Costanzo Preve |
Georg Lukács (o se si vuole in ungherese Lukács György, con il nome
proprio che segue il cognome) non è stato soltanto un grande teorico
dell’Estetica, o più esattamente della specificità del fatto estetico (Eigenart
des Ästhetischen), come preferiva sobriamente esprimersi e come ha
intitolato il suo capolavoro sistematico dedicato appunto all’estetica, ma è
stato uno dei massimi testimoni filosofici del novecento. Per questa ragione
una trattazione esclusivamente specialistica delle sue posizioni sull’arte
sarebbe fuorviante, perché nella visione “classica” di Lukács (che era poi
anche quella di Hegel e di Marx, i suoi maggiori maestri) l’Arte era un momento
del grande processo dialettico dell’emancipazione umana. Cercherò di “arrivare”
a questa conclusione interamente “estetica” con una serie di approssimazioni di
tipo storico, politico e filosofico.
1. Lukács, un uomo che seppe sempre essere presente agli
“appuntamenti storici” del Novecento
Nato a Budapest nel 1885, e morto a 86 anni nella stessa città nel 1971,
Lukács fu un uomo che seppe sempre trovarsi pronto agli appuntamenti del
novecento. Chi scrive purtroppo non ha mai avuto l’onore di conoscerlo
personalmente, nonostante abbia frequentato abbastanza assiduamente per ragioni
personali la Budapest degli anni sessanta, e nonostante il fatto che fargli
visita fosse sempre possibile, in quanto il vecchio filosofo, fedele al costume
socratico del dialogo, non si sottraeva alle visite anche di sconosciuti non
“titolati”.
In ogni caso pur non potendo rivendicare una conoscenza diretta, la
frequentazione “indiretta” di Lukács ha contato molto nella mia vita, e per
questa ragione tutto quello che posso scrivere su di lui non è “asettico”, ma è
sempre il prodotto – discutibile nel merito quanto si voglia – di una profonda
vicinanza spirituale. Se è anche solo in parte vero ciò che a suo tempo ha
scritto Hegel, e cioè che la filosofia è il proprio tempo appreso nel pensiero,
ebbene nessuno come Lukács ha testimoniato questa verità hegeliana. Lukács ha
cercato realmente di “apprendere il proprio tempo” nel suo pensiero, e
qualunque rilievo critico specifico sulle sue tesi teoriche passa a lato di
questa sua essenziale caratteristica. Ed è un felice paradosso dell’attività
filosofica il fatto che quanto più un pensatore dotato cerca di interpretare il
proprio tempo storico specifico tanto più riesce ad attingere elementi di
universalità e di perennità che permangono dopo la sua morte, producendo quella
particolare “eccedenza” teorica che contraddistingue appunto il vero filosofo.
E allora nelle pagine che seguono non cercherò di scrivere una inutile
biografia telegrafica di Lukács, ma indicherò invece alcuni “passaggi
temporali” in cui il nostro autore si fece sempre trovare all’appuntamento con
le urgenze della storia.
1910. Il nostro autore ha venticinque anni. Così come il suo maestro
Karl Marx settant’anni prima, anche Lukács ha dovuto scegliere fra le due
“paradigmatiche” lauree in legge o in filosofia. Ma mentre Marx, dopo un anno
di studi giuridici a Bonn, cambiò direttamente facoltà per laurearsi in
filosofia nel 1841 a Jena con una tesi sul materialismo antico di Democrito e
di Epicuro, Lukács prende bensì una laurea in legge a Koloszvár (l’odierna Cluj
in Romania), ma poi si dedica interamente alla filosofia. Semplificando
scherzosamente, diremo che una laurea in legge simboleggia un “adeguamento al
mondo così com’è”, mentre una laurea in filosofia simboleggia invece una
“problematizzazione del mondo così come dovrebbe essere”. La paroletta
“dovrebbe essere” farebbe forse pensare a Kant, o più esattamente alla morale
kantiana, incentrata appunto sul dualismo fra essere e dover essere, ma nel
nostro caso questo riferimento kantiano suonerebbe improprio, perché fin da
allora Lukács respinge sia il kantismo che il neokantismo dominanti nella
cultura universitaria di lingua tedesca. Pur essendo bilingue sia in ungherese
che in tedesco, la scelta espressiva preferenziale per la lingua tedesca di
Lukács non testimonia soltanto una scelta di tipo cosmopolitico, in quanto il
tedesco era una lingua internazionale di cultura ed invece l’ungherese non lo
era, ma anche (esprimo qui ovviamente una mia valutazione personale) una scelta
di fedeltà e di continuità con la grande tradizione della filosofia classica
tedesca, di cui Lukács è probabilmente stato l’ultimo esponente novecentesco di
rilevo. E tuttavia il venticinquenne Lukács, ancora del tutto estraneo agli
ambienti politici marxisti “organizzati”, ma già umanamente vicino a pensatori
socialisti ungheresi politicamente impegnati, sceglie istintivamente di non
accodarsi all’orchestra accademica tedesca neokantiana (accodamento che gli
avrebbe probabilmente assicurato una comoda cattedra universitaria, guglielmina
e/o austro-ungarica poco importa), e procede verso altre scelte esistenziali e
teoriche. Diventa amico di Ernst Bloch, già allora un irregolare del pensiero
che rifiuta qualsiasi adattamento conformistico (Anpassung). Va a
cercare i due filosofi più interessanti dell’epoca, Max Weber e Georg Simmel, e
non è per nulla casuale che sia andato a cercare proprio loro fra molti altri
possibili. Max Weber, il Thomas Mann della filosofia e della sociologia,
rappresenta per Lukács il punto massimo ed insuperabile della
problematizzazione tragica ed aporética della coscienza borghese, che pur
problematizzandosi non intende comunque uscire da sé stessa e dalla sua
problematizzazione, in quanto, come dirà settant’anni dopo di Adorno il suo
allievo Hans Jürgen Krahl, non intende “congedarsi dal proprio congedo”. Georg
Simmel, forse uno dei massimi “marxisti inconsapevoli” del primo novecento, è
il grande filosofo critico che prende come oggetto diretto di analisi la vita
quotidiana e le strutture sociologiche che la determinano, e questo interesse
per la vita quotidiana, che Lukács assorbe certamente alla scuola di Simmel,
permarrà fino alla fine della sua vita, e non è centrale solo nella sua
grande Estetica (teoria del rispecchiamento quotidiano), ma
sarà anche al centro del suo vero e proprio testamento politico del 1968
tradotto in italiano con il titolo L’Uomo e la Democrazia (in
lingua tedesca Demokratisierung heute und morgen). Mentre il
marxismo ufficiale della Seconda Internazionale è del tutto cieco e sordo al
fenomeno del denaro, dell’individualizzazione nel consumo e negli stili di vita
che la diffusione del denaro stesso necessariamente comporta, eccetera, Simmel
se ne accorge con precoce genialità. Il venticinquenne Lukács sceglie di
frequentare come amico Ernst Bloch, e come amici-maestri Max Weber e Georg
Simmel. Non si tratta di casualità, e tanto meno di strategia di coltivazione
di rapporti “utili” per fare una buona carriera universitaria. Uno studioso
dotato come Lukács avrebbe già potuto essere in cattedra in università
provinciali austro-ungariche tipo Bratislava, Zagabria, Timisoara, ed anche
(perché no?) Vienna, Budapest e Praga. Ma a Lukács interessava cercare di
“capire” la contraddittoria tragicità del mondo borghese in cui viveva, e non
c’era modo migliore di farlo del frequentare Bloch, Weber o Simmel. Vorrei
insistere su tutto questo perché in caso contrario il suo “approdo messianico”
al comunismo nel 1918 diventerebbe del tutto incomprensibile. L’approdo
messianico al comunismo del 1918 presuppone infatti la precedente problematizzazione
critico-filosofica della vita quotidiana nel capitalismo.
Nel 1918, l’anno del suo approdo al comunismo, Lukács ha trentatre anni,
l’età in cui Gesù di Nazareth fu crocifisso ed anche l’età in cui morì
Alessandro il Macedone. Il lettore mi perdonerà queste due curiose ed innocue
analogie, che ho ricordato solo per segnalargli anche un’altra cosa, e cioè che
trentatre anni sono un’età sufficiente sia per aver già conquistato un impero
(Alessandro il Macedone), sia per decidere che cosa fare e soprattutto che cosa
rischiare nella vita (Gesù di Nazareth). L’approdo al comunismo di Lukács
rappresenta anche il rifiuto pratico di accettare quella sorta di “sindrome
dell’asino di Buridano”, che consiste nel rifiuto di sciogliere il dubbio fra
due antinomie possibili (l’interminabile coltivazione del dubbio borghese
dell’anima bella, da un lato, ed il salto nell’impegno politico necessariamente
unilaterale, dell’altro). Scegliendo nel 1918 il comunismo, Lukács ne sceglie
necessariamente anche le contraddizioni, e di conseguenza gli errori e gli
orrori.
Nel 1923, anno di pubblicazione del suo capolavoro Storia e
Coscienza di Classe, Lukács ha già trentotto anni, un’età in cui si è
raggiunta una accettabile maturità filosofica (ricordo qui incidentalmente che
Hegel pubblica a trentasei anni, nel 1806, la sua immortale Fenomenologia
dello Spirito). Anche in questo caso, Lukács è al posto giusto per un vero
e proprio appuntamento storico, quello della necessità di fornire al
giovanissimo movimento comunista un’autocoscienza filosofica in grado di
lasciarsi veramente alle spalle l’economicismo deterministico, che improntava
l’opera di Nicolai Bucharin del 1921 (opera che poi criticò anche Antonio
Gramsci, con argomentazioni convergenti con quelle di Lukács). Storia e
Coscienza di Classe rimase poi a lungo un libro eretico ed addirittura
“proibito” (come ha testimoniato nelle sue memorie autobiografiche Cesare
Cases, lo studioso italiano che fu germanista e amico personale di Lukács), e
le ragioni per cui il movimento comunista “ufficiale” gli preferì il
materialismo dialettico nella codificazione finale di Stalin sono relativamente
facili da capire, alla luce di una indagine “materialistica” di storia delle
ideologie. Il materialismo dialettico, con la sua mitologica unificazione delle
leggi di movimento della natura e della storia, “garantiva” (illusoriamente, è
chiaro!) il lieto fine comunista della storia assai più del modello teoretico
dell’unità fra Soggetto ed Oggetto (e cioè fra proletariato rivoluzionario
astrattamente ideal-tipicizzato – eredità questa di Max Weber – e storia
universale unificata idealmente come concetto trascendentale riflessivo). E
comunque lo stesso Lukács abbandonò quasi subito questo modello filosofico a
partire già dal suo lavoro su Moses Hess del 1926, e questo non certo per
opportunismo, ma perché nella sua mente onesta e geniale cominciò
progressivamente a farsi strada la prospettiva che dopo il 1956 lo portò a
sistematizzare il modello dell’ontologia dell’essere sociale, di cui a mio parere
la stessa Estetica non è che un’anticipazione ed una
specificazione.
Dal 1933 al 1945 Lukács vive a Mosca, e si occupa prevalentemente
appunto di questioni di estetica e di teoria della letteratura. Per poter
sopravvivere fa certamente delle “concessioni” al clima soffocante dello
stalinismo e dei suoi processi politici, ma il cuore della sua attività resta a
tutti gli effetti la difesa del grande umanesimo letterario ed artistico
borghese. Certo, il sistema staliniano non era per nulla “umanistico” (a
differenza di come sostenne in modo un po’ affrettato ed imprudente Althusser
nella sua nota Risposta a John Lewis, poi pubblicata in lingua
italiana con il titolo di Umanesimo e Stalinismo), ma Lukács non ne
divenne mai in nessun modo il “teorico”, gesuitico o meno, come hanno
erroneamente sostenuto molte interpretazioni successive (prima fra tutti quella
di Francois Fejtö). Il periodo moscovita non è però un periodo di sospensione
di ogni attività filosofica. In questo periodo, infatti, egli comincia a
raccogliere i materiali per il suo grande lavoro sul giovane Hegel, che poi
pubblicherà più tardi.
Nel 1945, l’anno in cui si conclude la seconda guerra mondiale, Lukács
torna a Budapest, e vi rimarrà fino alla morte. Ha sessanta anni di età, età in
cui “sindacalmente” si può andare in pensione, ma nei ventisei anni che gli
restano fortunatamente da vivere tutto sarà, meno che un “pensionato”. Non
discuterò qui la sua partecipazione “critica” agli avvenimenti ungheresi del
1956, e ricorderò soltanto due significativi avvenimenti di questa sua
partecipazione. In primo luogo, accettò di far parte del governo di Imre Nagy,
ma non ne condivise la scelta, improvvida ed inutilmente destabilizzante ed
avventuristica, di proclamare l’uscita unilaterale dal patto di Varsavia. I
sovietici sarebbero quasi sicuramente intervenuti militarmente lo stesso,
perché il governo di Nagy aveva comunque perduto il controllo della situazione,
ma indubbiamente questa scelta tatticamente sbagliata favorì il loro
intervento. In questo caso possiamo dire che il filosofo, che non era un
politico di professione, seppe mostrare una sensibilità tattica migliore di
quella di molti politici. In secondo luogo, quando gli venne proposto di
testimoniare nel processo a Imre Nagy (che fu poi condannato a morte e
giustiziato “a freddo” due anni dopo), egli sostenne che lo avrebbe fatto
soltanto nel caso che Nagy passeggiasse libero per le vie di Budapest. È noto
che Lukács avrebbe voluto alla fine della sua vita scrivere un’Etica, e
poi ripiegò su di una Ontologia dell’Essere Sociale. Per farla
breve, io ritengo che la sua etica Lukács alla fine l’abbia scritta lo stesso,
ed il cuore di essa si trovi nel rifiuto di testimoniare contro Nagy e di
contribuire così alla sua condanna a morte, peraltro già ampiamente decisa. Ci
sono uomini e mezzi uomini, per dirla con Sciascia, e Lukács era tutti gli
effetti un uomo.
Il periodo 1945-1971 può essere diviso in due parti, tenendo conto della
natura della produzione culturale di Lukács. Nel primo periodo (1945-1956),
Lukács è il grande polemista di Marxismo ed Esistenzialismo ed
il grande “riscrittore” della storia della filosofia contemporanea della Distruzione
della Ragione. Entrambe queste opere non hanno un rapporto diretto con le
questioni estetiche, e nello stesso tempo ne intrattengono però uno indiretto,
perché la difesa in estetica del realismo (o più esattamente, del Grande
Realismo Borghese) rappresenta il pendant della difesa della
tradizione razionalistica nel campo della storia della filosofia. In questa
sede, purtroppo, non c’è lo spazio per analizzare queste due opere, e devo
allora limitarmi a dire che ogni frettolosa “stroncatura”, che sarebbe assai
facile alla luce della consapevolezza del dopo 1989-91, non permette di
rientrare realmente nel merito delle tesi di Lukács. Alcuni giudizi singoli
sono a mio avviso inaccettabili (ad esempio, quello su Georg Sorel, di cui
Lukács condivide il giudizio leniniano di “noto confusionario”), ma ritengo
egualmente che queste due opere non debbano essere giudicate con il metro della
“obbiettività” nella ricostruzione analitica della storia della filosofia, ma
debbano essere inquadrate all’interno di una congiuntura storica, o se si vuole
di una “finestra storica”, in cui esisteva realmente la sensazione di un
imminente pericolo di guerra nucleare. Pensare che si possa parlare della Distruzione
della Ragione come se ci si trovasse in un tranquillo seminario
universitario di una storia della filosofia, segnando con le matite rosse e blu
i giudizi schematici su Schopenhauer, Nietzsche, Heidegger, eccetera, in
termini di “lavagna dei cattivi”, è a mio avviso metodologicamente errato.
Quest’opera di Lukács (ed in questo modo so bene di non fargli per nulla un
complimento!) è semmai paragonabile piuttosto a opere come quella di Spengler
sul Tramonto dell’Occidente, con cui ha in comune il settarismo
ultimativo. Si tratta di testimonianze epocali della crisi culturale del
novecento, che nel loro settarismo unilaterale, peraltro esplicito e non
“filtrato” dagli stilemi del Politicamente Corretto dell’Epoca (PCE),
sopravviveranno a mio avviso ad opere molto più insipide come la Teoria
dell’Agire Comunicativo di Habermas. Dal momento che stiamo parlando
di un ungherese, anche il gulasch più speziato è preferibile
ad una minestrina riscaldata senza sale.
Dopo il 1956, isolato in patria, assolutamente non compreso dai suoi
cosiddetti “allievi” tipo Agnes Heller, che in realtà “tirano” da tutt’un’altra
parte, e cioè verso il liberalismo più filo-occidentale e più sfrenato (è il
caso di dire – da simili “allievi” mi guardi Iddio, che dai critici mi guardo
io!), Lukács vivrà ancora quindici anni. Questi quindici anni sono stati di una
“produttività” addirittura stupefacente, se pensiamo che oltre a numerosissimi
articoli ed interviste Lukács ha saputo scrivere, oltre alla monumentale (ed a
mio avviso immortale) Estetica anche due versioni successive
dell’Ontologia dell’Essere Sociale. Una simile attività stupefacente
trovava la sua radice psicologica ed esistenziale in una convinzione profonda
che l’ultimo Lukács coltivò fino alla morte, e cioè che l’intera impresa
storica del socialismo fosse entrata in una crisi profonda di tipo
“strategico”, e fosse necessario dotare questa impresa storica e politica di
una nuova consapevolezza filosofica. I contemporanei di Lukács, salvo poche
eccezioni, non seppero capirlo, e questa incomprensione è dovuta ad un fatto,
ad un tempo tragico e tautologico, per cui nessuna innovazione teorica è
ricevibile se il destinatario di questa innovazione non è trasformabile. La
dissoluzione tragicomica e vergognosa del comunismo storico novecentesco a meno
di vent’anni dalla morte di Lukács ha infine testimoniato che ogni innovazione
teorica è irricevibile se il suo destinatario politico e sociale è
intrasformabile. E questo mi porta a dire che, ove mi si chiedesse di dire
brevemente chi è stato questo signor Lukács che oggi è palesemente passato di
moda non risponderei che è stato uno studioso del marxismo, di estetica, di
filosofia ed infine di storia della filosofia, ma che è stato un pensatore
tragico. Tragico, e basta. E tuttavia non posso certamente finire qui, e per
proseguire la riflessione mi chiederò se sia possibile individuare brevemente
il nucleo del suo pensiero. In proposito, per quello che vale, proporrò la mia
personale interpretazione “globale” di questo vero e proprio maestro del
pensiero.
2. Il messaggio filosofico di Lukács: “non partecipare più
alla nostra stessa estraniazione”
In una lettera a Lucien Goldmann, amico e studioso di Lukács, autore di
un’interpretazione (discutibile ma stimolante) sui rapporti indiretti fra
Lukács e Heidegger negli anni venti, Lukács scrive che il “pensatore
sostanziale è preoccupato per tutta la vita di un unico pensiero”. Con il
termine di “pensatore sostanziale” Lukács intende certamente alludere al
pensatore che non si ferma alla “superficie” delle cose, e tantomeno perde il
suo tempo in vani chiacchiericci polemici contingenti, ma cerca di andare alla
“sostanza” delle cose, e cioè alla loro “radice”. Lukács è stato sicuramente
uno dei pensatori più “sostanziali” del novecento, e certo questo gli verrà
sicuramente riconosciuto fra qualche decennio, quando si chiuderà l’attuale
congiuntura storica di pentimento generazionale e di rimozione del significato
epocale del marxismo, ridotto ad un utopia totalitaria al servizio esclusivo di
burocrazie ciniche e crudeli. E tuttavia non è per nulla facile stabilire
criticamente e storiograficamente quale sia “l’unico pensiero che lo ha
preoccupato nella vita”.
Vi è qui subito una questione teorica rilevante da chiarire. Il termine
“preoccupazione”, o se vogliamo “rovello”, attribuito ad un filosofo, non coincide
in alcun modo con la semplice registrazione dossografica delle posizioni
fondamentali del filosofo stesso. La “preoccupazione” di Platone non consisteva
nella separazione fra mondo delle idee e mondo sensibile, così come la
“preoccupazione” di Kant non consisteva nella distinzione fra fenomeno e
noumeno oppure nella chiarificazione teoretica dell’indimostrabilità
scientifica delle idee della metafisica tradizionale. I sistemi filosofici sono
la “ricaduta” di preoccupazioni che stanno però a monte di essi, e che occorre
individuare con precisione. Ma dal momento che non è possibile farlo con
sicurezza, in quanto quasi sempre queste “preoccupazioni” non lasciano tracce
scritte filologicamente evidenziabili, gli storici della filosofia se ne
tengono lontani, spaventati dalle possibili accuse di arbitrarietà e
addirittura di falsificazione. In questo modo, però, il quieto vivere impedisce
di andare a fondo delle questioni.
Nicolae Tertulian, uno dei massimi
studiosi di Lukács, ha superato questa paura, ed ha opportunamente rilevato una
formula usata dallo stesso Lukács, ed usata anche (e sarebbe interessante
approfondire questa non casuale coincidenza) dai francofortesi. Questa formula
suona così: “non partecipo più alla mia stessa estraniazione” (ich mache
meine eigene Entfremdung nicht mehr mit). Avanzo allora l’ipotesi che qui
stia il “segreto di Lukács”, e qui stia il pensiero che lo ha preoccupato per
tutta la vita. Sarà allora necessario tentare in questo paragrafo un’analisi di
questa affermazione rivelatrice.
In primo luogo, il fatto di assumere la problematizzazione di un proprio
stato di coscienza come oggetto privilegiato della riflessione filosofica
rimanda con tutta evidenza al concetto hegeliano di “autocoscienza” (Selbstbewusstein),
concetto che segna storicamente il passaggio dalla prospettiva del criticismo
di Kant alla prospettiva idealistica propriamente detta. La genesi psicologico-sociale
dell’idealismo classico tedesco non deve infatti a mio avviso essere
semplicemente individuata nelle negazione della cosiddetta Cosa in Sé (Ding
an Sich), sebbene naturalmente da un punto di vista formale-gnoseologico le
cose stiano proprio così. La sua vera genesi sta invece nell’accettazione,
prima metodologica e poi interamente storica, dello sdoppiamento dialettico
della coscienza che prima si oggettiva all’esterno di essa e poi persegue la
propria riappropriazione arricchita dalla consapevolezza conseguita proprio
nell’esperienza esterna (Erfahrung). Il neokantismo dominante nelle
università tedesche dopo il 1880 (e il cui ultimo provvisorio esponente è a mio
avviso Jürgen Habermas) rifiuta radicalmente questa problematizzazione, e la rifiuta
perché rifiuta l’esito inevitabile di questa problematizzazione stessa, e cioè
il concetto ontologico di “alienazione” (Entfremdung). In questa
prospettiva la gnoseologia funziona da fattore di rimozione dell’ontologia, ed
in particolare del fatto che il capitalismo in quanto tale (e non solo nei suoi
“eccessi” o nei suoi “difetti”) produce ontologicamente alienazione sociale. Il
rifiuto di Kant e l’accettazione critica di Hegel stanno quindi alla base di
questa problematizzazione lucacciana.
In secondo luogo, la “partecipazione” (Mitmachung), o più
esattamente il rifiuto soggettivo della partecipazione alla propria (eigene)
alienazione rappresenta appunto il passaggio dalla sfera dei fatti (l’esistenza
ontologica dell’alienazione) alla sfera dei valori (il rifiuto soggettivo di
partecipare ad essa), che l’attuale moda della filosofia analitica, ispirata
alla cosiddetta (ed a mio avviso inesistente) “legge di Hume” intende rendere
illegittima in via di principio. Il soggetto si trova non solo immerso storicamente
in un “esserci specifico” (il Dasein heideggeriano), ma questo
esserci storico specifico che il soggetto non ha scelto, ma in cui è stato
“gettato” (ausgeworfen), lo “provoca” ad una scelta esistenziale
radicale, quella di decidere di partecipare, oppure invece di non partecipare,
alla propria estraniazione. Non ritengo opportuno in questa sede aprire dotte
parentesi sulla corretta traduzione italiana della parola tedesca Entfremdung (personalmente
preferirei il consolidato termine di “alienazione”, riservando il termine di
“estraniazione” alla Entäusserung, ma so bene che qui si
aprirebbero problemi non solo linguistici ma teorici), e neppure soffermarmi
sui punti di contatto, o viceversa di divergenza, fra Lukács e Heidegger. E’
invece necessario sottolineare ancora una volta che l’unico pensiero
sostanziale che è possibile attribuire ragionevolmente a Lukács sia proprio
quello della preoccupazione di non partecipare, e quindi prima di tutto di non
dare un assenso soggettivo consapevole, alla propria stessa alienazione.
In terzo luogo, e qui ci avviciniamo finalmente al centro del problema
che ci interessa, nella sua vita Lukács ha sperimentato fino in fondo due distinte
tipologie storico-ontologiche di alienazione, e cioè prima l’alienazione borghese
(o più esattamente, dell’individuo borghese) e poi l’alienazione comunista (o
più esattamente, del “compagno” comunista). E se a suo tempo nella nota Questione
Ebraica Karl Marx tematizzò la scissione dialettica (con la “falsa
coscienza” che questa scissione necessariamente comporta) fra Bourgeois e Citoyen, in
modo molto simile Lukács dovette tematizzare le avventure della dialettica del
rovesciamento del Bourgeois in Genosse (e
cioè in “compagno”). Lukács fu infatti prima un Bourgeois e
poi un Genosse, e dal momento che le due identità non sono
separate da una invisibile muraglia cinese ma si compenetrano dialetticamente,
egli dovette sempre decidere di rifiutare di partecipare alle proprie
specifiche estraneazioni.
Le estraneazioni specifiche della coscienza borghese e della coscienza
comunista sono diverse, anche se hanno entrambe in comune un’unica e
fondamentale alienazione (Entfremdung), l’alienazione dei fini nei mezzi
che vengono pretestuosamente impiegati per realizzarli, e che invece lo storicista
giustificazionista non problematizza per principio mai, assumendoli in modo
aprioristico (e positivistico) come fatalmente necessari. Dal momento che
Lukács è stato uno dei pochissimi pensatori novecenteschi a
problematizzarle entrambe, perché le ha vissute entrambe
biograficamente dall’interno, nel suo pensiero troviamo dimensioni che non
possiamo ad esempio trovare né in Adorno né in Heidegger, poiché nessuno di
questi ultimi fu mai in nessun momento della sua vita un “compagno” (Genosse),
anche se entrambi problematizzarono radicalmente la vita borghese fino al punto
da respingerla entrambi come “inautentica”, sia pure con motivazioni diverse e
per molti versi opposte (anche se a mio avviso largamente complementari,
compatibili e molto più affini di quanto ci abbia tramandato la vulgata
storiografica dei rispettivi tifosi).
L’alienazione specificatamente borghese è individuata da Lukács nel
fenomeno della “falsa coscienza” (falsches Bewusstsein). Si tratta di
una categoria già presente (e non solo presente, ma anche centrale) in Marx, ma
che era stata praticamente “silenziata”, e quindi annullata, nel marxismo
economicistico della Seconda Internazionale (1889-1914). Trascurando qui il
fatto che questa categoria gioca un ruolo essenziale nella sua opera del 1923 Storia
e Coscienza di Classe, posso qui ricordare solo l’essenziale della
questione della falsa coscienza. E l’essenziale sta in ciò, che il “borghese”,
che pure cerca di autorappresentarsi in modo razionalistico ed addirittura
“universalistico” la propria collocazione storica e morale nel mondo, deve
necessariamente “rimuovere” l’imbarazzante esistenza dello sfruttamento
capitalistico e delle sue conseguenze. Questa imbarazzante rimozione segnala
l’esistenza di una specifica inquietudine, che a suo tempo Hegel connotò come
“coscienza infelice”, anche se non la tematizzò a proposito della coscienza
borghese ma soltanto a proposito della coscienza religiosa. In proposito,
tuttavia, il fatto che l’ultimo Lukács abbia usato molto spesso la categoria di
“ateismo religioso”, per indicare la compresenza di una formale negazione
dell’esistenza della divinità unita alla permanenza di problematiche etiche di
evidente derivazione religiosa, ci permette di capire che non c’è mai in lui la
stucchevole separazione di principio fra “laici” e “religiosi”, ma c’è sempre
la consapevolezza del fatto (noto anche a pensatori come Cari Schmitt, che non
potrebbero per altri versi essere politicamente più distanti da Lukács) che la
dialettica della secolarizzazione inconsapevole “mischia” continuamente le
carte. In ogni caso, il punto essenziale della questione sta in ciò, che
all’interno della pura problematizzazione immanente della coscienza borghese,
sia pure ai massimi livelli di sofisticazione filosofica (Max Weber, Georg
Simmel, eccetera), è impossibile uscire dalla strutturale condizione di falsa
coscienza, e di conseguenza è impossibile evitare di continuare a partecipare
alla propria stessa estraniazione. Se Lukács nel 1918 diventa comunista, e lo
rimane fino al 1971, l’anno della sua morte, ciò avviene proprio in base a
questa robustissima convinzione, che fa appunto di lui non certo un “gesuita
della rivoluzione”, ma un vero e proprio “pensatore sostanziale”.
Il Proletariato, secondo il giovane Lukács, è invece il solo soggetto
storico che per sua propria natura sociale può sottrarsi alla falsa coscienza.
Si tratta – con tutta evidenza – non dell’insieme empirico ed anagrafico di
tutti i proletari nominativamente enumerati, ma di un Proletariato Idealtipico,
pensato in forma idealmente unificata e puramente astrattiva. Qui l’influenza
di Max Weber mi sembra evidente, in quanto fu proprio Max Weber a introdurre, e
poi a tematizzare, il concetto di Ideal-Tipo. Ma qui non ci interessano tanto
gli elementi genetici del pensiero di Lukács, e cioè l’attenzione alla vita
quotidiana (Georg Simmel) e la nozione di idealtipo (Max Weber), quanto la
pertinenza della sua tesi, per cui il proletariato si sottrarrebbe per sua
propria natura (analitica – direbbe Kant – perché per definizione il concetto
di proletariato coincide con quello di assenza di sfruttamento imposto ad
altri) alla falsa coscienza borghese.
È plausibile (questo almeno è il mio convincimento critico soggettivo)
che Lukács abbia abbandonato a poco a poco questa convinzione ad un tempo
idealtipica e messianica proprio con l’esperienza storica (Erfahrung)
dello stalinismo. Lukács “sopportò” lo stalinismo, senza aderirci mai, mosso
dalla convinzione (rivelatasi errata) che lo stalinismo sarebbe stato
storicamente soltanto un “episodio” spiacevole di un processo
storico-dialettico fondamentalmente positivo. Il fatto che Lukács abbia
ritenuto che sul piano tattico-politico la linea di Stalin fosse più realistica
di quella di Trotzky non fa certamente di lui uno “stalinista”, come
erroneamente opina spesso la storiografia di indirizzo trotzkista. In ogni
caso, già negli anni trenta è palese che Lukács non solo ha abbandonato le
speranze rivoluzionarie messianiche “a breve termine” del suo primo periodo
marxista, ma ha anche di fatto smesso di pensare in modo idealtipico le
identità rispettive di Borghesia e di Proletariato. E smettere di pensare in
modo idealtipico – aggiungo io – è la premessa per cominciare a pensare in
termini di ontologia dell’essere sociale.
Ho forti dubbi sul fatto che Lukács sia giunto a disporre di una vera e
propria teoria “strutturale” (e quindi marxista) della natura storica e sociale
del potere di Stalin. Certo, a partire dal 1956 egli rifiutò con disprezzo la
connotazione superficiale e tautologica dello stalinismo in termini di “culto
della personalità” data dal dilettante distruttore Nikita Krusciov,
comprendendo immediatamente che dietro questo gioco di parolette ci stava il
rifiuto di investire le ragioni di fondo dell’impasse del sistema
socialista. A proposito dello stalinismo egli preferì parlare di “prevalenza
della tattica sulla strategia”, con le conseguenze antropologiche della
produzione e della promozione di massa di un tipo umano (il tipo del
“comunista”, appunto), che a furia di far precedere la tattica alla strategia
alla fine di tattica sarebbe morto, e nella sua morte avrebbe trascinato anche
le classi ed i popoli che aveva preso in ostaggio. La sostanziale mancanza di
una specifica teoria dell’alienazione nel comunismo, distinta dalla falsa
coscienza borghese, lo portò a parlare di “manipolazione” (Manipulierung),
come caratteristica comune al capitalismo dei consumi in Occidente ed al
dominio burocratico ad Oriente. Non c’è qui purtroppo lo spazio per soffermarsi
su questa problematica, ma mi sembra evidente che il concetto di manipolazione,
che pure unifica Lukács, Kosìk, Adorno e lo stesso Heidegger (e questo vorrà
pur dire qualcosa!), non è in grado di descrivere adeguatamente l’alienazione
comunista novecentesca. Alienazione, peraltro, che non può neppure essere
seriamente descritta dal concetto di “totalitarismo” (Hannah Arendt, Karl
Popper, Francois Furet, eccetera), concetto che è ancora più tautologico del
precedente. E’ infatti chiaro che il manipolatore manipola e che il totalitario
governa in modo totalitario. Il problema sta nell’uscire da questa pomposa
tautologia per entrare nelle strutture sociali che permettono il totalitarismo
politico e la manipolazione sociale. Ma questo enigma non era probabilmente
alla portata della generazione di Lukács, troppo “interna” al fenomeno globale
del comunismo storico novecentesco preso nel suo insieme (1917-1991). Solo ora,
in cui la nottola di Minerva hegeliana si è alzata nell’attuale crepuscolo, è
possibile forse andare “oltre Lukács”. Ma deve essere chiaro
però che se possiamo andarci, lo possiamo fare soltanto perché siamo nani che
si arrampicano sulle spalle dei giganti. E perché Lukács è stato un “gigante”
credo di essere in qualche modo riuscito se non proprio a “dimostrarlo”, almeno
a mostrarlo.
3. La funzione emancipatrice dell’Arte e la specificità
dell’Estetico
I due paragrafi precedenti erano a mio avviso necessari per dimostrare
come Lukács non è stato in alcun modo uno “specialista” del campo estetico, e
neppure uno specialista del grande romanzo borghese classico (da Balzac a
Thomas Mann), ma è stato invece non solo un “filosofo globale”, ma un pensatore
“sostanziale”, uno dei pochi pensatori sostanziali del novecento (a mio avviso
meno di dieci, ma non voglio qui elencarli, perché questa non è una hit
parade). Possiamo allora finalmente passare a parlare in modo più specifico
del significato dell’Estetica di Lukács.
L’Estetica di Lukács tratta della specificità del
rispecchiamento estetico, in ciò che lo differenzia dagli altri due unici
rispecchiamenti possibili, quello quotidiano e quello scientìfico. Questa vera
e propria triade ricorda a prima vista la triade dello Spirito Assoluto di
Hegel (arte, religione e filosofia), ma si differenzia da essa non solo e non
tanto per l’adozione della teoria gnoseologica del rispecchiamento (Widerspiegelungstheorie),
letteralmente impensabile nell’impostazione concettuale di Hegel, ma ancor più
per la negazione alla religione ed alla filosofia di uno specifico ed autonomo
valore veritativo. Ma di questo discuterò nel prossimo paragrafo.
Per Lukács l’opera d’arte è una forma di oggettivazione, ed è quella
specifica forma di oggettivazione che ricerca la particolarità piuttosto che le
leggi costitutive generali della nostra vita naturale e sociale. Come si vede,
si tratta di un’impostazione non poi troppo distante da quella di Benedetto
Croce. Questa impostazione si distingue però da quella di Croce per il fatto di
partire, non solo metodologicamente ma anche e soprattutto ontologicamente, dal
comportamento dell’uomo nella vita quotidiana. Nella Estetica questo
comportamento è definito letteralmente come “al tempo stesso l’inizio ed il
punto d’arrivo di ogni attività umana”. Lukács paragona l’attività umana ad una
“grande corrente”, da cui “la scienza e l’arte si dipartono, si differenziano e
si sviluppano secondo le rispettive finalità specifiche, raggiungono la loro
forma pura, e sfociano poi nuovamente, attraverso i loro effetti e l’influenza
che esercitano nella vita degli uomini, nella corrente della vita quotidiana”.
L’arte e la scienza hanno quindi la loro radice ontologica nei “bisogni”
che sorgono dalla quotidianità. Si ha così fin dal principio un rifiuto
esplicito sia di ogni atteggiamento feticistico verso la scienza e la
conoscenza scientifica (ma già per Marx – che su questo punto seguiva Epicuro –
la scienza doveva servire i bisogni umani, e non essere feticizzata ed
idolatrata in sé), sia di ogni atteggiamento elitario, superuomistico ed
aristocratico dell’arte. E’ evidente che la funzione della teoria del rispecchiamento
quotidiano è proprio questa: evitare ogni feticismo della scienza ed ogni
aristocraticismo dell’arte.
Secondo Lukács, “Kant poté ancora accontentarsi di rispondere alla
questione metodologica generale della pretesa di validità dei giudizi estetici”.
Si tratta di un’impostazione che il nostro autore considera “restrittiva ed
unilateralmente gnoseologica” (sic!). Al contrario di Kant, Hegel ha saputo
raggiungere sia “una concezione filosoficamente universalistica” sia una
“sintesi storico-sistematica” cui Lukács ritiene di poter soltanto realizzare
“un’approssimazione solo parziale” al modello della sua Estetica.
Si tratta di un’ammissione estremamente rivelatrice, dal momento che ci
permette di capire il modo in cui Lukács autopercepiva il significato della sua
stessa opera. Dal momento che questo breve saggio non è dedicato esplicitamente
ad una riflessione sulla teoria del realismo e sulla condanna dell’avanguardia
in Lukács, i temi generalmente più superficialmente conosciuti e commentati ma anche
in fondo i temi più “esterni” alla riflessione teorica vera e propria sulla
specificità (Eigenart) del rispecchiamento estetico, è bene invece
insistere ancora sul fatto che in Lukács il “particolare” deve essere distinto
accuratamente sia dall’“individuale” che dall’“universale”, e questo almeno in
due modi. Da un lato, ontologicamente parlando, l’individuale riesce ad
attingere l’universale soltanto se la propria particolarità decide appunto di
non accettare la propria estraniazione. Dall’altro – e questo è appunto ciò che
caratterizza il rispecchiamento estetico – ogni opera d’arte, figurativa,
poetica, eccetera, coglie l’universalità del Bello esclusivamente passando
attraverso la particolarità del singolo artista.
Lukács accetta l’ipotesi della genesi della produzione artistica nei
riti della mimesi magica dei primitivi, e questa ipotesi mi sembra
effettivamente “materialistica” (oltre che interamente plausibile), in quanto è
speculare e complementare all’ipotesi della deduzione storica e sociale delle
categorie del pensiero. Se il termine di “materialismo” ha un significato, mi
sembra che il suo significato non possa che essere quello di pensiero genetico,
il che fa di Vico il primo vero e proprio “materialista” della storia della
filosofia moderna, enigma del tutto indecifrabile per tutti coloro che
attribuiscono l’etichetta di “materialista” esclusivamente a chi professa
esplicitamente la sua mancanza di “fede” nell’esistenza di Dio. E del resto,
che il fatto artistico non possa nascere dalla testa di Giove come Minerva, ma
derivi da un insieme di bisogni sorti sul terreno della vita quotidiana (mimesi
magica, eccetera), ne caratterizza non solo l’origine, ma la sua intera
esistenza storica. Dai graffiti primitivi delle grotte di Altamura fino alle mostre
di pittura post-moderna o astratta, si è sempre in presenza di una attività
permanente dell’uomo, che esclude ogni teoria della “morte dell’arte”, comunque
concepita e declinata.
Siamo generalmente abituati a considerare la cosiddetta “purificazione”
(catarsi, katharsis) come qualcosa di tipico della tragedia antica,
almeno secondo la valutazione di Aristotele. E’ interessante invece il fatto
che Lukács consideri la catarsi come una categoria generale del
rispecchiamento estetico, e non solo come un dato della percezione sociale
della tragedia classica. E questo non deve stupirci, perché proprio il fatto
che Lukács assume ed accetta la teoria marxiana del feticismo della merce gli
permette di conseguenza di parlare di “missione defeticizzante dell’arte”. Non
solo la tragedia greca, ma ogni vera arte è catartica, e nel
contesto storico e spirituale della quotidianità capitalistica il suo ruolo
catartico si specifica proprio nella sua “missione defeticizzante”. Al di là
del linguaggio tecnico di evidente matrice marxiana, la conclusione è
assolutamente simile a quella delle teorie estetiche di Adorno e dello stesso
Heidegger.
So bene che ogni tentativo seriamente condotto di “confrontare”
filologicamente le teorie estetiche di Lukács, Heidegger e Adorno porterebbe ad
evidenziare importanti differenze, e non intendo affatto negarlo. Ma qui mi
interessa piuttosto sottolineare il fatto che Lukács, Heidegger e Adorno hanno
pur sempre in comune il fatto (e non è poco!) di venire prima del
grande riorientamento gestaltico post-moderno, che è (seguo qui nell’essenziale
l’ipotesi di Jameson) ad un tempo il prodotto ed il produttore della produzione
flessibile, del lavoro precario, dello scioglimento culturale delle precedenti
identità relativamente stabili di tipo “borghese” e “proletario”, eccetera.
Questo non significa certamente che le grandi estetiche di cui stiamo
parlando, e cioè quelle di Lukács, Adorno e Heidegger, “non valgono più”, non
parlano più del mondo che stiamo vivendo oggi, e si riferiscono ad un contesto
di catarsi e di defeticizzazione del mondo che la presente (ed a mio avviso
temporanea, nonostante le sue arroganti pretese di eternità) affermazione del
turbocapitalismo globalizzato ha definitivamente consegnato agli archivi. È
vero però che il ciclo storico che stiamo vivendo, e che nessuno di noi può
sapere quanto durerà, ha comportato e comporta una specifica “eclissi” di
questo modo di vedere il rapporto fra arte e vita. Ma il termine astronomico di
“eclissi” significa non abbandono permanente, ma semplicemente abbandono
provvisorio. Per questa ragione possiamo razionalmente scommettere che il punto
di vista estetico di Lukács (che ho inteso volutamente legare a quelli di
Adorno e di Heidegger) probabilmente ritornerà, anche e soprattutto perché
corrisponde ad una permanente esigenza di significati radicati nella nostra
natura umana.
4. Libere riflessioni sulla teoria lucacciana del
rispecchiamento estetico
Come ho avuto modo di notare nelle pagine precedenti, l’adesione
dell’ultimo Lukács alla teoria del rispecchiamento è esplicita e quasi
ostentata. Il rispecchiamento fondamentale, unico ed originario, è quello che
sorge sul terreno della vita quotidiana, e da esso sorgono, e poi si biforcano
in complementare armonia, il rispecchiamento estetico della particolarità ed il
rispecchiamento scientifico dell’universalità. È un modello filosofico
concettualmente molto semplice, e nello stesso tempo carico di implicazioni
ricchissime. Si tratta certamente di una sorta di “gnoseologia democratica”,
nonostante il termine possa sembrare improprio e paradossale, perché la vita
quotidiana è qualcosa di cui sono titolari indistintamente tutti i membri della
specie umana, che diventano in questo modo tutti indistintamente titolari della
conoscenza possibile della globalità articolata del mondo naturale e sociale.
Nei termini del dialogo platonico Protagora, potremmo dire che duemila anni
dopo Lukács assume la posizione teorico-politica di Protagora e non quella di
Socrate.
E nello stesso tempo la teoria del rispecchiamento, che non merita
comunque né di essere accettata né di essere rifiutata senza prima essere presa
seriamente in considerazione, continua a “fare problema”. Non tutti i marxisti
l’hanno accettata. Per fare un solo esempio, Antonio Gramsci non l’ha
accettata, almeno a mia conoscenza. E tuttavia non avrebbe senso qui stilare un
inutile elenco di fautori e/o di critici della teoria del rispecchiamento,
mentre è molto più utile e sensato sottoporre al lettore alcuni stimoli critici
e problematici.
In primo luogo, la teoria del rispecchiamento è una teoria al 100 per
cento di tipo gnoseologico, ed in quanto tale non coincide direttamente né con
il materialismo, che a mio avviso è una sorta di “metafisica generale”, né con
l’ontologia dell’essere sociale, che è una posizione ontologica specifica che
si oppone (con buoni argomenti) all’unificazione categoriale delle cosiddette
“leggi dialettiche” comuni alla natura ed alla storia (vedi Materialismo
Dialettico, eccetera). Essa non coincide neppure con il cosiddetto “realismo
gnoseologico”, ed infatti vi sono fautori del realismo gnoseologico (da Tommaso
d’Aquino a Nicolai Hartmann) che non sono a mio avviso sostenitori della teoria
del rispecchiamento propriamente detta (Widerspiegelungstheorie).
Nicolae Tertulian, a mio avviso il maggiore esperto del pensiero dell’ultimo
Lukács, insiste sempre nei suoi interventi critici nel ricondurre la
gnoseologia realistica di Lukács ad Hartmann, ed ha anzi scritto letteralmente
che “gli scritti ontologici di Nicolai Hartmann hanno fatto da catalizzatore
alle riflessioni ontologiche di Lukács”. E dal momento che il termine “catalizzatore”
non è qualcosa di aggiunto, marginale o periferico, ma è qualcosa di
essenziale, se ne può ricavare fondatamente che, almeno per quanto riguarda la
teoria della conoscenza, Lukács non è un “allievo” di Engels o di Lenin, ma di
Hartmann. Hartmann distingue sempre accuratamente nelle sue opere le categorie
intese come “principi dell’essere” (Seinsprinzipien), e le categorie
intese come “essenze logiche” (logische Wesenheiten). Il suo “realismo”
– condiviso integralmente da Lukács – consiste nel scegliere le prime e nel
rifiutare le seconde, attribuite evidentemente all’idealismo, ed all’idealismo
hegeliano in particolare (che poi Lukács nella sua Ontologia
dell’Essere Sociale accusa di “logicismo”). Anche se non posso certo
soffermarmi su questo punto, sarei felice che qualcuno mi spiegasse la
differenza fra le due, in quanto la logica di Hegel – a differenza della logica
di Kant – è una logica ontologica, e quindi – se non capisco male – essenze
logiche e principi dell’essere coincidono. La questione non è infatti solo
terminologica, e non è neppure di lana caprina, perché qui siamo al centro del
problema della continua oscillazione (che per me è un merito e non un demerito
– come lo è per la stragrande maggioranza dei commentatori di Lukács) fra i due
poli dell’Idealismo e del Materialismo.
In secondo luogo, è assolutamente sicuro che Engels e Lenin (e poi
Stalin, Trotzky, Mao, eccetera) sono stati fautori della teoria del
rispecchiamento, ma non è affatto altrettanto sicuro che anche Karl Marx lo sia
stato. Dal momento che Marx non se ne è mai occupato, e che non basta ripetere
il mantra per cui “avrebbe rimesso sui piedi la dialettica di Hegel che
poggiava invece sulla testa”, non è neppure sufficiente dire che l’ha
implicitamente avvallata perché non ha mai preso le distanze dall’amico Engels,
anche perché le tesi filosofiche di Engels sono state elaborate quasi tutte
dopo la morte di Marx, avvenuta nel 1883, a meno che l’avallo gnoseologico alla
teoria del rispecchiamento avesse potuto avvenire nella forma dell’evocazione
delle anime dei defunti con i tavolini che ballano (cfr. F. Dimitri, Comunismo
Magico, Castelvecchi, Roma 2004). Se infine ci occupiamo direttamente del
tipo di logica dialettica effettivamente impiegata da Marx nelle sue opere (mi
riferisco qui agli studi di Rosdolsky, Reichelt, fino a quelli recentissimi di
Roberto Fineschi), ci accorgiamo che la vera e propria teoria del
rispecchiamento brilla per la sua totale e pittoresca assenza, laddove è invece
ben presente un metodo dialettico esemplificato direttamente sul modello della
logica ontologica di Hegel. Ma di questo nodo di problemi è chiaramente
impossibile parlare qui.
In terzo
luogo, e qui ci avviciniamo finalmente al centro del problema che ci interessa,
nella sua vita Lukács ha sperimentato fino in fondo due distinte
tipologie storico-ontologiche di alienazione, e cioè prima l’alienazione borghese
(o più esattamente, dell’individuo borghese) e poi l’alienazione comunista (o
più esattamente, del “compagno” comunista). E se a suo tempo nella nota Questione
Ebraica Karl Marx tematizzò la scissione dialettica (con la “falsa
coscienza” che questa scissione necessariamente comporta) fra Bourgeois e Citoyen, in
modo molto simile Lukács dovette tematizzare le avventure della dialettica del
rovesciamento del Bourgeois in Genosse (e
cioè in “compagno”). Lukács fu infatti prima un Bourgeois e
poi un Genosse, e dal momento che le due identità non sono
separate da una invisibile muraglia cinese ma si compenetrano dialetticamente,
egli dovette sempre decidere di rifiutare di partecipare alle proprie
specifiche estraneazioni.
Le
estraneazioni specifiche della coscienza borghese e della coscienza comunista
sono diverse, anche se hanno entrambe in comune un’unica e fondamentale
alienazione (Entfremdung), l’alienazione dei fini nei mezzi che vengono
pretestuosamente impiegati per realizzarli, e che invece lo storicista
giustificazionista non problematizza per principio mai, assumendoli in modo
aprioristico (e positivistico) come fatalmente necessari. Dal momento che
Lukács è stato uno dei pochissimi pensatori novecenteschi a
problematizzarle entrambe, perché le ha vissute entrambe
biograficamente dall’interno, nel suo pensiero troviamo dimensioni che non
possiamo ad esempio trovare né in Adorno né in Heidegger, poiché nessuno di
questi ultimi fu mai in nessun momento della sua vita un “compagno” (Genosse),
anche se entrambi problematizzarono radicalmente la vita borghese fino al punto
da respingerla entrambi come “inautentica”, sia pure con motivazioni diverse e
per molti versi opposte (anche se a mio avviso largamente complementari,
compatibili e molto più affini di quanto ci abbia tramandato la vulgata
storiografica dei rispettivi tifosi).
L’alienazione
specificatamente borghese è individuata da Lukács nel fenomeno della “falsa
coscienza” (falsches Bewusstsein). Si tratta di una categoria già
presente (e non solo presente, ma anche centrale) in Marx, ma che era stata
praticamente “silenziata”, e quindi annullata, nel marxismo economicistico
della Seconda Internazionale (1889-1914). Trascurando qui il fatto che questa
categoria gioca un ruolo essenziale nella sua opera del 1923 Storia e
Coscienza di Classe, posso qui ricordare solo l’essenziale della questione
della falsa coscienza. E l’essenziale sta in ciò, che il “borghese”, che pure
cerca di autorappresentarsi in modo razionalistico ed addirittura
“universalistico” la propria collocazione storica e morale nel mondo, deve
necessariamente “rimuovere” l’imbarazzante esistenza dello sfruttamento
capitalistico e delle sue conseguenze. Questa imbarazzante rimozione segnala
l’esistenza di una specifica inquietudine, che a suo tempo Hegel connotò come
“coscienza infelice”, anche se non la tematizzò a proposito della coscienza
borghese ma soltanto a proposito della coscienza religiosa. In proposito,
tuttavia, il fatto che l’ultimo Lukács abbia usato molto spesso la categoria di
“ateismo religioso”, per indicare la compresenza di una formale negazione
dell’esistenza della divinità unita alla permanenza di problematiche etiche di
evidente derivazione religiosa, ci permette di capire che non c’è mai in lui la
stucchevole separazione di principio fra “laici” e “religiosi”, ma c’è sempre
la consapevolezza del fatto (noto anche a pensatori come Cari Schmitt, che non
potrebbero per altri versi essere politicamente più distanti da Lukács) che la
dialettica della secolarizzazione inconsapevole “mischia” continuamente le
carte. In ogni caso, il punto essenziale della questione sta in ciò, che
all’interno della pura problematizzazione immanente della coscienza borghese,
sia pure ai massimi livelli di sofisticazione filosofica (Max Weber, Georg
Simmel, eccetera), è impossibile uscire dalla strutturale condizione di falsa
coscienza, e di conseguenza è impossibile evitare di continuare a partecipare
alla propria stessa estraniazione. Se Lukács nel 1918 diventa comunista, e lo
rimane fino al 1971, l’anno della sua morte, ciò avviene proprio in base a
questa robustissima convinzione, che fa appunto di lui non certo un “gesuita
della rivoluzione”, ma un vero e proprio “pensatore sostanziale”.
In quarto luogo, infine, se non esiste un autonomo rispecchiamento
filosofico, tantomeno ovviamente può esistere un autonomo rispecchiamento
religioso. E sarebbe paradossale che potesse esistere, dal momento che per
l’ateo illuminista e materialista Lukács Dio non esiste, e non esistendo non
potrebbe neppure ovviamente essere “rispecchiato”. La religione per Lukács
trova la sua matrice nel mantenimento ontologico (o più esattamente,
ontologicamente falso) della spontanea antropomorfizzazione del mondo tipica
del rispecchiamento quotidiano. Non è questa la sede per discutere della
filosofia della religione di Lukács, ma osservo egualmente che essa mi sembra
molto più simile all’impostazione di un d’Holbach o di un Feuerbach che di
quella implicitamente presente in Marx, che non partiva da una modalità
conoscitiva astrattizzata e dichiarata falsa, ma partiva invece esclusivamente
dal “fenomenizzarsi della filosofia” (Weltlich-Werden der Philosophie),
e cioè dall’inserimento della specifica coscienza religiosa in determinati (e
obbligatori) rapporti sociali di produzione. In ogni caso, ciò che ci interessa
in questa sede è sottolineare il fatto che per Lukács non solo la Scienza,
ma anche e soprattutto l’Arte viene vista come il fattore
decisivo per distogliere gli uomini dall’illusione religiosa, dall’illusione
cioè che la spontanea e naturale tendenza antropomorfizzante sorta sul terreno
del rispecchiamento quotidiano della vita possa ambire ad uno statuto
ontologico privilegiato, o se si vuole in linguaggio ordinario “realmente
esistente”. La polemica contro l’illusione religiosa è al centro della
stessa Estetica, non solo nella forma tradizionale della negazione
della trascendenza, ma anche e soprattutto nella forma della rivendicazione
insistente del riconoscimento dell’autosufficienza integrale della mondanità.
Questa decisa alternatività radicale fra Arte e Religione, che percorre
praticamente tutte le pagine dell’Estetica di Lukács, è forse
l’elemento che più la distingue, ed anzi la contrappone, all’Estetica di
Hegel, che non si sarebbe invece mai sognato di mettersi su questa strada. Per
Lukács l’Arte ha prima di tutto una funzione storica e sociale immanentistica
radicale, che contribuisce a liberare l’uomo dall’illusione religiosa,
mostrando che invece quella possibilità di vita piena che la religione colloca
unicamente nell’aldilà può esistere anche e soprattutto già qui sulla terra.
Come si vede, la monumentale Estetica dell’ultimo
Lukács non è solo una teoria estetica, ma è una vera e propria filosofia
generale, del tipo della Critica della Ragion Pura di Kant,
della Fenomenologia dello Spirito di Hegel, e infine di Essere
e Tempo di Heidegger. Personalmente, non sono in alcun modo un
“credente” (anche se nell’ottica di Lukács potrei essere accusato di “ateismo
religioso”), ma non riesco a riconoscermi nella posizione per cui l’Arte, cui
riconosco invece integralmente il carattere emancipativo e – come dice Lukács –
“defeticizzante”, possa e debba anche avere la funzione di liberazione
dall’illusione religiosa. Esprimendomi volutamente in modo popolare e non
filosoficamente sorvegliato, a mio avviso l’illusione religiosa non fa male a
nessuno, e sono piuttosto incline a riconoscerne sulla scorta di Ernst Bloch un
carattere indirettamente emancipativo. Ma qui abbiamo ancora una volta di
fronte la presenza dell’elemento esplicitamente illuministico-settecentesco di
Lukács, la cui rivendicazione lo differenzia – come è del resto evidente – dai
suoi “colleghi” contemporanei che in vario modo invece o polemizzavano
direttamente con l’illuminismo (Adorno, Heidegger) o lo limitavano alla sola
componente giusnaturalistico-rivoluzionaria (Bloch).
E con questo posso chiudere queste brevi note, rivolte prima di tutto a
ricordare un Grande del pensiero del novecento, oggi indubbiamente “inattuale”,
e proprio per questo destinato a “ritornare” in tempi meno
caratterizzati dall’attuale congiunturale chiacchiericcio della cosiddetta
“industria culturale”.
Nota bibliografica generale
Composta a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, la
grande Estetica di Lukács è stata pubblicata in due tomi
dall’editore Einaudi, Torino 1970. Un’edizione ridotta, curata da Ferenc Féher,
ridotta ma non sfigurata e quindi ampiamente utilizzabile per studi critici, è
stata pubblicata sempre da Einaudi nella PBE, 1973.
Chi si occupa di Lukács, e vuole occuparsi criticamente dell’Estetica,
deve a mio avviso fare almeno due cose “obbligatorie”. In primo luogo, deve
“collocare” storicamente il suo pensiero non tanto all’interno dei dibattiti
ideologici sul cosiddetto “realismo socialista”, oppure dei dibattiti sulla
valutazione critica delle cosiddette “avanguardie”, quanto piuttosto in un
contesto comparativo con le coeve riflessioni estetiche di Adorno e di
Heidegger. Lukács deve essere confrontato con i suoi “pari”, e non con
scagnozzi burocratici degli apparati di partito. In secondo luogo, deve
studiare contestualmente anche la sua ontologia (cfr. Ontologia
dell’Essere Sociale, Editori Riuniti, Roma 1976 e 1981, ed anche Prolegomeni
all’Ontologia dell’Essere Sociale, Guerini e Associati, Milano 1990).
Si veda anche AAVV, Lukács e il suo tempo, Pironti, Napoli
1984. Da questo lavoro ho tratto la citazione della lettera a Goldmann (p.
213), e la citazione illuminante sulla decisione di non partecipare alla
propria stessa alienazione (p. 270).
Su Lukács critico dello stalinismo si veda soprattutto G. Lukács-W.
Hofmann, Lettere sullo Stalinismo, Bibliotheca, Gaeta 1993, con una
illuminante introduzione di Nicolae Tertulian. Per quello che valgono queste
mie modeste note, le dedico a questo grande studioso lucacciano di origine
romena, che resta a mio avviso tuttora la migliore bussola critica per
accostarsi alla gigantesca (e per nulla “esaurita”) figura di Lukács.