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Arnold Ruge ✆ A.d. |
Pierre Macherey | Nel
marzo 1844 apparve l’unico numero della rivista che Marx, allora deciso a
prendere in teoria ed in pratica la massima distanza dalla Germania, aveva
fondato a Parigi con Arnold Ruge. Questa pubblicazione comprendeva tre
contributi firmati da Marx: uno scambio di lettere con Arnold Ruge, l’articolo
su La questione Ebraica (in risposta ad un articolo pubblicato sotto lo stesso
titolo da Bruno Bauer) e un’Introduzione alla critica della filosofia del
diritto pubblico, redatta a partire del commentario dei passi della terza parte
dei Lineamenti della filosofia del diritto di Hegel consacrati allo Stato
costituzionale, commentario che Marx – che aveva senza dubbio intrapreso questo
lavoro nel 1842 – aveva abbozzato a Kreuznach nel 1843, ma lasciato incompiuto.
Le tre lettere di Marx a Ruge comparse negli Annali facevano parte di un
corpus, presentato sotto il titolo Un carteggio del 1843, nel quale si trovava
anche una lettera di Feuerbach a Ruge, datata giugno 1843. Marx e Ruge, in
effetti, avevano contattato Feuerbach – che, all’epoca, rappresentava per
eccellenza la filosofia dell’avvenire – auspicando una comunione di intenti. La
lettere di Feuerbach a Ruge, dove il filosofo esprimeva la sua adesione allo
spirito che dirigeva il progetto della rivista, conteneva questa riflessione. Che cos’è teoria, che cos’è pratica? Dov’è la differenza?
Teorico è ciò che ancora si limita soltanto alla mia testa, pratico ciò che
appare nelle teste di molti. Ciò che unisce molte teste fa massa, si dilata e
si fa posto nel mondo. La
possibilità di creare un organo nuovo per il nuovo
principio è un tentativo che non va tralasciato.
[1]
Queste poche righe testimonianti la presa di coscienza dei
filosofi tedeschi post-hegeliani dell’epoca della necessità di dare un
prolungamento pratico ai loro sforzi teorici, cosa che, implicitamente, era una
maniera di riconoscere che questi sforzi non bastavano a se stessi, ma
chiedevano un tale prolungamento, con l’assenza del quale essi rimanevano
incompleti, come incompiuti. E riveste un’importanza esemplare il fatto che sia
Feuerbach ad che affermare questa necessità di realizzare la filosofia
attraverso la messa in opera di azioni collettive, lui che, di fatto, aveva
allora introdotto, dopo Hegel, la maggior parte delle idee nuove in filosofia,
colui che aveva permesso di rompere i lacci del sistema hegeliano, ma a cui si
poteva rimproverare – Marx stesso l’aveva fatto in una lettera a Ruge del 13
marxo 1843 – il suo attendismo politico: e, precisamente, l’incontro di spiriti
diversi attorno ad una pubblicazione comune, nella quale la convergenza delle
loro preoccupazioni diveniva visibile, appariva all’epoca il tipo di azione
collettiva di cui erano potenzialmente capaci i filosofi preoccupati per
l’avvenire della società. Senza dubbio, il pensiero di Feuerbach, animato dal
problema di esteriorizzare l’essenza umana – in luogo di lasciarla esposta al
rischio di essere sviata dalle contraddizioni interne della coscienza – assumeva
in se stesso questa necessità come propria destinazione naturale, che non
bastava proclamare in teoria, ma che occorreva mettere in pratica, trovando per
questo i mezzi appropriati. Ed era in questa ricerca dei mezzi necessari alla
realizzazione pratica della filosofia, ricerca che il contesto politico tedesco
dell’epoca rendeva poco agevole, che Marx – e altri con lui – si era impegnato
nel corso degli anni 1843-1844.
Marx ha contestato, in seguito, l’autenticità delle sue
prime due lettere a Ruge pubblicate negli Annali, rimproverando allo stesso
Ruge d’averne ritoccata la redazione ad immagine delle proprie idee. Queste
lettere sono consacrate ad un’analisi della congiuntura attuale nella Prussia
di Federico-Guglielmo IV, descritto come un «mondo politico di animali».
[2]
Ricordiamo come Federico-Guglielmo IV, che era salito al trono nel 1840, non
aveva tardato a tradire le speranze su di lui riposte da un intellighenzia
avida di cambiamenti, esasperata dall’immobilismo e dall’arcaismo del
feudalesimo politico nel quale la Germania era sprofondata, e che aveva visto
in lui il possibile iniziatore d’una riforma liberale, speranze velocemente
disattese. La seconda lettera di Marx a Ruge, inviata da Colonia nel maggio
1843, tirava le conclusioni sulla smentita apportata dai fatti a questa
speranza di vedere il regime trasformarsi da solo, seguendo il corso di
un’evoluzione naturale, senza che ci fosse il bisogno di costringercelo
attraverso un’azione esterna:
Questo è l’infelice
tentativo di elevare lo Stato di filistei nell’ambito della sua stessa essenza:
il risultato è che per il dispotismo di tutto il mondo si è resa evidente la
necessità della violenza e l’impossibilità di agire umanamente. Un rapporto
brutale può essere mantenuto solo mediante la brutalità.
E così ho finito con
il nostro compito comune, ossia l’analisi del filisteo e del suo Stato. Non
dirà che ho troppa fiducia nel presente; e se tuttavia non dubito di esso è
solo perché la sua situazione disperata mi riempie di speranza. Non parlo
affatto dell’incapacità dei signori e dell’indolenza dei servi e dei sudditi, i
quali lasciano che tutto vada come piace a Dio; anche se le due cose insieme
basterebbero già a provocare una catastrofe. Richiamo la sua attenzione sul
fatto che i nemici del filisteismo, ossia tutti coloro che pensano e soffrono,
sono giunti a un’intesa per la quale in passato mancavano loro i mezzi; e che
persino il sistema passivo di riproduzione degli antichi sudditi arruola ogni
giorno nuove reclute al servizio della nuova umanità. Ma il sistema
dell’industria e del commercio, della proprietà e dello sfruttamento umano,
ancor più dell’aumento della popolazione, conduce, all’interno dell’attuale
società, a una frattura che il vecchio sistema non può sanare, perché esso non
sana e non crea ma soltanto esiste e gode. L’esistenza dell’umanità sofferente
che pensa, e dell’umanità pensante che viene oppressa, deve necessariamente
diventare insopportabile e indigeribile per il mondo animale dei filistei, che
gode passivamente e ottusamente. Da parte nostra dobbiamo portare completamente
alla luce del giorno il vecchio mondo e creare positivamente il nuovo mondo.
Quanto più a lungo gli eventi lasceranno all’umanità che pensa tempo per
riflettere e all’umanità che soffre tempo per unirsi, tanto più perfetto verrà
al mondo il frutto che il presente porta in grembo.[3]
Questa pagina, che essa sia o non sia stata risistemata da
Ruge, è rimarchevole. Essa mette in opposizione il vecchio mondo passivo e
gaudente dei filistei, che non hanno alcuna ragione di rimettere in causa
l’ordine stabilito, e il mondo nuovo, in gestazione nel presente, che suppone
la trasformazione nel profondo – ovvero la dissoluzione completa – dello stesso
ordine. Questo mondo nuovo sarà l’opera comune di «tutti coloro che pensano e
[tutti coloro che] soffrono», e più precisamente «dell’umanità sofferente che
pensa, e dell’umanità pensante che viene oppressa»: questo prefigura l’idea –
che giocherà un ruolo essenziale nell’evoluzione politica ulteriore di Marx e
che sarà formulata in maniera netta alla fine dell’Introduzione alla critica
del diritto hegeliano – secondo la quale l’avvenire della società dipende
dall’alleanza fra lavoratori manuali e lavoratori intellettuali giunti nello
stesso momento alla coscienza del carattere intollerabile dell’asservimento che
subiscono nel mondo attuale. L’umanità sofferente che pensa sono gli operai e
gli artigiani giunti ad elaborare con le loro forze, come autodidatti, una
riflessione sulle proprie condizioni e sui mezzi per farle evolvere, secondo
l’esempio di Proudhon, il tipografo filosofo, il cui manifesto Che cos’è la
proprietà? aveva, nel 1841, considerevolmente impressionato i giovani filosofi
tedeschi e Marx in particolare – prima che questi non frequentasse Proudhon di
persona e non rompesse con lui, cosa che non avverrà che nel 1846. L’umanità pensante
oppressa sono coloro i quali, come lo stesso Marx, si trovarono costretti a
espatriare per fuggire a un regime di censura che rendeva impossibile
l’espressione e soprattutto la realizzazione pratica delle loro idee. Gli Annali
franco-tedeschi, secondo il loro progetto iniziale, dovevano rendere effettivo
l’avvicinamento di queste due tendenze: e se questo progetto non è, poi, giunto
a buon fine – non figurava nessuna partecipazione francese o operaia nell’unico
numero pubblicato della rivista – ciò non metteva in nessun modo in questione
il principio di base, anche se era presto apparso come quest’ultimo fosse di
difficilissima applicazione.
La terza lettera di Marx a Ruge pubblicata negli Annali
franco-tedeschi venne inviata da Kreuznach nel settembre del 1843, quindi
giusto prima dell’insediamento di Marx a Parigi. È quella che presenta il
carattere più teorico e Marx non ha in seguito rimesso in questione la sua
autenticità, come aveva fatto a proposito delle due precedenti. Questa lettera
comincia col denunciare l’anarchia intellettuale che, in Germania, regna tra
coloro che vogliono riformare la società e dove ciascuno pretende di apportare
le proprie soluzioni alla crisi. Ora Marx aveva preso chiaramente coscienza che
quello non era il momento – né senza dubbio lo sarà mai – per le soluzioni già
pronte, preconfezionate, e votate per natura a fallire nella vita reale:
pronunciando questa condanna, pensava evidentemente alle discussioni
interminabili dei politici da bar, come Stirner e il movimento dei Liberi – con
cui era finito per allearsi Bauer – pronti a ricostruire senza fine il mondo a
parole, il vizio tedesco per eccellenza, ma incapaci di trovare gli strumenti
concreti per un’azione autentica; e se Marx ha abbandonato la Germania è senz’altro
per scappare dalla censura prussiana, ma anche per prendere la distanza da
questi agitatori di idee, nei quali non vedeva più che dei fantocci.
Da qui la necessità di voltarsi verso un’altra parte:
D’altra parte
questo è appunto il vantaggio del nuovo orientamento: noi non anticipiamo
dogmaticamente il mondo, ma dalla critica del vecchio mondo vogliamo desumere
quello nuovo. Fino ad ora i filosofi avevano pronta sulle loro cattedre la
soluzione di tutti gli enigmi, e lo sciocco mondo esoterico non aveva che da
spalancare il muso perché gli volassero in bocca le colombe arrostite della
scienza assoluta. La filosofia si è mondanizzata, e la dimostrazione più
convincente di tale fatto è che la coscienza filosofica è coinvolta non solo
esteriormente, ma anche interiormente, persino nel tormento della lotta. Se non
è affare nostro la costruzione del futuro e l’invenzione di una formula
perennemente attuale, è tanto più evidente ciò che dobbiamo attuare nel
presente, e cioè la critica radicale di tutto ciò che esiste, radicale nel
senso che la critica non si spaventa né di fronte ai risultati ai quali
perviene né di fronte al conflitto con le forze esistenti.[4]
Non è impossibile vedere in queste righe, in cui viene
enunciata la necessità della filosofia di cambiare terreno, e da lì di operare
un mutamento radicale sul doppio piano dei propri interessi e delle proprie
procedure, un primo schizzo dell’Undicesima tesi su Feuerbach. Questo
cambiamento di terreno è qui espresso attraverso l’espressione «la filosofia si
è mondanizzata»: intendendo con ciò, in un senso feuerbachiano, che essa è
ridiscesa dal cielo sulla terra, cosa che ha fatto iniziando a confrontarsi
direttamente col mondo reale. Questo confronto assume la forma di critica di
questo mondo, al quale la coscienza filosofica comincia a interessarsi
direttamente perché essa si sente intimamente implicata nella sua evoluzione:
da qui essa cessa d’essere una rimuginazione esteriore al reale, ma diviene una
qualche sorta di coscienza del reale, con il doppio senso, oggettivo e
soggettivo, del genitivo, ovvero ciò che costituisce la forma per eccellenza
del divenire reale della filosofia.
Naturalmente, la referenza alla “critica”, che dà il filo
conduttore a questa analisi, cela un’ambiguità. Di che natura sarà questa
critica? Sarà solo teorica o anche pratica? E che forma può assumere una
critica pratica del mondo in cui la coscienza filosofica intervenga con le
forme che le sono proprie? Molto concretamente, è sufficiente scrivere dei
libri, pubblicare delle riviste e farvi apparire degli articoli per partecipare
alla critica pratica del mondo come è avviata fattualmente al giorno d’oggi? Questa
domanda cominciava probabilmente a disegnarsi nello spirito di Marx, non in
altra forma se non quella di un dubbio, ma non aveva ancora assunto
un’espressione definita, e sarà compito del lavoro degli anni successivi il
provare a fare luce su questo punto cruciale. Ad ogni modo, per Marx una cosa
era certa: «non è affare nostro la costruzione del futuro e l’invenzione di una
formula perennemente attuale». Questa critica dello spirito utopico sembrava
una reminiscenza della formula di Hegel nella Prefazione alla fenomenologia: la
filosofia deve, prima di tutto, guardarsi dal profetizzare. Ma Hegel stesso
aveva concluso che la filosofia dovesse, quindi, rivolgersi verso la
considerazione di ciò che è già compiuto: e, dopo Cieskowski, autore dei Prolegomeni
all’istoriosofia (1838), divenne evidente il limite di questo punto di vista
tendenzialmente conservatore e la necessità di superarlo. La difficoltà era,
allora, la seguente: come elaborare una filosofia dell’avvenire che non sia
soltanto l’invenzione teorica di un avvenire possibile – e alla fine sognato
invece che concepito – ma che sia nello stesso tempo una filosofia pratica, una
filosofia della pratica effettiva di trasformazione del mondo che è già
realmente in via di attuazione.
Non bisogna perdere di vista che Marx non presentava queste
riflessioni per se stesse, fuori contesto. Ciò che lo preoccupava prima di
tutto era il definire gli orientamenti e, soprattutto, lo stile di intervento
della rivista il cui progetto era in corso di elaborazione. Il suo punto di
vista era che questa dovesse essere un luogo d’accoglienza e confronto per
posizioni teoriche scaturite da tendenze molto differenti. E quando si
considera che, a Parigi, Marx e Ruge avevano proposto a Laqmartine ed a
Lamennais di pubblicare nella loro rivista, proposta che questi ultimi hanno
certamente rifiutato, si misura la diversità e la vastità di campo di pensiero
che volevano constituire. È con questo spirito che Marx scriveva nel seguito
della sua lettera a Ruge:
Per questo non vorrei
che noi innalzassimo una bandiera dogmatica; al contrario. Noi dobbiamo cercare
di venire in aiuto ai dogmatici, affinché chiariscano a se stessi i loro
principi. Così soprattutto il comunismo è un’astrazione dogmatica, e con ciò mi
riferisco non a un qualsiasi, presunto ed eventuale comunismo, bensì al comunismo
realmente esistente, quale lo professano Cabet, Dézamym Weitling ecc. Questo
comunismo è proprio solo una manifestazione particolare del principio
umanistico, contaminato dal suo opposto, l’elemento privato. Abolizione della
proprietà privata e comunismo, quindi, non sono affatto identici e non a caso,
bensì necessariamente, il comunismo si è trovato di fronte ad altre dottrine
socialiste, come quelle di Fourier, Proudhon ecc., proprio perché esso spesso
non è che un’attuazione particolare, unilaterale, del principio socialista.[5]
Marx constatava come, tra coloro che aspiravano ad un
mondo nuovo, si fosse aperto un dibattito che non era all’altezza del compito,
rispetto alla natura di questo mondo ed ai mezzi per farlo emergere. Non si
trattava in nessun modo di chiudere dogmaticamente questo dibattito, ma al
contrario occorreva aprirlo di più offrendogli un largo spazio dove,
incontrandosi, le diverse posizioni potessero rivelare le loro contraddizioni
interne, le loro insufficienze; ciò avrebbe dovuto obbligarle a cercare i mezzi
di un arricchimento attraverso un ascolto reciproco che li strappasse dalla
loro illusoria sistematicità legata al loro isolamento. È manifesto come Marx
considerasse che l’idea comunista, così come era stata sviluppata fino ad
allora, fosse terribilmente astratta: il suo contenuto restava ben povero e la
discussione fra “comunisti” e “socialisti” procedeva su basi talmente incerte
che essa non aveva nessuna possibilità di giungere in breve tempo ad una
conclusione. Da ciò la necessità di raccogliere e mettere in contatto il
maggior numero di punti di vista, con la speranza che essi potessero così
chiarificarsi. Non c’era altro modo per arricchire il “principio socialista”
che donargli la massima espansione. Per questo, occorreva allargare il
contenuto assegnato a tale principio, integrandolo con delle forme di rimessa
in questione del mondo attuale da cui ci si era, fin qui, indebitamente
dissociati.
Tutto il principio socialista, a sua volta, non è che uno
degli aspetti quello concernente la realtà, della vera essenza umana. Nello
stesso modo dobbiamo occuparci dell’altro aspetto, dell’esistenza teoretica
dell’uomo, dunque far oggetto della nostra critica la religione, la scienza ecc.
[6]
Qua, ancora, la preoccupazione dichiarata da Marx richiede
con forza la nostra attenzione. Essa concerneva la necessità di non ridurre
l’essere umano ad uno solo dei suoi aspetti, come la sua «realtà», e si
comprende come Marx designasse con questa parola tutto ciò che riguardasse la
sua esistenza materiale, che il principio socialista stava provando a
migliorare trasformandola da cima a fondo. Ma l’esistenza umana comporta anche
un altro aspetto, un’altra “faccia”: c’è da comprendere il suo ruolo nel mondo
teoretico del pensiero, sia questo rappresentato dalla religione, dalla
scienza o dall’arte. Ora, è vano sperare di cambiare la condizione umana
lasciando da parte questo aspetto delle cose. Da qui la necessità di tenere i
due capi della catena, ovvero accompagnare la denuncia dell’alienazione
materiale dell’uomo – che i pensatori socialisti avevano preso l’abitudine di
tenere in primo piano – ad una critica delle forme prese dal suo pensiero in
tutti questi domini. Conseguentemente, la lotta doveva svilupparsi in maniera
simultanea su diversi fronti, senza dimenticarne o sminuirne alcuno.
Due fatti sono indiscutibili: prima di tutto la religione, e
poi la politica, polarizzano gli interessi principali dei tedeschi d’oggi.
Bisogna rifarsi ad essi così come sono e non contrapporre loro un sistema
qualsiasi, come ad esempio il Voyage en Icarie.
[7]
Sviluppare una critica della politica e della religione
«così come esse sono», invece che tentare di immaginare forme di vita
comunitaria orientate a risolvere magicamente d’un sol colpo tutti i problemi
dell’umanità, ecco l’obiettivo da raggiungere. In altri termini, occorreva
partire dalla situazione del tempo e, appoggiandosi sull’analisi delle sue
insufficienze, dei suoi bisogni, farne emergere l’idea di un nuovo mondo da
costruire, ben sapendo che esso non potrà essere fabbricato al costo soltanto
di uno sforzo d’immaginazione. Far uscire il nuovo dalle contraddizioni interne
del vecchio è , in ultima istanza, il compito legittimo della critica: vi è qui
una reminiscenza della filosofia hegeliana della storia, concepita non come un
insieme di sequenze isolate messe in ordine dal principio alla fine, ma come un
susseguirsi necessario dove ogni elemento è solidale, senza che questo escluda,
anzi tutto il contrario, il cambiamento graduale di prospettiva procurato
dall’avanzamento di questa storia. Ciò perché, se vogliamo realmente procedere
nel cammino, occorre potersi appoggiare su ciò che esiste nei fatti,
particolarmente sugli interessi che preoccupano attualmente i protagonisti
reali di questa storia, invece di cercare artificialmente di crearne loro di
nuovi nelle loro teste, senza preoccuparsi di sapere se questi abbiano o meno
per loro un effettivo significato. Non c’è, allora, nessun altra maniera di
razionalizzare il reale, e reciprocamente di realizzare il razionale, che
collocando effettivamente le proprie speculazioni teoretiche dentro il mondo:
La ragione è sempre esistita, ma non sempre in forma
razionale. Il critico può dunque rifarsi a qualunque forma della coscienza
teoretica e pratica, e dalle forme proprie della realtà esistente sviluppare la
vera realtà come suo dovere e suo scopo teologico.[8]
La «vera realtà» è ciò in cui la ragione può riconoscersi
per intera. Il problema è che sia questa vera realtà resta camuffata fra
gli eventi, e vi si manifesta con varie forme di insufficienze e
contraddizioni, sia, dato che essa non era ancora stata portata completamente
alla luce ovvero dato che queste insufficienze e queste contraddizioni non sono
state eliminate – cosa che non può avvenire soltanto grazie ad una mera
decisione dell’animo – la ragione non si presenta neanche lei sotto una
forma completamente ragionevole e, quindi, non può figurarsi cosa dovrebbe
essere questa questa forma di realtà alla quale consentire senza riserva
la propria adesione. Ragione e realtà devono camminare accanto, aiutandosi l’un
l’altra, in modo da avvicinarsi alla loro convergenza finale, ossia al momento
in cui la ragione sviluppata sotto una forma completamente ragionevole
coinciderà con il dispiegarsi della vera realtà, sgomberata da ognuna delle sue
contraddizioni. Su questo punto, di nuovo, potrebbe esserci stata in Marx una
reminiscenza hegeliana, rielaborata tuttavia secondo una prospettiva
necessarista che escludeva per principio qualsiasi riferimento alla finalità.
Verso dove si dirige il movimento della storia? E, poi, si dirige davvero
da qualche parte?Questo è ciò che nessuno può stabilire, posto che il solo
punto degno di esame e attenzione è che nelle figure attuali della razionalità
e della realtà ci sia qualche cosa che fa problema, a cui la critica può
attaccarsi come se fosse l’unica presa possibile sullo stato presente delle
cose che autorizzi a progettarne la trasformazione. Se la storia non si dirige
da nessuna parte, essa viene da qualche parte, ed il solo mezzo di coglierne il
corso, almeno parzialmente, dipende da questo radicamento reale che costituisce
la sola base sulla quale si possa appoggiare il lavorio della ragione.
Sottolineiamo, nondimeno, come la prospettiva finalista, apparentemente qui
scartata, tornerà in primo piano nell’Introduzione alla critica del diritto
hegeliano, ugualmente pubblicata negli Annali franco-tedeschi, testo che, al
contrario della lettera a Ruge del settembre 1843, presenta una dimensione
incontestabilmente utopista.
Verso quale aspetto o settore della realtà doveva allora
volgere lo sguardo la ragione per progredire? Ecco la domanda principale
all’ordine del giorno:
Per quanto concerne la
vita reale, è proprio lo Stato politico, anche se non ancora consapevolmente,
sensibile a istanze socialiste, che contiene in tutte le sue forme moderne le
istanze della ragione. Né si arresta qui. Esso presuppone ovunque la ragion
come realizzata. Ma nello stesso modo esso incorre ovunque nella contraddizione
tra il suo destino ideale e le sue premesse reali.[9]
L’errore dei pensatori socialisti era quello di avere
preteso di anticipare i tempi rispetto al movimento reale della storia, anziché
tenere conto dello stato delle cose del tempo, vale a dire ciò che effettivamente
esisteva. Ora, cosa esisteva ai tempi e rappresentava il più grande avanzamento
della ragione nel suo sforzo in vista di padroneggiare la vita reale? La
pretesa dello Stato politico di essere la realizzazione della ragione, di
essere il divino sulla terra come diceva Hegel. Ma accadeva che questa pretesa
fosse smentita sia dai fatti sia dalla ragione stessa, nonostante questa si
fosse dedicata al compito di demistificare la concezione dello Stato come forma
ultima della razionalità, di metterne in luce le contraddizioni – che, poi, è
ciò cui Marx si era giustamente dedicato nel suo commentario critico del
diritto civile hegeliano.
Il lavoro della critica aveva in quel momento come oggetto
per eccellenza quello dello Stato:
Da questo conflitto dello
Stato politico con se stesso si può quindi sviluppare sempre la verità sociale.
Come la religione è l’indice delle battaglie teoretiche degli uomini, lo Stato
politico lo è delle loro battaglie pratiche. Lo Stato politico esprime quindi
all’interno della sua forma, sub specie rei publicae, tutte le lotte, le
esigenze, le verità sociali. Non è quindi affatto al di sotto dell’hauteur des
principes far oggetto di critica il problema politico più specialistico, per
esempio, la differenza tra sistema degli ordini e sistema rappresentativo.
Infatti tale questione esprime soltanto in modo politico la differenza tra
dominio dell’uomo e dominio della proprietà privata. Il critico dunque non solo
può, ma deve interessarsi dei problemi politici (che, secondo i comuni
socialisti, sono assolutamente indegni). Illustrando i vantaggi del sistema
rappresentativo sul sistema degli ordini, il critico interessa praticamente un
grande partito. Elevando il sistema politico dalla sua forma politica a una
forma generale e mettendone in rilievo il vero essenziale significato, egli
obbliga nello stesso tempo questo partito a superare se stesso, poiché la sua
vittoria è anche la sua sconfitta.[10]
L’obiettivo da raggiungere, e su questo punto Marx
concordava con i pensatori socialisti, è la verità sociale, intendendo con
questo termine la società umana nella quale gli uomini possano realizzare in
toto il loro essere generico in forma comunitarista. Ma è davvero possibile
raggiungere tale obiettivo direttamente? È su questo punto che insiste la
divergenza tra Marx e i pensatori socialisti, che si illudevano parecchio
quando immaginavano di poter procedere direttamente verso il loro scopo, senza
passare per le mediazioni indispensabili, quelle mediazioni, cioè, che occorre
trovare nello stato delle cose esistenti, dato che è impossibile crearle
artificialmente. Ora, questa mediazione era al momento rappresentata dallo
Stato, somma de «le lotte, le esigenze, le verità sociali»: la lotta sul
terreno della politica, che abbia come oggetto il definire la forma che il
potere politico deve assumere, era ormai imprescindibile. Allora, come Marx
spiega altrimenti nella prima parte de La questione ebraica, la cui redazione
deve essere stata pressoché contemporanea a quella di questa lettera a Ruge, lo
Stato, nella sua forma attuale, che non era più quella corrispondente al
sistema medievale delle corporazioni – dove società civile e Stato si
confondevano tra loro – , non può che essere lo Stato dei cittadini,
l’esistenza politica dei quali è tenuta a giocarsi su un piano completamente
indipendente dagli interessi della società civile, sebbene essi non siano che i
prodotti dell’atomizzazione della stessa società civile. Ma quale forma
razionale può assumere questo Stato dei cittadini? Non certamente quella
immaginata da Hegel, che era un compromesso traballante tra il vecchio sistema
delle corporazioni ed il sistema rappresentativo moderno. La sola maniera per
prendere di petto il problema era, allora, quella di giocare fino in fondo
sulla contraddizione fra Stato e società civile, organizzando lo Stato in
maniera da farne il rappresentante, non di qualcuno, ma di tutti. Per questo
motivo, al contrario dei pensatori socialisti, che pretendevano di separare
completamente la questione sociale dalle lotte politiche, Marx stimava che la
battaglia democratica fosse la sola forma che la critica pratica potesse
assumere al tempo, ovvero una prassi che avesse qualche chance di far avanzare
davvero le cose, di produrre delle trasformazioni reali.
Fare avanzare le cose, ma non certamente arrivare fino al
fine ultimo del movimento della storia. La battaglia democratica era sì
importante, ma a condizione di non essere scambiata per un fine in sé, come la
forma definitiva della verità sociale. Per questo motivo, per il “partito” che
conduce la battaglia, la propria vittoria deve rivelarsi come la propria
sconfitta: essa doveva rendere manifesta che la lotta politica, condotta sul
piano proprio allo Stato separato dalla società civile, non è che un momento
nel processo di trasformazione della società: qua è già anticipata l’idea di
«rivoluzione parziale», la rivoluzione «solamente politica che lascia intatti i
pilastri dell’edificio» sviluppata poi nell’Introduzione ad una critica del
diritto hegeliano avente come vero argomento la Rivoluzione francese; ma il
movimento, innescato in questa maniera, dovrà in seguito andare più lontano per
concentrarsi contro il regime della proprietà privata e inventare nuove forme
di esistenza comunitaria, come Marx, non senza sacrificare qualcosa ad un certo
spirito utopistico, si era proposto di fare alla fine della prima parte de La
questione ebraica, allorquando si poneva la questione della reintegrazione
dell’essere politico dell’uomo al suo essere sociale, formulando la necessità
della soppressione dell’egoismo dell’uomo privato – categoria che non
ritroviamo nella lettera a Ruge, dove il tono dell’insieme resta decisamente
politico.
È per questa ragione che Marx ritornò di nuovo su questo
punto, che giudicava cruciale, ovvero che la critica fosse la migliore e
probabilmente la sola forma di lotta reale allora a disposizione:
Nulla ci impedisce
quindi di collegare la nostra critica alla critica politica, alla
partecipazione politica, perciò alle lotte reali, e di identificarle con esse.
Allora non affronteremo il mondo in modo dottrinario, con un nuovo principio:
qui è la verità, inginocchiatevi! Attraverso gli stessi principi del mondo noi
illustreremo al mondo nuovi principi. Non gli diremo: «Abbandona la tua lotta,
è una sciocchezza; noi ti grideremo la vera parola d’ordine della lotta». Gli
mostreremo soltanto perché effettivamente combatte, poiché la coscienza è una
cosa de deve far propria.
La riforma della
coscienza consiste solo nel rendere il mondo consapevole di se stesso, nel
ridestarlo da suo ripiegamento trasognato, nello spiegargli le sue proprie
azioni. Come per la critica della religione di Feuerbach, il nostro scopo non è
altro che condurre alla forma umana autocosciente tutte le questioni religiose
e politiche.[11]
Il mondo nuovo è già in gestazione dentro il vecchio, ma in
maniera oscura ed incosciente. È questo a giustificare l’intervento della
critica: essa sola può spiegare al mondo ciò che lui stesso sta facendo, di
chiarire il contenuto delle azioni nelle quali si è ingaggiato, di spiegargli
la verità che porta dentro di sé senza saperlo. Possiamo vedere qui una
variante della formula Im Anfang war die Tat:
[12]
l’azione è un qualcosa che non possiamo assolutamente fare iniziare perché essa
è sempre già iniziata e che è impossibile da fermare per farla ripartire su
basi diverse. Seguendo una metafora che piaceva ad Althusser, la storia è come
un treno sul quale occorre salire allorché è già partito da tempo: la politica
è l’arte di prendere il treno in corsa. Per questo motivo, tutto ciò che
possiamo fare è accompagnare il movimento già avviato, come dice Marx in questa
sede, in modo da renderlo maggiormente cosciente di se stesso, ovvero di
rivelarne gli orientamenti e, partendo da qui, facilitare il suo progredire
esplicitandone le poste in gioco.
Il riferimento alla coscienza di sé, al Selbsbewusstsein
preso nel suo senso feuerbachiano, è qui di fondamentale importanza: la
critica, nella forma assunta oggi, ossia quella della critica politica, riesce
nel suo tentativo quando apporta al mondo la coscienza che gli manca, almeno in
forma sviluppata. Ora, questa coscienza non può che essere la coscienza delle
proprie contraddizioni e la messa in conto del fatto che sono queste stesse il
vero motore del suo sviluppo. Osserviamo come, seguendo i due contributi delle
filosofie di Hegel – accettando, quindi, che la storia avanzi grazie al suo
lato sbagliato, il suo aspetto negativo – e di Feuerbach – per cui lo scopo
della storia è la riappropriazione da parte dell’uomo della propria essenza
alienata, riappropriazione che passa per la purificazione della propria Selbsbewusstsein
dalla propria auto-alienazione – Marx sia pervenuto a dare un contenuto
concretamente definito alle lotte allora in corso, che lui caratterizzava
concettualmente tramite l’espressione Parteinahme, “presa di partito” o “presa
di posizione”. La critica prescrive l’alleanza col grande partito della
coscienza, sotto una forma di questa che non sia solamente teoretica, ma
pratica, elemento garantito per principio dal fatto che essa poggia sul
movimento reale di trasformazione del mondo, che prende in considerazione lo
stato delle cose, non per perpetuarlo idealmente, ma per decifrarlo, dire e
fargli dire la potenza di cambiamento di cui lui è portatore. Certamente vi è
qui una difficoltà: cosa può mai garantire che questa coscienza sia non
soltanto teoretica, ma anche pratica? Ma, quando scrisse questa lettera a Ruge,
Marx non sembrava affatto rendersi conto di questa difficoltà e si è
accontentato del riferimento al Selbsbewusstsein per definire il senso
del suo intervento e, soprattutto, per dargli un punto d’applicazione “reale”.
È su questo concetto che si conclude la lettera a Ruge del
settembre 1843:
Il nostro motto sarà
quindi: riforma della coscienza, non mediante dommi, bensì mediante l’analisi
della coscienza mistica oscura a se stessa, sia che si presenti in modo
religioso, sia in modo politico. Si vedrà allora come da tempo il mondo
possiede il sogno di una cosa, di cui non ha che da possedere la coscienza per
possederla realmente. Sarà chiaro come non si tratti di tirare una linea retta
tra passato e futuro, ma di realizzare le idee del passato. Si vedrà infine
come l’umanità non incominci un lavoro nuovo, ma venga consapevolmente a capo
del suo antico lavoro.
Possiamo dunque
sintetizzare in una parola la tendenza della nostra rivista:
auto-chiarificazione (filosofia critica) del nostro tempo in relazione alle sue
lotte e ai suoi desideri. Questo è un lavoro per il mondo e per noi. Esso
può derivare solo da un’unione di forze. Si tratta di una confessione, non
d’altro.
Per farsi perdonare le
sue colpe, l’umanità non ha che da dichiararle per ciò che esse sono.[13]
Tutto viene ricondotto, dunque, all’ottenimento di una
confessione: che il mondo riconosca in tutta chiarezza ciò di cui, senza
confessarlo, senza esserselo mai confessato, lui stesso costituisce da tanto
tempo, da sempre, l’idea come in un sogno. Così presentata, la filosofia
dell’avvenire – come lo professava anche Feuerbach – era un ritorno alle
origini, ai cominciamenti dell’azione che si perdevano nella notte dei tempi, e
si trattava, allora, di portarli all’attenzione della coscienza per mezzo della
critica. Come possiamo notare, il realismo ostentato da Marx a quest’epoca,
come reazione avversa allo spirito utopistico che animava i pensatori socialisti,
era un realismo dell’essenza vera, un realismo metafisico che risolveva le
proprie contraddizioni interne dandosi una forma politica. Marx scoprì presto,
subito dopo il fallimento degli Annali franco-tedeschi, la necessità di
allargare il proprio programma d’intervento a nuovi campi, come quello
dell’economia politica, la cui completa rivelazione, dopo i primi elementi
basilari forniti dalla lettura di Hegel e di Hess, gli era stata data
tramite Engels e il suo Abbozzo per una critica dell’economia politica,
ugualmente pubblicato dentro gli Annali franco-tedeschi. Apparirà allora, come
certi passaggi de La questione ebraica già suggerivano, che la formulazione del
programma “tutto politico” della lettera a Ruge, programma le cui basi sono
integralmente prestate dalla filosofia, fosse insufficiente, cosa che sarà la
grande scoperta dell’anno 1844, quando la critica della politica assumerà la
forma di una rimessa in questione del limitarsi alla critica alla politica nel
senso stretto del termine. Ed allora, il progetto di una realizzazione della
filosofia, nella forma di un divenire reale della filosofia o di una
venuta alla luce della stessa, nella forma di cui il mondo è portatore senza
averne chiaramente coscienza, cesserà di avere un valore preminente e Marx
comincerà a prendere la massima distanza dalla filosofia, cosa che lo porterà a
meglio comprendere i limiti in cui rimaneva bloccato il cammino di Feuerbach.
Cammino che, al momento cruciale della sua partenza dalla Germania per Parigi,
considerava ancora come un modello riutilizzabile così com’era, al prezzo di
qualche rimaneggiamento nel campo della lotta politica.
Trad: Guido Grassadonio
[1]L’autore si è rifatto nell’originale alla traduzione francese,
ad opera di Maximilien Rubel, contenute nel III tomo delle Oeuvres de
Marx (Philosophie), Paris, Gallimard, coll. La Pléiade, 1982, p. 1566.
Per la presente traduzione dal francese dell’articolo, ci rifacciamo a Aronlde
Ruge e Karl Marx, Annali franco-tedeschi, a cura di Gian Mario Bravo e con
traduzione ad opera di Anna Pegoraro Chiarloni e Raniero Panzieri, Milano
Edizioni del Gallo, 1965. Il passo in questione è contenuto a p. 78 [NdT]
[2] A. Ruge, K. Marx, Annali Franco-Tedeschi, p. 63
[7] Ibidem. Cfr. anche Étienne Cabet, Voyage en Icarie, Paris,
1842, seconda edizione
[12] Letteralmente «In principio era l’azione», celebre motto
tratto dal Faust di Goethe che parafrasa l’incipit del Vangelo di Giovanni
[NdT]
[13]A. Ruge, K. Marx, Annali Franco-Tedeschi, p. 83