“Per riassumere: nello stato attuale della società, che
cosa è dunque il libero scambio? È la libertà del capitale. quando avrete
lasciato cadere quei pochi ostacoli nazionali che raffrenano ancora la marcia
del capitale, non avrete fatto che dare via libera alla sua attività. […] Il
risultato sarà che l’opposizione fra le due classi [capitalisti e lavoratori
salariati, n.d.a.] si delineerà più nettamente ancora. […] signori, non vi
lasciate suggestionare dalla parola astratta di libertà. Libertà di chi? non è
la libertà di un singolo individuo di fronte a un altro individuo. È la libertà
che ha il capitale di schiacciare il lavoratore.” | Karl Marx, Discorso sulla
questione del libero scambio, pronunciato il 9 gennaio 1848 all’Associazione
democratica di Bruxelles.
Giovanna Cracco | Ci
sono parole che fanno la loro comparsa nei ristretti circoli economici, migrano
nei discorsi politici e vengono infine proposte e riproposte dai mass media
fino a farle diventare parte del lessico comune dei cittadini; ma ogni
passaggio le semplifica, le riveste con l’abito adatto allo scopo e
all’occasione. Così, i primi utilizzatori sono e restano ben consapevoli del
loro nudo significato, gli ultimi ne hanno appena una vaga idea. E quando il
tempo sbiadisce i lustrini e lacera
il vestito, quando presenta il conto, gli
ultimi si ritrovano a non capire per cosa pagano. Ed è ben difficile contestare
il risultato di una somma quando non si è in grado di fare le addizioni
.
Che cos’è la ‘globalizzazione’?
Cala sull’immaginario collettivo, colonizzandolo, negli anni novanta,
presentata come un processo positivo: il crollo dell’urss, la fine della guerra
fredda, il mondo che progressivamente si unisce; informazione globale, diritti
globali, democrazia e sviluppo economico per tutte le popolazioni del pianeta;
un fenomeno naturale, spinto da un duplice
progresso dell’umanità, tecnologico e ideale.
Il movimento no-global, per
quanto tutt’altro che omogeneo dal punto di vista politico, è l’unica realtà
che si oppone alla nuova ideologia: compare a seattle, nel 1999, e contesta la
terza conferenza della World trade orga-nization (Wto). La protesta ha una
forte eco mediatica, e il movimento cresce. nel 2001 si presenta al Forum
economico mondiale di Davos, al Global forum di napoli ed esplode al G8 di
Genova, dove la violenza della repressione istituzionale – che già nelle precedenti
occasioni si era ben espressa – tocca il suo apice: pestaggi per le strade, un
morto, Carlo Giuliani, l’irruzione alla scuola Diaz e le violenze alla caserma
Bolzaneto. Due mesi dopo, l’11 settembre 2001, inizia una nuova era: “se
l’anticomunismo vi era piaciuto, l’anti-isla-mismo vi entusiasmerà!”, scrive
Ignacio Ramonet nel numero di ottobre di Le monde diplomatique, in una straordinaria sintesi. Le proteste no-global proseguono
negli anni – per quanto ridimensionate, la ‘lezione’ di Genova ha raggiunto il
suo scopo e solo lo zoccolo duro del movimento è disposto a scendere ancora in piazza
nella certezza di prendere ogni volta bastonate – ma l’informazione ufficiale,
quella che fa da cassa di risonanza al potere politico ed economico e crea,
indirizza e manipola l’opinione pubblica, vi dedica al massimo qualche riga
nelle pagine interne, mentre si prepara a seguire la guerra in Afghanistan,
quella in Iraq e si specializza nello ‘scontro di civiltà’; i cittadini
occidentali tremano di fronte al nuovo nemico, il ‘terrorista’ islamico, e la
globalizzazione non è più oggetto di discussione.
Ed è così che oggi, davanti al
conto da pagare, i vari indignados, disoccupati, precari,
cassaintegrati, pensionati e piccoli imprenditori ingrossano le fila di
proteste vuote (“Tutti a casa!”) incapaci di comprendere, e dunque di produrre
un pensiero in grado di scardinare, i meccanismi economici che li stanno sempre
più impoverendo e sfruttando.
Il processo di globalizzazione
non ha alcunché di ‘naturale’. O meglio: è naturale per il sistema produttivo
capitalistico, nella sua attuale espressione neoliberista.
Sinteticamente, il profitto
matura nella fase di produzione, nella dinamica di sfruttamento del lavoro – è
la quota di lavoro non pagato che il capitalista incorpora – ma si realizza
solo nella fase di vendita della merce; ne consegue che il Capitale necessita
di un miglioramento continuo di ‘produttività’ per reggere la competizione della concorrenza e di un mercato in
grado di assorbire le merci prodotte. Al primo bisogno risponde con la
tecnologia e cercando di diminuire il costo del lavoro, ma l’azione innesca la
contraddizione tipica del capitalismo: da una parte, l’aumento proporzionale
del capitale fisso (macchinari, tecnologia ecc.) sul capitale variabile
(lavoro) diminuisce il saggio di profitto, dall’altra si traduce in
disoccupazione e perdita della capacità di acquisto del lavoratore, con
conseguente calo dei consumi e dunque restrizione del mercato; e, non ultimo,
confitto sociale. ma se il Capitale è messo nella condizione di liberamente
circolare, potrà spostare la produzione nei Paesi a basso costo del lavoro –
mantenendo così inalterato il meccanismo di estorsione di pluslavoro – e se le
merci sono soggette a minimi o del tutto assenti dazi doganali, potranno essere
vendute a prezzi competitivi nei mercati esteri.
Senonché la contraddizione è
ontologica al sistema capitalistico, sia esso confinato dentro barriere
nazionali o libero di scorrazzare per il pianeta; e difatti si ripresenta in
crisi cicliche, e non fa eccezione l’attuale fase di globalizzazione,
caratterizzata dalla libera circolazione dei capitali – sancita, per quanto
riguarda l’unione europea, dal Trattato di maastricht del 1992, che l’ha
definita “principio assoluto” sia tra gli stati membri che tra questi e i Paesi
terzi – e dalla libera circolazione delle merci, aspetto di cui si è fatto
carico il Wto.
Nato nel 1995, secondo i dati
(risalenti al marzo 2013) presenti sul sito dell’organizzazione, vi aderiscono
159 Paesi che rappresentano circa il 95% del commercio mondiale; l’adesione
porta con sé l’obbligo, pena sanzioni e misure ritorsive, al rispetto delle
normative emesse dal Wto stesso, accordi economici che disegnano il mercato
globale e dunque il rapporto tra stati e tra stati e Capitale privato; tra i
trattati fondativi, il GATT, il GATs, il TRIPs e il TRIms.
Il GATT, General Agreement on
Tarif-fs and Trade, regola le tariffe doganali e il commercio delle merci; il
GATs, General Agreement on Trade in services, regolamenta ben 160 settori di
servizi, dalla comunicazione alla finanza, dall’ambiente alla cultura, dalla
distribuzione (di acqua, elettricità, gas ecc.) al trasporto, dal turismo
all’istruzione alla sanità ai servizi sociali. In pratica, i due trattati
mirano ad abolire ogni barriera nazionale – e dunque ogni controllo della
politica sull’economia – e a rendere il pianeta una immensa prateria del Far
West, dove vige unicamente la legge del libero mercato; non solo delle merci ma
anche dei servizi, compresi quelli che fino a oggi, nella vecchia Europa, hanno
fatto parte del welfare.
Sui due accordi commerciali si
innestano il TRIPs, Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights, che
protegge la proprietà intellettuale, ossia i diritti di brevetto sulla ricerca,
la tecnologia, i marchi di fabbrica ecc. e le relative royalties di utilizzo –
e quindi preserva i profitti del Capitale legati al loro uso – e il TRIms,
Trade Related Investment measures, che espressamente proibisce ai governi
nazionali di attuare quegli strumenti di politica economica con cui, nel
passato, regolavano e proteggevano la propria economia, ossia il Capitale
nazionale e, di conseguenza, il mercato degli investimenti, della produzione e dei
salari: leggi relative a criteri occupazionali, all’azionariato, al
trasferimento tecnologico, alle esportazioni di profitti ecc.
È questa l’impalcatura su cui è
stata costruita la globalizzazione, che si regge su un ‘patto’ tra il grande
Capitale dei Paesi avanzati e quello dei Paesi emergenti: il primo delocalizza
la produzione nei confini del secondo, avvantaggiandosi del basso costo del
lavoro locale – favorito dal GATs e ben protetto dal TRIPs e dal TRIms – il
secondo esporta le proprie merci, materie prime e semplici manufatti, in casa
del primo – agevolato dal GATT e anch’esso avvantaggiato dallo stesso basso
costo del lavoro. un equilibrio solo apparente, talmente precario che ha
impiegato appena un decennio a entrare in crisi sistemica.
I Paesi emergenti hanno infatti
registrato un aumento del Pil generato dalle esportazioni, che non si è
tradotto tuttavia né in migliori condizioni di vita per la popolazione né in
sviluppo industriale autonomo (nonostante il Capitale locale abbia comunque
incassato i propri profitti): le condizioni di lavoro sono rimaste al limite
dello schiavismo, i salari da fame – non è cresciuto infatti il mercato interno
ma solo quello estero – la proprietà intellettuale ha tutelato le tecnologie
delle multinazionali e i profitti generati nel Paese dal Capitale straniero,
tramite la delocalizzazione, sono stati rigorosamente reimportati in patria e
non, seppure parzialmente, lasciati in loco, per mezzo di una tassazione (i
Paesi emergenti, per attirare il Capitale straniero, hanno infatti creato le
cosiddette free zone, o EPZ, Export Processing Zone, aree geografiche che rappresentano zone franche sia da leggi
nazionali amministrative e strutturali che da imposizione fiscale, con l’esenzione delle imposte
che può arrivare fino a dieci anni [1]).
Sull’altro lato, gli stati a
capitalismo avanzato hanno visto fallire le proprie industrie locali, incapaci
di reggere la concorrenza con le merci estere a basso prezzo; le multinazionali
hanno delocalizzato, chiudendo gli stabilimenti; è seguita disoccupazione e
rallentamento dei consumi; il mercato non è stato più in grado di assorbire né
le merci prodotte dalle multinazionali né quelle a basso prezzo importate dai Paesi
emergenti.
Il risultato finale è sotto gli
occhi di tutti: recessione nei Paesi industrializzati, progressivo e
ineludibile rallentamento nelle economie emergenti, dovuto al calo delle
esportazioni. In altre parole, crisi globale.
Una crisi che in realtà ha
mostrato la corda ben prima di ora, ma che gli stati uniti, il primo Paese ad
aver conosciuto la delocalizzazione produttiva e il primo mercato di consumo
mondiale, sono riusciti a contenere per qualche anno, inventandosi un’economia
basata sul debito: al calo, quantitativo e qualitativo, dei redditi da lavoro,
e dunque della capacità di acquisto dei cittadini, gli usa hanno risposto
favorendo l’accesso a mutui, a prestiti personali per ogni esigenza, a carte di
credito a rate ecc. Ossia creando la deregulation finanziaria, che frammentando
e impacchettando i prestiti ad alto rischio in prodotti finanziari da vendere
sul mercato – i famigerati ‘derivati’ ad alto rendimento di cui la finanza
speculativa non era (e non è tuttora) mai sazia – ha distribuito il rischio su più operatori.
senza la deregulation, l’economia del debito non avrebbe avuto quell’ossigeno
necessario a respirare. una deregulation disegnata dal potere politico,
attraverso l’approvazione di precise leggi.
Per sommi capi, questi i principali
passaggi: nel 1999 (presidenza Clinton) viene abolito il Glass-Steagall Act del
1933, che sull’onda della crisi del ‘29 aveva separato le banche commerciali da
quelle di investimento: una liberalizzazione che favorisce lo sviluppo di
intermediari non bancari – fondi pensione, monetari, obbligazionari, fornitori
di mutui, hedge funds ecc. – autorizzati a operare senza dover sottostare ai
controlli delle autorità di vigilanza; nel 2000 (presidenza Clinton) il senato
approva il Commodity Futures modernization Act, che deregolamenta il mercato
dei derivati, rendendolo di fatto una nebulosa in cui è impossibile far luce;
nel 2002 George Bush vara un ‘piano casa’, che promuove la concessione di mutui
indipendentemente dal reddito, mentre la Fed avvia una politica di tassi di
interesse al minimo e inonda il mercato di liquidità. nasce la bolla dei
subprime, che esplode nel 2007.
La finanza, dunque,
dell’attuale crisi economica è fattore scatenante e non causa, della
globalizzazione è strumento e non fine. uno strumento per di più duttile,
perché non si limita a supportare il Capitale produttivo, favorendol’assorbimento (a debito) delle merci nel
mercato di vendita – azione, tra l’altro, che oggi non riesce più a svolgere,
data la crisi del sistema bancario conseguente all’esplosione della bolla
finan-ziaria – ma attraverso la speculazione sui titoli di stato agisce anche
come mezzo di pressione sui governi recalcitranti a ‘riformare’ la struttura
Paese sui bisogni del Capitale privato globalizzato – riforme del lavoro,
privatizzazione dello stato sociale, vendita del patrimonio pubblico e dei
monopoli di servizi.
Come un gioco dell’oca, sempre alla casella di partenza si
torna, insomma: è il capitalismo il problema. Ma grazie alla sovrastruttura
politica, che disegna e modifica le regole a sua necessità, ha una capacità di
rispondere alle crisi praticamente illimitata.
Stati Uniti ed Europa si
preparano a firmare un trattato di libero scambio, il Transatlantic Trade and
Investiment Partnership (TTIP), al cui confronto gli accordi del Wto sembrano
compitini da educande. sul fronte italiano, Enrico Letta se ne dice entusiasta.
“sono contento che lunedì sia stato ratifica-to il TTIP, per arrivare alla
creazione di un mercato comune euroatlantico. noi lavoriamo assolutamente con
impegno su questo tema” afferma nel giugno scorso, dopo aver dato il via, in
sede di Commissione europea, all’apertura dei negoziati.
Nell’oggetto, il trattato è
simile agli accordi Wto: libera circolazione di merci, servizi e capitali. Ciò
che lo differenzia, e che lo rende un ulteriore passo avanti sulla strada del
capitalismo globalizzato, è la clausola che riconosce alle imprese private la possibilità di denunciare uno stato nel
caso in cui la sua politica intacchi i diritti del libero mercato – contenzioso che si apre davanti a Corti
speciali, extra-giudiziarie, composte da tre persone (in genere avvocati
d’affari) e regolate dalla Banca Mondiale. Una novità, in quanto le cause
commerciali aperte in seno al Wto sono tra Paesi e non tra impresa e Paese; ma
è possibile già oggi sapere quali saranno le implicazioni pratiche di una
simile clausola, poiché essa è presente nel north American Free Trade Agreement
(NAFTA), accordo di libero scambio tra stati uniti, Canada e Messico, entrato
in vigore nel 1994, e nel Central America Free Trade Agreement (CAFTA),
sottoscritto nel 2006 tra gli Stati Uniti e i Paesi dell’America centrale.
Alcuni esempi.
Nel 2009 AbitibiBowater Inc.,
una multinazionale statunitense nel settore della carta, denuncia il Canada al
tribunale del nafta per espropriazione illegale: chiede 467 milioni di dollari.
L’impresa aveva chiuso una cartiera licenziando 800 lavoratori, e il governo
della provincia canadese aveva sequestrato le attrezzature produttive e confiscato
i diritti d’uso del legname e dell’acqua, sostenendo che questi ultimi erano
subordinati al mantenimento in esercizio della cartiera stessa, come indicato
nel contratto di concessione. nell’agosto 2010 il Canada decide di patteggiare
anziché continuare nella contesa, e paga 130 milioni di dollari alla
multinazionale (2).
Nel 2007 la TCW Group, una
società di investimenti statunitense, azionista, insieme allo stato, di una
delle tre società
di distribuzione di energia elettrica della Repubblica Dominicana, denuncia il
Paese per violazione del trattato, chiedendo 606 milioni di dollari: il governo
è riluttante ad alzare le tariffe elettriche e non predispone sovvenzioni per
le fasce disagiate della popolazione, azione che potrebbe ridurre il danno dovuto
al costante furto di energia elettrica. nel frattempo, la multinazionale
francese société Générale (SG), che possiede la TCW, presenta un reclamo
parallelo alla France-Dominican Republic Bilateral Investment Treaty, organismo
di arbitrato internazionale collegato al Trattato bilaterale per gli
investimenti sottoscritto tra i due Paesi. quest’ultimo si pronuncia a favore
di sG. nel giugno 2008 la Repubblica Dominicana decide di chiudere il
contenzioso, ed evitare altre spese legali, pagando 26 milioni di dollari (3).
Nel 1997 il Guatemala
privatizza la propria linea ferroviaria e la dà in concessione per
cinquant’anni alla Railroad Development Corporation (RDC), società
statunitense, che in cambio ne assicura il totale ripristino con un progetto
che prevede cinque fasi. nei primi dieci anni, RDC completa solo il primo step
e nel 2006 il governo del Paese, insoddisfatto per la lentezza dei lavori,
dichiara l’accordo “lesivo degli interessi dello stato”, affermazione che
corrisponde, nella legislazione guatemalteca, al primo passo per l’apertura
della pratica davanti al tribunale amministrativo e avviare la revoca del
contratto. RDC risponde denunciando il Guatemala al NAFTA e chiedendo 64
milioni di danni, la gran parte per “presunta perdita di profitti futuri attesi”.
nel 2012 i tre giudici della Banca mondiale accolgono il ricorso in modo parziale: da una
parte negano fondamento alle accuse di esproprio lanciate dalla multinazionale,
dall’altra ritengono la definizione “lesivo degli interessi dello stato” un’azione
di politica economica (quale orrore), non rispettosa del libero mercato e
pregiudizievole nei confronti di un investitore straniero, e dunque condannano
il Guatemala a pagare 18 milioni di dollari alla multinazionale (4).
Occorre chiedersi dove si situa
l’Italia in tutto questo.
È chiaro che la firma del TTIP
si va a inserire in una situazione economica e sociale già drammatica. Che il
Capitale nostrano non fosse in grado di reggere la globalizzazione, si sapeva:
straccione e feudale, si è sempre retto sugli aiuti di stato, sulla collusione
con la politica (leggi tangenti) e sulle misure protezionistiche; un tridente
che gli ha permesso di evitare gli investimenti e di trasformare i profitti in
fondi neri personali; come conseguenza, è divenuto una ‘specie debole’ incapace
di sopravvivere in un mercato dove vige la spietata concorrenza. La perdita
della sovranità monetaria, con l’ingresso nell’euro, e il relativo venir meno
dei giochetti di svalutazione della lira e di espansione del debito pubblico, hanno
amplificato il tracollo fino alla recessione.
Confindustria ne è ben
consapevole, al punto di invocare una “terapia d’urto” nel suo “Progetto per
l’Italia: crescere si può, si deve”, presentato il 23 gennaio 2013 – un mese
prima delle elezioni politiche – e rivolto “a chi si candida alla guida del
Paese”.
“Il perno del rilancio è la
logica industriale centrata sul manifatturiero” afferma l’associazione del
Capitale italiano, chiedendo “politiche che aumentino subito la competitività
delle esportazioni” e promuovano “l’innovazione, l’internazionalizzazione e
l’attrattività degli investimenti esteri”. Per raggiungere gli obiettivi
occorre: privatizzare buona parte del patrimonio pubblico, abbassare la
tassazione sulle imprese, “ridurre il perimetro pubblico e proseguire il
processo di liberalizzazione, […] aprire i mercati con l’inserimento in
Costituzione del principio della concorrenza”. Centrale, e non poteva essere
diversamente, è la riforma del mercato del lavoro: aumento di 40 ore lavorative
l’anno, una maggiore flessibilità in entrata, riduzione del costo del lavoro
dell’8% in tre anni, trasferimento alla contrattazioneprivata di materie e normative oggi
regolamentate in maniera prevalente o esclusiva da leggi nazionali.
Un progetto che sembra mirare a
posizionare l’Italia più tra i Paesi emergenti che tra quelli avanzati. Perché
se è indubbio che la globalizzazione porti al livellamento verso il basso delle
condizioni lavorative – sia in termini di salario che di diritti – di tutti i lavoratori, del nord del sud dell’est e dell’ovest del pianeta –
come si è ormai reso conto anche chi non è in grado di fare la somma che ha
portato a questo risultato – è altrettanto vero che puntare sull’esportazione –
e non sul consumo interno – e soprattutto voler rendere appetibile l’Italia
agli investimenti stranieri, anche liberalizzando (leggi privatizzando) il
“perimetro pubblico”, significa dissodare il terreno affinché le multinazionali
possano piantare radici; perché anche con un basso costo del lavoro e con la diminuzione
della tassazione sulle imprese, per diventare competitivo in un libero mercato il grande Capitale italiano dovrebbe
investire, e questo significa intaccare i fondi neri personali accumulati negli
anni; una logica che decisamente non gli appartiene.
“[Il sistema del libero
scambio] dissolve le antiche nazionalità e spinge all’estremo l’antagonismo fra
la borghesia e il proletariato. In una parola, il sistema della libertà di
commercio affretta la rivoluzione sociale. È solamente in questo senso rivoluzionario,
signori, che io voto in favore del libero scambio”.
Così concluse Marx il proprio
intervento a Bruxelles nel 1848. Oggi non ci si può aggrappare nemmeno più a
questa visione. non perché la globalizzazione non spinga all’estremo
l’antagonismo tra Capitale e lavoro – su questo Marx, come sull’analisi del sistema
capitalistico, delle sue dinamiche e contraddizioni, aveva ragione – ma perché
non esiste più, nella società, un pensiero rivoluzionario in grado di
combattere il capitalismo con la sua globalizzazione. In altre parole, un
pensiero di sinistra.
_______________________________
1) A titolo di esempio, per avere un’idea di cosa sia una EPZ, e
che realtà produttiva e sociale crei, segnaliamo il sito della Autorità EPZ del
Bangladesh; è in una di quelle aree che nell’aprile scorso è crollato un
edificio fatiscente, il Rana Plaza, sede di diverse fabbriche di produzione
delocalizzata di abbigliamento, provocando la morte di più di 1.000 lavoratori. http://www.epzbangladesh.org.bd/ index.php
2) Cfr. http://www.international.gc.ca/trade-agreements-accords-commerciaux/topics-domaines/ disp-diff/AbitibiBowater.aspx?lang=eng
3) Cfr. http://www.pca-cpa.org/showpage.asp?pag_id=1310
4) Cfr. http://www.italaw.com/cases/documents/1486