◆ In der wirklichen
Geschichte spielen bekanntlich Eroberung, Unterjochung, Raubmord, kurz Gewalt
die große Rolle. In der sanften politischen Ökonomie herrschte von jeder die
Idylle. — Karl Marx, Das Kapital
|
Karl Marx & Friedrich Engels ✆ A.d.
|
◆
Das Recht auf Arbeit ist im
bürgerlichen Sinn ein Widersinn, ein elender, frommer Wunsch, aber hinter dem
Rechte auf Arbeit steht die Gewalt über das Kapital […], also die Aufhebung der
Lohnarbeit, des Kapitals und ihres Wechselverhältnisses.
— Karl Marx,
Die Klassenkämpfe in Frankreich 1848 bis
1850
Luca Basso
La riflessione intorno alla struttura e alla valutazione
della
Gewalt ha sempre
costituito una questione controversa all’interno del marxismo, a causa delle
(apparenti o reali) ambiguità esistenti all’interno del percorso teorico di
Marx ed Engels, e a causa della rilevanza delle conseguenze politiche insite in
una determinata scelta di campo al riguardo. La trattazione del concetto indicato,
da parte di Marx e Engels, si contraddistingue per una sostanziale ambivalenza,
presentando quindi una caratterizzazione complessa e articolata, che sembra
irriducibile sia alla sua esaltazione in quanto “levatrice della storia”, sia,
di converso, alla sua eliminazione sulla base di una conciliazione “irenica”
fra marxismo e pacifismo. Ad offrire un’occasione molto stimolante per
l’approfondimento di tali temi è l’articolo di Etienne Balibar (2001a) sulla
nozione di
Gewalt, apparso
sull’Historisch-kritisches Wörterbuch des
Marxismus[1].
Occorre sottolineare la forte pregnanza del termine
Gewalt nella lingua tedesca, che si
presta perfettamente a sottenderne il carattere ambivalente:
Gewalt è, nello stesso
tempo, violence epower, violence et pouvoir, violenza
e potere. Tale parola non si limita, quindi, a connotare la
violenza stricto sensu, investendo un campo d’azione più vasto: essa non
concerne solo la violenza vera e propria, seppur esercitata nella dimensione
pubblica, statale, ma la violenza-potere nel suo complesso, nell’intreccio
problematico di tali elementi. Come risulta evidente dall’esame di vari lessici
tedeschi, ci si trova di fronte a una connessione strutturale fra
Herrschaft, Macht e Gewalt [2]. Queste nozioni, seppur con differenti
sfumature e peculiarità, contrassegnano la sfera statuale: una gigantesca,
immane concentrazione del potere, in grado di sottomettere a sé i singoli
individui, nella misura in cui essi hanno consensualmente scelto di cedere
tutti i propri diritti al corpo politico, al fine di ricevere, in cambio, pace
e sicurezza.
L’assetto istituzionale venutosi a formare possiede un
carattere di legittimità: ogni atto del detentore della sovranità, se è
coerente con l’ordinamento giuridico nel suo complesso, si rivela quindi
a priori legittimo, essendo frutto
del consenso dei cittadini-sudditi. Anche la violenza in senso proprio viene
giustificata da tale meccanismo di legittimazione. Da questo punto di vista, si
rivelano compatibili le due celebri affermazioni, rispettivamente, di Karl Marx
e di Max Weber: lo Stato, secondo il primo, è «la violenza concentrata e
organizzata della società (
die
konzentrierte und organisierte Gewalt der Gesellschaft)» (Marx 1867, 779
[814]), e, secondo il secondo, è «quella comunità umana (
menschliche Gemeinschaft), che nei limiti di un determinato
territorio […], esige per sé (con successo) il monopolio della forza fisica
legittima (
das Monopol legitimer
physischer Gewaltsamkeit)» (Weber 1948, 48). Da queste considerazioni
emerge non solamente il fatto che
Gewalt (e
termini affini come
Gewaltsamkeit)
presentano una maggiore area di estensione rispetto all’inglese violence,
includendo il
power, ma anche,
più radicalmente, che ciascuna delle componenti indicate si rivela
strutturalmente ambivalente. L’articolo di Balibar prende le mosse giustamente
da questo problema, e quindi dalla comprensione del carattere ancipite del
concetto in questione. Tale riflessione non approda a un dualismo fra il potere
non-violento e la violenza extraistituzionale, visto che lo Stato include la
possibilità continua della violenza, seppur legittima: le definizioni di Marx e
di Weber concordano nell’individuazione del carattere di
Gewalt dello Stato. Il
riconoscimento del nesso esaminato conduce il ragionamento in una direzione
inconciliabile rispetto a quella di Hannah Arendt (20022), che dà vita a una
contrapposizione fra la violenza e il potere, intendendo quest’ultimo come
elemento radicalmente altro rispetto alla prima
[3].
***
Le due principali direttrici della presente indagine sono le
seguenti. La prima risiede in un’analisi cursoria, a partire dalla trattazione
di Balibar, della nozione di
Gewalt in
Marx e Engels, volta a mostrarne la connessione con la struttura capitalistica,
sul piano economico, e con la dimensione statuale, sul piano politico. Come
vedremo, il rapporto tra l’orizzonte economico e quello politico non appare
definito una volta per tutte. La seconda, più problematica, consiste
nell’esaminare se tale concetto possa essere usato “in positivo” o solamente a
livello critico e decostruttivo: in caso affermativo, si tratta di capire se
la
Gewalt proletaria si riveli
asimmetrica rispetto alla
Gewalt capitalistica,
o se, al contrario, presenti le medesime caratteristiche di fondo, seppur
ribaltate.
Cominciamo dalla prima questione. Marx mette in luce a più
riprese il legame fra
Gewalt e
Herrschaft, Macht, Staat: l’idea
dello Stato come «violenza concentrata e organizzata» ritorna continuamente,
seppur con differenti sfumature, all’interno dell’itinerario marxiano. In
particolare, l’intero
Capitale,
come rileva Balibar (Balibar 2001a, 1284 [63]), può essere definito come una
sorta di analitica della
Gewalt:
il capitale, fin dal suo sorgere, presenta tale elemento come sua struttura
costitutiva, e lo Stato, forma politica adeguata all’assetto capitalistico, è
carico di una violenza immediata all’interno e all’esterno (colonialismo) e di
una violenza mediata, nella dimensione giuridica e politica. Il capitolo XXIII
del
Capitale, incentrato
sull’accumulazione originaria, mostra in modo estremamente incisivo come alle
origini del processo capitalistico si trovi una
gewaltsame Expropriation der Volksmasse, e quindi una lacerazione
violenta. Viene così decostruito il mito liberale della sua origine “idillica”
nella proprietà privata individuale: se si esamina la storia in modo disincantato,
non si può non vedere che essa è caratterizzata «dalla conquista, dal
soggiogamento, dall’assassinio e dalla rapina, in breve dalla violenza (
Gewalt)» (Marx 1867, 742 [778])
[4]. La
wirkliche Geschichte appare contraddistinta, in ultima istanza,
dalla
Gewalt, a differenza di
quanto sostenuto, in modo nient’affatto innocente, dagli esponenti dell’economia
politica. Nel capitolo XXIV, poi, si fornisce un quadro vivido della
Disziplin impartita dal capitale ai
lavoratori salariati, in parte per mezzo della forza brutale in parte per via
giuridica, vale a dire mediante leggi (cfr. Marx 1867, 765 [800]). L’accumulazione
originaria si sostanzia così di «una serie di metodi violenti (
gewaltsame Methoden)» (cfr. Marx 1867,
790 [824]), che concernono sia la violenza fisica, sia una sorta di
Gewalt riflessa, relativa a quelli
che Althusser definiva gli «apparati ideologici di Stato» (Althusser 1995). In
questa storia altra (rispetto a quella “ufficiale”), proposta da Marx, il
capitale viene interpretato criticamente, mostrando che esso «viene al mondo
grondante sangue e sporcizia dalla testa ai piedi, da ogni poro» (Marx 1867,
788 [823]): «
La storia di questa
espropriazione (Expropriation) degli operai è scritta negli annali dell’umanità
a tratti di sangue e di fuoco» (Marx 1867, 742 [779]).
Tale
Gewalt si
inscrive perfettamente nella struttura del modo di produzione capitalistico:
siccome quest’ultimo è dominato dal denaro e dalla sua accumulazione, «la
potenza sociale (
die gesellschaftliche
Macht) diventa potenza privata (
Privatmacht)
della persona privata» (Marx 1867, 146 [164]). Anche nei
Grundrisse si insiste spesso sul
fatto che il denaro costituisce una
soziale
Macht, che prende addirittura le sembianze della “vera comunità” (Marx
1857-1858, 149 [I, 183])
[5], dando vita al paradosso secondo cui un
dispositivo di dominio si trova «nella tasca», sulla base di uno “scambio” fra
sfera privata e sfera sociale: «Il suo potere sociale (
gesellschaftliche Macht), così come il suo nesso con la società
(Gesellschaft), egli lo porta con sé nella tasca» (Marx 1857-1858, 90 [I, 97]).
Ma, in questo modo,
il carattere sociale
dell’attività [… si presenta] qui come qualcosa di estraneo (Fremdes), di
oggettivo (Sachliches) di fronte agli individui; non come loro relazione
(Verhalten) reciproca, ma come loro subordinazione (Unterordnen) a rapporti che
sussistono indipendentemente da loro e nascono dall’urto degli individui
reciprocamente indifferenti (gleichgültigen Individuen aufeinander). (Marx
1857-1858, 91 [I, 97-98])
Il denaro, quindi, si configura come struttura sociale, e,
nello stesso tempo, come fattore di isolamento individuale, dal momento che
sottomette i singoli a una
soziale
Macht, che è però
sachliche e fremde: sachliche,
in quanto materializzata in una cosa, fremde, in quanto si erge contro gli
individui come una forza che li sovrasta e li domina
[6]. Tale
soziale Macht viene definita anche fremde
Gewalt; ad esempio, per indicare il
medesimo problema, nell’
Ideologia tedesca Marx
ed Engels affermano:
La potenza sociale
(die soziale Macht), cioè la forza produttiva moltiplicata che ha origine
attraverso la cooperazione dei diversi individui, determinata nella divisione
del lavoro, appare a questi individui […] non come la propria potenza unificata
(vereinte Macht), ma come un potere estraneo (fremde […] Gewalt), […]
che essi non possono più dominare. (Marx, Engels 1846, 34 [24])[7]
La
soziale Macht,
materializzata in un oggetto, il denaro, costituisce una fremde
Gewalt, una violenza-potere che sovrasta
gli individui, impedendo loro la possibilità di instaurare rapporti altri
rispetto a quelli legati al denaro e alla sua accumulazione: «sotto il dominio
della borghesia gli individui sono più liberi di prima, nell’immaginazione,
perché per loro le loro condizioni di vita sono casuali (
zufällig); nella realtà sono naturalmente meno liberi perché più
subordinati a una forza oggettiva (
sachliche
Gewalt)» (Marx, Engels 1846, 76 [55]). D’altronde, nella successiva critica
dell’economia politica, la nozione di capitale come «lavoro morto», che succhia
come un vampiro il «lavoro vivo» (Marx 1867, 247 [267]), si muove nella stessa
direzione: emerge l’idea di una soggezione violenta, non soltanto nel senso
della forza brutale, ma anche in quello, apparentemente più tenue, del dominio
astratto e impersonale, aspetti perfettamente “catturati” dal termine
Gewalt. Al riguardo Balibar (2001a, 1284
[63]) definisce il
Capitale come
«un trattato sulla violenza strutturale istituita dal capitalista»: ci si trova
di fronte ad una vera e propria «fenomenologia della sofferenza» (Balibar
2001a, 1285 [64]), a tal punto da poter utilizzare entrambe le formule,
«violenza dell’economia, economia della violenza» (Balibar 2001a, 1284 [63]).
Se la prima espressione ci indica chiaramente il fatto che il modo di
produzione capitalistico si fonda su una violenza strutturale, la seconda
espressione rimanda alla necessità di un approfondimento ulteriore. La formula
«economia della violenza» richiama il problema dell’uso politico della
violenza, sulla base dell’idea secondo cui la violenza non costituisce un puro
effetto delle leggi economiche, ma può essere adoperata, fatta esplodere o
calibrata (Michaud 1978, 157-162)
[8].
In precedenza ho sottolineato un aspetto che occorre
riprendere, vale a dire che lo Stato, nel suo complesso, si presenta come
elemento adeguato allo sviluppo capitalistico, e quindi allo sfruttamento della
forza-lavoro in esso insito. Ho messo in luce il carattere di violenza-potere
dello Stato, secondo Marx vera e propria konzentrierte und organisierte Gewalt der Gesellschaft (Marx 1867,
779 [814]), aggiungendo che la celebre definizione weberiana si rivela
tutt’altro che incompatibile con questa posizione, dal momento che segno
distintivo di tale Gewaltrispetto ad altre Gewalten è proprio la
legittimità. Si tratta della violenza, della forza, del potere, ma con il
marchio della legittimità. Tale impostazione permette di individuare
un’omologia tra l’espropriazione capitalistica e l’espropriazione derivante dai
meccanismi dello Stato moderno. Occorre tener presente questo parallelismo, ma
senza cadere nell’equivoco di interpretarlo come una sorta di identità, ovvero
senza mai sovrapporre fino in fondo i due piani, quello economico e quello
politico, e quindi senza dedurre il secondo dal primo, sulla base del rigido determinismo
adottato da una parte del marxismo. D’altronde, seppur con varie difficoltà,
l’analisi marxiana del bonapartismo fornisce una complicazione a tale
questione, dal momento che tenta di interpretare il problema del possibile
autonomizzarsi dello Stato rispetto ai rapporti economici: la relazione tra
l’“economico” e il “politico” si presenta tutt’altro che lineare. Ad esempio,
nel 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, Marx sottolinea che, con l’ascesa al
potere di Luigi Bonaparte, venne sostenuto il «potere sociale
(gesellschaftliche Macht)» della borghesia, ma negandone il «potere politico
(politische Macht)»: economicamente essa rimase la herrschende Klasse, ma a prezzo di una completa cessione a
Bonaparte del dominio politico (Marx 1852, 154 [117]). Friedrich Engels si
trovò di fronte a una difficoltà analoga, nel momento in cui si mise a
esaminare l’età di Bismarck nel testo Die
Rolle der Gewalt in der Geschichte (scritto nel 1895 e mai
pubblicato), che avrebbe dovuto far parte dell’Anti-Dühring. Balibar si sofferma a lungo su tale opera, che
presenta un’ampia trattazione del problema della Gewalt (Balibar 2001a, 1270-1279 [49-59]): il suo interesse è
anche legato al fatto che in Marx questa nozione, pur giocando un ruolo
decisivo, non viene mai affrontata sistematicamente.
Nel testo indicato la connessione con la questione del
bonapartismo, e quindi dell’autonomia dello Stato, viene enunciata chiaramente:
Bismarck viene caratterizzato come un Luigi Bonaparte «in abiti prussiani»
(Engels 1887-1888, 426 [42]), che, con la sua gestione autoritaria e
centralistica, svolse l’importante compito di far diventare la Germania uno
Stato nazionale, condizione necessaria per uno sviluppo capitalistico in senso
pieno (Engels 1887-1888, 411 [16])
[9]. Qui emerge, in primo luogo, il legame
fra struttura capitalistica e dimensione statale. Ma a questo “classico” tema
della tradizione marxista, si aggiunge un altro problema, derivante dalla
sempre possibile frattura fra il detentore della politische
Macht(o Herrschaft) e la classe borghese: Engels, riprendendo per molti
versi l’analisi marxiana del bonapartismo, sottolinea che Bismarck «dissipò
violentemente (gewaltsam) le illusioni liberali della borghesia, ma appagò le
sue esigenze nazionali» (Engels 1887-1888, 429 [47]). La via prescelta fu di
rafforzare la
soziale Herrschaft della
borghesia, ma annientandone la
politische
Herrschaft (Engels 1887-1888, 413 [21]): Bismarck assecondò tale
classe, decisiva per la questione nazionale e per la crescita economica, ma
tenendo saldamente ancorato a sé il potere politico. Così Bismarck appare a
Engels come «un prussiano rivoluzionario dall’alto (
preußischer Revolutionär von oben)» (Engels 1887-1888, 433 [55]):
«rivoluzionario», in quanto condusse la Germania alla formazione dello Stato
nazionale e, conseguentemente, fornì un impulso allo sviluppo capitalistico,
condizione di possibilità della lotta di classe proletaria, e quindi del
comunismo (Engels 1887-1888, 460 [104])
[10]. In questo processo Bismarck adoperò
la
Gewalt, assolutamente
necessaria per dare vita ad una revolutionäre Umgestaltung: anche la
Diktatur risultava in qualche
misura inevitabile, in un paese disunito e non ancora capitalistico in senso
pieno (Engels 1887-1888, 431 [50-51])
[11]. Il suo limite consisteva piuttosto nel
fatto che condusse la rivoluzione “dall’alto”, in modo verticistico: «Piuttosto
che sul popolo (
Volk) egli ha fatto
assegnamento sulle manovre condotte dietro le quinte» (Engels 1887-1888, 456,
[97]).
Tale analisi engelsiana presenterebbe alla propria base uno
schema di filosofia della storia (Balibar 2001a, 1275-1277 [56-58]), come
risulta evidente dall’individuazione della successione Stato nazionale-sviluppo
capitalistico-lotta di classe-comunismo. Nel caso della Germania, si trattava
appunto di superarne l’arretratezza politica e economica, spingendola risolutamente
verso la struttura capitalistica: sia il modo di produzione capitalistico, sul
piano economico, sia lo Stato, sul piano politico, esercitano una funzione
rivoluzionaria, in quanto abbattono una serie di privilegi precedenti, ponendo
l’assetto presente nelle condizioni propizie per una rivoluzione proletaria.
Per quanto tale impostazione colga alcuni aspetti rilevanti, la sua assunzione
“sistematica” si rivela alquanto problematica, fondandosi su un’idea
teleologica della storia. Nel testo indicato Engels valorizza il cancelliere,
in quanto interprete di tale necessità, per un verso capitalistica, per l’altro
nazionale, facendo di esso un rivoluzionario, seppur “dall’alto”. Giustamente
Balibar si domanda se tale espressione non risulti fuorviante: «Una Revolution von oben è una rivoluzione? Il termine
‘rivoluzione’ non è irrimediabilmente equivoco, proprio nella misura in cui
esso implica un riferimento a diversi tipi di Gewalt, che non si inseriscono in un unico schema
di lotte di classe?» (Balibar 2001a, 1274 [53]). Sarebbe l’utilizzo di
moduli di filosofia della storia a permettere a Engels di considerare il regime
bismarckiano rivoluzionario, attribuendo alla rivoluzione uno statuto ambiguo:
verrebbe così accettata acriticamente l’autorappresentazione di Bismarck come
“rivoluzionario dall’alto”.
Ma esaminiamo come tale elemento si ripercuota in merito
alla questione della Gewalt:
oltre al rischio di una deduzione troppo immediata del “politico”
dall’“economico” (se il “politico” si muove nella direzione opposta
dell’“economico”, va incontro a una sicura sconfitta, come nel caso di Luigi
XVI; se si dirige nel senso dello sviluppo capitalistico, come nel caso di
Bismarck, va incontro a una sicura vittoria), il problema maggiore è costituito
dal fatto che la categoria di Gewalt risente
dell’ambiguità del concetto di rivoluzione, e quindi viene totalmente
giustificata, se risulta funzionale alla modernizzazione della Germania (come
nell’azione politica di Bismarck). Rimane aperta la questione del rapporto tra
la Gewalt capitalistica,
con il suo carattere brutale (Engels 1887-1888, 446 [79]), e quella proletaria.
Il primo tema affrontato, ovvero il nesso di tale categoria con il modo di
produzione capitalistico e con la struttura statuale, pur presentando zone
d’ombra e difficoltà (si pensi alla non-linearità del nesso fra Stato politico
e classe borghese), rivela tratti piuttosto chiari, nel momento in cui
individua nella Gewalt un
elemento centrale ai fini della comprensione delle dinamiche economiche e politiche.
Appare, invece, assai complesso il problema della relazione fra la critica di
tale violenza-potere e la delineazione di un altro concetto (e di un’altra
pratica) di Gewalt. Si tratta di
esaminare se si possa rinvenire, in Marx e in Engels, un’accezione “positiva”
di Gewalt, e, in caso
affermativo, se essa si presenti come un mero ribaltamento di quella
capitalistica, o se esista una dissimmetria tra le due modalità indicate.
Per approfondire la questione, riprendiamo l’analisi dello
scritto
Die Rolle der Gewalt in der
Geschichte di Engels: «
In
politica ci sono solo due forze (Mächte) decisive, il potere organizzato dello
Stato (die organisierte Staatsgewalt), l’esercito, e il potere non
organizzato (die unorganisierte Gewalt), la forza elementare delle forze
popolari» (Engels, 1887-1888, 431 [51]). Qui vengono individuate due
diverse modalità di
Gewalt: alla
violenza-potere legale, istituzionale, organisierte, ne viene contrapposta
una di altro tipo, unorganisierte. Ma la direzione intrapresa sembrerebbe
conforme o, in qualche modo, compatibile con i principi dell’anarchismo e del
sindacalismo rivoluzionario (ad esempio, Sorel), e quindi con la valorizzazione
dell’elemento spontaneista versus la struttura statuale. D’altronde,
lo stesso percorso engelsiano appare in contraddizione con tale prospettiva:
basti fare riferimento, ad esempio, all’importanza attribuita al problema
dell’organizzazione della classe operaia. Al riguardo Balibar rileva la
presenza di una difficoltà teorica da parte di Engels e, talvolta, di Marx, i
quali oscillerebbero in modo ambiguo fra l’anarchismo bakuniano e lo
“statalismo” lassalliano (Balibar 2001a, 1274 [54])
[12]. Da questo punto di vista, non risiede
nell’alternativa organizzazione-spontaneismo la differenza specifica fra i due
tipi di
Gewalt. Anche nella
«Teoria della violenza» dell’
Anti-Dühring si
affaccia, in polemica con Dühring, la possibilità di individuarne un altro
ruolo rispetto a quello capitalistico:
che la violenza (die
Gewalt) abbia nella società ancora un’altra funzione, una funzione
rivoluzionaria, che essa, secondo le parole di Marx, sia la levatrice
(Geburtshelferin) di ogni vecchia società gravida di una nuova, che essa sia lo
strumento con cui si compie il movimento della società (die gesellschafliche
Bewegung), e che infrange forme politiche irrigidite e morte, di tutto questo
in Dühring non si trova neanche una parola. (Engels 1878, 171 [176-177])
La violenza-potere presenta una strutturale duplicità,
proprio in quanto non costituisce una sorta di
primum metafisico ma uno strumento, come l’intera analisi
dell’
Anti-Dühring tende a
dimostrare (Engels 1878, 148 [153])
[13]: essa può essere adoperata anche dalla
classe operaia per difendere i propri diritti contro la classe dominante
borghese. Ad esempio, nello scritto
Sull’azione
politica della classe operaia, Engels afferma: «
La rivoluzione è il più alto atto della politica […]. Si dice che ogni
azione politica significa riconoscere ciò che esiste. Ma se ciò che esiste ci
fornisce i mezzi per protestare contro ciò che esiste, l’impiego di questi
mezzi non è un riconoscimento dell’esistente» (Engels 1871, 415 [290-291]).
Se è chiaro che la violenza possiede una valenza ancipite, e quindi, pur
venendo generalmente utilizzata dalla classe borghese, può essere fatta propria
anche dal proletariato, non è però altrettanto chiaro se la
Gewalt proletaria risulti o meno
asimmetrica rispetto a quella borghese.
Per indagare ulteriormente tale problema, ritorniamo a Marx,
facendo riferimento innanzitutto al passo del
Capitale richiamato da Engels: «
La violenza è la levatrice di ogni vecchia società (
der Geburtshelfer jeder alten Gesellschaft),
gravida di una società nuova. E’ essa
stessa una potenza economica (
ökonomische
Potenz)» (Marx 1867, 779 [814])
[14]. Tale riflessione rischierebbe di
legittimare la convinzione secondo cui la violenza in sé presenti una funzione
propulsiva. Ovviamente si può fornire un’interpretazione differente del passo,
valorizzandone gli aspetti espansivi, e in primis il riconoscimento
della produttività dei conflitti sociali, secondo una visione dinamica della
sfera politica: in ogni caso, rimarrebbe il rischio di approdare a una sorta di
vitalismo della violenza, che appare in contraddizione con i segni distintivi
della critica dell’economia politica. Sulla base dei principi di quest’ultima,
infatti, la
Gewalt non può
mai costituire un primum né una prospettiva verso cui tendere,
dovendo venir indagata a partire dalle condizioni materiali del suo darsi. Ma
questa non sarebbe l’unica accezione marxiana di
Gewalt a creare difficoltà.
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Étienne Balibar |
Un altro aspetto problematico è rappresentato
dall’assunzione di una categoria di
Gewalt
sostanzialmente omogenea rispetto a quella sottoposta a critica, seppur in
un’ottica ribaltata. Un esempio significativo di tale impostazione è contenuto
nel capitolo VIII del
Capitale,
dedicato alla lotta fra le due classi per la regolazione della giornata
lavorativa: «
Qui ha dunque luogo
un’antinomia: diritto contro diritto, entrambi consacrati dalla legge dello
scambio delle merci. Tra diritti uguali (zwischen gleichen Rechten) decide
la forza (die
Gewalt)» (Marx
1867, 249 [269])
[15]. Ci si trova di fronte a una simmetria
fra le due classi: ciascuno dei “soggetti” in lotta detiene il
proprio Recht, e a risultare vincitrice è inevitabilmente la classe dotata
di maggiore
Gewalt. Qui le due
classi costituiscono due eserciti in guerra, una guerra condotta all’interno
dello Stato: d’altronde la «lotta multisecolare» (Marx 1867, 294 [306]) fra di
esse costituisce un vero e proprio
Bürgerkrieg (Marx
1867, 316 [335])
[16]. Per quanto esista un elemento di forte
sbilanciamento, consistente nel fatto che l’una è la classe dominante e l’altra
quella dominata, la topografia complessiva appare simmetrica: in uno scenario
di questo tipo, anche la violenza-potere proletaria rappresenta la “risposta”
dei dominati ai dominanti. Tale questione, però, si rivela più complessa
rispetto al punto precedentemente analizzato (il vitalismo della violenza), dal
momento che, nella regolazione della giornata lavorativa, la lotta stessa
cambia i termini della questione, spostando continuamente i piani del discorso
e della pratica politica. Già a partire dall’
Ideologia tedesca emerge il fatto che la classe riveste un
carattere intrinsecamente politico, non potendo mai venir ipostatizzata fino in
fondo né dal punto di vista sociologico né da quello ontologico: «I singoli
individui formano una classe solo in quanto devono condurre una lotta (
Kampf) comune contro un’altra classe»
(Marx, Engels 1846, 54 [54])
[17]. L’idea secondo cui la classe esiste, in
prima istanza, nella dimensione della pratica, e in particolare nella lotta,
può mettere in discussione il riconoscimento di un’omologia nel rapporto fra
borghesia e proletariato, visto che, nel
Kampf, si costituiscono e si trasformano costantemente le relazioni
fra gli individui e le classi, con le loro simmetrie e asimmetrie. Nonostante
tale elemento, porre al centro del ragionamento una
Gewalt che decide “fra diritti uguali”, rischierebbe di non
far uscire dal paradigma sottoposto a critica, rimandando a un orizzonte di
forza e di efficacia nell’uso di essa, scenario inevitabilmente “prigioniero”
della logica capitalistica.
Un discorso analogo si può fare per la Situazione della
classe operaia (1844) di Engels, testo in cui si mette in luce, con tratti
hobbesiani, il carattere di bellum
omnium contra omnes della concorrenza moderna, con la sua capacità di
produrre una separazione radicale fra due classi:
questa guerra (Krieg),
come dimostrano le statistiche dei delitti, diviene di giorno in giorno più
violenta (heftiger), più accanita, più implacabile; i nemici (Feindschaft) si
dividono gradualmente in due grandi schiere che lottano l’una contro l’altra:
da una parte la borghesia, dall’altra il proletariato. (Engels 1845, 359
[362])
In questo contesto, intrinsecamente segnato dalla
Gewalt, la spaccatura in classi sembra
configurare una perfetta simmetria: ci si trova di fronte a due “eserciti” in
lotta, ciascuno dei quali reclama il proprio Recht, per quanto sulla base
di una struttura di dominio di una classe sull’altra. Lo sbocco a tale
condizione di estrema conflittualità è rappresentato dalla rivoluzione, che non
può non essere «violenta (
gewaltsam)»
(Engels 1845, 472 [479])
[18]. Anche qui sembra risultare un quadro
simmetrico: alla violenza dei dominanti i dominati devono reagire con altrettanta
Gewalt, per far valere i propri diritti,
calpestati nella situazione presente. L’opera engelsiana fa però emergere
elementi ulteriori rispetto a tale rappresentazione: si faccia riferimento, ad
esempio, all’idea secondo cui «il comunismo è al di sopra del contrasto (
Gegensatz) tra proletariato e borghesia»
(Engels 1845, 506 [514])
[19]. La nozione (e la pratica) di comunismo
si rivela irriducibile alle linee politico-militari del conflitto fra due
classi: esso non può mai essere “catturato” fino in fondo dalle logiche anche
simmetriche del loro scontro. Già questa considerazione spinge il ragionamento
in una direzione non subalterna al modello oggetto di critica, dal momento che
rimanda alla possibilità di una
Gewalt che
si situi «
al di sopra del contrasto tra
proletariato e borghesia». Il richiamo al Gegensatz tra le due
classi non permette di cogliere fino in fondo il concetto di comunismo, dal
momento che quest’ultimo rappresenta un movimento destrutturante nei confronti
degli assetti costituiti, compresa l’articolazione classista della società.
Ma in Marx, ancora più che in Engels, si può rinvenire una
declinazione di
Gewalt che
non costituisce una mera risposta della violenza-potere borghese. Il problema
consiste nel fatto che, mentre in Engels è possibile individuarne una
trattazione in qualche modo “sistematica”, in Marx ciò non accade. Per quanto
si trovino vari riferimenti a tale concetto, e per quanto, in particolare,
il
Capitale possa essere
interpretato come una vera e propria “fenomenologia” della
Gewalt, non esiste un’analisi
complessiva di quest’ultima. Occorre ritornare al tema della lotta fra classe
operaia e classe borghese, per tentare di fornire una diversa impostazione al
discorso. Innanzitutto, in Marx (e in Engels) si possono individuare, seppur
non in modo sistematico, due accezioni di proletariato: la prima è quella
appena esaminata, che si pone in modo simmetrico rispetto alla classe borghese.
Ma è presente anche un’altra declinazione di tale concetto, asimmetrica
rispetto a quella borghese, e il cui stesso statuto di classe appare
problematico e incerto. Mentre la classe borghese è classe in senso pieno, in
quanto difende determinati, particolari interessi, il proletariato costituisce
una classe non-classe, in quanto tende alla propria dissoluzione, e quindi al
superamento dell’orizzonte classista. Nell’
Ideologia
tedesca è presente una formulazione radicale della questione: «Questa
sussunzione degli individui sotto classi determinate non può essere superata (
aufgehoben) finché non si sia formata
una classe che non abbia più da imporre alcun interesse particolare di classe
contro la classe dominante» (Marx, Engels 1846, 75 [54])
[20]. Nell’analisi dell’opera indicata, si
potrebbe applicare il ragionamento svolto per la classe ad altre categorie,
quali individuo e comunità: come esiste uno “scarto” fra proletariato e classe
borghese, allo stesso modo gli «individui come individui (
Individuen als Individuen)» si pongono in radicale distonia rispetto
agli «individui come membri di una classe (
Individuen
als Klassenmitglieder)» del contesto presente, e la «comunità reale (
wirkliche Gemeinschaft)» teorizzata non
può che comportare la rottura della «comunità apparente (
scheinbare Gemeinschaft)» capitalistica, fondata sulla
sottomissione individuale a un potere sociale oggettivo (Basso 2008, 95-136).
Il fatto che ci si trovi di fronte a una frattura, non mediabile
dialetticamente, fra individuo, comunità e classe nella prospettiva delineata,
rispetto a tali nozioni nella loro declinazione “capitalistica”, appare assai
rilevante ai fini dell’indagine sulla violenza-potere.
D’altronde molti anni più tardi, nella Critica al programma di Gotha, Marx
esprime chiaramente la netta discontinuità fra lo scenario borghese e quello
proletario, dalla questione del lavoro – non «fonte di ogni ricchezza e
civiltà», ma elemento da eliminare (Marx 1875, 15-16 [7-9]) – al concetto di
uguaglianza – sottoposto a critica, in quanto presuppone una misura uguale per
soggetti che uguali non lo sono affatto (Marx 1875, 20-21 [16-17]). In questo
senso non può che risultare inadeguata la pura sostituzione, al dominio
borghese, del dominio proletario, dal momento che occorre mettere in
discussione i termini stessi del problema, in direzione di un superamento
dell’orizzonte salariale e giuridico presente. Così nelle Lotte di classe in Francia lo
sguardo di Marx, di fronte al conflitto per il droit au travail, di per sé
elemento “socialdemocratico”, è volto alla trasformazione radicale della
struttura sociale:
il diritto al lavoro
(das Recht auf Arbeit) è nel senso borghese un controsenso, un meschino, pio
desiderio; ma dietro il diritto al lavoro sta il potere (die Gewalt) sul
capitale […], e quindi l’abolizione (die Aufhebung) del lavoro salariato,
del capitale e dei loro rapporti reciproci. (Marx 1850, 42 [51])
Qui non ci troviamo di fronte a un’omologia con la
violenza-potere della società capitalistica: si tratta di mettere in crisi il
dispositivo di dominio politico che ne sta a fondamento. Il “movimento
politico” operaio (Marx, 1871b, 332 [410]) presenta l’apparente paradosso,
secondo cui una parte, il proletariato, riveste una funzione universale: tale
universalità non è però “pacificata”, neutrale, identificandosi con la radicale
dissoluzione dell’articolazione classista della società. Un ulteriore problema
è costituito dal rapporto fra il concetto di
Gewalt operaia e quello di rivoluzione e, all’interno di
quest’ultima, dalla differenza fra la rivoluzione borghese e quella proletaria.
Per Marx, la seconda rivela una sua specificità rispetto alla prima, anche sul
piano della violenza-potere: «la rivoluzione proletaria fu […] immune dagli
atti di violenza (
Gewalttaten) che
abbondano nelle rivoluzioni, e ancor di più nelle controrivoluzioni delle
‘classi superiori’» (Marx 1871a, 331 [22]). Nonostante tale elemento, rimane
controversa la questione della relazione fra la
Gewalt proletaria e la costruzione della struttura politica,
della forma-Stato: il rischio consiste nell’assumere surrettiziamente il
modello della rivoluzione borghese nella delineazione della rivoluzione
proletaria
[21].
L’articolo di Balibar possiede il grande merito di mostrare
le ambivalenze esistenti in Marx e in Engels, soffermandosi sulle questioni che
rimangono aperte, talvolta a causa di un’estrema complessità e articolazione
del discorso, talvolta a causa di ambiguità gravide di conseguenze negative: lo
scopo è di pervenire a una “relativizzazione” del punto di vista marxista (cfr.
Balibar 2001a, 1291 [71]). In rapporto al tema della Gewalt, la critica complessiva è l’incapacità di comprendere «il
legame tragico che congiunge ‘dal di dentro’ politica e violenza in un’unità di
opposti anch’essa sommamente ‘violenta’» (cfr. Balibar 2001a, 693 [46]. Il
tentativo consiste nell’operare uno scarto rispetto a tale orizzonte di Gewalt, rifiutandone gli assiomi
apparentemente indiscutibili, e in particolare mettendo in discussione ogni
semplificazione del problema a una sorta di guerra fra due “eserciti”, la
classe borghese e la classe operaia. Nei Quaderni
dal carcere Antonio Gramsci mette in luce che
i paragoni tra l’arte
militare e la politica sono sempre da stabilire cum grano salis, cioè solo
come stimoli al pensiero […] nella guerra militare, raggiunto il fine
strategico, distruzione dell’esercito nemico e occupazione del suo territorio,
si ha la pace […]. La lotta politica è infinitamente più complessa.
(Gramsci 1929-1935, 120-122)
Qui emerge la consapevolezza dei rischi insiti in
un’indebita sovrapposizione o, addirittura, in un’identificazione fra
dimensione militare e dimensione politica. Un filone del marxismo ha insistito,
a partire da un’impostazione “realistica”, sull’importanza di un confronto
serrato con la concezione di von Clausewitz in merito al nesso politica-guerra.
Non si tratta di negare la rilevanza di tale riferimento, anche per la
comprensione del legame indicato, ma di evidenziare la necessità di una
frattura rispetto ad esso, pena il rischio di risultare del tutto subalterni
all’orizzonte bellico: da questo punto di vista, emerge l’esigenza di un
déplacement rispetto al contesto
sottoposto a critica, al fine di poter pervenire all’individuazione di
una
Gewalt al di là
della
Gewalt (Balibar
2001a, 1279 [58]). Anche i lavori di Balibar sull’Europa (in particolare,
Noi cittadini d’Europa?) sono animati
dall’insoddisfazione nei confronti di una concezione che, alla politica di
potenza, contrapponga un’altra politica di potenza, seppur in chiave ribaltata
[22]. Per Balibar la posta in gioco consiste
in una politica della civiltà, in grado di scomporre, disaggregare le simmetrie
esistenti, così come il contrasto tra violenza e non-violenza (Balibar 2001a,
696 [49]). La violenza deve venir indagata nella sua materialità, non
costituendo il male, ma nemmeno l’oggetto di una nuova teodicea: sostenere tale
posizione «non equivale quindi necessariamente a cancellare la questione di una
politica della violenza; al contrario, significa rilanciarla su altre basi»
(Balibar 2001a, 1306 [85]), al fine di «incivilire la rivoluzione, la rivolta e
l’insurrezione» (Balibar 2001b, 150). Risultano così sottoposte a critica non
tutte le accezioni di
Gewalt,
bensì quelle declinazioni che vedono in essa una sorta di fondamento, sia nel
senso dell’esaltazione della violenza spontanea e insurrezionale, sia nel
senso, più prossimo all’esperienza dei paesi del socialismo reale, della
costruzione di uno Stato comunista, in opposizione agli Stati occidentali
capitalisti, in realtà condividendo con essi molto più di quanto possa apparire
a prima vista
[23]. Ma, se la
Gewalt si rivela irriducibile al riferimento alla violenza
vera e propria, connettendosi con le strutture di dominio della società
borghese, risulta difficile concepire la “politica della civiltà” senza
surrettiziamente ricadere in una semplificazione della nozione di
Gewalt a pura violenza, a cui
bisognerebbe reagire mediante una pratica politica assolutamente priva di
brutalità. L’individuazione, da parte di Balibar, dell’ambivalenza della
Gewalt sfocia nella delineazione di
una rivoluzione “mite”, che «scarta gli estremi» (Balibar 2001c, 27)
[24].
In merito al confronto fra Marx e Gandhi (Balibar 2001a,
1306-1307 [85])
[25] – e tra Lenin e Gandhi – (Balibar
2004), questione rilevante sollevata da Balibar, mi limito a rilevare che la
critica marxiana nei confronti della
Gewalt capitalistica
non può condurre a una assunzione
a
priori di non-violenza, in quanto quest’ultima è inevitabilmente
subalterna nei confronti della
Gewalt dei
dominanti. Si tratta di interpretare lo svolgersi degli eventi a partire dalle
fratture che li intersecano, e non esaminandone “il lato buono”: come appare
evidente dalla Miseria della filosofia, la storia va attraversata dal
«lato cattivo» (Marx 1847, 140 [78-79])
[26], muovendosi in radicale dissenso
rispetto a quei filantropi, i quali vogliono «
conservare le categorie che esprimono i rapporti borghesi, senza
l’antagonismo (Widerspruch
) che li
costituisce e ne è inseparabile» (Marx 1847, 143 [81]). Il pacifismo è
sorretto dall’idea di fratellanza di tutti gli uomini, impensabile all’interno
della prospettiva marxiana, nella quale lafraternité viene sottoposta a
critica in quanto «idillica astrazione dai contrasti di classe» (Marx 1850, 21
[19]). Decostruire la nozione indicata allontanandosi da ogni “funebre” inno
alla violenza non significa fare un inno alla non-violenza, bensì cogliere la
necessità di riarticolare la questione della
Gewalt, concependola sulla base di una radicale frattura rispetto
alla «violenza concentrata e organizzata» dello Stato, e quindi riconoscendo in
essa né una soluzione né uno spettro, ma un problema aperto.
Note al
testo
[1] Il
presente contributo costituisce la versione italiana, aggiornata e lievemente
modificata, dell’articolo The Ambivalence
of “Gewalt” in Marx and Engels: On Balibar’s Interpretation, “Historical
Materialism”, 2, 2009, pp. 215-236. L’analisi di Balibar è incentrata sulla
categoria indicata in Marx ed Engels, e poi, in modo più cursorio, nello
sviluppo successivo del marxismo e di correnti in qualche modo legate ad esso:
vengono presi in considerazione Sorel, Bernstein, Lenin, Gramsci, l’operaismo
italiano (Tronti, Negri), Adorno, Fanon, Reich, Bataille, Benjamin, Gandhi. Mi
soffermerò sulla parte dell’articolo di Balibar dedicata a Marx e Engels. Tra
le precedenti trattazioni, da parte di Balibar, della questione della violenza,
si veda soprattutto Balibar (1996; 1997). Più di recente: Balibar (2010b).
[2] Si
prenda in considerazione, in particolare, Faber, Ilting, Meier (1982) e Duso
(1999). Sulle varie declinazioni del concetto di Gewalt, anche in
relazione al dibattito filosofico-politico e politologico contemporaneo:
Heitmeyer, Soeffner (2004).
[3] Cfr. in
particolare: «La violenza è per sua natura strumentale; come tutti i mezzi, ha
sempre bisogno di una guida e di una giustificazione per giungere al fine che
persegue […] Il potere non ha bisogno di giustificazione, essendo inerente
all’esistenza stessa delle comunità politiche». (Arendt 20022,
55-56)
[4] Si veda
la citazione riportata in calce all’articolo. Cfr. Balibar (2001a, 1286 [66]). Sull’accumulazione
originaria: Balibar (1965, 296-305). Sul nesso accumulazione-violenza-diritto:
Negri (1992, 289-290).
[5] Cfr.:
«Esso stesso, il denaro (das Geld), è la comunità (das Gemeinwesen),
né può sopportarne altra superiore».
[6] Sulla
rilevanza del tema del dominio sociale e astratto: Postone (1993).
[7] Rispetto
alla versione indicata, ho reso il termine Macht con «potenza»
e Gewalt con «potere» (nell’edizione seguita essi vengono tradotti
in modo capovolto): entrambi i concetti stanno ad indicare la struttura del
potere, ma, come sottolinea Guastini (1974, 287), Gewalt nel
pensiero marxiano connota maggiormente «il potere (politico) nelle sue
articolazioni istituzionali», mentre qui Macht, pur conservando un
forte elemento di costrizione, è frutto di una Vereinigung,
assumendo una funzione soziale (con la profonda ambivalenza di
tale caratterizzazione).
[8] Cfr.:
«Partie de la considération de la violence de l’Etat comme force au service de
la classe dominante […], elle [la réflexion de Marx] a dû aller dans le sens
d’un repérage toujours plus raffiné des mécanismes d’exercice et de
dissimulation d’une domination d’autant plus efficace qu’elle ne met pas
forcément en jeu une violence ouverte». (Michaud 1978, 157)
[9] «L’unità
tedesca era diventata una necessità economica». Cfr. anche Engels (1887-1888,
453 [ 91]).
[10] «Il
servizio che in questo modo Bismarck ha reso al partito socialista
rivoluzionario è indescrivibile e meritevole di ogni ringraziamento». (Engels
1887-1888, 460 [104])
[11] «Essa
[la borghesia tedesca…] esigeva una trasformazione rivoluzionaria (eine
revolutionäre Umgestaltung) della Germania che si poteva attuare solo con
la violenza (Gewalt), quindi solo con una effettiva dittatura (tatsächliche
Diktatur)». (Engels 1887-1888, 431 [50-51])
[12] Sull’oscillazione,
da parte di Marx, fra la posizione bakuninana e quella lassalliana: Basso
(2012, 174-190). Per un’analisi della critica allo “statalismo” di Lassalle:
Löwy (1970, 245-251).
[13] «L’esempio
puerile che Dühring ha inventato espressamente per dimostrare che la violenza (die
Gewalt) è il ‘fatto fondamentale della storia’, dimostra dunque che la
violenza è solo il mezzo e il fine è invece il vantaggio economico (der
ökonomische Vorteil)». (Engels 1878, 148 [153])
[14] Cfr.
Balibar (2001a, 1280 [59-60]).
[15] Si veda
Balibar, (2001a, 1285-1286 [65]).
[16] Tra i
tanti passi incentrati sulla questione del Bürgerkrieg, si veda
Marx (1847, 180-182 [120-121]), in cui la lotta di classe tra borghesia e
proletariato viene rappresentata come una «guerra civile», come una
«rivoluzione totale».
[17] Cfr.
Balibar-Wallerstein 19962 (203-240): «La lotta di classe e le classi
stesse, anche e soprattutto in quanto concetti ‘economici’, sono sempre stati
concetti eminentemente politici, ma che esprimono potenzialmente una
rifondazione del concetto tradizionale di politica ufficiale» (220). Sulla
nozione di lotta di classe si veda Balibar (1976, [(184-185)]: «Il marxismo non
invoca mai la lotta fra le classi come una risposta, una soluzione, ma sempre
anzitutto come un problema: fare l’analisi concreta di un processo storico
concreto, significa cercare e trovare le forme, non indovinate in anticipo,
della lotta delle classi».
[18] «L’unica
via d’uscita possibile rimane una rivoluzione violenta (eine gewaltsame
Revolution), che certamente non mancherà». (Engels 1845, 472 [479])
[19] Sulla
nozione di comunismo: Tosel (1996).
[20] Sullo
statuto del proletariato: Balibar (1994, 60): «Il concetto di proletariato non
è tanto, in realtà, quello di una ‘classe’ particolare, isolata dall’insieme
della società, quanto quello di una non-classe, la cui formazione precede
immediatamente la dissoluzione di tutte le classi e inizia il processo rivoluzionario»;
cfr. anche Balibar (1993, 151), e Rancière (1995).
[21] Cfr.
Krahl (1998, 193ss), secondo cui Marx considera le rivoluzioni borghesi, e in
particolare la Rivoluzione francese, come punto di riferimento per le
rivoluzioni proletarie, con tutti i problemi derivanti da tale impostazione.
[22] Cfr.
Balibar, (2001b, [149]): «L’esistenza di una violenza istituzionale
generalizzata ripropone, inevitabilmente, la questione della contro-violenza:
alla contro-rivoluzione preventiva non bisognerebbe forse opporre,
simmetricamente, la rivoluzione? Alla contro-insurrezione, l’insurrezione?». Si
veda anche Balibar (2003, 71), in cui si evidenzia la «necessità di
contrapporre oggi all’egemonismo, non lo sviluppo di un nuovo polo di potenza
(economico, militare, diplomatico), ma un’‘antistrategia’ in grado di
disaggregare le simmetrie e le polarizzazioni istituite dalla globalizzazione».
[23] Si veda
l’analisi di Badiou (1985, 23-107), in particolare le pagine 28-30.
[24] Cfr.:
«La civiltà in questo senso non è certo una politica che sopprima la violenza:
ma ne scarta gli estremi, in modo da […] permettere la storicizzazione della
violenza stessa». Sul rapporto democrazie-emancipazione: Balibar (1992),
Balibar (2010a)
[25] Sullo
statuto della non-violenza in Gandhi: Collotti Pischel (1989, 73), che mette in
luce la radicale diversità della prospettiva gandhiana rispetto al marxismo in
rapporto sia all’analisi della modernizzazione sia alla questione delle classi:
Gandhi «non chiamò mai le masse indiane alla lotta di classe e alla rivoluzione
[…] perché il principio dell’uguaglianza sociale esulava dalla sua ottica».
[26] «E’ il lato
cattivo a produrre il movimento che fa la storia, determinando la lotta».
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