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Karl Marx ✆ Lissette Carvette (Venezuela), 11 años
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Gianfranco La
Grassa
1. Nella Prefazione al Capitale, in un passo già da me citato,
Marx ricorda che egli “tratta delle
persone soltanto in quanto sono la personificazione di categorie economiche,
incarnazione di determinati rapporti”. Gli uomini concreti, in tutta la
loro complessità, sono dunque lasciati da parte onde considerarli solo quali
maschere di rapporti sociali. Questo il punto di vista fondamentale. I rapporti
sociali d’insieme che si stabiliscono tra gli individui sono certamente assai
ricchi di sfaccettature, di sfumature, di angolazioni molteplici. E, per quanto
considerati nella loro più ampia multilateralità, mai esauriranno la
complessità indefinita della “realtà” sociale. I rapporti sociali di
produzione, fulcro del concetto di modo di produzione, sono però assai più
semplici: nel capitalismo, e secondo Marx, essi riguardano essenzialmente gli
individui in quanto portatori delle funzioni concernenti la proprietà dei mezzi
di produzione e la prestazione di forza lavoro venduta come merce. E’ come se
la “realtà” fosse strutturata secondo una serie di livelli dei rapporti sociali:
il livello della trama, a maglie molto larghe, che “regge” tuttavia diversi
livelli di ordito a maglie via via più strette. Il modo di produzione, il
concetto centrale della scienza marxiana, si interessa del primo, del livello
della trama.
Gli
uomini che entrano fra loro in relazione nei rapporti di produzione non sono
quelli dotati di tutte le loro prerogative di individui umani. Questi ultimi
non sono necessariamente a una dimensione, alienati, puramente schiavi di una
società dello spettacolo, e tutta una serie di altre considerazioni unilaterali
elaborate da “filosofi” sociali che sinceramente mi appaiono lontane dalla
“realtà”.
Tanto
per fare un esempio piuttosto significativo di certa mentalità di coloro che
hanno trattato degli individui in società, ci sono stati dei pensatori assai
superficiali che hanno criticato la teoria neoclassica, quella dei concetti
marginalistici, perché partiva dalla considerazione dell’homo oeconomicus.
Orrore! L’uomo non può essere suddiviso in tanti spicchi, non deve essere
privato della sua meravigliosa complessità di essere umano! Simili posizioni
sono per me estremamente ingenue e vuote di effettivo significato. E’ più che
lecito indagare questo essere secondo varie angolazioni, che non hanno alcuna
pretesa di rappresentare diverse porzioni dell’uomo, ma solo di evidenziare
alcune sue particolari funzioni, alcune sue prestazioni, poste comunque, pur
secondo differenti punti di vista, come quelle decisive, quelle che ne
determinano le principali azioni considerate strutturanti le maglie larghe,
portanti, della trama di quella data società.
La
critica al marginalismo deve mettere in luce che tale teoria presuppone la
decisività e preminenza delle prestazioni (in specie, ma non solo, quelle
economiche) degli individui, presi in sé e avulsi da ogni forma sociale; per
cui tali (prest)azioni appaiono quali mere scelte individuali (e la teoria in
questione è infatti una non banale, e tanto meno falsa, teoria delle scelte).
Solo dopo (un dopo logico), si presta attenzione alla società, i cui rapporti a
maglie larghe sono appunto definiti in base alle scelte individuali in
questione. Marx parte invece preliminarmente dalla società. I rapporti che la
definiscono non riguardano, per tale pensatore, scelte semplicemente individuali
– e l’individuo non è un soggetto economico che si confronta con i beni che ha
a disposizione per soddisfare i suoi bisogni – bensì sono relazioni, decisive e
pur sempre a maglia larga, tra i proprietari dei mezzi produttivi e i “liberi”
prestatori di forza lavorativa. Proprietario capitalista e “proprietario” di
mera forza lavoro sono “uomini” nello stesso senso dell’homo oeconomicus dei
neoclassici; cioè, in definitiva, non lo sono affatto, sono semplici portatori
di funzioni. Solo che i neoclassici fondano la struttura decisiva dei rapporti
sociali sulle scelte individuali – guidate da un presupposto sistema di bisogni
– mentre Marx tratta le azioni individuali in quanto orientate, “in ultima
analisi”, dalla struttura decisiva, quella appunto a maglie larghe, della
società. In questo senso, gli individui della teoria marxiana, come appena
affermato, non sono uomini, ma maschere di rapporti sociali, quei rapporti
definiti di produzione nella loro storicamente determinata forma capitalistica.
In
poche parole, esistono delle strutture oggettive – non formate da rapporti tra
persone pensate nella loro complessità individuale di uomini – che
costituiscono l’oggetto dell’analisi scientifica. Ed è ora di dirlo con
chiarezza: la scientificità può riguardare anche la teoria formulata
dall’economica tradizionale; in tal senso, la connotazione economica riguarda
semplicemente la scelta, intesa però, in questa accezione, come un’azione
orientata da criteri di razionalità strumentale tesi alla massima
economizzazione dei mezzi indispensabili al conseguimento di uno scopo
prefissato. Quest’ultimo è scelto dall’individuo umano nella sua complessità:
può quindi essere un fine cattivo o buono, giusto o ingiusto; può essere
egoistico o filantropico, ecc. ecc. Una volta però posto lo scopo, il singolo
dismette la sua complessità umana, si trasforma in un soggetto razionale e
decide come raggiungere quell’obiettivo nel “migliore” dei modi possibili,
intendendo – nell’ambito di questa concezione – migliore come sinonimo di razionale,
e razionale come sinonimo di impiego del minimo sforzo.
Questo
è un punto di vista – crititicabile, e infatti un marxista non può esimersi dal
criticarlo – ma non semplice ideologia, intesa nel suo senso di falsa
coscienza. L’ideologico si insinua nella scienza economica neoclassica tramite
il solito, non preavvisato, spostamento di significato. La semplice teoria
(razionale) delle scelte – che, in quanto tesa a spiegare portata e senso
(significato e direzione) di certe azioni individuali in una situazione data,
ha carattere prettamente conoscitivo – viene mutata in una teoria della
costituzione di società mediante attività individuali in genere di carattere
egoistico; in tal senso la teoria detta marginalistica non fa che portare alle
estreme conseguenze – e con “eleganza formale” (matematica) – la tesi smithiana
della mano invisibile. Per questi motivi, è sufficientemente giustificato
denominare neoclassica tale corrente di pensiero economico, malgrado la
diversità piuttosto netta in termini di teoria del valore utilizzata
(valore-utilità invece che valore-lavoro, il che significa la sostanziale
identificazione del valore con quello d’uso) e la centralità posta nel consumo
(e domanda) invece che nella produzione (e offerta).
Anche
Marx sviluppa in definitiva un’analisi scientifica e si pone il fine (cruciale)
di individuare, fra l’altro, la divisione in classi antagonistiche di ogni
società storicamente conosciuta: le classi che producono l’intero prodotto e
quelle che si appropriano del plusprodotto facendone il fulcro della loro
azione tesa al dominio e all’egemonia sociale complessivi. Queste classi sono
formate da “maschere di rapporti sociali”, da “persone che incarnano dati
rapporti sociali”, ecc. Anche il pensiero di Marx subisce però una torsione
ideologica da parte del marxismo: dalla maschera all’uomo. Esistono uomini
proprietari (i “padroni”) e uomini lavoratori (gli operai). Così si è consumato
lo sconvolgimento del senso dell’analisi scientifica marxiana, pur se questo
processo è con quasi sicurezza quello che ha consentito la saldatura tra
nascente movimento operaio e “dottrina” marxista. Senza questa torsione
ideologica, Marx sarebbe restato nella storia del pensiero economico e sociale,
ma non avrebbe dato il proprio nome ad un movimento che ha segnato un buon
secolo di storia. Dopo Cristo (ancora in auge), Marx è probabilmente il
personaggio che più a lungo ha orientato un imponente movimento di “masse”.
Naturalmente,
man mano che il movimento operaio usciva completamente dal retaggio culturale
del mondo contadino, man mano che gli operai diventavano sezioni assai
diversificate di un mondo del lavoro salariato all’interno della formazione
sociale capitalistica ad alto livello di sviluppo, il marxismo ha fatto la fine
miseranda che sappiamo; restano ormai solo pochi santoni squalificati,
rabbiosi, isolati più ancora degli “ultimi giapponesi a combattere”. Il
cosiddetto tradunionismo – cioè l’abbandono di ogni velleità rivoluzionaria,
anzi anche di semplice trasformazione appena un po’ radicale – ha conquistato
per primo il movimento operaio inglese. Tuttavia, ci si consolava;
l’Inghilterra, a quel tempo, era il primo paese ad essersi altamente
industrializzato, ma era inoltre, e soprattutto, un paese colonizzatore per
eccellenza. Non poteva esservi dubbio: la classe “universale” (operaia) –
quella che aveva la missione, oggettivamente fissata in sede di dottrina, di
emancipare se stessa e l’intera umanità – si era venduta (anzi, si erano
soprattutto venduti i suoi capi, in genere “piccolo-borghesi” pronti a
svendersi) per il classico “piatto di lenticchie” (niente male quelle
“lenticchie”!) ottenuto grazie allo sfruttamento imperialistico. Poi però,
sfortunatamente, la svendita si è andata generalizzando a tutto il mondo
capitalistico sviluppato, man mano che questo (con sempre nuovi paesi che
affluivano in esso, ivi comprese le sedicenti “grandi nazioni proletarie” come
l’Italia) si sviluppava e raggiungeva la maturità del modo di produzione
capitalistico.
Tanto
valeva abbandonare la classe operaia, questa “venduta”. Gli eroi diventano
allora le masse popolari dei paesi sottoposti alla dominazione imperialistica,
che dovrebbero “accerchiare le città” (i paesi degli operai ormai integratisi
nel capitalismo via consumismo). Oggi, francamente, anche questa ideologia,
pauperista e miserabilista, si è del tutto esaurita (e meno male! Prima cadono
le illusioni e prima, forse, si ricomincerà a pensare). Quella che, da ormai
troppo tempo, è in pieno disuso è l’analisi scientifica condotta con la forza
di Marx. Si chiacchiera a vanvera e basta. E sempre con l’l’Uomo in bocca; un
pover’uomo degradato dal suddetto consumismo, dai mass media sempre più
volgari, dallo spettacolo che invade tutta la nostra vita. Un pover’uomo
alienato in ogni dove, piallato e reso una sottile tavoletta priva di
tridimensionalità, che non pensa più, non ama più, non soffre più, che vede i
morti veri e crede che siano videogiochi; e via con questa minestra, ormai
riscaldata da decenni, ammannita da intellettuali che su questi piagnistei a
comando ci guadagnano sopra bei soldi tramite i tanto vituperati mass media,
per poter scrivere e apparire sui quali sgomitano e si odiano mortalmente fra
loro; veri esseri disgustosi e piatti.
2. Evidentemente, quanto diffuso
nei mass media che contano dai vari maîtres à penser non è del tutto destituito
di fondamento. Tuttavia, ad ogni affermazione catastrofica se ne può
contrapporre una consolatoria del tutto opposta, che è anch’essa (parzialmente)
valida, poiché rappresenta l’altra faccia della “visione reale”. Spesso e
volentieri, le differenti opinioni dipendono dall’ottimismo o dal pessimismo di
chi sostiene certe tesi. E poi, in generale, ben si sa – basta conoscere un po’
di letteratura e di saggistica (e di cinema), ecc. – che ogni generazione
imputa sempre a quella successiva gravi processi degenerativi e la crescente
invivibilità del mondo; mentre la nuova generazione brontola per i lasciti
della precedente che sono un grave fardello da portare, un cumulo di macerie su
cui è difficile costruire qualcosa. Ovviamente, tutto questo dipende dal diverso
“umore” delle generazioni al tramonto o invece all’alba. Tuttavia, lasciamo
perdere tale umore e osserviamo più da vicino l’atteggiamento degli scienziati
in merito all’analisi della società.
Uno
dei più gravi disastri culturali – e in questo molti marxisti hanno le stesse
responsabilità di una parte dei pensatori “borghesi” – è stato provocato dalla
scissione pensata tra scienze sociali (e dell’uomo) e scienze naturali, perché
le prime avrebbero un oggetto che è del tutto intrinseco allo stesso soggetto che
fa scienza. Analizzare Luna e stelle significherebbe analizzare qualcosa che è
a noi esterno e su cui non abbiamo influenza. Un po’ più complesso è il
problema per quanto concerne le microparticelle giacché su queste possiamo
influire con le nostre azioni conoscitive; ma, insomma, si tratta comunque di
realtà esterne e prive di pensiero, di passioni, volontà e decisioni, ecc.
Appena prendiamo a nostro oggetto di studio la storia, le strutture sociali e
cose consimili (non parliamo dell’individuo umano!), avremmo a che fare con
oggetti che sono gli stessi soggetti che fanno scienza. Una simile concezione
non è però troppo lontana da quella primitiva che antropomorfizzava anche i
fenomeni naturali. Alcuni pensatori e anche metodologi delle scienze sociali rischiano
quindi di dover essere paragonati agli animisti.
Una
struttura sociale è tanto reale (è una riproduzione della realtà) quanto lo è
il modello del sistema planetario o, ancor meglio, il modello atomico di Bohr.
Per non parlare delle superstringhe, o dei buchi neri, del big Bang e delle
varie teorie cosmologiche più moderne. Una struttura sociale è uno schema
ideale d’ordine che interpreta e prevede, che consente una serie di ipotesi,
tanto quanto la struttura pensata, ideata, di una data realtà naturale. La
confusione che viene fatta dipende da ciò che è stato già rilevato: certi
studiosi (assai ideologizzati) spostano l’accento dalla funzione all’intera
personalità degli individui umani, consentendosi così la possibilità di
impasticciare ogni cosa e di dire tutto e il contrario di tutto. E’ ovvio che
Popper ce l’aveva con gli olisti, ma perché si semplificava il compito credendo
di confutare lo scienziato Marx mentre si trattava dei politici e dei filosofi
del marxismo successivo, quelli di “padroni e operai”, quelli delle totalità
generiche dove tutto è ammassato con tutto senza ordine, senza strutture, senza
sistemi di relazioni, senza dinamiche in quanto sequenze (ipotizzate) di dati
processi, ecc.
Non è
Marx la reale causa di questo caos teorico, ma i marxisti – e non solo loro! –
successivi. La scienza non tratta mai di uomini, ma di quelle loro sedicenti
suddivisioni (ad es. l’homo oeconomicus) che sono invece funzioni (lo
ribadisco: ipotizzate) poste in interazione fra loro secondo peculiari forme,
tali da spiegare determinati processi che, assumendo certamente un prescelto
angolo di visuale, vengono ritenuti quelli decisivi per interpretare specifici
processi storici, particolari situazioni della fase presente, tendenze future,
ecc. Nella scienza si fa tutto il possibile per evitare l’ideologia come falsa
coscienza – e, se questa si insinua comunque, ciò non accade solo nella scienza
sociale – ma si sceglie consapevolmente un punto di vista. L’economica
neoclassica fonda la trama sociale – la struttura a maglie larghe – sulla
primigenia funzione di scelta di ogni individuo dotato di beni scarsi da
adibire, massimizzando il proprio utile, ad usi alternativi (i bisogni).
L’interazione tra individui – non la società, si badi bene, ma solo un particolare
tipo di intersoggettività ritenuta però decisiva ai fini sociali – segue come
intreccio di questi rapporti tra soggetto (non uomo) e i beni scarsi di cui
sopra, in definitiva come intreccio di alternative di scelta. Dire che questa è
ideologia è errato; è un punto di vista, un angolo di visuale per approcciarsi
ad un processo: l’intersoggettività come risultato di scelte dei singoli
soggetti. L’ideologia consiste nell’inavvertito spostamento concettuale operato
per cui la scelta soggettiva viene di fatto posta quale processo di
costituzione della società, che viene così surrettiziamente sostituita alla
mera intersoggettività; cioè, di fatto, la società viene confusa e dunque
identificata con quest’ultima.
Marx
si pone da un altro punto di vista, da un’altra angolazione. Non però quella
della società degli uomini – in carne e ossa con le loro intelligenze e
passioni, desideri e pulsioni, progetti, speranze e delusioni, ecc. –
privilegiando poi, fra questi, i lavoratori. Quando, ad es., parla del lavoratore
produttivo collettivo “dal primo dirigente all’ultimo giornaliero” (libro III
de “Il Capitale”), Marx non si
riferisce certo al dirigente o all’esecutore quali individui concretamente
esistenti. Consideriamo, per un momento, un certo processo “storico” (tradotto
in teoria). La funzione lavorativa, esercitata nell’artigianato medievale, era
una fusione di lavoro intellettivo e manuale, di saperi produttivi e capacità
esecutive, nel medesimo individuo. La dinamica oggettiva del modo di produzione
capitalistico – strutturato dalla relazione tra proprietà dei mezzi di
produzione e forza lavoro acquistata nel mercato – provoca la scissione di
saperi e manualità mediante quelle trasformazioni che, per usare la
terminologia di Marx, portano dalla sussunzione formale a quella reale del
lavoro nel capitale. Del lavoro, si è capito bene? Non degli uomini lavoratori,
che restano liberi, non schiavi! Che possono vendere la loro forza lavoro ad
una proprietà capitalistica qualsiasi, anche se pur sempre ad una proprietà debbono
venderla in quanto funzione lavorativa da unire ai mezzi di produzione.
Ora,
sulla scorta dei processi di centralizzazione, e di finanziarizzazione, dei
capitali, processi reali, non escogitati dalla fervida fantasia di Marx, questi
suppose l’estraniarsi della proprietà capitalistica dalla funzione produttiva,
che sarebbe stata assunta dall’insieme delle funzioni intellettuali (direttive)
e manuali (esecutive) intrinseche a quello sforzo (energia) – finalizzato ad
uno scopo – che viene chiamato lavoro, funzioni i cui portatori sono però
ormai non più gli individui posizionati come artigiani (con al massimo la
differenza nell’arte tra mastro e garzone), ma individui diversamente collocati
nell’ambito del complessivo processo di lavoro, individui disposti secondo una
gerarchia. Il lavoratore collettivo cooperativo non è quella data comunità di
lavoratori concreti, uniti dagli stessi scopi, dagli stessi progetti e
desideri, ecc. Ma neanche per sogno! Gli individui, lavoratori concreti, hanno
intanto diversi gradi di cultura e frequentano ambienti differenti secondo
criteri di maggiore o minore affinità. E poi, anche nell’ambito dello stesso
status socio-culturale, c’è amicizia come ostilità, intesa come incomprensioni
e divergenze, e via dicendo. La collettività concerne esclusivamente l’unione
delle diverse funzioni, che Marx suppone mosse da fini produttivi diversi e
antagonistici rispetto a quelli del conseguimento del mero profitto da parte
della funzione proprietaria, profitto che è ormai, in realtà, un effettivo
interesse percepito da quest’ultima in quanto essa sarebbe soltanto tesa a
ottenere tale similrendita (finanziaria).
La
collettività che esplica funzioni lavorative si applicherebbe alla produzione
ed entrerebbe dunque in contrasto con i portatori di quella funzione ormai
estranea agli scopi e metodologie produttivi; tale ultima funzione (i suoi
portatori ovviamente) sarebbe solo interessata alle somme di denaro che dalla
produzione si possono ricavare e che consentono consumi opulenti oltre al
finanziamento della politica (e delle armi) e della cultura indispensabili a
mantenere il potere. I membri del lavoratore collettivo – ai più diversi
livelli di reddito, di cultura e di “buone maniere” – sarebbero tuttavia, in
quanto uomini effettivamente esistenti, affetti da tutte le virtù e i vizi
degli uomini in generale. Essi, inoltre, avrebbero introiettato per intero la
competitività tipica degli organismi produttivi capitalistici. Non sarebbero
stati cooperativi in quanto uomini concreti; avrebbero saputo farsi le scarpe
l’un con l’altro, guardarsi con sospetto, spiarsi e “riferire ai superiori”,
ecc. Avrebbero avuto piena consapevolezza dei metodi per fare carriera, e che
quasi mai la virtù è premiata e il vizio condannato come in un bel feuilleton.
Non si pensi ad un Marx ingenuo; conosceva bene gli uomini nella loro reale
esistenza, ivi compresi i lavoratori. Semplicemente, egli pensava che i membri
del lavoratore collettivo, nei confronti dei rentier, avrebbero infine dovuto
tenere un atteggiamento grosso modo simile a quello dei contadini verso un
proprietario terriero andato in città, che ormai non sapeva nemmeno più dove
fossero le sue campagne e che si faceva inviare le rendite.
3. I membri del lavoratore
collettivo non avrebbero manifestato nessuna particolare generosità nel
cooperare; si sarebbe semplicemente acuito sempre più lo scontro oggettivo di
interessi e mentalità con i rentier, funzione sociale antagonistica alla loro.
Nel mio Capitalismo oggi ho indicato i motivi per cui, a mio avviso, le
convinzioni di Marx su questo punto non si sono dimostrate esatte: gli agenti
strategico-imprenditoriali non sono rentier, non sono così lontani dalla
produzione pur se non si interessano delle vere e proprie funzioni – direttive
ed esecutive – di quest’ultima. La loro funzione (sociale) è un’altra, non però
prevista da Marx. Tuttavia, non anticipiamo; dobbiamo intanto proseguire con
questo pensatore, e liberarlo delle “ingenuità” (talvolta assai peggio che
ingenuità) dei marxisti. Quindi, lo ripeto con forza: basta con gli uomini in
carne e ossa (ma solo nell’analisi scientifica, sia chiaro).
Continuare
ad aver paura di perdere l’uomo concreto se lo si caccia fuori dalla sede in
cui si fa scienza, è una sciocchezza. Non ci sono totalità che tengano; bisogna
separare, scindere, distinguere. Chi osserva la luce nella sua interezza
(quella bianca), e considera un attentato alla sua integrità il farla passare
per un prisma onde scinderla analiticamente nei suoi colori, è soltanto un
primitivo e, alla fine, in date contingenze potrà anche danneggiarsi la retina
guardandola direttamente e senza schermo nella sua Totalità, nel suo Essere.
Meno Essere e più funzioni; questa è la scienza. Nessuno scienziato pretende
che questa sia tutto né che dia la felicità, né che faccia la rivoluzione, né
che cambi da cima a fondo la triste condizione umana; essa è però in grado di
dare aiuto, l’importante è non voler strafare.
Si
vuol capire che questo è l’antiumanesimo teorico? Diciamo più precisamente:
scientifico; questa precisazione risulterà chiara quando più sotto porterò la
mia critica radicale all’operaismo. Comunque, nessuno è antiumano, nessuno vuol
ignorare che dietro le maschere ci sono uomini veri. Ma in teoria (scientifica,
ovviamente) non ci si dedica ad antropomorfizzazioni di tipo animistico. La
Luna e le stelle, i quanti e le stringhe, le strutture sociali e i modi di
produzione, il cervello e la psiche, debbono lasciare gli uomini da parte, pena
quel processo di degenerazione ideologica che, ad es., il marxismo ha fatto
subire a Marx, riducendolo a un filosofo dell’alienazione, a un agitatore
politico, a un profeta millenarista dell’Avvento del Comunismo in Terra.
Rivendico con forza il carattere di scienza del pensiero di Karl Marx. Lo
ripeto per i sordi: la scienza incorpora un punto di vista, non
obbligatoriamente una ideologia (quale falsa coscienza).
Per
concludere, e riassumere, su questo punto. L’unica differenza che può
sussistere tra scienze sociali e naturali è al massimo di grado e non di natura
(ed è già una concessione forse inutile). Chi pone la differenza di natura, chi
crea un fossato tra i due tipi di scienze, sostiene che, in quelle sociali,
l’uomo teorizza su se stesso, ha sia per soggetto che per oggetto del suo far
scienza lo stesso individuo pregno di valori, di visioni del mondo, di
complessi culturali che lo orientano, che lo fanno camminare lungo strade che
continuano a girare in tondo, per cui l’uomo in questione non deve nemmeno
pensare che sia possibile porre se stesso al di fuori di sé. Mentre invece,
nelle scienze naturali, l’oggetto (fisico, chimico, biologico, ecc.) sarebbe
oggettivamente all’esterno dell’uomo che indaga. Andiamo per passi successivi.
Ogni
tipo di realtà può essere sempre considerato composto di un numero “infinito”
(nel senso di indefinito) di elementi, di cui non viene mai ad esaurimento
l’ulteriore scomponibilità. In certe realtà, è sufficiente controllare alcuni
di questi elementi (le variabili in gioco) per interpretare e/o predire
qualcosa, di sensato e di ulteriormente rivedibile, circa i processi che le
investono e le costituiscono. Talvolta, queste variabili in gioco – cioè quelle
che sarebbe necessario controllare per avere una qualche sicurezza nelle nostre
interpretazioni e previsioni – sono in effetti troppo numerose, difficilmente
calcolabili, in specie per quanto concerne le possibili combinazioni (di numero
elevatissimo) in cui esse possono entrare; le interpretazioni o previsioni che
si fanno sono quindi poco affidabili, eppure nessuno rinuncia (e giustamente) a
farle, perché è così che avanza la scienza, anche su vere e proprie sabbie
mobili.
Tuttavia,
sia chiaro che la scarsa affidabilità, connessa all’elevato numero di elementi
(variabili) da calcolare e/o controllare, non riguarda in modo specifico le
scienze sociali; si pensi a quelle biologiche o alla meteorologia, ecc. La
sciocchezza è quella di affermare che, poiché l’uomo è oggetto delle scienze
sociali, queste sono del tutto differenti da quelle naturali. La scienza
sociale non ha come oggetto l’uomo: né il singolo individuo né insiemi
(relativamente omogenei) di individui. La scienza sociale nemmeno si sogna di
dividere in porzioni l’individuo o gli insiemi di individui; la scienza
ipotizza certe loro funzioni e le fa interagire secondo opportune scelte di
combinazioni varie. Se io parlo, ad es., del gruppo di agenti strategici (in
generale) faccio supposizioni sulla(e) funzione(i) da esso espletata(e). Se poi
voglio scindere tale gruppo negli agenti delle varie tipologie –
economico-imprenditoriali, politico-militari, ideologico-culturali, o in
suddivisioni ancora più spinte – forse che io mi metto a scomporre il
complessivo gruppo strategico nelle sue varie porzioni o strati? Assolutamente
no. Formulo ipotesi circa le differenti funzioni degli agenti
economico-imprenditoriali, politico-militari, ecc. E poi, se mi interessa
tornare al complesso, ma questa volta in quanto composto dai vari sottogruppi
in reciproco intreccio, faccio interagire le funzioni ipotizzate. E così via.
Tale è il comportamento delle scienze sociali. Il filosofo avrà i suoi motivi
per parlare dell’uomo, di chiedersi chi sia, quali siano i suoi destini, se la
vita abbia un senso, se la morte sia o no la fine di tutto per l’individuo,
ecc. Lo scienziato, in quanto scienziato, non può e non deve assolutamente
scendere su questo terreno, nemmeno sfiorarlo. Il filosofo chiacchiera,
elucubra, più o meno “sapienzalmente”; lo scienziato pone soluzioni teoriche,
che sono tuttavia eminentemente dedicate ad una applicazione pratica per
determinati comportamenti vitali.
4. Potrei finire qui, ma non mi
accontento. In fondo, è facile polemizzare con i marxisti che hanno
ideologizzato Marx, riantropomorfizzando il suo punto di vista scientifico;
oppure con quelli che lo hanno grettamente confinato nella teoria economica.
Anzi, più che facile, è inutile dato che essi non hanno oggi molta udienza né
influenza, così come accade invece per coloro che si pongono alla testa – pur
se non certo di masse sterminate – dei no global, dei “disobbedienti” e
di altri gruppi di stampo anarcoide e prepolitico. I marxisti ossificati si
accontentano, in genere, di qualche posizione accademica (poche; qualcuna in
più in paesi dove il marxismo non ha mai avuto gran diffusione politica e di
massa), di qualche minimo seguito tra i “laici credenti” nel “Comunismo-Dio”.
In Italia – e da qui ha trovato qualche diffusione, pur se non molta, in altri,
pochi, paesi – ha avuto però un minimo di impatto una corrente che, all’inizio,
si autodefinì operaista. Questa dizione è ormai scarsamente usata, perché gli
operaisti sono tanti Zelig (il gustoso chameleon man di Woody Allen, che
tuttavia era simpatico a differenza dei suoi imitatori di cui sto parlando) e
mutano ogni due-tre anni la loro “epidermide”, si camuffano in una infinità di
guise, sempre con il massimo disprezzo per l’intelligenza delle “masse” di
giovinetti inesperti da imbambolare.
Dal
punto di vista morale, non spendo parole su simili personaggi perché non potrei
mai dipingerli così bene come Dostojevskij ne I Demoni, cui quindi rinvio come
lettura di grande penetrazione conoscitiva a tale riguardo. Purtroppo,
nell’Italia odierna ci sono gli analoghi dei russi amici del popolo, ma non
quelli dei comunisti bolscevichi. Dal punto di vista politico e teorico, per
quanto sia difficilissimo seguire le giravolte di questi
estremisti-opportunisti, è però necessario dire qualcosa. Intanto, questi “bei
tomi” – che al marxismo hanno inflitto lo stesso trattamento che la Germania
nazista fece subire a Polonia, paesi baltici, ecc. – si sono presentati, quasi
tutti provenienti dal PSI, negli anni ’60, scoprendo infine il Marx dei
Grundrisse, dei materiali preparatori di quello che fu il Capitale (tra i
materiali in questione e la massima opera marxiana, di cui l’autore pubblicò
solo il I libro, intercorsero poco meno di dieci anni, di intensi studi di
economia politica da parte di Marx).
Poiché
gli operaisti non sono scienziati bensì “artisti” (anzi funamboli) del parlare
impressionistico e senza connessioni logiche – con funzioni ipnotiche e non
certo di invito al ragionamento, esattamente come quello utilizzato dai
protagonisti del già citato I Demoni – si sono ricordati che, a volte, certi
primi abbozzi di grandi pittori sono più prendenti dei quadri completati. Così,
essi dichiararono “al colto e all’inclito” – senza aver mai studiato il Capitale – che il Marx dei Grundrisse
era quello vero, era già andato “oltre Marx”, quello dell’opera pubblicata. Non
contenti di questa palese cialtroneria, essi estrassero dalle molte centinaia
di pagine dei Lineamenti, già di per loro del tutto frammentarie, alcuni
segmenti – tipico il famoso Frammento sulle macchine – e ne fecero il loro
effettivo cavallo di battaglia. Così, mentre in un ben noto passo delle Glosse
a Wagner (uno degli ultimi scritti di Marx, redatto verso il 1880), Marx afferma che il “soggetto della sua
analisi è la merce”, gli operaisti – sulla base di materiali frammentari
scritti tra il ’59 e i primissimi anni ’60, cioè vent’anni prima – si
inventano, perché di sicuro non possono essere confortati da alcuna
dichiarazione di Marx, che il soggetto è il processo di lavoro. Tutte le
sciocchezze sull’estensione del piano dalla fabbrica alla società, sulla
società che prima, appunto, è come una grande fabbrica, mentre poi è
quest’ultima che si struttura come la società con una diffusione e dispersione
dei micropoteri – pessimo modo di apprendere la lezione della foucaultiana
microfisica del potere! – nell’intero territorio della società stessa, derivano
da questa interpretazione che, si badi bene, è assai peggiore di quella
kautskiana, alla quale qualcuno ha voluto assimilarla. Nulla di più errato, e
vediamone il perché.
Il
“Papa rosso” fondava certe sue ben note tesi sulla teoria della concorrenza
intercapitalistica formulata da Marx, dalla quale, tramite prevalenza dei più
forti, si sviluppa il processo di centralizzazione monopolistica dei capitali.
Tale impostazione analitica veniva portata alle sue estreme conseguenze da
Kautsky, rendendo unilineare la tendenza al monopolio, con grave
sottovalutazione sia della necessità della competizione intercapitalistica, in
specie ai fini della realizzazione del plusvalore, sia delle innovazioni,
soprattutto di prodotto ma comunque anche di processo, che segmentano
ulteriormente la divisione sociale del lavoro e portano alla creazione di nuove
branche produttrici di merci – nuovi prodotti e nuovi metodi produttivi che
richiedono la produzione e uso di nuovi strumenti e mezzi produttivi, sempre in
forma di merce – impedendo così la formazione di un unico grande capitale
unificato. Grazie all’unilateralità della sua concezione, Kautsky formula
allora la teoria dell’ultraimperialismo, che si fonda appunto sull’idea che,
alla fine, si formerà un unico trust proprietario, ovviamente di carattere
eminentemente finanziario e con possesso di azioni completamente accentrato in
un solo gruppo di capitalisti (nemmeno più, quindi, una vera classe sociale).
Si
tratta comunque di un processo, che si attua tramite concorrenza tra gruppi
capitalistici di dimensioni (monopolistiche) crescenti, una concorrenza dunque
aspra e di forte impatto per un buon periodo di tempo, prima del suo presunto
acquietamento finale nella formazione di un grande trust capitalistico
mondiale. Non a caso Lenin, incapace di contrastare adeguatamente sul piano
teorico tale tesi kautskiana (e hilferdinghiana) cui fece invece troppo ampie
concessioni, poté sostenere che, prima di arrivare alla centralizzazione
definitiva, gli acuti contrasti intercapitalistici, diventando interimperialistici
e coinvolgendo gli Stati in violente guerre mondiali, avrebbero innescato la
rivoluzione proletaria; a partire dai famosi “anelli deboli”, ma con
tendenziale estensione, durante quell’epoca cui la Rivoluzione d’ottobre dava
inizio, a tutto il resto del mondo capitalistico. E mi si permetta di dire che,
per un buon pacchetto di decenni, tale teoria è apparsa assai realistica e
convincente; almeno fino alla vittoria dei comunisti vietnamiti e indocinesi
(eravamo già negli anni ’70). Proprio per questo realismo si creò quell’ottica,
indubbiamente errata, per cui sembrò per un paio di decenni almeno che la
rottura prodottasi nel movimento comunista internazionale, la scissione tra
“filosovietici” e “filocinesi”, fosse la riedizione dello scontro politico e
teorico tra Kautsky e Lenin, tra un neorevisionismo e un neoleninismo.
Le
tesi operaiste non consentono di pensare nulla di tutto questo. Il processo cui
fanno riferimento è un finto processo, è il generale inghiottimento di ogni
materiale in un “buco nero”, che avviene rapidamente e senza ordine alcuno,
senza che se ne possano indicare alcune tappe, alcune sequenze. La centralità
del processo di lavoro mette completamente da parte ogni conflittualità
intercapitalistica; gli unici soggetti in gioco sono capitale e lavoro, il Capitale e la Classe (operaia). Possono
esserci le variazioni già considerate: la fabbrica come immagine della società
rigorosamente posta sotto il Comando dispotico del Capitale, o invece la società come immagine della fabbrica,
completamente disseminata, decentrata, “esplosa” nel suo indotto. Il potere
(comando) capitalistico ora è del tutto centralizzato – e ha il suo “cuore”
nello Stato, da annientare (magari, secondo alcune “schegge impazzite”, tramite
assassinio di suoi funzionari o agenti politici) – ora invece si frastaglia,
sfugge all’ira dei proletari, nascondendosi nelle maglie della società. Il Capitale (centrale) muore, esplode, si
multinazionalizza, anzi poi si transnazionalizza, si appiatta, si mimetizza,
ormai terrorizzato dalla violenza di quei “terribili” ammucchiamenti di
macchine desideranti – desideranti il Comunismo – che sono diventate le masse
proletarie. Proletari, poi, possono esserlo tutti, dato che dove sia il Capitale nessuno lo capisce più bene.
Chi grida al comunismo, chi vuole il comunismo, chi pretende il comunismo, è
già un comunista perfetto e ha già fatto la sua rivoluzione comunista. Che poi
non sappia nemmeno di che cosa stia parlando è assolutamente inessenziale;
all’intellettuale basta sproloquiare e apparire, al seguace basta il cuore o la
pancia o la tasca.
Ben
ci si accorge allora che il povero Kautsky non c’entra per nulla. Era un
“rinnegato” – si diede molto da fare affinché i lavoratori andassero alla
guerra interimperialistica, facendosi massacrare per gli interessi delle loro
“borghesie” – ma non era “scoppiato di testa”. Sapeva chi erano i capitalisti e
chi gli operai, sapeva che esistono centri di potere in lotta, blocchi sociali
variamente articolati fra loro e al loro interno; sapeva che la lotta politica
richiede opportune strategie, formulate ed eseguite da determinati gruppi di
agenti, conoscendo il terreno di lotta, valutando le proprie forze e quelle
dell’avversario, ecc. Era positivista, determinista, un tantino schematico, ma
non era in preda al delirio, alla farneticazione. E aveva l’idea del processo,
non della precipitazione immediata delle contraddizioni. Predicava che, alla
fine, si sarebbe realizzata la prospettiva ultraimperialistica, ma non che, fin
da ora e anzi da sempre, l’affrontamento è tra Capitale e Classe dentro il processo di lavoro. In definitiva:
aveva letto la prima sezione de Il
Capitale, non era subito saltato alla quarta, ai metodi del plusvalore
relativo, ai capitoli su cooperazione, manifattura, grande industria! Per certi
versi era una persona seria, che studiava e ragionava, non un raffazzonatore di
briciole di cultura pseudomarxista come gli operaisti italiani.
Secondo
la mia opinione, inoltre, questi ultimi sono dei veri antiumanisti pratici, non
semplicemente teorici. Abbiamo già detto del marxismo, quello iniziato in
definitiva da Kautsky, che ha inavvertitamente spostato l’accento dalle
funzioni agli uomini: dalla proprietà dei mezzi di produzione ai proprietari
capitalisti (o padroni come detto soprattutto in gergo sindacale), dalla forza
lavoro alla classe operaia o dei lavoratori (degli uomini che lavorano). Gli
operaisti sembra che parlino apertamente e direttamente dei proletari nella
loro concretezza di individui della specie umana lavoratrice, delle masse o
moltitudini o come si pregiano di volta in volta di definire il “soggetto
rivoluzionario”. In realtà, essi trattano di una sola funzione di queste masse;
non quella produttiva, tipica della marxiana forza lavoro, ma quella di
radicale insubordinazione al Comando del Capitale, quella del bisogno di
comunismo, della riappropriazione delle proprie funzioni più essenziali,
desideranti, ecc. Non mi interessa seguire tutte le versioni fornite di queste
funzioni che comunque non riguardano mai, come già detto, la produzione, per
cui non esiste problema di plusprodotto in nessuna sua forma, quindi nemmeno in
quella specificamente capitalistica di plusvalore.
La
teoria del valore è negletta dagli operaisti non perché vada incontro alle sue
ben note aporie logiche. Della teoria del valore non c’è alcun bisogno per il
semplice fatto che tutto è giocato o sul piano di uno scontro di potere, tra
dispotismo del Capitale e insubordinazione Operaia; oppure su quello del
consumo. Si parla, ad es., di bisogno di comunismo, ma nessun operaista indica
che tipo di società sia, poiché non è un modo di produzione in senso marxiano
né una qualsivoglia altra immagine di struttura sociale; è semplicemente un
modo di appropriarsi i valori d’uso da consumare, essendo indifferente il come
(cioè la forma dei rapporti sociali entro cui) essi vengono prodotti. Si parla,
ad es., di macchine desideranti, cioè ancora una volta di consumi e di
redistribuzione (violenta) di ciò che è stato prodotto. Se si vuole, si
potrebbe scherzosamente – ma non irrealisticamente – sostenere che poiché, in
senso proudhoniano, la “proprietà è un furto”, tanto vale opporle il “furto
proletario”.
Come
gli operaisti se ne infischiano del modo di produzione – non semplicemente
della teoria del valore! – così pure non interessa loro definire in alcun modo
l’imperialismo. Questo non è una fase del suddetto modo di produzione; magari
non la leniniana “ultima o suprema fase” ma comunque una particolare struttura
del capitalismo e della conflittualità intercapitalistica. No, nient’affatto:
l’imperialismo è un altro modo di declinare superficialmente il Comando del
Capitale. Un tempo questo era pensato concentrarsi soprattutto nello Stato; ora
gli Stati sono finiti, superati, e il comando è disperso, disseminato in ogni
dove. Tale comando però si oppone comunque al consumo delle “masse”; queste
ultime – senza minimamente curarsi di chi produce plusprodotto/plusvalore e di
chi invece se ne appropria per fondare il proprio potere, ma in una acuta lotta
tra frazioni dominanti – debbono solo arraffare quanto più si può di valori
d’uso. Il loro comunismo si riduce di fatto, coperto da una fraseologia
roboante e ultrarivoluzionaria (sempre I Demoni di Dostojevskji!), a questo
arraffamento, per conseguire il quale sono pronti a tanti compromessi con chi
finanzia piccole imprese di servizio, magari no profit, o perfino banche etiche
o altre “lungimiranti e generose” intraprese atte ad accoccolarsi nel miglior
modo possibile, con il minimo sforzo possibile, nelle maglie
economico-finanziarie di società “opulente” come quelle a capitalismo altamente
sviluppato.
La
classe lavoratrice – da cui essi originano la primitiva denominazione (operaisti)
– è considerata superata in quanto soggetto rivoluzionario, non in base ad
analisi delle dinamiche conosciute nell’ultimo secolo dal modo di produzione
capitalistico (lo ripeto: gli operaisti non sanno nulla, oltre al nome, di un
modo di produzione) così diverse da quelle previste da Marx, ma solo perché è
del tutto superfluo fare distinzioni tra chi lavora e produce e chi no, tra chi
presta lavoro esecutivo e chi quello direttivo, ecc. Gli operaisti, ad onta
della loro denominazione d’origine, sono fondamentalmente dei sostenitori del
consumo e dell’appropriazione diretta e immediata dei valori d’uso, cioè del
soddisfacimento dei bisogni di neoclassica memoria, adattato però alle masse o
moltitudini che desiderano, vogliono, pretendono fin da subito, il comunismo.
Questi
esiziali individui sono stati pompati, intelligentemente, da tutta la stampa
dei dominanti, che li ha fatti passare per il prototipo dei marxisti
rivoluzionari, mentre essi né con Marx né con il marxismo hanno nulla a che
spartire; possono al massimo ricordare, di volta in volta, gli anarchici,
Proudhon, Dühring, e personaggi similari, contro cui Marx e i marxisti hanno
sempre combattuto (e non solo teoricamente). Grazie però all’accorta pubblicità
fatta loro dalla suddetta stampa, gli ambigui, ambiziosi, cinici,
pericolosissimi, intellettuali d’origine operaista hanno avuto trent’anni di
tempo per annientare il vero, anche se deficitario, marxismo, per cancellarlo
dalla memoria delle nuove generazioni, in ciò servendo mirabilmente gli
interessi delle classi dominanti. Anche adesso, mettendo le mani
sull’imperialismo, che per loro non è un concetto ma un semplice flatus vocis,
stanno seminando l’ideologia di un Impero senza centro, dunque senza veri
dominanti, senza blocchi sociali, senza alleanze e conflitti
interimperialistici, senza forze autenticamente antimperialiste salvo quelle
che boicottano la Coca Cola o la Bayer, ecc. Ancora una volta, stanno lavorando
per il nemico, per i dominanti (se gratis o meno, non mi interessa, anche se li
penso strapagati sia in denaro che in ottime posizioni in apparati vari, e non
sempre visibili). Gli operaisti sono quelli che “innalzano la bandiera rossa
per meglio affossarla”, come dicevano un tempo i comunisti cinesi dei
“neorevisionisti”. E l’hanno sempre innalzata per meglio affossarla, fin dal
lontano 1968.
5. Torniamo a ciò con cui avevo
iniziato. Il marxismo tradizionale ha “tradito” lo spirito scientifico di Marx
sostituendo l’uomo (capitalista e operaio) alla funzione. Con questo “tradimento”
si è dato la zappa sui piedi. Ha fatto come colui che, entrato in una grande
città con una mappa della stessa, non se ne serve adeguatamente perché vuole,
in ultima analisi, incontrare gli uomini veri; per cui si ferma nella prima
osteria in cui si imbatte, onde sentire il calore umano degli “allegri”
avventori. Poi esce, si immerge a casaccio nell’ombra dei vicoli e infine entra
nella prima Chiesa dove, forse, verrà detta una messa e potrà godere
dell’intenso raccoglimento dei fedeli ivi riuniti. Ecc., ecc. Tutto bello e
avvincente, ma la mappa gli sarebbe servita per raggiungere meglio e più
speditamente i suoi scopi. Se poi alla mappa fosse stato unito un elenco dei
migliori ristoranti, con i loro giorni di chiusura e gli orari di apertura, ed
uno delle Chiese con gli orari delle Messe, avrebbe avuto ulteriori vantaggi.
Ma non certo per mettersi ore e ore seduto in panchina a consultare mappa ed
elenchi. Alla fine, certamente avrebbe dovuto incontrare gli uomini, quelli in
carne e ossa.
La
scienza coadiuva, non sostituisce. Analizzare con freddezza la funzione
proprietaria e quella lavorativa, indagare (e supporre) la loro articolazione,
le varie problematiche del prodotto e plusprodotto (nel capitalismo: del valore
e del plusvalore), e altro ancora, è utile per capire in quale società ci si
muove, per quindi orientarsi e, se possibile, organizzare le “strutture” di
attacco dei dominati contro i dominanti, scegliendo le congiunture più adatte
di tale eventuale attacco, e via dicendo. Alla fine, però, gli uomini – ma non
qualsiasi uomo – si debbono incontrare, si debbono valutare e organizzare,
infondendo loro il senso della prepotenza e arroganza dei dominanti, della
miseria (se non materiale, quella morale) dei dominati, ecc. Essere
antiumanisti scientifici significa meglio prepararsi ad essere fortemente
umanisti sul piano politico e sociale; significa precostituirsi degli strumenti
di ricognizione del terreno della lotta di classe – strumenti che sono teorie
basate su ipotesi rivedibili – onde sconfiggere l’immoralità dei dominanti (non
di questo o quel membro della loro classe) e rovesciare intanto le condizioni
di quel determinato assetto sociale che consente quella data forma di dominio.
La
confusione tra funzioni e uomini, che certo (pseudo)marxismo ha provocato,
modificando impercettibilmente la struttura teorica marxiana, va criticata e
superata non per innalzare alle stelle, fino ad isolarle, le funzioni e la
scienza che le studia, ma solo per dotarsi degli strumenti (razionali) atti a
rovesciare il concreto dominio – nelle sue forme storicamente determinate – di
certi uomini (minoranza) su certi altri (maggioranza); dove però il problema
non è solo quello di abbattere questo o quel gruppo di dominanti, ma di
rovesciare quella particolare forma del dominio. L’antiumanesimo scientifico è
dunque – perché lo deve essere e deve volerlo – al servizio dell’umanesimo
politico.
Cosa
hanno invece fatto e fanno gli operaisti (pur quando si cambiano denominazione,
come ormai hanno fatto da molto tempo)? Inneggiano agli uomini nella loro
caleidoscopica mescolanza, senza pensare alcuna struttura dei rapporti sociali
né alcuna forma di riproduzione degli stessi. Hanno preparato un grande
calderone in cui apparentemente, come può credere il non aduso al ragionamento,
si trovano gli uomini, quelli veri, quelli che incontriamo ogni giorno. Ma non
è così. Vi è invece il massimo disprezzo per gli uomini concreti, una forma di
supposta “furbizia” elitaria per cui si sa che, nel capitalismo opulento, si
formano strati di emarginati che sono l’equivalente del lumpenproletariat
ottocentesco, o dei miserabili di Victor Hugo, solo in condizioni di vita
imparagonabili – materialmente e mentalmente – a quelle di un tempo. Si è detto
che gli operaisti sono politicamente dei soreliani, e filosoficamente dei
nietzschiani. Non sta a me dirlo. Degli elitari lo sono però senz’altro, e pure
dei mestatori che credono di manovrare imponenti masse, mentre possono
influenzare solo alcuni nuclei di intellettuali – difficilmente di tradizione
scientifica – e gruppi di nullatenenti e nullafacenti, che in una società meno
ricca sarebbero soltanto al puro vagabondaggio o alla piccola criminalità; in
più, hanno l’appoggio di quote di “buonisti di sinistra” per descrivere la cui
mentalità è sempre meglio ricorrere all’arte, ad es. ai film di Buñuel (tipo
Viridiana o Nazarin).
In
quanto teorico della società (capitalistica), mi sento di poter affermare con
la massima sicurezza che questi personaggi non parlano in nessun senso di
uomini, ma di generici ammassi di portatori di una funzione di mero consumo. A
loro non interessa nulla del valore di scambio (ecco perché odiano tanto la
teoria del valore lavoro), non interessa che questo si sia generalizzato in un
processo storico che ha visto il formarsi di una “libera” classe di individui
privi di mezzi di produzione e costretti a vendere come merce la propria forza
di lavoro; non interessa che, tramite questo processo, si è costituita una
particolare forma di appropriazione del plusprodotto (in forma di valore) di
cui le classi dominanti, in una aperta e a volte aspra e distruttiva
conflittualità tra le loro frazioni, si appropriano ai fini di prevalere nella
società in quella data fase storica. Gli operaisti ignorano le forme della
produzione, della distribuzione, dell’appropriazione e uso ecc.; sono
indifferenti a tutto ciò che avviene e avverrà sempre, fin che dura il modo di
produzione capitalistico, tramite la generale forma di valore che non è un
feticcio da valutare in sé, ma solo quale espressione di una particolare
strutturazione della società che va analizzata onde capire le strategie
capitalistiche e le possibili controstrategie con cui opporvisi.
Agli
operaisti – che oggi si mascherino dietro altre etichette non inganna chi li
conosce bene da quarant’anni – interessa solo il valor d’uso; ai loro seguaci,
l’odierno lumpen di cui sopra, rivolgono l’invito a trasformarsi in consumatori
e, possibilmente, senza passare per l’uso della moneta. Negare, al limite anche
mediante furto, il mezzo di scambio generale capitalistico è la loro unica
ricetta per il comunismo. Il valore di scambio, secondo la loro opinione, non
va criticato e combattuto tramite le opportune strategie di analisi, lotta e
trasformazione dei rapporti di produzione capitalistici; va negato e basta, va
anzi ignorato mirando direttamente al valor d’uso, che diventa il nuovo
feticcio degli operaisti. Ne La miseria della filosofia, Marx afferma che, nel
modo (e rapporti) di produzione capitalistico “non si deve più dire che un’ora
di un uomo vale un’ora di un altro uomo, ma piuttosto che un uomo di un’ora
vale un altro uomo di un’ora. Il tempo è tutto, l’uomo non è più niente; è tutt’al
più la carcassa del tempo”; e, in questo eccezionale suo brano, è messa a fuoco
tutta la differenza, su cui ho tanto insistito, tra la funzione (lavorativa) e
l’uomo (lavoratore)!
Per
gli operaisti l’uomo diventa invece “carcassa” del mero consumo, viene trattato
come un involucro, un contenitore, che deve riempirsi di valori d’uso.
Solleticando i peggiori istinti degli uomini all’appropriazione di ciò che
semplicemente desiderano – senza alcuna considerazione per gli altri, per
quelli che producono quei valori d’uso in forma di merce, dunque secondo i
precisi rapporti tra capitalisti (dominanti) e lavoratori (dominati) – questi
pericolosi (e consapevoli) pasticcioni fanno leva su gruppi di emarginati, che
esistono in ogni forma sociale pur caratterizzata da un determinato modo di
produzione in quanto suo fulcro centrale, onde scatenarli contro i meri simboli
del potere capitalistico, nel mentre impediscono in realtà ad altri più
effettivi dominati, i venditori di forza lavoro in forma di merce, di
organizzarsi e pensare le strategie più appropriate per opporsi allo
stradominio del capitale. Ecco perché, in eventuali congiunture di grave crisi
provocata dall’acutizzarsi delle contraddizioni tra gli agenti capitalistici (i
dominanti), queste torbide teorie falsamente (ultra)rivoluzionarie, e gli
strati sociali disgregati che le seguono pur senza afferrarne il vero senso,
diventano la punta di lancia di movimenti caotici che attaccano i simboli del
potere capitalistico, che agitano una propaganda “antiborghese”, per scardinare
in realtà o per impedire la formazione di forze autenticamente
anticapitalistiche.
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Gianfranco La
Grassa
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Il marxismo
tradizionale, tramite quell’impercettibile movimento concettuale che ha
condotto alla confusione tra funzione e uomo, ha indebolito l’atteggiamento
scientifico, dunque l’analisi delle condizioni del dominio capitalistico, anche
nelle sue trasformazioni subite nel secolo e mezzo trascorso dall’opera
marxiana. Ripristinare la distinzione in questione non è però un semplice
sfizio da scienziati, bensì il mezzo per ridare potenza alla capacità
trasformativa dei reali uomini soggetti a varie forme di dominazione e
oppressione, uomini dotati di orientamento politico efficace. Gli operaisti –
diciamolo adesso con chiarezza: oggi si travestono da “Movimento” (magari “dei
movimenti”), ma sono gli stessi di sempre – con le loro chiacchiere prive di
ogni contenuto razionale, puramente impressionistiche, suggestive, evocative,
ecc., sembrano parlare di uomini, ma li hanno invece ridotti a macchinette con
funzione di distruzione indiscriminata e di appropriazione per il consumo di
beni. La distruzione riguarda qualche simbolo: materiale come vetrine di
negozi, sedi di banche, ecc. ma pur sempre simbolo. Il consumo riguarda
l’appropriazione di valori d’uso – al limite con il furto onde saltare
l’equivalente generale del valore di scambio delle differenti merci – senza
minimamente mettere in discussione il modo (cioè i rapporti sociali, di
“sfruttamento”, di dominio e subordinazione) secondo cui i valori d’uso sono
stati prodotti nella forma del valore (di scambio).
Il
marxismo tradizionale va duramente criticato nella sua sclerosi attuale che lo
sta portando all’estinzione, coinvolgendo in questa anche Marx e ogni marxista
innovatore; bisogna tornare alla distinzione tra scienza e politica, ma per poi
reintrecciarle strettamente, farle interagire per nuovi lidi di effettiva
costruzione di strategie di lotta minimamente realistiche e capaci di effettiva
trasformazione dei rapporti sociali. L’operaismo è una malattia, un cancro che
ha già provocato una commistione, ormai inestricabile, di cellule sane con
quelle malate; e queste ormai divorano ineluttabilmente le prime. Naturalmente,
l’operaismo non va accusato di essere semplicemente antiumano, altrimenti
ricadremmo nelle tesi dell’uomo in generale; e, soprattutto nell’epoca attuale,
questo sarebbe politicamente un grave errore. L’operaismo, nei suoi attuali
travestimenti, scaglia quei settori sociali, che ogni modo di produzione
dominante crea nel suo “intorno” come rifiuti, non prevalentemente contro la
classe capitalistica – cioè contro le sue frazioni in lotta per il dominio,
cercando di sfruttare questa lotta a favore dei dominati – bensì contro
l’esclusione dal godimento di quantità adeguate di valori d’uso, onde
appropriarsene una fetta; e con il rischio che, alla fin fine, per esaudire al
meglio questo desiderio di appropriazione – direttamente, immediatamente, tesa
al consumo – tali settori marginali si scatenino contro i produttori dei
valori d’uso in forma di merce, cioè contro frazioni decisive dei veri dominati
nel capitalismo.
Hace algunos días tuve la visita de unos amigos, y entre ellos se encontraba la niña Lissette Carvette, quien al percatarse de que estaba trabajando en un asunto relacionado con Marx, vió su fotografía, tomó una página de su cuaderno escolar y en pocos minutos hizo el retrato que encabeza este trabajo y me lo dejó como obsequio. Yo, gustosamente lo reproduzco para mis lectores