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El joven György Lukács
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Matteo Gargani
I. Nel gennaio
1868, armato della consueta mordacità, Marx confessa al sodale di sempre
Friedrich Engels come il «Kerl» di turno,
Privatdozent di filosofia ed economia politica a Berlino Eugen
Dühring, abbia mancato il senso del I libro de
Il Capitale.
L’«intero
segreto della concezione critica» – scrive Marx riferendosi proprio alla
sua «
Critica dell’economia politica»
– sta nel fatto che «
se la merce ha il
doppio carattere di valore d’uso e valore di scambio, allora anche il lavoro
rappresentato nella merce deve avere carattere doppio». Centrale è quindi
la distinzione tra «lavoro astratto» e "lavoro concreto", sfuggita non solo a
Dühring, ma secondo Marx anche agli stessi fondatori dell’economia politica: «
la semplice analisi fondata sul lavoro sans
phrase come in Smith, Ricardo ecc. deve sempre andare a sbattere in
questioni inesplicabili»
1. Ricorrendo alla nota immagine
della rivoluzione copernicana, possiamo dire che Marx individua quella da lui
operata nel campo dell’economia politica nella fondamentale distinzione tra
«lavoro astratto» e "lavoro concreto", pendant soggettivo della
doppia natura del valore già incorporata nella merce. È proprio sul «concetto
di lavoro» nell’intera opera di uno tra i più celebri filosofi del xx secolo
che si concentra
Individuo, lavoro,
storia. Il concetto di lavoro in Lukács di Antonino Infranca.
Il testo in questione, tuttavia, si colloca su un terreno
diverso rispetto al piano «critico» evocato da Marx nella lettera a Engels.
Infranca, infatti, amplia molto la portata teorica del concetto di lavoro in
Lukács: «Non c’è dubbio che il concetto di lavoro in Lukács ha un uso
metafisico. Il lavoro è il principio dello sviluppo dell’umanità e, allo stesso
tempo, è il fondamento di tale sviluppo, proprio perché la storia è ‘storia dei
mezzi di produzione’ e dei rapporti di produzione, come vuole la concezione
materialistica della storia»
2. Metafisica, principio e fondamento
sono probabilmente i tre concetti più eminenti nell’intera storia della
filosofia occidentale. Con piena ragionevolezza possiamo tuttavia affermare
che, anche in questo caso verisimilmente munito della nota causticità, Marx li
avrebbe imperiosamente scacciati da quella riserva «critica» che con tanta
tenacia difende dai molteplici attacchi, che plurimi riceve negli ultimi
decenni della propria (travagliata) esistenza.
Croce e delizia per generazioni d’interpreti a cavallo di
almeno un secolo, e a quanto pare anche di due, il rapporto tra Marx e la
filosofia rimane sullo sfondo anche dello studio di Infranca.
II. In una vita
costantemente turbata dall’assillo dei creditori, da drammatiche vicende familiari e da noti tormenti politici, nelle letture condotte nel refugium che
dal 1857 in poi rappresenta per Marx la reading room del “British
Museum” non trova spazio la filosofia. Materia su cui, invece, negli anni
universitari trascorsi tra Bonn e Berlino aveva deciso di dirigersi, rompendo
con la consueta nettezza gli iniziali studi giuridici, intrapresi sulle orme
del padre avvocato. Ricorrendo ad una nota immagine psicoanalitica potremmo
quindi affermare che, proprio abbandonando la giurisprudenza, Marx compie il
suo primo e più vero parricidio.
Le migliaia di pagine di quaderni di estratti minuziosamente
compilati da Marx lungo l’intero trentennio londinese testimoniano severi studi
rivolti, oltre naturalmente al costante approfondimento dell’economia politica,
tra le molte altre cose, alla storia dell’antropologia, della geologia, della
mineralogia; nonché alla storia della diplomazia, della fisica e della
trigonometria. A tutti gli effetti, quindi, i filosofi e la filosofia
parrebbero negli ultimi decenni della vita di Marx – che faticosamente la
quarta sezione di Exzerpte dell’edizione
critica delle opere marx-engelsiane promossa dalla «Berlin-Brandeburgische
Akademie der Wissenschaften» sta portando alla luce ancora in questi anni –
elementi assenti.
Seguendo la rappresentazione che Marx stesso
retrospettivamente offre della propria evoluzione intellettuale, la rottura con
la filosofia intesa come disciplina dotata di autonomo statuto veritativo si
consuma nell’opera redatta con Engels tra il 1845 e il 1846
Die deutsche Ideologie. Pagine che,
tuttavia, il ventottenne Marx e il ventiseienne amico e compagno di una vita
Engels non pubblicheranno mai e deliberatamente esporranno alla «critica» sì,
ma «roditrice dei topi»
3. Nota è la tesi centrale della
prima parte
Ad Feuerbach dell’ampio
manoscritto marx-engelsiano: morale, teologia e metafisica «non hanno storia»,
non hanno cioè alcuna consistenza veritativa autonoma
4. Le radici degli assunti veritativi
fatti propri da tali discipline sono dislocate altrove, ossia sul piano della
«produzione materiale» che ne è fondamento e principio.
La produzione è quindi il «vero presupposto» che Marx ed
Engels individuano al fine di congedarsi dalla filosofia e approdare così alla
«scienza positiva»: «Cessano le frasi della coscienza e al loro posto deve
subentrare il vero sapere»
5. È indicativo che, a tredici anni
dalla redazione, il fondamentale merito ascritto da Marx al ponderoso
manoscritto giovanile risieda sostanzialmente nell’aver permesso a lui e a
Engels di fare i conti con la loro «precedente coscienza filosofica»
6. Coscienza che, fino al 1845-1846,
ambisce sì a porsi criticamente, ma rimane comunque interna a un perimetro di
dibattito tipicamente
junghegelianisch. Problema
fondamentale per i «Giovani Hegeliani» – questione che per molti versi
continuerà ad echeggiare sino alla fine nella testa di Marx – è in che modo
rapportarsi all’eredità filosofica di Hegel.
L’irrompere del 1848 interviene a spazzare il campo anche da
dibattiti culturali solo fino a poco prima centrali. La misura della novità può
essere icasticamente colta nel repentino declino di popolarità di Ludwig
Feuerbach che invece, nel pugno di anni tra la pubblicazione de L’Essenza del Cristianesimo del
1841 e il 1848, fu l’astro indiscusso della filosofia tedesca. Se vista alla
luce del rinnovamento seguito al 1848, che alla prova dei fatti si dimostrerà
molto più foriero di conseguenze a livello culturale che politico, diviene meno
difficile cogliere la ragione per cui Marx ed Engels giudicano in poco tempo la
pubblicazione dell’Ideologia tedesca come d’emblée superata dalla
storia.
Se si esclude la verbosa polemica raccolta nel volume
Herr Vogt del 1860, negli ultimi
trent’anni di vita, Marx congeda per la stampa solamente due testi:
Per la critica dell’economia politica nel
1859 e il I libro de
Il Capitale nel
1867. Anche qui, però, la filosofia e i filosofi non compaiono e, laddove
accade, sempre in nota.
III. Negli anni
’60 del XX secolo, un Lukács anziano si impegna nella redazione di un testo di
quasi duemila pagine, che verrà pubblicato solo tra il 1984 e il 1986 per i
tipi dell’editore tedesco-occidentale
Luchterhand Zur
Ontologie desgesellschaftlichen Seins. Oltre al netto calo
d’interesse verso autori e temi connessi al marxismo che vive la cultura
occidentale nel decennio della prima (e unica) edizione del testo, Infranca
legittimamente evidenzia: «La mole dell’opera, il linguaggio utilizzato dallo
stesso autore, ridondante e ripetitivo, e le critiche degli stessi allievi, che
provocarono a loro volta una pessima ricezione dell’opera presso gli ambienti
filosofici, finirono per limitarne la conoscenza e, quindi, vanificarono quel
lavoro di “rifondazione” del marxismo che si proponeva Lukács»
7. La «“rifondazione”» di cui parla
Infranca ci riporta concettualmente al problema del fondamento, e
indirettamente quindi del principio, da noi già testé menzionati come due tra
le questioni somme della metafisica occidentale. Suffragato anche dal giudizio
di uno dei massimi interpreti lukacsiani e che maggiormente e nell’arco di
decenni si sono continuativamente impegnati con il pensiero del filosofo
ungherese, Infranca aggiunge:
In realtà l’opera è
andata oltre le intenzioni dell’autore e ha assunto un livello tale che il
giudizio di Nicolas Tertulian riesce a renderne perfettamente il valore:
“Lukács intendeva mettere in valore sia la tradizione della Metafisica di
Aristotele sia quella della Logica di Hegel per erigere la propria
ontologia. La sua opera, perciò, voleva essere simultaneamente una ‘metafisica’
e una ‘critica della ragione storica’”. Il giudizio di Tertulian ha colto e
riunito in un unicum metafisica e critica della ragione storica. L’Ontologia pertanto
ambisce non solo a continuare le tradizioni classiche della filosofia, ma
mantenere il discorso filosofico ad un livello di alta speculazione8.
Secondo il giudizio dell’autore ci troviamo quindi innanzi
ad un Lukács impegnato in un ambizioso progetto di «rifondazione della
metafisica», rifondazione che però parrebbe problematicamente attuata senza
congedarsi dai presupposti filosofici della metafisica stessa, ossia dai
concetti di principio e fondamento. È il lavoro certamente per Infranca
l’elemento che riveste tale ruolo fondativo: «Per Lukács il “cominciamento”
dell’uomo è la categoria in cui esso si forma e si esprime la propria essenza
umana, il lavoro; quindi, quest’ultimo va considerato come il modello di ogni
forma di prassi umana»
9. A fronte di ciò, tuttavia,
l’autore si mostra pienamente consapevole delle insidie teoriche che
l’argomento del lavoro come principio racchiude:
La funzione di
principio che il lavoro ha nei confronti dell’uomo, nei termini che Lukács usa,
cioè utilizzando l’impianto teoretico del “cominciamento” hegeliano della Scienza
della Logica, potrebbe essere compreso come un ennesimo tentativo
metafisico, ma Lukács riesce a sfuggire a questo pericolo. Lukács, infatti, ha
ben chiaro il limite di tutti i discorsi sul fondamento o sul principio,
apparsi nella storia della filosofia, sempre come parziali e riduttivi a causa
del fatto che non possiamo ricostruire il momento della genesi dell’essere
sociale, come abbiamo visto sopra e le varie fasi di trapasso da una forma
d’essere all’altra10.
Per descrivere il ruolo ricoperto dal lavoro nell’
Ontologia dell’essere sociale,testo
a cui Infranca ascrive il merito di aver esposto più diffusamente e
approfonditamente il progetto di «rifondazione della metafisica» intrapreso
dall’ultimo Lukács, l’autore si serve della nota immagine tratta dalla Logicahegeliana
di un principio immanente al processo medesimo che esso origina: «Il lavoro è
principio sempre immanente al processo di sviluppo: “Il principio ha da essere
anche il cominciamento, è quello che è il Prius per il pensiero, ha da essere
anche il Primo nell’andamento del pensiero”. Per Lukács il “cominciamento”
dell’uomo è la categoria in cui esso si forma e si esprime la propria essenza
umana, il lavoro; quindi quest’ultimo va considerato come il modello di ogni
forma di prassi umana»
11.
Quello disegnato da Infranca si presenta però come un quadro
per molti versi spinoso: da una parte, c’è un Lukács che intende rifondare la
metafisica dal concetto di lavoro inteso come principio e fondamento,
dall’altra, la piena consapevolezza dell’autore circa le difficoltà connesse
all’utilizzo di quest’ultimi due concetti. Come uscire da questa problematica
impasse? La soluzione è secondo Infranca
da cercare dentro il quadro teorico dell’
Ontologia dell’essere
sociale, ossia nel lavoro inteso come «“fenomeno originario [
Urphänomen]” della prassi umana»
12. Il lavoro inteso come
Urphänomen rappresenta difatti per
lui un essenziale strumento per pensare un diverso modello fondativo rispetto
all’oggettività.
Richiamando la celeberrima immagine del «rovesciamento», che
proprio Marx afferma nel Poscritto del 1873 alla seconda edizione de Il Capitale di aver attuato
rispetto alla dialettica hegeliana, Infranca indica come il «rovesciamento»
perpetrato da Lukács investa invece la «teleologia» hegeliana. Quest’ultima,
non più intesa come nella Logica di
Hegel quale luogo di passaggio dall’oggettività all’idea, ma «rovesciata» per
l’appunto, ossia mezzo di transizione dall’idea all’oggettività:
La teleologia per
Hegel è il punto di passaggio dall’oggettività all’idea. Nella concezione
lukacsiana del lavoro troviamo giustamente il contrario: essa è il passaggio
dall’idea all’oggettività. (…) Quindi la teleologia sarebbe hegelianamente il
vero e proprio concetto di lavoro nell’Ontologia di Lukács. Il concetto di
lavoro prende il posto dello svolgimento dell’idea, è esattamente il passaggio
all’oggettività. È il soggetto che trapassa nell’oggetto. Questo movimento di
passaggio non è un transducere, che lascia immutati i due elementi
attraverso cui il movimento passa, nel nostro caso il soggetto e l’oggetto, ma
di un educere, di un portare fuori da entrambi: il soggetto
estrinseca la propria idea nella realtà, l’oggetto reale riceve una forma in
base alle proprie leggi naturali 13.
Sfidando Aristotele, Hegel e Marx, parrebbe enorme l’audacia
filosofica dimostrata da Lukács. Senza l’incoraggiamento di alcun Virgilio e
ben oltre il «mezzo del cammin di nostra vita», il vecchio professore di
Budapest sembra reagire con meno pusillanimità di Dante di fronte alla celebre
lupa del I Canto dell’Inferno innanzi a un compito che a molti altri invece «fa
tremar le vene e i polsi».
IV. Nel
1970, Lukács rilascia a Georg Klos, Kalman Petkovic e Janos Brener
un’importante intervista, pubblicata poi nel marzo del medesimo anno sulla
rivista austriaca «Neues Forum». Gli interlocutori sollecitano Lukács, tra le
altre cose, a pronunciare un giudizio sulla filosofia contemporanea: «Quale
dovrebbe essere il rapporto della filosofia marxista rispetto a questa grande
varietà di filosofia contemporanea? Che cosa può essere assunto come valido
dalla filosofia borghese o costituire lo stimolo per un ulteriore sviluppo?»
14 La lunga risposta di Lukács è
spiazzante:
Concedetemi in una
certa misura di non rispondere in modo diretto alla vostra domanda. Non
attribuisco grande valore all’odierna filosofia borghese. Nel nostro paese la
gente si è ovviamente rivolta alla filosofia occidentale in seguito alla
delusione per il marxismo deformato che a loro era stato imposto da Stalin,
allo stesso modo di una donna che, delusa dal proprio marito, si trova un bel
giorno tra le braccia del primo uomo che incontra. L’odierna filosofia borghese
per me non vale molto, devo persino aggiungere ad esempio che per me Hegel è
stato l’ultimo grande pensatore, anche se oggi giornali americani, tedeschi o
francesi annoverano qualsiasi sconosciuto tra i grandi pensatori. A mio parere
è soltanto un’illusione, se, come ho già detto, persone che sono state deluse
dallo stalinismo pensano che con l’aiuto dello Strutturalismo possano
correggere la situazione nel marxismo; spero di non apparire cattivo se dico
questo apertamente. Costituì un errore il fatto che il marxismo ufficiale negli
anni dello stalinismo fu completamente isolato dai risultati dello sviluppo al
di fuori dell’Unione Sovietica. Fu un errore che non ha nulla a che vedere con
il marxismo, dal momento che sia Marx sia gli stessi Engels e Lenin seguirono
lo sviluppo della filosofia e della scienza dell’epoca con estrema attenzione.
In proposito è tuttavia da ricordare il fatto che essi lo fecero con
un’attitudine estremamente critica. Marx cita le cosiddette grandi figure del
suo tempo – Kant, Herbart, Spencer – solo con rifiuto ironico. Dal punto di
vista psicologico io posso comprendere che l’odierno marxismo cerchi
dappertutto sostegni in Occidente. Dal punto di vista oggettivo questo
costituisce per me un errore. Per quel che mi riguarda ritengo assolutamente
essenziale comprendere correttamente i metodi del marxismo, ritornare a questi
metodi e in questo modo provare a spiegare la storia successiva alla morte di
Marx. Uno dei più gravi peccati del marxismo è che dalla pubblicazione del
testo di Lenin sull’Imperialismo del 1914 non è stata condotta alcuna analisi
autenticamente economica del capitalismo. Oggi manca anche una vera analisi
storica ed economica dello sviluppo nel Socialismo. Dove possiamo imparare
qualcosa nella letteratura occidentale? Indubbiamente sono ad esempio stati
apportati enormi contributi in molti ambiti delle scienze naturali; riguardo a
questo c’è veramente molto da imparare. D’altro lato, la letteratura che è
sorta negli ambiti della filosofia e delle scienze sociali dovrebbe essere
studiata da noi criticamente. È illusorio credere, come fanno molti delusi dal
marxismo staliniano, che noi dovremmo imparare qualcosa persino da Nietzsche.
La mia posizione sulla domanda che cosa possiamo apprendere dall’Occidente, è
estremamente critica. Io mi augurerei che i marxisti su questo punto siano
molto più critici. Solo attraverso un autentico rinnovamento del metodo
marxista giungiamo ad una giusta valutazione degli sviluppi in Occidente 15.
Un giudizio indubbiamente sferzante rispetto all’intera
filosofia post-hegeliana è quindi quello formulato dal vecchio Lukács. L’invito
a volgere piuttosto lo sguardo alle novità sopraggiunte sul terreno scientifico
e al nuovo assetto del capitalismo mondiale parrebbe restituirci de facto un Lukács in profonda
sintonia proprio con il Marx dell’ultimo trentennio londinese. Quel Marx che
abbiamo descritto come integralmente assorbito, non senza profonde ricadute a
livello psicologico e fisico, in una titanica operazione di aggiornamento delle
proprie conoscenze empiriche sia sul terreno della scienza naturale che su
quello economico-sociale. Condiviso tra i due parrebbe, quindi, l’invito a non
perdere troppo tempo con i filosofi e la filosofia contemporanea. Molto
probabilmente analoga a quella di Lukács sarebbe stata anche la risposta del «Mohr» a
chi lo avesse interrogato su cosa sfogliare tra i testi dell’amata disciplina
di gioventù: guardate altrove! E se proprio insistete, al massimo, «OldHegel».
Tuttavia, a ben vedere, nella propria risposta Lukács
formula – un po’ tra le righe – anche delle considerazioni che forse una
qualche relazione con la filosofia la intrattengono. Difatti, la fondamentale
esortazione da lui rivolta alle future generazioni di «marxisti» non è un
generico appello ad aggiornarsi, cioèsic
et simpliciter a studiare di più la scienza contemporanea o le novità
sopravvenute sul campo dell’economia globale. Anzi, Lukács ammonisce in
proposito che ogni impresa di questo tipo si rivelerebbe sterile, se non
coadiuvata da una corretta comprensione del metodo
marxiano. È in tal senso che, subito dopo aver evidenziato il significato
essenziale che il metodo riveste per il marxismo, Lukács indica l’esito ultimo
cui dovrebbe mirare tale operazione di aggiornamento empirico: «spiegare la
storia successiva alla morte di Marx».
Ma cosa significa esattamente «spiegare la storia»? Tale
espressione, presa di per sé, è innegabilmente problematica. Di primo acchitto
si potrebbe formulare l’ipotesi che Lukács alluda qui alla possibilità di
offrire una previsione di decorso storico, uno «spiegare la storia» che si
mostri quindi un dominarne gli esiti necessari. Possiamo anticipare che non è
così. Ciò non toglie, tuttavia, che la situazione presenta degli aspetti
innegabilmente curiosi. A cinquantanni di distanza dalla celebre silloge
Geschichte und Klassenbewusstsein. Studien
über marxistische Dialektik (1923), Lukács parrebbe riproporre quella
che ne è la tesi portante: «Per ciò che concerne il marxismo, l’ortodossia si
riferisce esclusivamente al
metodo»
16. Enunciazione che si compendia
perfettamente con l’altra che ne è per molti versi l’integrazione, ossia quella
programmaticamente formulata nell’Introduzione: «Lo scopo che ci siamo proposti
è determinato invece dall’idea che nella teoria e nel
metodo di Marx sia stato infine scoperto il
giusto metodo per la conoscenza [
Erkenntnis] della società e della
storia»
17.
Il testo di Infranca ci soccorre, a nostro parere
correttamente, nel chiarire il senso della «spiegazione della storia» cui
allude Lukács nell’intervista del 1970: «l’
Ontologia, con
tutte le altre opere che cronologicamente le sono state vicine, è in fondo una
teoria della storia, piuttosto che una filosofia della storia. Lukács ha inteso
descrivere i nessi fondamentali dello svolgimento storico, mostrando che il
socialismo non è un’ineluttabile conclusione della storia, ma una sua
possibilità concreta»
18. Ma cosa sono esattamente «i nessi
fondamentali dello svolgimento storico» cui allude Infranca? Rispondere a tale
quesito è gesto che non si risolve in poche battute. Difatti, «i nessi
fondamentali» di cui si parla qui sono quelle strutture permanenti attraverso
cui è configurata la società, ossia in termini generali economia, arte, scienza
e vita quotidiana.
In un colloquio con Franco Ferrarotti del 1970, Lukács
avanza la tesi secondo cui il marxismo è nella sua essenza di fondo «una teoria
generale della società»
19. Su questo punto Lukács si pone in
piena continuità con un modello interpretativo classico del «marxismo» inteso
come «
universelle Weltanschauung»
20. Tale criterio accomuna la Seconda
e la Terza Internazionale, ossia è il presupposto della maggiormente diffusa
qualificazione del «marxismo» nei termini della «concezione materialistica
della storia». La più nitida e storicamente influente diffusione di tale canone
interpretativo è offerta da Friedrich Engels nella Prefazione del 1885 alla
seconda edizione dell’
Anti-Dühring. Qui
egli qualifica infatti la propria opera come una «più o meno unitaria
presentazione del metodo dialettico e della Weltanschauung comunista
sostenuta da me e Marx»
21.
Tra «teoria generale della società» capace di «spiegare la
storia» per Lukács e descrizione dei «nessi fondamentali dello svolgimento storico»
per Infranca, parremmo per molti versi trovarci innanzi alla paradossale
situazione di un marxismo che scaccia la filosofia dalla porta, per poi
vedersela rientrare dalla finestra.
V. Il Lukács
incontrato da Franco Ferrarotti a Budapest nel 1970 appare per molti versi una
persona agli antipodi rispetto a quello dell’intervista pubblicata sul «Neues
Forum». Ferrarotti, infatti, attacca Lukács proprio apostrofandolo di
«metafisica», di essere restio innanzi alla realtà e alle novità sopraggiunte
sul terreno empirico, di rifiutare l’aggiornamento. Di fronte all’incalzare
delle accuse, Lukács risponde così:
Il marxismo come
esigenza e impostazione dello studio globale della società, come
interpretazione della società nella sua globalità, nella sua totalità in vista
della sua trasformazione strutturale e culturale, cioè storica, è veramente
completo. Ma è completo in quanto metodo, cioè in quanto metodo d’analisi e
criterio per stabilire la gerarchia teorica dei fattori costitutivi della
società. La completezza del metodo non implica necessariamente che in Marx si
possa trovare tutto, cioè tutti i contenuti specifici che invece solo una
lunga, paziente ricerca, condotta in base al metodo marxista, tale da investire
il senso globale, storico dell’evoluzione sociale, potrebbe mettere in luce 22.
Ma ancora più sorprendente è quanto Lukács enuncia poco
oltre: «L’elemento scientifico nel marxismo è dato dall’uso di concetti
dialettici e non dogmatici, o metafisici, e dalla sua caratteristica capacità
di assumere, in base alla propria teoria generale, il punto di vista della
totalità contro le impostazioni settoriali e parziali della scienza borghese,
che è, beninteso, una pseudo-scienza. La sola vera scienza è la scienza fondata
sulla totalità»
23. Degno di nota è che proprio il
richiamo metodologico alla totalità quale autentica nota distintiva del
marxismo costituisce un terzo elemento di impressionante continuità teorica tra
il Lukács di
Storia e coscienza di
classe e quello del 1970: «Non il predomino dei fattori economici
nella spiegazione storica è ciò che contraddistingue in guisa decisiva il
marxismo dalla scienza borghese, ma il punto di vista della totalità. La
categoria di totalità, l’onnilaterale, determinante dominio dell’intero sulle
parti è l’essenza del metodo che Marx ha tratto da Hegel e originalmente ha
trasformato in fondamento di una scienza completamente nuova»
24.
Centralità del metodo e del punto di vista della totalità
quali chiavi del marxismo come scienza votata alla comprensione della storia,
quest’ultima intesa come società nella sua permanente evoluzione. A tutti gli
effetti parremmo trovarci innanzi a un paradossale revival che il
vecchio e «stalinista» Lukács compie verso il suo capolavoro di gioventù. Che
sia stato anche lui colpito dall’onda lunga del ’68 che cerca proprio
nell’opera del ’23 una fonte d’ispirazione? Ovviamente non è così. Nonostante i
molti elementi di profonda distanza teorica che separano Lukács dal testo degli
anni venti, parrebbe però a tutti gli effetti che quando si tratta di lanciare
squarci generalissimi su che cosa è il marxismo, qual è il suo obiettivo e il
suo metodo, le posizioni del filosofo ungherese sino alla fine seguano nelle
loro linee essenziali le direttive fissate un cinquantennio prima.
A fronte di ciò, tuttavia, Infranca ritiene non la totalità
o il metodo, bensì il lavoro l’asse portante dell’intera evoluzione
intellettuale lukacsiana: «lavoro come concetto dominante nella produzione
teoretica di Lukács, uno dei pochi concetti che hanno dominato interamente il
suo pensiero. Altri concetti come totalità o estraniazione, sono in fondo
dipendenti dal lavoro, a conferma del carattere di dominio che il lavoro svolge
nella riflessione di Lukács»
25. Lo studio di Infranca è costruito
sulla base di tale tesi interpretativa, che egli documenta con perizia.
Il lavoro quindi, sopra ogni altra cosa, è per Infranca
l’autentico asse portante della lunga – e innegabilmente laboriosa – vita di
Lukács.
VI. In seguito
alle drammatiche vicende legate al coinvolgimento di Lukács in qualità di
ministro nel governo di Imre Nagy nell’autunno 1956 e alla successiva
detenzione in Romania, si crea tra il filosofo e la dirigenza del Partito
socialista operaio ungherese (PSOU) una situazione molto tesa. Lukács invia la
propria richiesta di rinnovo di iscrizione al partito per l’anno 1957, ma la
sua domanda riceverà una risposta positiva solo 10 anni più tardi, ossia
nell’estate del 1967
26. Evento importante in questo
processo di riavvicinamento reciproco, che sancirà simbolicamente la – per
molti versi parziale – riabilitazione di Lukács nel proprio paese, è
l’intervista rilasciata nel luglio 1966 a Budapest a Bruno Schacherl e
pubblicata in una versione approvata dallo stesso intervistato su
L’Unità del 28 agosto dello stesso
anno. Il piano di riforma economica recentemente approvato dal PSOU è lo spunto
da cui prende piede l’intervista significativamente intitolata «La riforma
economica in Ungheria e i problemi della democrazia socialista»
27.
Schacherl sollecita Lukács ad esprimersi sulla recente
«riforma del meccanismo economico». La risposta di Lukács è positiva, ma molto
cauta, egli parla di «un primo passo», di un lungo cammino ancora da compiere
per giungere a «una vera economia socialista». Quali sono gli altri passi da
compiere? Lukács rileva come per creare «un’economia pianificata su basi
teoretiche solide» sia necessario «far rinascere a nuova vita la teoria
marxiana della riproduzione allargata», entrambe operazioni impossibili senza
«la rinascita della teoria e del metodo
di Marx». Ecco che il metodo ricompare, più che Leitmotiv, vera e propria ossessione in ogni discorso di Lukács,
soprattutto negli ultimi anni della propria vita, quando chiare gli appaiono le
enormi difficoltà sia teoriche sia politiche vissute dal socialismo a livello
mondiale.
Schacherl legittimamente mette in guardia Lukács circa il
fatto che il rinnovamento del metodo della dottrina di Marx della «riproduzione
allargata» esposta nel II libro de Il
Capitale possa risolversi in fin dei conti in un’operazione puramente
libresca e quindi domanda: «Non può nascere un nuovo dogmatismo, una nuova
sottospecie della “citatologia”?» La risposta di Lukács è netta: «Mi pare di
no». Senza oscillazioni
Lukács passa quindi ad esporre quelli che ritiene non i tre
«problemi», ma – il diavolo si nasconde sempre nel dettaglio – i tre «complessi
di problemi» necessariamente da sciogliere per «la rinascita della teoria
marxiana della riproduzione allargata», precondizione per un’autentica riforma
economica e democratica in Ungheria.
Il primo «complesso di problemi» indicato da Lukács a
Schacherl è «la genuina analisi teoretica della riproduzione allargata
contenuta nel secondo volume del Capitale». Ma come compiere questo studio? È
lo stesso Engels – e Lukács legittimamente menziona il punto – a ricordare
nella Prefazione stesa nel 1885 per la prima edizione del II libro de Il Capitale come proprio la terza
sezione su «La riproduzione e circolazione del capitale sociale», già a giudizio
dello stesso Marx, andasse «profondamente rimaneggiata». Anche per questa
ragione, Lukács afferma: «Lo studio del testo di Marx deve essere quindi uno
studio critico. In linea di principio non è affatto escluso che su questioni
specifiche si rendano necessarie correzioni o “integrazioni”».
Il secondo «complesso di problemi» è legato a ciò che Lukács
considera come il più importante mutamento strutturale del capitalismo
sopravvenuto negli ultimi cento anni:
È un fatto che la
capitalizzazione dell’industria che produce i beni di consumo e della maggior
parte dei cosiddetti servizi è avvenuta in questi ultimi cento anni. Ciò però è
molto più di una semplice estensione quantitativa della sfera di influenza del
capitalismo, ma provoca piuttosto in esso un cambiamento qualitativo: il
capitale nel suo complesso è ormai interessato direttamente dal punto di vista
economico ai consumi della classe operaia. Pur senza entrare nei dettagli, mi
sia permesso constatare che in conseguenza di ciò il plusvalore relativo, come
forma di sfruttamento, finisce per avere il sopravvento sul plusvalore
assoluto, perché solo questa nuova forma può garantire l’intensificazione dello
sfruttamento nel caso dell’aumento contemporaneo dei consumi (e del tempo
libero) degli operai. Con ciò però, il capitalismo non cessa affatto di essere
capitalismo. Marx scrive in un punto che solo attraverso il dominio del
plusvalore relativo, può avvenire nel capitalismo la «sussunzione reale»
dell’economia.
Se il «terzo complesso di problemi» cui Lukács allude
nell’intervista a Schacherl, ossia l’analisi delle «leggi della riproduzione
della forma sociale della produzione» anche rispetto all’economia socialista, è
stato oggettivamente superato dalla storia, i primi due conservano una piena
attualità. L’essenziale mutamento qualitativo sopravvenuto nel processo
complessivo della riproduzione con il presentarsi del «plusvalore relativo»
quale forma egemone di produzione di plusvalore rispetto a quello «assoluto» ha
enormi conseguenze sia sulla sfera della produzione sia su quella della
circolazione. Benché cosa nota, è ancora una volta forse bene ricordare come
per Marx «il capitale», da intendere fondamentalmente come nesso tra persone
mediato da merci, sia una totalità complessiva e interamente interconnessa. Di
qui discende logicamente che il cambiamento anche di un singolo elemento
nell’insieme implica sostanziali modificazioni riflettentesi sul ritmo e sulla
forma di riproduzione dell’intero.
La questione dell’avvenuta egemonia del «plusvalore relativo»
su quello «assoluto» nella riproduzione e le profonde conseguenze che di qui
discendono non costituisce un hapax nella produzione del Lukács
maturo, ma un punto su cui egli ritorna in più luoghi, uno su tutti, nell’Ontologia dell’essere sociale.
VII. Di
«sussunzione reale» Marx parla in più luoghi de Il Capitale. Il problema, e tale punto è immediatamente
percepibile da chiunque abbia mai avuto a che fare con le rocciose pagine de
testo del 1867 e dei suoi manoscritti preparatori, è che ogni elemento gioca in
esso un ruolo essenziale nella configurazione dell’intero. In altre parole, non
è possibile constatare un decisivo mutamento qualitativo entro il processo
riproduttivo, come fa il tardo Lukács sottolineando il divenir egemonico del
«plusvalore relativo» rispetto al «plusvalore assoluto», trascurando i profondi
mutamenti strutturali che ciò esercita sulla forma e il ritmo riproduttivo
della società. Tali mutamenti coinvolgono tanto la sfera della circolazione
quanto quella della produzione. Alla luce di ciò bisogna chiedersi: è
metodologicamente coerente con i presupposti del Marx «Critico dell’economia
politica» parlare di un «concetto di lavoro»?
E ci ritroviamo così infine nuovamente vis-à-vis con
il Marx londinese che abbiamo richiamato nella lettera d’apertura a Engels,
quello che riconosce il segreto della propria «concezione critica»
dell’economia politica proprio nell’inscindibilità della forma doppia del
valore e del suo pendant soggettivo nella forma doppia del lavoro.
«Lavoro astratto» e «lavoro concreto», quindi, connotati propri esclusivamente
di una determinata fase storica della produzione, come Marx mette in luce in
forma nitida nelle celebri pagine su «Processo lavorativo e processo di
valorizzazione» del Capitolo V, Sezione III del I libro de Il Capitale. La questione è
veramente delicata, ma sappiamo anche che molte volte rischiamo di tenerci un
pericoloso difetto nel manico che, se non affrontato, rischia di inficiare
tutto.
In proposito è utile riflettere sul significato di una celeberrima
citazione marxiana, che non a caso nasce proprio in margine a delle
considerazioni incentrate sulla natura della produzione, ossia quella contenuta
nell’Introduzione metodologica del 1857 a
Per la critica dell’economia politica: «L’anatomia dell’uomo è una
chiave per l’anatomia della scimmia»
28. Che intende dirci Marx qui? Egli
afferma che mai il «
lavoro sans
phrase» rappresenta quell’elemento che può essere diacronicamente rinvenuto
lungo l’intero arco storico come una sorta di costante. Al contrario, Marx
afferma che l’illuminazione dei momenti del passato che alludono a qualcosa di
vivo nel presente è possibile solamente
post festum. Ciò implica quindi che parlare di un «concetto di
lavoro» è qualcosa che contrasta con i fondamenti ultimi del metodo «critico»
di Marx.
Lo studio di Infranca è inequivocabilmente fondato sulla
centralità del «concetto di lavoro» in tutto Lukács. Rispetto a tale tesi,
tuttavia, per tutte le ragioni che abbiamo cercato sin qui di mostrare, ci
sentiamo di esprimere una decisa riserva. Sospendendo il giudizio per quanto
concerne la produzione degli anni ’10, riteniamo non il lavoro, bensì la
centralità di un metodo fondato sul concetto di totalità il vero architrave
dell’intera produzione filosofica di Lukács a partire da Storia e coscienza di classe sino
alla morte.
La nostra tesi interpretatitiva ci conduce così ad andare
contro lo stesso Lukács. In più luoghi, infatti, egli retrospettivamente
colloca nel 1929-1930, anni di decisive letture marxiane e di profondi
cambiamenti congiunturali a livello politico mondiale, la fondamentale rottura
di paradigma intellettuale occorsa nella sua vita: «Nella lettura di Marx
crollarono tutti i pregiudizi idealistici di
Storia e coscienza di classe»
29. Della «grande svolta» del ’30
parla invece Infranca, in piena sintonia con quanto Lukács stesso dice di sé,
come di una «“folgorazione sulla via di Damasco”» che «ha rivoluzionato il modo
in cui Lukács, fino a quel momento, aveva interpretato il rapporto Hegel-Marx»
30. Ciononostante, noi riteniamo non
il ’30, bensì
Storia e coscienza di
classe il vero punto di svolta nell’evoluzione intellettuale di
Lukács. Luogo in cui Lukács si congeda definitivamente dal «saggismo» giovanile
e fa del riferimento imprescindibile, benché da ripensare criticamente, alla
centralità metodologica della categoria di totalità la stella polare di un modo
di fare filosofia da cui egli non si congederà più.
Note