perché nel bambino l’immaginazione è più povera che nell’adulto:
la cosa si spiega con la maggiore povertà della sua esperienza [Ivi, p. 29-30].
Il tema politico connesso a quello della individuazione psicologica è
allora quello della «dilatazione della sua esperienza»[Ibidem]. Una
‘dilatazione’ che non è un accessorio, un dono capriccioso che ad alcuni
individui è concesso e ad altri no.Se l’umano coincide con il processo di
individuazione, di ‘interiorizzazione’ del transindividuale, allora ogni
sistema sociale che blocchi questo processo letteralmente si frappone alla
costruzione degli individui, perché
«l’immaginazione si dimostra una
condizione assolutamente indispensabile di tutte le attività intellettuali
dell’uomo» [Ivi, p. 33].
Proprio perché è transindividuale la ricchezza sociale non può essere
proprietà privata di qualcuno, non può cioè essere sottratta a quell’‘essere
sociale’ che è l’essenza umana. Quando qualcuno si appropria del
transindividuale letteralmente si appropria di una potenzialità di esperienza
umana; e così è l’intera essenza umana ad esserne sminuita. Il tema politico
che pone la questione del transindividuale è quindi quello della sua completa
accessibilità umana:
"soltanto attraverso l’intero
svolgimento oggettivo della ricchezza dell’essere umano, viene in parte
educata, in parte prodotta la ricchezza della sensibilità soggettiva dell’uomo,
e parimenti un orecchio per la musica, un occhio per la bellezza della forma,
in breve i soli sensi capaci di un godimento umano, quei sensi che si
confermano come forze essenziali dell’uomo. Infatti non solo i cinque sensi, ma
anche i cosiddetti sensi spirituali, i sensi pratici (il volere, l’amore ecc.),
in una parola il senso umano, l’umanità dei sensi, si formano soltanto
attraverso l’esistenza dell’oggettoloro proprio, attraverso la natura
umanizzata.L’educazione dei cinque sensi è un’opera di tutta la storia del
mondo fino ad oggi […] e così la società già formata produce l’uomo in tutta
questa ricchezza del suo essere, produce l’uomo ricco e profondamentesensibile
a tutto come sua stabile realtà [K. Marx, Manoscritti
economico-filosofici, cit., pp. 114-115]