► L’autore del Manifesto non aveva un’opinione alta
della professione. E polemizzava con l’Economist
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Karl Marx ✆ Andrew Becraft
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Davide Vannucci |
Tesserini non ne aveva, e del resto in Inghilterra gli ordini
professionali non esistevano, e non esistono, ma Karl Marx è stato anche un
giornalista. A Colonia, per la Rheinische Zeitung, negli anni Quaranta, e
soprattutto a Londra, come corrispondente del quotidiano americano
New York
Daily Tribune, negli anni Cinquanta dell’Ottocento.
Perché non condurre una ricerca sul Marx giornalista,
tradurlo ed individuare, nel commento all’attualità, le linee principali del
suo pensiero? Lo ha fatto la casa editrice (nonché service editoriale) Corpo 60,
selezionando alcuni articoli scritti dal filosofo di Treviri, dal 1852 al 1861,
e riunendoli all’interno di un agevole ebook, Dal nostro corrispondente a
Londra. Karl Marx giornalista per la New York Tribune (5.99 euro), un’opera che
sfrutta tutte le potenzialità del mezzo (ad esempio, attraverso i link alla
versioni originali dei pezzi od alle voci wikipedia di nomi ed eventi storici
citati negli articoli).
L’autore del Manifesto non aveva un’opinione alta della
professione, ed è sufficiente leggere le sue lettere ad Engels per
accorgersene. Però quel mestiere da “scribacchino” gli consentiva di riempire
lo stomaco - anche se in maniera non del tutto soddisfacente, pare - e di
lavorare con minori preoccupazioni economiche alla stesura de Il Capitale. I
pezzi selezionati, infatti, si trovano a cavallo dei periodi che Louis
Althusser ha identificato come quelli delle “opere della maturazione”
(1845-1857) e delle opere della “maturità” (1857-1883).
Marx, più che un moderno corrispondente, è una sorta di
editorialista: commenta i fatti dell’epoca, sia interpretando gli eventi a lui
contemporanei, come il conflitto di Crimea o la seconda guerra d’indipendenza
italiana, sia raccontando l’evoluzione storica di una certa problematica: la
crisi truffaldina del Crédit Mobilier, la banca privata a cui Napoleone III
concesse diritti eccezionali, per finanziare le sue mire - a cui è dedicato un
trittico di articoli - oppure i rapporti tra Cina ed Occidente (nello
specifico, l’Inghilterra), che ruotano attorno alla questione del commercio
dell’oppio (pretesto per lo scoppio di un paio di guerre). In altri casi, Marx
rievoca, per ribadire le proprie idee, un passato non troppo lontano (in un
pezzo del 1857 discute la crisi monetaria inglese di dieci anni prima).
La cifra stilistica è, spesso, il sarcasmo: l’autore del
Capitale non arretra nella polemica e, pur non utilizzando un linguaggio da
pamphlet, identifica con chiarezza i suoi bersagli: le presunte virtù del
libero mercato e dei suoi cantori - in primo luogo l’Economist
(“Quell’illusionista che volge in ottimismo ogni cosa che possa minacciare la
pace della comunità mercantile”) e il Times, il cui principale collaboratore è
l’economista classico David Ricardo – ma anche le ambizioni cesaristiche di
Napoleone III, ribattezzato con spregio “il piccolo Napoleone”, per sostanziare
la distanza dal Bonaparte. Difetti del filosofo giornalista: tende ad
accumulare fatti, numeri, dettagli, a spiegare anche quello che dovrebbe essere
sottinteso. La prosa non è eccessivamente articolata, ma spesso le premesse,
con la loro mole, schiacciano l’opinione. In alcuni casi, però, le citazioni,
le dichiarazioni ripescate dagli archivi, o dagli statuti (come nel caso dello
stesso Crédit Mobilier e del suo presidente, Péreire) servono a smontare le
tesi altrui e a rafforzare, di conseguenza, le proprie.
Per la Daily Tribune
Marx era incaricato di scrivere editoriali su temi bellici ed economici.
Infatti, tra i temi affrontati ci sono le difficoltà affrontate dai militari
inglesi in Crimea, nel 1855, pretesto per esercitare un marxianissimo sarcasmo
nei confronti della catena di comando dell’esercito di Sua Maestà. Cinque
livelli di potere, ciascuno con un diritto di veto implicito nei confronti
degli altri. I controlli incrociati, in linea teorica un buon principio
operativo, si convertono così nel trionfo della burocrazia: tutti comandano, ma
in fondo non comanda nessuno. Il Marx più efficace, come è logico che sia, è
però l’economista, che legge la scienza triste in relazione agli eventi
politici.
Per gettare luce sul proprio socialismo, scientifico,
smantella il “socialismo imperiale” di Napoleone III, fondato sulle grandi opere
pubbliche e su un discutibile sistema creditizio: l’imperatore viene definito
il “supremo direttore della grande industria francese”, come se fosse una sorta
di direttore generale, perché il suo unico scopo è l’arricchimento personale
(si serve dello Stato, scrive, per pagare i propri debiti e quelli dei suoi
amici, e per fare soldi a spese della borghesia e degli operai). Per
attaccare le libertà della società borghese, in primo luogo quella di
iniziativa economica, Marx ne mette in evidenza ipocrisie e contraddizioni (Il
Tesoro anglo-indiano che, “mentre predica in pubblico il libero scambio delle
droghe, difende in privato il monopolio della sua manifattura”).
A distanza di 150 anni, è interessante notare come i temi
della discussione economica e dei rapporti internazionali non siano cambiati
più di tanto. Il protezionismo contro il libero mercato (Marx prende di mira la
ricerca continua di sbocchi commerciali, fonte di crisi economiche e di
guerre). Oppure la relazione tra l’Occidente e la Cina, che proprio in quegli
anni uscì, suo malgrado, da un secolare isolamento (si può ragionevolmente
sostenere che quell’epoca fu globalizzata come la nostra, a livello
commerciale, e che le barriere economiche furono erette successivamente). Marx
discute i costi e i benefici dell’ingresso di Pechino nel Grande Gioco globale,
quando il Wto era un acronimo del tutto sconosciuto (“Il futuro insorgere dei
popoli d’Europa e i loro prossimi moti per la libertà repubblicana e
un’economia di governo possono dipendere più da quanto stia succedendo ora nel
Celeste Impero che da qualsiasi altra causa politica esistente”), scrive il 14
giugno del 1853). Anche se la situazione pare rovesciata rispetto ad oggi,
perché si parla dell’impatto prodotto dalle manifatture inglesi esportate in
Oriente (“Le filature e le tessiture in Cina hanno grandemente sofferto di
questa competizione straniera”), un fenomeno che in un articolo successivo, del
1858, tende a minimizzare (“Il risultato delle nostre ampie relazioni non ha
affatto concretizzato le giuste aspettative”)
Marx si occupa anche di morti bianche (gli incidenti sul
lavoro, causati dai macchinari, sono un bollettino di guerra) o della
corruzione dei funzionari addetti alla riscossione delle tasse. C’è spazio
anche per una riflessione su Gerusalemme e il tema è quello dei diritti sui
luoghi sacri: “Attorno al Santo Sepolcro troviamo un assembramento di tutte le
vare sette della Cristianità, dietro la cui pretesa di religiosità si celano
altrettante rivalità politiche e nazionali”. Le parole scritte nel 1854,
riguardo alle varie confessioni cristiane, sono tristemente attuali, anche se
riferite a un contesto diverso (“Il protettorato dei Luoghi Santi è una delle
fasi della questione orientale che si riproduce incessantemente, costantemente
repressa ma mai risolta”).
Due pezzi della raccolta sono dedicati alla seconda guerra
d’indipendenza italiana. Il primo, scritto alla vigilia dell’intervento
dell’alleanza franco-piemontese contro l’Austria, sottolinea l’isolamento
diplomatico degli Asburgo, anche a Londra
“La ben nota simpatia del popolo
inglese verso gli italiani”), diffida, come sempre, di Napoleone III e
soprattutto vede il conflitto nella penisola in una chiave più ampia (“Una
guerra che inizia in una parte d’Europa non finisce dove è cominciata; e se
questa è proprio inevitabile, il nostro sincero e sentito desiderio è che possa
portare una vera e giusta soluzione della questione italiana e di svariate
altre questioni le quali, finché non saranno risolte, continueranno regolarmente
a disturbare la pace dell’Europa e quindi a impedire il progresso e la
prosperità dell’intero mondo civilizzato”.
Il secondo articolo, successivo
all’armistizio di Villafranca tra Napoleone III e Francesco Giuseppe (l’Austria
cede la Lombardia, ma non il Veneto), parla di un accordo fatto sulla testa
dell’Italia ed è scettico sull’idea che si tratti della soluzione definitiva.
Dopo qualche mese, infatti, Cavour e Garibaldi si incaricheranno di completare
l’opera.