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Zygmunt Bauman ✆ Hugo Enio Braz
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◆ Nuova ossessione anticapitalista — Il terzomondismo
frivolo di Baumann (e compagni) confutato con le parole di Marx
Luciano Pellicani
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Il sociologo polacco Zygmunt Baumann, classe 1925, ha acquistato notorietà
internazionale con una serie di saggi nei quali la modernità viene descritta
come un perverso sistema che tutto manipola e corrompe. “Nella sua forma attuale permanentemente negativa – questa la tesi che
ha ribadito innumerevoli volte – la globalizzazione è un processo parassitario
e predatorio, che si nutre della forza succhiata dai corpi degli stati-nazione
e dei loro sudditi”. E questo perché “il
capitalismo non può sopravvivere senza le economie non capitalistiche: esso è
in grado di progredire, seguendo i propri princìpi, fintanto che vi siano terre
vergini aperte all’espansione e allo sfruttamento; ma non appena le conquista
per poterle sfruttare, le priva della verginità precapitalistica e così facendo
esaurisce le fonti del proprio nutrimento.”
Il capitalismo, per dirla crudamente, è in
sostanza un sistema parassitario. Come tutti i parassiti, può prosperare per un
certo periodo di tempo quando trova un organismo non ancora sfruttato del quale
nutrirsi. Ma non può farlo senza danneggiare l’ospite, distruggendo quindi,
prima o poi, le condizioni della sua prosperità o addirittura della sua
sopravvivenza”.
In aggiunta – così suona la perentoria conclusione del
sociologo polacco – il capitalismo, ha assunto le forme della “società dei
consumi”, “si fonda sulla insoddisfazione permanente, cioè sulla infelicità”.
E’, dunque, un sistema perverso. Fortunatamente, però, esso ha gli anni contati
a motivo del suo intrinseco parassitismo. Infatti, quando non avrà più vittime
da vampirizzare, la sua morte sarà inevitabile e l’umanità potrà finalmente
uscire dalla gabbia nella quale è stata imprigionata.
Questa lettura della globalizzazione
capitalistica non può non apparire un’accecante distorsione ideologica della
realtà non appena la si confronti con quella formulata da Karl Marx in quella
geniale pagina del Manifesto del partito
comunista, pubblicato nel 1848, che così recita:
“La
borghesia per la prima volta ha mostrato che cosa possa l’attività umana. Essa
ha creato ben altre meraviglie che le piramidi d’Egitto, gli acquedotti romani
e le cattedrali gotiche; essa ha fatto ben altre spedizioni che le migrazioni
di popoli e le Crociate. La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di
continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi
tutto l’insieme dei rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le
classi industriali precedenti era invece l’immutata conservazione dell’antico
modo di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’incessante
scuotimento di tutte le condizioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni
contraddistinguono l’epoca borghese da tutte le precedenti. Tutte le stabili e
arrugginite condizioni di vita, con il loro seguito di opinioni e di credenze,
rese venerabili dall’età, si dissolvono, e le nuove invecchiano prima ancora di
aver potuto fare le ossa”.
“Tutto ciò che vi era stabilito, e di
rispondente ai vari ordini sociali si svapora – continua Marx – e ogni cosa
viene sconsacrata e gli uomini sono finalmente costretti a considerare con
occhi liberi da ogni illusione la loro posizione nella vita, i loro rapporti
reciproci. Il bisogno di sbocchi sempre più estesi per i suoi prodotti spinge
la borghesia per tutto il globo terrestre. Dappertutto essa deve ficcarsi,
dappertutto stabilirsi, dappertutto stabilire relazioni. Sfruttando il mercato
mondiale, la borghesia ha reso cosmopolita la produzione e i consumi di tutti i
paesi. Con grande dispiacere dei reazionari, ha tolto all’industria la base
nazionale. Le antichissime industrie nazionali sono state e vengono, di giorno
in giorno, annichilite. Esse vengono soppiantate da nuove industrie, la cui
produzione è questione di vita e di morte per tutte le nazioni civili,
industrie che non lavorano più materie prime indigene, bensì materie prime
provenienti dalle regioni più remote, e i cui prodotti non si consumano nel
paese, ma in tutte le parti del mondo. Al posto dei vecchi bisogni, a
soddisfare i quali bastavano i prodotti nazionali, subentrano bisogni nuovi,
che per essere soddisfatti esigono prodotti dei paesi e dei climi più lontani.
In luogo dell’antico isolamento locale e nazionale, per cui ogni paese bastava
a se stesso, subentra un traffico internazionale, una universale dipendenza
delle nazioni l’una dall’altra. E come nella produzione materiale così anche
nella produzione spirituale. I prodotti spirituali delle singole nazioni
diventano patrimonio comune. L’unilateralità e la ristrettezza nazionale
diventano sempre più impossibili. E dalle molte letterature nazionali e locali
esce una letteratura mondiale”.
Continua il filosofo di Treviri:
“Con
il rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, e con le
comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà
anche le nazioni più barbare. I tenui prezzi delle sue merci sono l’artiglieria
pesante con cui esso abbatte tutte le muraglie cinesi, e con cui costringe a
capitolare il più testardo odio dei barbari verso lo straniero. Essa costringe
tutte le nazioni ad adottare le forme della produzione borghese se non vogliono
perire; le costringe a introdurre nel loro paese la così detta civiltà, cioè a
farsi borghesi. In una parola, essa crea un mondo a sua immagine e somiglianza”.
Ancora più energico, se possibile, l’elogio
della rivoluzione capitalistica formulato da Marx nei Grundrisse:
“Soltanto
il capitale crea la società borghese e l’universale appropriazione tanto della
natura quanto della coesione sociale stessa da parte dei membri della società.
Di qui l’enorme influenza civilizzatrice del capitale; la sua creazione di un
livello sociale rispetto cui tutti quelli precedenti si presentano
semplicemente come sviluppi locali della umanità e come idolatria della natura.
Soltanto con il capitale la natura diventa un puro oggetto per l’uomo, un puro
oggetto di utilità. In virtù di questa tendenza, il capitale spinge a superare
sia le barriere che i pregiudizi nazionali, sia l’idolatria della natura, la
soddisfazione tradizionale, orgogliosamente ristretta entro angusti limiti, di
bisogni esistenti, e la produzione del vecchio modo di vivere. Nei riguardi di
tutto questo, il capitale opera distruttivamente, attua una rivoluzione
permanente, abbatte tutti gli ostacoli che frenano lo sviluppo delle forze
produttive, la dilatazione dei bisogni, la varietà della produzione e lo
sfruttamento e lo scambio delle forze della natura e dello spirito”.
Coerentemente con la sua interpretazione
della rivoluzione permanente attuata dal capitalismo, Marx non esitò a vedere
nel colonialismo “uno strumento inconscio
della storia” destinato ad assolvere “una
doppia missione, l’una distruttrice, l’altra rigeneratrice: abbattere le
vecchia società asiatica e creare le fondamenta della società occidentale in
Asia”. Che è esattamente ciò che sta accadendo. Oggi, infatti, indiani e
cinesi stanno faticosamente uscendo dall’atroce miseria che ha sempre
caratterizzato la loro millenaria storia, grazie al know-how prodotto ed esportato dal capitalismo. Un know-how scientifico-tecnologico che,
facendo crescere la produttività del lavoro, ha reso possibile l’evasione dalla
“trappola maltusiana” delle classi proletarie del mondo occidentale.
L’atteggiamento
del socialismo riformista
Per contro, pur richiamandosi costantemente
al magistero di Marx, Baumann ci propone una versione aggiornata della (pseudo)
sociologia terzomondista, secondo la quale l’occidente è ricco a motivo del
fatto che, come un vampiro, succhia il sangue del “proletariato esterno”. Un
falso storico di gigantesche proporzioni, il quale dimostra che la bancarotta
planetaria del comunismo marxleninista non ha posto fine all’ossessione
anticapitalistica, di cui l’ossessione antiamericana è un sottoprodotto che,
“per i suoi metodi, per la sua bassezza, per i suoi furori”, continua ad essere
quello che Angelo Tasca stigmatizzò come “l’antisemitismo del nostro tempo”.
Ben altro è stato l’atteggiamento del
socialismo riformista nei confronti del capitalismo. Invece di demonizzarlo, ha
seguito il saggio suggerimento di Olof Palme: lo ha trattato come “una pecora
da tosare”. E, consapevole che non si poteva abolire il capitalismo senza
produrre una catastrofe storica, è giunto alla conclusione che l’unica
strategia capace di migliorare le condizioni materiali e morali delle classi
proletarie era quella di correggere la distribuzione delle chance di vita via
mercato. Lo ha fatto iniettando nel capitalismo una cosa del tutto estranea al
suo codice genetico: il principio di solidarietà. Un principio che ha trovato
la sua espressione istituzionale nel welfare
state. Di qui la brillante formula coniata da Giorgio Ruffolo: “I socialisti dicono sì all’economia di
mercato, no alla società di mercato”.
Perché
ci vuole cautela a rivalutare il Marx profetico sulla borghesia
◆ Bauman, capitalismo e marxismo. Garbata risposta a Luciano
Pellicani
Alfonso Berardinelli
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Oggi che non ci sono più partiti politici seriamente marxisti e
comunisti in occidente né altrove, parlare di marxismo è piuttosto eccitante,
gratuito e divertente. Me ne sono accorto ancora una volta leggendo l’articolo
di Luciano Pellicani […] “Nuova
ossessione anticapitalista”. Pellicani, irritato dal marxismo di Zygmunt
Bauman, terzomondista, cioè poco ortodosso o soltanto allusivo rispetto al vero
marxismo di Marx e Engels, cita alcuni passi famosi del Manifesto del 1848 e
dei Grundrisse. Bauman si sbaglia, dice Pellicani, perché descrive il
capitalismo come un puro parassita dei paesi poveri e sottosviluppati, come un
“sistema perverso” che avendo assunto le forme della società dei consumi “si
fonda sull’insoddisfazione permanente, cioè sull’infelicità”.
A questo punto, vista la genericità e
debolezza teorica di un sociologo alla moda come Bauman, l’entusiasmo di
Pellicani per il marxismo firmato Marx si esprime in un vero e proprio
abbraccio fraterno al genio di Treviri e al suo fido amico. Ma l’abbraccio è
dovuto e si limita alle pagine del primo capitolo del Manifesto, quelle
memorabilmente epiche, sfrenatamente titaniche in cui i giovani Karl e
Friedrich, che si sono lasciati alle spalle la variopinta e provinciale
Germania, con i “belati filosofici” della sua tipica ideologia fondata sul
pensiero e non sulla realtà, arrivati in Inghilterra scoprono la prima classe
operaia del mondo, scoprono “la grande industria moderna” che l’ha creata,
scoprono che questa industria “ha creato quel mercato mondiale che era stato
preparato dalla scoperta dell’America”. Industria, commercio, ferrovie.
Distruzione di “tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliache”.
Una nuova società fondata sul “calcolo egoistico” senza ideali ha affogato
nella sua “acqua gelida (…) i sacri brividi dell’esaltazione devota,
dell’entusiasmo cavalleresco, della malinconia filistea”.
Evviva, morte al passato. Abbasso
l’idealistica Germania romantica. Evviva la scienza positiva delle cose reali,
unica cultura non ipocrita: “La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte
le attività che fino allora erano venerate e considerate con pio timore”. E
soprattutto: “Solo la borghesia ha dimostrato cosa possa compiere l’attività
dell’uomo. Essa ha prodotto ben altre meraviglie che piramidi egiziane,
acquedotti romani e cattedrali gotiche, ha portato a termine ben altre
spedizioni che le migrazioni dei popoli e le crociate. La borghesia non può
esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i
rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali”.
L’entusiasmo dei giovani Karl e Friedrich è
incontenibile. Non senza quell’empito ditirambico di sadismo
distruttivo-costruttivo tipicamente tedesco, che spesso associa brutalità
militaresca e inni alla gioia collettiva. Ecco: scambio universale!
Interdipendenza universale fra le nazioni! Con tutto il dominio della necessità
e della coazione storica ineluttabile che obbliga a fare tutti insieme in tutto
il mondo le stesse cose! Ciò che non è questo, per loro non è civiltà, è
barbarie, è “xenofobia dei barbari” che ostacolano l’espansione della borghesia
capitalistica occidentale. Città enormi. Centralizzazione politica. “Soggiogamento delle forze naturali,
macchine, applicazione della chimica all’industria e all’agricoltura,
navigazione a vapore, ferrovie, telegrafi elettrici, dissodamento di interi
continenti, navigabilità dei fiumi, popolazioni intere sorte quasi per incanto
dal suolo”.
Meraviglioso. C’è da chiedersi come sia
stato possibile ai due sfrenati giovanotti farsi venire in mente che tutta
quella mondiale macchina, per diventare ancora più efficiente e produttiva,
dovesse diventare comunista, avere bisogno dei comunisti al posto di comando.
Se la civiltà borghese è civiltà, perché inventarsene un’altra, teorica, ancora
mai vista, senza volto e molto probabilmente (come più tardi invece si è visto)
non più moderna ma più arcaica, più feudale, più devota, più filistea, più
coattiva.
Le cattedrali gotiche ancora le ammiriamo,
gli acquedotti romani, le piramidi egizie, i templi e i teatri greci, i palazzi
rinascimentali ancora ci lasciano a bocca aperta. La Tour Eiffel e il Beaubourg
invece fanno un po’ ridere. L’aureola era bene distruggerla? In realtà il
capitalismo non fa che produrre merci con l’aureola di una perenne promessa: la
promessa di felicità. Il cristianesimo era ed è proprio da buttare? E’ sembrato
così. Ma perché allora oggi i più coerenti marxisti di ieri si sono messi a
visitare devotamente il monte Athos, dimora dell’ascetismo orientale, e a
ripararsi sotto l’ombrello del Papato che si oppone alla “mutazione
antropologica”, alla trasformazione del genere umano in appendice della
macchina universale?
Immoderato (e forse dissennato)
l’entusiasmo di Marx e Engels per il capitalismo. Immoderato (utopico e
filosofico) il loro “rovesciamento dialettico” della liberazione umana
attraverso il capitalismo in liberazione umana grazie al comunismo. Temo Marx e
Engels anche quando ci spediscono dall’Ottocento i loro tossici doni di
genialità profetica.