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Karl Marx in Wall Street ✆ M. Wuerker
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Riccardo Cavallo | Da
poco è apparsa l’ultima fatica di Domenico Losurdo, La lotta di classe.
Una storia politica e filosofica
[1] che,
muovendosi controcorrente rispetto alla vulgata liberista imperante, si
sofferma su uno dei nodi problematici più significativi dell’opus
marx-engelsiano: la teoria della lotta di classe. Si tratta di un ulteriore
tassello che va inserirsi nel ventennale percorso di ricerca del filosofo
urbinate che, oltre a stilare un vero e proprio cahier de doléance sui
misfatti dell’Occidente liberal-capitalista, intende intervenire nelle ferite
ancora aperte della tradizione marxista mettendone in evidenza luci ed ombre.
1. What would
Marx Think? Questo interrogativo campeggia sulla copertina della versione
europea del Time del febbraio 2009, cioè nel momento clou della crisi
finanziaria che partita dall’esplosione del sistema dei mutui subprime
originatasi negli Stati Uniti, stava per dilagare anche nel resto del mondo.
Non è un caso allora che il prestigioso magazine decida di dedicare la propria cover
story ad un possibile ritorno alle tesi marxiste nell’epoca di Wall Street.
Così il celebre ritratto del filosofo di Treviri diviene immagine pop, dai
pixel giallo-oro che scorre al posto dei valori dei titoli azionari sul rullo
della Borsa cui si accompagnano altre frasi fluorescenti che rimandano alla
necessità di elaborare nuove idee per uscire dalla crisi e allo spauracchio del
ritorno della povertà. Tutto insomma lascia presagire che le tesi di Marx,
prima fra tutte quella sulla lotta di classe, siano più che mai da riprendere
in considerazione come utile strumento per evitare il baratro generato dalla
voracità autodistruttiva dei mercati.
Malgrado le apparenze, nel suo articolo intitolato Rethinking
Marx
[2],
l’editorialista Peter Gumbel è ben lungi dal voler inneggiare ad un ritorno del
marxismo,
cercando anzi di evidenziare come le idee di Marx, seppur profetiche
e a tratti geniali, abbiano nella pratica miseramente fallito. A tale scopo
Gumbel intraprende una sorta di itinerario nei luoghi simbolo della vita del
filosofo, ovvero le tre città che hanno avuto un ruolo determinante durante la
sua esistenza: Treviri, sua città natale, Parigi dove aveva trovato rifugio per
un po’ di tempo e infine Londra, in cui trascorse gli ultimi trentaquattro anni
della sua vita e dove tuttora è possibile visitare la sua tomba su cui è
scolpita la sua nota citazione, impressa con lettere dorate: «The philosophers
have only interpreted the world in various ways. The point however is to change
it». Tuttavia quello che può sembrare un nostalgico tour in realtà sembra avere
ben poco l’intento di auspicare un ritorno a Marx traducendosi, al contrario,
in un netto rifiuto delle sue teorie. Alla fine del viaggio di Gumbel ciò che
rimane è una visione del marxismo strettamente legata alle sue realizzazioni
concrete e più o meno fedeli, nell’Ex Unione Sovietica e nei paesi dell’Est
Europa. Un panorama piuttosto desolante in cui l’unica via è, nonostante la
crisi, non rinunciare ad un modello economico di tipo capitalistico.
Ma l’accostamento tra l’opera di Marx e la situazione di
impasse generata dalla crisi già alla fine del 2008 aveva inspirato diversi
articoli, tra cui quello pubblicato sul settimanale The Economist
[3]
che si chiedeva cosa Marx avrebbe pensato e teorizzato di fronte alla crisi e
quello, ancora più eloquente, intitolato Booklovers turn to Karl Marx as
financial crisis bites in Germany. Qui senza mezzi termini Kate Connolly,
corrispondente da Berlino per la nota testata inglese The Guardian, inizia il
proprio articolo
[4]
con la seguente lapidaria affermazione: «Karl Marx is back», per poi dilungarsi
sui motivi del successo editoriale delle opere di Marx, specie tra i giovani
studenti universitari tedeschi, alla ricerca di risposte illuminanti in tempi
bui e soprattutto di alternative valide al dominio dell’Occidente
liberal-capitalistico.
Oltre all’impennata di vendite de Il Capitale fino a
sfiorare numeri da best seller, testimoniata dalle stesse parole del
responsabile di uno dei maggiori editori specializzati in testi accademici in
Germania, la Karl-Dietz-Verlag, ciò che è apparso ancora più sorprendente è
stato il giudizio espresso da più della metà dei cittadini dell’ex Germania
dell’Est che hanno dichiarato di essere fortemente delusi dal capitalismo che
inizialmente li aveva abbagliati con le sue armi seducenti e ingannevoli mentre
un’altra buona parte di loro addirittura spera in un ritorno del socialismo.
Tale sondaggio riportato da un altro giornalista della Reuters in un suo report
[5]
del 2008 costituisce il punto di partenza per un interrogativo più che
legittimo: perché nonostante gli orrori e le storture del regime sovietico
della DDR nascoste dietro un’apparenza di giustizia sociale e miseramente
svelati al mondo intero dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989 i cittadini
della Germania dell’Est rimpiangono il socialismo e disprezzano le ‘gioie del
capitalismo’? Se il volto del socialismo è stato a tratti spietato quello del
capitalismo si rivela persino peggiore: come un killer dai modi di fare
ammalianti e cortesi ha prima sedotto la prima vittima con promesse tanto
allettanti quanto irrealizzabili e poi l’ha attaccata e uccisa nel peggiore dei
modi. È allora inevitabile che, nel momento in cui in tanti si accorgono del
volto mostruoso del capitale, si riscopra il valore delle teorie marxiste,
specie quelle sulla lotta di classe, sia pure rivisitate, o meglio di un Marx
reloaded, come ha affermato con un abile gioco di parole che richiama un noto
film di fantascienza, il ‘pedagogista critico’ Ramin Farahmandpur un paio di
anni addietro in un saggio che si interroga proprio sulla necessità di far
studiare l’opera marxista nelle scuole pubbliche per contrastare
l’inarrestabile (quanto deleteria) avanzata della sfrenata società capitalistica
[6].
2. In questo
contesto va collocata l’ultima fatica di Domenico Losurdo “La lotta di classe.
Una storia politica e filosofica”
[7]
che, muovendosi controcorrente rispetto alla vulgata liberista imperante, si
sofferma su uno dei nodi problematici più significativi dell’opus
marx-engelsiano: la teoria della lotta di classe. Si tratta di un ulteriore
tassello che va inserirsi nel ventennale percorso di ricerca del filosofo
urbinate che, oltre a stilare un vero e proprio cahier de doléance sui misfatti
dell’Occidente liberal-capitalista, intende intervenire nelle ferite ancora
aperte della tradizione marxista mettendone in evidenza luci ed ombre.
La domanda fondamentale da cui prende le mosse la
riflessione di Losurdo può essere riassunta nei termini seguenti: cosa
intendono Marx ed Engels per lotta di classe? Per rispondere a questo
interrogativo occorre innanzitutto sapersi orientare nei labirinti
marx-engelsiani alla ricerca di quei frammentari luoghi teorici da cui
emergono, nonostante l’evidente asistematicità, i principi-cardine di tale
teoria e rileggerli nel milieu in cui sono maturati.
Operazione a dir poco ardua che richiede, da un lato, una
rigorosa analisi logico-filologica dei testi marx-engelsiani e, in modo
particolare, del Manifesto e, dall’altro, un’articolata disamina del contesto
storico, non dimenticando che la stessa lotta di classe – come sottolinea
giustamente Losurdo – possa essere usata in maniera strumentale dal potere
dominante ed essere quindi inserita nell’ambito di un progetto complessivo di
segno conservatore e/o reazionario, com’è stato efficacemente dimostrato di
recente da Luciano Gallino
[8],
il quale identifica l’offensiva, messa in atto specialmente nell’ultimo
trentennio, dalle classi dominanti per ‘rovesciare’ a proprio vantaggio, come
una nuova lotta di classe atta a scardinare ogni conquista ottenuta dal basso
in seguito alle vecchie lotte sociali.
Perciò la seria e dettagliata ricostruzione losurdiana,
seppure non sempre condivisibile, può costituire indubbiamente un utile filo di
Arianna per orientarsi nel dedalo marxiano della teoria della lotta di classe
che, agli occhi dell’Autore, si presenta come una teoria generale del conflitto
sociale, che operando una radicale rottura con le ideologie naturalistiche
colloca tale conflitto sul terreno della storia. La conseguenza è che le
innumerevoli forme in cui esso si manifesta nella realtà non possono essere non
tenute in debito conto.
Del resto, ciò si evince dalla scelta, nient’affatto
casuale, operata da Marx ed Engels di utilizzare non il singolare Klassenkampf ma
il plurale Klassenkämpfe. A partire da questa arguta precisazione, la lotta di
classe non rinvia solo ed esclusivamente al conflitto tra la borghesia e il
proletariato. Quest’ultimo pertanto non è l’unica forma possibile della lotta
di classe ma una delle possibili forme che essa può assumere concretamente
nelle diverse epoche storiche. Riconoscere la dimensione plurale della lotta di
classe significa almeno ammettere che le tre grandi lotte di classe
emancipatrici sono: 1) la lotta per l’emancipazione del proletariato; 2) la
lotta per l’emancipazione delle nazioni oppresse; 3) la lotta per
l’emancipazione della donna.
Collocarsi sul terreno della comprensione storico-sociale
comporta però il rifiuto di ogni spiegazione che enfatizzi, in modo
unilaterale, elementi etnologico-razziali (esemplificati nella nota opera di
Arthur de Gobineau, Saggio sulla diseguaglianza delle razze umane) o
psico-patologici (si pensi alla Psicologia delle folle di Gustave Le Bon)
sottese ai paradigmi dominanti nella cultura borghese della seconda metà
dell’Ottocento che, in molti casi, finiscono per intrecciarsi e sovrapporsi. E
proprio contro la reductio agli aspetti biologico-naturalistici degli
appartenenti alle classi subalterne, assimilati a barbari o addirittura a
soggetti di rango inferiore e la conseguente legittimazione dell’istituto della
schiavitù, che viene elaborata la teoria della lotta di classe. Ma
quest’ultima, Losurdo non si stanca mai di ripeterlo, va intesa non in maniera
grettamente economicistica (lotta per la redistribuzione) ma anche e
soprattutto come lotta contro i processi disumani e coercitivi che
caratterizzano la società capitalistica (lotta per il riconoscimento).
Innumerevoli sono le espressioni (anche forti) a cui
ricorrono, molte volte, nei loro scritti i due filosofi e militanti
rivoluzionari per denunciare le condizioni miserrime del proletariato che vanno
ben al di là dell’angusto orizzonte economicistico (come vuole la tradizione
liberale) coinvolgendo anche ogni ostacolo all’affermazione dell’uomo in quanto
tale e della sua dignità costantemente calpestata. Qui i riferimenti filosofici
a cui ricorre Marx sono piuttosto evidenti e sono rintracciabili nel paradigma
del riconoscimento di hegeliana memoria e, in particolare, nella dialettica tra
servo e padrone immortalata nelle celebri pagine della Fenomenologia dello
spirito. Se per un verso Marx sembra far tesoro della grande lezione hegeliana
che considera l’individuo realmente libero solo quando riconosce e rispetta
l’altro quale individuo libero, per un altro la traspone dal piano individuale
a quello collettivo. La denuncia dell’antiumanesimo che pervade il sistema
capitalistico dunque non può ritenersi episodica o marginale ma rappresenta una
sorta di leitmotiv che attraversa il pensiero di Marx ed Engels e non può
essere affatto confusa con la retorica umanistica. Ad incorrere in un siffatto errore
è stato, com’è noto, Louis Althusser, il quale aveva parlato di una rottura
epistemologica nell’opera marxiana, laddove Losurdo al contrario scorge solo il
passaggio a un ordine diverso del discorso nell’ambito del quale «la condanna
morale dei processi di reificazione insiti nella società borghese e del suo
antiumanesimo è espressa in modo più sintetico ed ellittico»
[9].
3. Ma l’elemento
che più di ogni altra cosa emerge dal lavoro di Losurdo è la costante
attenzione riservata da Marx ed Engels alla questione nazionale che molti
studiosi marxisti sulla base del noto passaggio tratto dal Manifesto in cui si
afferma che «gli operai non hanno patria», hanno liquidato in modo piuttosto
frettoloso e superficiale. A smentire un siffatto assunto basta sfogliare le
numerose pagine delle loro opere, rinvenibili in ordine sparso, dedicate a tale
questione e, nello specifico, alla lotta del popolo irlandese contro il dominio
degli inglesi da un lato e di quello polacco contro il regime zarista
dall’altro. Il significato politico-rivoluzionario di tali lotte, al di là
delle differenze, sta nel fatto che la questione sociale si presenta quasi
sempre come questione nazionale.
In particolare, il caso irlandese viene visto da Marx con
favore per la sua potenzialità di divenire una sorta di detonatore in grado di
far esplodere la rivoluzione anche altrove; invece, quello polacco si presenta
funzionale a fronteggiare la Russia zarista che all’epoca, per il suo essere
l’ultimo bastione della reazione in Europa, rappresentava la principale
minaccia verso la classe operaia e la democrazia. Non è un caso che
quest’episodio rimanga impresso nella memoria collettiva grazie alla lapidaria
affermazione di Lenin: «la Russia era ancora addormentata mentre la Polonia era
in fermento».
Allo stesso modo, come non dimenticare il trasporto con cui
Marx segue a più riprese le vicende dell’India definita, non a caso, l’Irlanda
dell’Oriente, in cui milioni di operai sono stati costretti a sacrificare la
propria vita non per garantire un futuro migliore al loro paese quanto
piuttosto – per riprendere l’amara constatazione dello stesso Marx – «procurare
al milione e mezzo di operai, occupati in Inghilterra nella medesima industria,
tre anni di prosperità su dieci»
[10].
Ciò nonostante – Losurdo non manca di rilevarlo – in molti settori del
movimento comunista prevale una sorta di internazionalismo dai tratti
utopistici che mira a liquidare come falsi miti le identità nazionali. Un
esempio emblematico di tale forma mentis è l’atteggiamento cinico e sprezzante
dell’anarco-socialista francese Pierre-Joseph Proudhon reo, a detta di Marx ed
Engels, di aver irriso e condannato le aspirazioni nazionali dei popoli
oppressi.
Già da queste brevi notazioni si scorge come la loro
passione verso l’emancipazione delle nazionalità oppresse sia inscindibile da
quella per l’emancipazione del proletariato. Del resto, la vittoria della
Rivoluzione di Ottobre non si può comprendere – per parafrasare Walter Benjamin
– omettendo la rilevanza del sentimento nazionale che il bolscevismo aveva
sviluppato in tutti i russi senza distinzione di sorta e che Losurdo ritiene
essere addirittura una delle cause (rectius: la causa) della disgregazione dell’impero
sovietico. In ultima analisi, eludere la questione nazionale vuol dire
rovesciare il preteso cosmopolitismo o internazionalismo in una sorta di
sciovinismo acritico e settario.
Un ulteriore aspetto che Losurdo sembra avere a cuore e sul
quale si sofferma nelle pagine conclusive consiste nella messa in guardia dalla
ricorrente tentazione populista che, al di là delle sue diverse varianti, si
basa sulla credenza mitologica del valore salvifico del popolo. Credenza oggi
ancora più pressante a causa della crisi teorica che investe la dottrina
marxista. In realtà, si tratta di un fenomeno per niente inedito, in quanto la
semplicistica lettura binaria del conflitto la si ritrova, per esempio, già
durante la rivoluzione bolscevica, laddove l’emergere di un rozzo egualitarismo
e un altrettanto grossolano ascetismo universale è ciò che sembra accomunare,
al di là delle differenze, non solo il fervente cristiano Pierre Pascal e
l’operaio belga Lazarević ma molti altri seguaci del bolscevismo, tra cui lo
stesso Lenin come si desume dal tenore letterale di alcuni discorsi pronunciati
in questo periodo. Come non rammentare allora le taglienti parole di Antonio
Gramsci che, nel noto scritto La Rivoluzione contro il Capitale, si scaglia
contro il collettivismo della miseria e della sofferenza?
Essa si ripresenta, in modo ancor più accentuato, negli
scritti di Simone Weil che tende a ridurre la lotta di classe alla riscossa
degli umili e dei reietti e che Losurdo, malgrado l’empatia che la filosofa
prova nei confronti del movimento operaio, rigetta ricorrendo a diversi esempi
storici (tra cui la Comune di Parigi e la guerra di secessione americana) che
dimostrano con estrema chiarezza la sua inadeguatezza, vista la diversità dei
soggetti che, a seconda delle situazioni concrete, possono incarnare le istanze
rivoluzionarie. Losurdo sembra qui tenere ben a mente il celebre ammonimento
marxiano: «non c’è nulla di più facile che dare all’ascetismo cristiano una
mano di vernice socialista». Da ultimo, una forma più o meno latente di
populismo riemerge sia in alcuni lavori di Slavoj Žižek che non esita a
qualificare l’approccio di Weil, secondo cui solo i mendichi e reietti sono in
grado di dire la verità, come «semplice e toccante», sia negli scritti di
Antonio Negri e Michael Hardt, in cui il conflitto tra l’impero e la
moltitudine assume anch’esso un’intonazione di tipo moralistico soprattutto
quando si celebra l’eccellenza morale insita nella figura del ribelle che
rimane tale solo fino a quando si tratta di liberare un popolo oppresso ed
umiliato ma viene meno nel momento in cui esso si dismette di tali panni.
4. La lettura del
volume di Losurdo si rivela dunque utilissima quanto affatto consolatoria: lo
scenario che si presenta davanti ai nostri occhi è, a dir poco, inquietante se
si pensa che la storia occidentale è stata costellata da brutali episodi, da
cui emerge in maniera costante la volontà di ridurre l’altro in schiavitù, sia
in forme più o meno palesi, sia in forme più o meno subdole. Nonostante i
facili trionfalismi diffusisi subito dopo la caduta del Muro di Berlino e la
conseguente dissoluzione dell’impero sovietico, nuove forme di colonialismo e
di imperialismo da parte dell’Occidente che, in realtà, ricordano molto da
vicino le forme di schiavitù otto-novecentesche si stanno sempre più
affermando.
Un’analoga riflessione suscita il riaffiorare, in molte
metropoli, di una figura, a lungo negletta, come quella del working poor
appartenente a quella fascia di lavoratori che, pur percependo un reddito, si
avvicinano o si trovano al di sotto della soglia di povertà. A dispetto di
quanto si possa pensare, tale fenomeno non riguarda solo coloro che per
mancanza di qualifiche diventano ‘obsoleti’ rispetto ai lavoratori più
qualificati o in linea con l’avanzamento tecnologico, ma paradossalmente
colpisce soprattutto i giovani in possesso di rilevanti curricula costretti in
molti casi a ‘nascondere’ i propri titoli, pur di svolgere lavori sottopagati e
privi di prospettive e adeguate garanzie. Tale triste scenario non fa altro che
smentire le rassicuranti litanie sulla fine della lotta di classe nella società
novecentesca avanzate dal sociologo Ralph Dahrendorf, il quale all’inizio degli
anni Sessanta la riteneva un’anticaglia del passato da cui bisognava, prima o
poi, liberarsi o dal filosofo Jürgen Habermas che, invece, alcuni decenni dopo,
nel sottolineare, ancora una volta, che il superamento di tale conflitto era
addirittura risalente agli anni immediatamente successivi alla seconda guerra
mondiale con l’avvento dello Stato sociale, ometteva un particolare non
trascurabile, cioè le lotte che avevano contribuito all’edificazione di
quest’ultimo. In realtà, già agli albori dell’Ottocento si era diffusa una
corrente di pensiero che sosteneva, dopo il tramonto dell’Ancien Régime e
l’avvento della società borghese, l’inesorabile tendenza verso il livellamento
delle differenze e l’inutilità della lotta di classe. Ben lungi dall’aver
eliminato i conflitti di classe come pensavano John Stuart Mill e Alexis de
Tocqueville, la società borghese – come scrivono Marx ed Engels – in realtà non
aveva fatto altro che riproporli in forme nuove, acuendo, sia a livello
nazionale che internazionale, le diseguaglianze.
La dura lezione che possiamo trarre da queste tragiche
vicende, di cui Losurdo ripercorre sia i passaggi più conosciuti e studiati,
sia quelli dimenticati e condannati all’oblio, in cui le innumerevoli lotte di
classe, sviluppatesi a cavallo tra Otto e Novecento, assumono le sembianze più
disparate (guerre di resistenza o di liberazione nazionale, insurrezioni o
rivoluzioni anticoloniali) sta nel fatto che esse, al di là dei distinguo, sono
accomunate dall’essere sempre state lotte nazionali e vanno condotte non solo
sul piano politico ma soprattutto su quello economico.
L’esempio paradigmatico, a cui ricorre più volte l’Autore, è
quello della nascita di Haiti, a proposito della quale vengono rievocate le
gesta di Touissant Louverture che capeggiò la rivoluzione degli schiavi
avvenuta alla fine del Settecento a Santo Domingo e la cui eco andò ben oltre i
confini del piccolo paese sud americano, innescando un processo a catena di
abolizione della schiavitù. La grande vittoria politica ottenuta sconfiggendo
uno degli eserciti più potenti del mondo come quello napoleonico è stata tutt’altro
che duratura, poiché il sistematico isolamento diplomatico e la persistente
offensiva economica da parte degli USA e degli altri paesi occidentali hanno
provocato il collasso del paese sud americano. Forse per evitare che la storia
si ripeta, Losurdo si concentra sul caso cinese e la sua ascesa nell’attuale
scenario geopolitico globale che segna, per molti versi, il tramonto dell’epoca
colombiana contrassegnata da secoli di dominio incontrastato dell’Occidente e
la radicale messa in discussione della divisione internazionale del lavoro
imposta dal capitalismo.
Lo spettro della lotta di classe che il pensiero mainstream sembrava
dunque aver esorcizzato definitivamente è nuovamente sotto gli occhi di tutti,
come evocativamente afferma di recente il corrispondente da Pechino Michael
Schuman sul Time, in un articolo intitolato Marx’s Revenge: How Class Struggle
is Shaping the World
[11],
in cui, anche sulla base dei risultati di un accurato studio dell’Economic
Policy Institute (EPI) di Washington, riconosce il ruolo profetico di Marx
nella teorizzazione dei guasti del sistema capitalista: l’impoverimento
crescente delle masse e la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi
genera conflitti sempre più stridenti tra le classi sociali.
Aver narrato i fasti di questa tormentata storia, attraverso
la proposta di un’altra narrazione alternativa a quella dominante, è l’indubbio
merito di Losurdo, che coglie altresì nel segno quando invita provocatoriamente
i magnati del capitale e della finanza a rileggersi, di prima o di seconda
mano, Marx. Ma il suo limite sta nell’aver affrontato solo di sfuggita la
questione ecologica che appare oggi un indispensabile terreno di confronto a
sinistra, quantomeno se si vogliano, anche in questo caso, sviluppare
criticamente le intuizioni di Marx ed Engels, riconoscendo accanto alla prima
contraddizione (capitale/lavoro) anche la seconda (capitale/natura). Se tali
idee sono ancora vive e feconde non è forse il caso di considerare le lotte
ambientaliste intese lato sensu (ivi compresa quella per la tutela dei beni
comuni) come l’ultima ed inedita frontiera della lotta di classe?
Note
[1]
D. Losurdo, La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza,
Roma-Bari, 2013.
[6] R. Farahmandpur, Teaching against Consumer
Capitalism in the Age of Commercialization and Corporatization of Public Education,
in J.A. Sandlin, P. McLaren (a cura di), Critical Pedagogies of Consumption,
Routledge, London-New York, 2010, pp. 58-66.
[7]
D. Losurdo, La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza,
Roma-Bari, 2013.
[8]
L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe. Intervista a cura di
Paola Borgna, Laterza, Roma-Bari, 2012.
[9]
D. Losurdo, La lotta di classe, cit., p. 91.
Riccardo Cavallo svolge attività didattica e di ricerca con
la cattedra di Filosofia del Diritto presso il Dipartimento di Giurisprudenza
dell’Università degli Studi di Catania. La sua tesi dottorale si è aggiudicata
nel 2005 il Premio di filosofia “Viaggio a Siracusa”. Tra le sue pubblicazioni
più rilevanti le monografie: L’antiformalismo nella temperie weimariana (Giappichelli,
2009) e Le categorie politiche del diritto. Carl Schmitt e le aporie del
moderno (Bonanno, 2007).