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Karl Marx ✆ Mariano de Quilmes
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Ascanio Bernardeschi / Nel libro III del Capitale, confutando l'apparente obiettività della “formula
trinitaria” – secondo la quale il valore delle merci sarebbe originato dalla
somma della retribuzione dei cosiddetti fattori produttivi (profitti, salari e
rendite), mentre è vero l'esatto contrario, cioè che sono queste ultime voci di
reddito che reperiscono la propria fonte nel valore delle merci, in quanto
quest'ultimo viene tra di esse distribuito successivamente alla propria
realizzazione – Marx ebbe ad affermare che “ogni scienza sarebbe superflua, se
la forma fenomenica e l’essenza delle cose coincidessero immediatamente [1].
Infatti i fenomeni che percepiamo sono spesso delle
manifestazioni di leggi che sfuggono ai sensi e che solo la scienza può
svelare, mentre possiamo cadere in errore se confondiamo queste manifestazioni
con l'essenza, cioè con i meccanismi che ci stanno dietro. Anche l'osservazione
empirica non accompagnata da una robusto impianto teorico, per esempio
l'accertamento statisticamente oggettivo della correlazione tra due fenomeni,
può trarre in inganno in quanto può condurre a stimare in maniera invertita il
rapporto causa-effetto tra le due grandezze. Forse è utile fare un esempio. Secondo l'esperienza dei
nostri sensi, tutti i corpi hanno un peso che si avverte in quanto su di essi
agisce una forza, tanto maggiore quanto maggiore è il loro peso, che li attrae
verso il suolo. Sono stati quindi realizzati degli strumenti, le bilance, per
rilevare il peso misurando tale forza o paragonandola a una uguale esercitata
su un corpo utilizzato come unità di misura.
Il peso in realtà è la
manifestazione fenomenica di un'altra proprietà dei corpi, quella di avere una
massa. Quest'ultima può essere considerata la misura dell’inerzia di un corpo
(della resistenza che esso oppone alle sollecitazioni di una forza esterna).
Una volta rilevato il peso è possibile calcolare la massa usando la costante
gravitazionale, il cui valore dipende dalla forza di gravità (o più
correttamente dall'accelerazione di gravità) del nostro pianeta. Un corpo che
sulla Terra pesa 10 kg, pur mantenendo intatta la propria massa anche se
trasportato sulla Luna, peserebbe assai meno su quel satellite, ove
l'accelerazione di gravità è minore. Quindi, pur essendo fortemente interrelati
fra di loro, peso e massa sono due concetti distinti.
Fortunatamente, se per la conoscenza scientifica è
assolutamente necessario conoscere la massa e come si manifesta, per molte
finalità pratiche, è sufficiente e più semplice rilevare il solo peso dei
corpi. Per esempio se vado ad acquistare cavoli dal fruttivendolo, basterà una
bilancia per attestare la quantità di materia che sto acquistando.
Una volta acquistati tali ortaggi, in base al loro peso, il
fruttivendolo mi chiederà una certa quantità di denaro in quanto quella merce
ha un prezzo espresso per unità di peso, per esempio 2 euro al chilo.
Analogamente, ai fini pratici, è sufficiente conoscere la quantità di denaro
richiesta per ogni chilo di cavolo, senza porsi troppe domande. Ma per lo
scienziato sociale sarebbe una grave leggerezza limitarsi a prendere atto
dell'esistenza dei prezzi che possiamo facilmente rilevare. Le merci si
scambiano fra di loro, o più comunemente col denaro, secondo certe proporzioni,
perché hanno una proprietà comune detta valore. Ancora oggi lo pseudo
economista tipo, che va per la maggiore nelle nostre università, sostiene
l'inutilità di esplorare la natura del valore delle merci e si limita a
trattare la sua manifestazione, evidente anche allo stupido, cioè il prezzo che
viene loro appiccicato a mo' di etichetta e tutt'al più osservare la banale
evidenza che tale prezzo è determinato dall'incrocio fra domanda e offerta di
quella merce. Questo atteggiamento è un male per la scienza, ma una fortuna per
lorsignori perché in tal modo non possono essere svelate la natura dello
sfruttamento del lavoro, e molte contraddizioni del modo di produzione
capitalistico.
Al contrario degli economisti da lui denominati “volgari”,
Marx era interessato a svelare le leggi di movimento di tale sistema per
offrire alle classi lavoratrici un'arma micidiale utilizzabile nella loro lotta
contro il capitale e dovette misurarsi col problema del valore.
Non fu certamente il primo a introdurre tale concetto. Le
sue immense letture nella biblioteca del British Museum di Londra gli permisero
di fare i conti con gli economisti classici, ben più seri degli attuali
venditori di pentole, e di appropriarsi della loro teoria del valore,
modificandola però profondamente e superandone alcune lacune.
Sì, perché se è giusto dare a Cesare quel che è di Cesare e
agli economisti classici il merito di aver svelato per primi che il valore di
una data merce è commisurato al lavoro umano impiegato per produrla, troppi
economisti, perfino sedicenti Marxisti, confondono facilmente questa regola,
puramente quantitativa, con la profonda analisi di Marx, che parte da
presupposti completamente diversi e utilizza metodi di indagine altrettanto
diversi.
I più importanti esponenti della scuola classica, Adam Smith
e David Ricardo, operarono nel periodo in cui il capitalismo stava diventando
il modo di produzione prevalente nelle società economicamente più floride e
stava indubbiamente dando un impulso senza precedenti alla ricchezza materiale,
come lo stesso Marx ha sempre affermato. Il loro compito era di dare alle
istituzioni dell'epoca le indicazioni per permettere l'espansione di questo
modo di produzione e abbattere i residui feudali che con esso convivevano. Ma,
abbagliati dall'ammirazione di questa funzione progressista, confusero i rapporti
sociali storicamente determinati di quel periodo con il modo “naturale”,
eterno, di comportarsi delle società, sottovalutandone le specifiche
contraddizioni. Non a caso Ricardo denominò il valore anche “prezzo naturale”
[2].
Per Marx invece il modo capitalistico di produzione è
diventato prevalente nelle nostre società evolute in una certa fase della
storia. C'è stato un prima e ci sarà un dopo e occorre distinguere tra le leggi
economiche universali, valide per tutte le epoche storiche e le distinte forme
con cui esse si manifestano nelle diverse fasi dello sviluppo umano.
Per esempio lo sfruttamento del lavoro è avvenuto secondo
certi metodi violenti nelle società in cui lo schiavo era un semplice oggetto
di proprietà del padrone, in altri modi ancora nelle società feudali, in cui,
pur non esistendo questa proprietà assoluta sui lavoratori, esistevano
fortissimi vincoli sociali che obbligavano per esempio il contadino a lavorare
alcune ore del giorno nella terra del signore (corvée) o a versare la decima al
prete, oppure l'artigiano a essere sottoposto alle regole delle corporazioni.
Infine, con il capitalismo, il lavoratore è liberato anche da questi vincoli
ma, dice Marx, liberato anche dal possesso dei mezzi di produzione, per cui è
costretto a lavorare come salariato per poter campare. In questo caso lo
sfruttamento non è rilevabile immediatamente, perché l'apparenza è quella di
uno scambio mercantile di uguali: un tot di lavoro per un tot di salario. E
anche le decisioni su cosa, come e quanto produrre, quindi su come il lavoro
sociale viene ripartito fra le varie branche produttive, non sono il risultato
di decisioni consapevoli di un'autorità ma di un meccanismo impersonale, le
leggi del mercato, che predomina nell'orientamento dell'economia.
Per Marx la teoria del valore è uno strumento fondamentale,
per svelare queste leggi. Essa mostra che dietro l'apparenza di rapporti tra
cose, tra le merci, si nascondono rapporti sociali e che il dominatore di
questo modo di produzione, il capitale, riproducendosi ed espandendosi
materialmente, riproduce anche questi rapporti. Il lettore che avrà la pazienza
di seguirci nei prossimi numeri avrà in premio uno strumento di analisi che, se
ben utilizzato, gli consentirà di capire molte faccende di oggi, quali la
globalizzazione, i dissesti finanziari, le politiche liberiste, la frammentazione
del mondo del lavoro, la crisi. Faccende che sembrano un mistero se ci si
limita a osservarle alla superficie, come ci invitano a fare quotidianamente i
media e anche gli economisti da strapazzo.
Note
[1] K. Marx, Il Capitale libro III, ed Riuniti, 1965, pag.
930.
[2] D. Ricardo Sui principi dell'economia politica e della
tassazione, Mondadori, Milano, 1979.
II
Dopo il precedente articolo introduttivo si
espongono alcuni concetti basilari per permettere ai “non addetti” di seguire
il successivo svolgimento riguardante alcuni nodi più dibattuti della teoria
marxiana. Le categorie economiche, trattate dagli economisti che vanno per la
maggiore come oggetti naturali, non sono altro che rapporti sociali camuffati.
Merce,
valore d'uso, valore di scambio, valore
"La ricchezza
delle società, nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico, si
presenta come una immane raccolta di merci e la singola merce si presenta come
sua forma elementare" [1].
Così Marx, partendo dall'analisi della “cellula elementare”
del capitalismo, la merce, inizia la sua critica dell'economia nella sua opera
più importante.
La merce ha una duplice caratteristica, la prima legata alle
sue proprietà naturali, quella di essere utile, di soddisfare bisogni umani,
prescindendo dal suo costo sociale e in questa veste è un valore d'uso, in ciò
non differenziandosi dai beni prodotti in tutte le civiltà fin qui esistite.
L'altra caratteristica è che possiede un valore di scambio, ha cioè la
proprietà di poter essere scambiata, secondo determinati rapporti, con altre
merci, e tipicamente con la merce equivalente generale di tutti gli scambi, il
denaro. Da questo punto di vista contano solo i rapporti quantitativi che si
instaurano con le altre merci e con il denaro, prescindendo questa volta dalla
sua attitudine a soddisfare i bisogni. Questa caratteristica sorge con le
società mercantili, nelle quali i beni prodotti acquistano la determinazione
storica di merce.
Tutte le merci si scambiano con le altre secondo certi
rapporti quantitativi, secondo il loro valore di scambio. Quest'ultimo è il
modo di espressione, la forma fenomenica, di un contenuto da esso
distinguibile, cioè il valore. Parliamo quindi di valore di scambio quando
mettiamo in relazione tra di loro più merci, mentre ogni merce possiede una
caratteristica immanente che si manifesta esteriormente nel valore di scambio,
che è comune a tutte le merci: quella di essere prodotto di una determinata
quantità dl lavoro, di contenere un quantum di lavoro sociale e in quanto tale
di essere depositaria di valore.
Lavoro
concreto e lavoro astratto
Analogamente alla merce, il lavoro viene analizzato secondo
la sua duplice caratteristica. Da una parte possiede specifiche qualità e
utilità ed è volto a produrre un determinato valore d'uso. In tal veste è
lavoro concreto, per esempio lavoro metalmeccanico, tessile ecc. Anche il
lavoro utile, concreto, è esistito in tutte le società umane. Dall'altra è
lavoro umano senza determinazioni specifiche e viene considerato solo
quantitativamente quale fonte del valore, per Marx UNICA fonte del valore. Per
questa sua seconda caratteristica è lavoro astratto, che si impone nelle
società in cui è sviluppata la produzione di merci, e particolarmente ove si è
imposto il modo di produzione capitalistico. L'astrazione del lavoro si
realizza perché in tale modo di produzione gli individui non agiscono secondo
piani e obiettivi prestabiliti o secondo esigenze sociali immediate, ma come
atomi separati e indifferenti tra di loro e trovano la ratifica sociale dei
loro sforzi lavorativi solo attraverso lo scambio.
Il valore di una merce è dato quindi dalla quantità di
lavoro astratto necessario alla sua produzione. Visto che il valore non è una
caratteristica naturale delle merci, ma un rapporto sociale, entra nella sua
grandezza solo il tempo di lavoro astratto socialmente necessario, in base alla
produttività sociale media, in condizioni tecniche prevalenti in un certo
periodo storico e secondo il grado sociale medio di abilità del lavoratore e di
intensità del lavoro. Nel caso che per produrre una data merce venga speso più
lavoro di quello socialmente necessario, tale lavoro superfluo è lavoro
sprecato, irriconoscibile per la società, e infatti non potrà trovare conferma
come valore sul mercato.
I prodotti del lavoro raggiungono un riconoscimento sociale
solo attraverso lo scambio: una merce invenduta non conta come valore. La
socialità del lavoro – e quindi il valore – esiste solo in forma latente appena
sfornato il prodotto. È un valore in potenza che si manifesta solo con la
vendita.
Denaro
Se la quantità di lavoro, espressa in termini di tempo di
lavoro, è la misura “immanente” del valore, la sua misura esteriore,
fenomenica, è data dalla quantità dell'altra merce con cui si scambia, e
segnatamente da una quantità di denaro. Il denaro è una merce speciale che
funge da rappresentante generale della ricchezza e del lavoro astratto.
Costituisce la “misura fenomenica necessaria” della “misura immanente” del
valore e per di più si presenta come la forma più appropriata del valore,
comportandosi come suo agente “equivalente generale e astratto”, che si
contrappone a tutte le altre merci. Queste ultime di fronte a lui funzionano
come suo valore d'uso. Infatti il denaro in sé non ha un valore d'uso, se non
la proprietà di poter essere scambiato con qualsiasi altra merce, di poter
acquistare sul mercato beni e servizi. Realizza quindi il suo valore d'uso solo
attraverso l'acquisto di un'altra merce. Specularmente, il valore di una merce,
si realizza quando assume la sua forma fenomenica in un altro corpo di merce,
nel denaro con cui si scambia.
Il lavoro astratto deve oggettivarsi quindi in una merce
indifferente alle proprietà naturali e avente la qualità sociale di essere
scambiabile con qualsiasi altra, purché rappresenti il medesimo tempo di lavoro
socialmente necessario. Le singole merci sono però immediatamente
oggettivazione di lavoro individuale, determinato qualitativamente e concreto.
La contraddizione tra lavoro astratto e lavoro concreto, la contraddizione tra
il carattere generale della merce come valore e il suo carattere particolare
come valore d'uso, si risolve dunque attraverso l'esistenza di una
"incarnazione" del valore distinguibile dalla corporeità della merce,
la quale, nello scambio, deve assumere "una forma di esistenza sociale in
denaro, scissa dalla sua forma di esistenza naturale". In altre parole,
l'opposizione interna alla merce tra valore d'uso e valore, si risolve in una
opposizione esterna fra merce e denaro. in cui l'una conta sempre come valore
d'uso, l'altro come valore di scambio.
Nella società capitalista, in cui lo sfruttamento non
avviene in virtù di arbitrio o norme morali, religiose ecc., ma attraverso lo
scambio, i rapporti sociali tra gli individui assumono l'apparenza di rapporti
tra cose poiché mediati dai rapporti di scambio, cioè da un meccanismo
impersonale dominato dai prodotti del lavoro. La compravendita infatti si
presenta come scambio tra due oggetti, merce e denaro, pur costituendo in
realtà lo scambio fra due lavori, quello contenuto nella merce e quello rappresentato
dal denaro. Questo rapporto sociale assume la forma di rapporto tra cose e,
all'opposto, viene attribuita una potenza sociale alle cose. Marx definisce
“feticismo della merce” questo genere di abbaglio. In particolare viene
attribuito un potere sociale assoluto al denaro, con cui si può comprare anche
l'anima delle persone: lo testimoniano anche le vicende corruttive del nostro
paese. Il denaro è il Dio monoteista della società mercantile. La sua
accumulazione comporta un accrescimento di potenza sociale, insieme alla
perdita di potere sociale per altri, ed è il movente unico della produzione
capitalistica, tutto il resto essendo nient'altro che lo strumento per
raggiungere tale scopo.
La
metamorfosi della merce
Per il produttore o per chi la possiede temporaneamente per
venderla, la merce non ha valore d'uso immediato, "altrimenti non la
porterebbe al mercato", e la sua utilità consiste solo nell'essere mezzo
di scambio, nel poter essere realizzata attraverso lo scambio con un equivalente.
Tuttavia la merce, per potersi realizzare come valore, deve essere desiderata
da altri, "dar prova di sé come valore d'uso"; e solo lo scambio può
sancire l'esistenza di tale condizione.
La circolazione delle merci viene presentata da Marx come
una infinita serie di cambiamenti di forma fra merce e denaro mentre cambia di
mano in mano. Il potenziale venditore, per il quale la merce è immediatamente
solo depositaria di valore, la dovrà scambiare contro denaro, unica forma di
equivalente socialmente valida. Dopo di che potrà appropriarsi di un'altra
merce che sia finalmente per lui oggetto d'uso. Per esempio l'allevatore
porterà al mercato il bestiame da macellare e col denaro ricavato potrà
comprare le cose utili a lui a alla sua famiglia.
Il processo di scambio può essere quindi visto come composto
di due mutamenti di forma:
1. la trasformazione della merce in denaro (Merce - Denaro o
M-D),
2. la ritrasformazione del denaro in merce (Denaro - Merce o
D-M).
Ciascuna di queste due fasi necessita di un altro soggetto
contrapposto. M-D, la vendita, si realizza solo se il possessore della merce
incontra un compratore, per il quale l'operazione sarà D-M, dunque se la merce
è utile, se il lavoro erogato per la sua produzione si dimostra, alla resa dei
conti, effettivamente speso in forma socialmente utile. Analogamente la
conclusione della metamorfosi, D-M, l'acquisto, deve coincide con l'inizio M-D
di un altra metamorfosi per l'altro soggetto, il venditore.
Nello scambio diretto, o baratto, è necessario che nello
stesso luogo e tempo si incontrino due soggetti reciprocamente interessati
l'uno alla merce dell'altro. La metamorfosi M-D–M, tramite la mediazione del
denaro, spezza tale limite temporale e spaziale. Ma spezza anche lo scambio in
due fasi, M-D e D-M eliminandone l'unitarietà. Ne consegue che i rapporti tra
gli individui divengono incontrollabili dagli stessi. Compiuto l'intero ciclo
abbiamo raggiunto lo scopo di cambiare la nostra merce con un'altra per noi
utile. Ma, con il nostro movimento D-M, altri innescano un nuovo ciclo che deve
incontrare altri soggetti a loro contrapposti. La metamorfosi complessiva di
una singola merce è quindi l'anello di una catena di metamorfosi, tutte in
connessione tra di loro. Nella separazione del ciclo in due fasi, sta anche la
possibilità della sua interruzione. E l'interruzione spezza questa catena
determinando l'impossibilità di realizzare la metamorfosi per molti altri. Da
qui, in una forma ancora molto astratta, la possibilità che si verifichino
quelle che Marx chiama crisi di realizzo [2].
Note
[1] K. Marx,
Il Capitale, libro I,
Editori Riuniti, 1964, p. 67.
[2] In un altro nostro precedente articolo si è già illustrato che l'analisi di
questa separazione fra le due fasi della metamorfosi della merce consente a
Marx di formulare una critica rigorosa alla legge degli sbocchi (o legge di
Say), anticipando un'analoga critica di John Maynard Keynes. Cfr.
http://www.lacittafutura.it/economia/la-crisi-questa-sconosciuta-parte-ii.html