► In considerazione dei temi e delle sezioni presenti nella rivista, la
redazione inserisce nella sezione marxiana l’Introduzione e l’indice del volume
di Roberto Finelli, appena pubblicato presso la casa editrice Jaca Book, dal
titolo "Un parricidio compiuto. Il confronto finale di Marx con Hegel". Pur
non rientrando tale inserimento nel piano organico originariamente concepito e
realizzato dai curatori del presente numero, non lo si è ritenuto inopportuno e
incongruo rispetto alla tematica e alla ispirazione complessiva di “Consecutio Temporum”
Introduzione:
dal bisogno al riconoscimento Roberto Finelli
1. I movimenti della nostra giovinezza, degli
anni sessanta e settanta del secolo scorso, a me che sono stato partecipe di
quella stagione, appare che abbiano espresso, nelle loro avanguardie
piùminoritarie e raffinate, una rivoluzione culturale che si può
sintetizzare nel motto, “da un’antropologia della penuria a
un’antropologia del riconoscimento”. La
generazione nata nel dopoguerra, e che giungeva nel mezzo degli anni ’60
all’Università, infatti poneva fine, con un accesso di massa alla cultura
superiore, ad un’autorappresentazione tradizionale dei ceti subalterni,
consegnata al predominio, sul piano del desiderio, ancora della sola
bisognosità materiale e all’unico valore dell’eguaglianza, quale criterio
etico-politico privilegiato per il soddisfacimento di tale obbligatorietà. Nel
tentativo, a muovere dai primi movimenti studenteschi del febbraio del ’68,
d’inaugurare un nuovo modello d’umanità possibile, che – al di là, ma non senza
l’eguaglianza – rivendicasse, attraverso la celebrazione
dell’antiautoritarismo, l’orizzonte ulteriore dell’opportunità, per ciascuno,
d’individuarsi e di realizzare nel modo più personale il proprio sé.
Tale
allargamento, o, per dir meglio, tale trans-valutazione di valori, costituiva
un rivolgimento culturale radicale, perché significava una critica
dell’autoritarismo e dell’elitismo che ancora pesantemente caratterizzava gli
istituti civili e politici della rinnovata democrazia postbellica, ma, anche e
nello stesso tempo, una rottura e un’evasione, per quel che qui maggiormente
c’interessa trattare, dalla tradizione della cultura, e dell’antropologia,
comunista.
Il
concepimento del diritto politico ed esistenziale di accedere da parte di
ognuno, coll’esposizione al minor grado possibile di repressione,
alla realizzazione di un progetto di vita in cui poter esprimere il valore e la
peculiarità del proprio sé, irripetibile e non-eguagliabile a quello degli
altri, si poneva infatti come la conquista di un’umanità, finalmente uscita
dalle guerre e dalla penuria, e valida perciò a tentare la definizione di
un’identità, oltre la riproduzione della mera vita biologica,
fortemente individuata e sovramateriale.
Era
il valore dell’antiautoritarismo che la parte più colta, più aperta
cosmopoliticamente, dell’ultima generazione universitaria, spesso con già una
qualche esperienza politica, proponeva come criterio e provocazione di nuove
forme di vita agli altri studenti, ormai fattisi massa, e, al di là di essi,
all’intero universo sociale, soprattutto giovanile. E quel valore, per la forza
della sua originalità e, insieme, della sua capacità di tradurre in forma
cosciente un bisogno inconsaputo ma pronto ad accendersi, non poteva che
diffondersi, oltre l’Università, all’intero corpo sociale. In primo luogo al
mondo del lavoro, come accade ben presto nel passaggio dal ’68 universitario al
’69 operaio, dove, sotto la spinta delle fasce più giovanili della composizione
operaia, si misero in discussione, con un grado di conflittualità che durò
almeno per un decennio, gerarchie e modalità del comando, quantità e qualità
del lavoro, condizioni ambientali interne del mondo del lavoro, fino al governo
più ampio del territorio. Per estendersi dal mondo delle fabbriche ai
lavoratori dei servizi e all’intero corpo sociale, in un processo di
democratizzazione e di gestione orizzontale del potere, che durante gli anni
‘70 investì pressocchè tutti gli apparati pubblici come scuole, manicomi,
ospedali, istituti pubblici e ministeri: fino a fecondare quell’altra
rivoluzione culturale che è stato a partire dagli anni ’70 il femminismo e la
trasformazione del sapere di sé di moltissime donne. Del resto tale era, nella
sua asprezza, la contraddizione tra le anguste strutture, sia sul piano degli
spazi e delle strutture fisiche che delle pratiche di relazione gerarchiche,
della vecchia università liberal-fascista e la massa della nuova generazione
studentesca che non poteva nascere, altrimenti che nel mondo universitario, la
coscienza e la necessità di una critica di forme di relazione arcaiche e
inadeguate. Le quali, anche quando non si mostravano esplicitamente
autoritarie, erano sempre comunque di segno elitario e paternalistico: perfino
quelle che includevano la docenza cosiddetta di sinistra, neanch’essa
sufficientemente avvertita della profondità della trasformazione e della
massificazione in atto.
Quel
valore, dell’antiautoritarismo e di una più libera, e meno materialistica,
liberazione del Sé divenne così nel volgere di pochi anni, per estensione e
intensità di diffusione, un principio radicalmente antisistemico, a cui
l’insieme delle classi dominanti, comprendendo in esse anche il ceto
politico-burocratico della Sinistra storica, non poteva che reagire con
violenta negazione e repressione. Valgano a proposito di quest’ultimo le parole
lucide di Franco Fortini: «[…] nel periodo che va dal ’63 al ’73 si erano
determinate nel nostro paese le condizioni perché una gran parte degli italiani
politicamente attivi uscisse dai termini politici stabiliti dalle
organizzazioni sindacali e politiche della sinistra storica, dominanti già nel
ventennio [dal dopoguerra agli anni 60 (ndA)]. La classe
politica dominante, quindi anche buona parte della sinistra storica, ha
combattuto quella realtà con tutti i mezzi, legali ed illegali; dal terrorismo
di stato allo sfruttamento di quello di altra origine, dalla provocazione ai
normali metodi politici»[1]. La violenza di quella repressione e di quel
rifiuto furono tali da bloccare, nel verso di una più profonda maturazione,
quella generale transvalutazione dei valori e, soprattutto, furono tali da
impedire che all’interno dei nuovi movimenti di emancipazione il nuovo valore dell’autorealizzazione
potesse dialogare e mediarsi fecondamente con l’antico valore dell’eguaglianza
e della socialità: che il nuovo cioè dialogasse con l’antico, alla ricerca di
unaAufhebung, di un superamento, del comunismo otto-novecentesco mediato
dall’irrinunciabilità dell’individuazione.
Così,
di fronte al terrorismo armato di Stato e dei servizi da un lato e al
terrorismo politico-culturale della Sinistra storica dall’altro, il movimento
del 68-69 perse rapidamente la bussola più feconda ed originale del suo cammino
inaugurale. Solo pochi, pochissimi, continuarono su quel percorso, aspro e
difficile, di mediazione. Mentre la maggioranza, soprattutto dei movimenti
studenteschi, fu ben presto riconsegnata alla sue debolezze, ai suoi estremismi
infantili, al suo facile riproporre quell’antico, che pure si voleva aborrire e
combattere. Nacquero così i gruppi della Nuova Sinistra, che, malgrado la
trasformazione generale del vivere e del sentire di quegli anni, malgrado le
esperienze di vita comunitaria e l’emancipazione sessuale, cedettero da subito
a forme d’organizzazione che, a parole d’avanguardia, ricalcavano invece
quell’assenza di partecipazione individualizzata e quel prevalere del
collettivo sul singolo, che se avevano costituito il punto di forza dei partiti
e dei sindacati istituiti sulla rivendicazione egualitaria dei diritti di
penuria, ne avevano costituito nello stesso tempo il limite più esiziale,
quanto a prassi emancipativa.
E
non a caso perciò leaderismo, obbligo di uno scegliere gruppale e compatto,
timore del differenziarsi, militarismo organizzativo hanno caratterizzato la
storia dei movimenti di origine studentesca di quegli anni, facendosi cause di
fondo del loro più o meno rapido involgersi e deperire. Ma soprattutto
principio costitutivo dei gruppi della Nuova Sinistra fu, come altro volto
della necessità di portare la verità rivoluzionaria ai ceti popolari,
l’abbandono, con la fuoriuscita dallo specifico universitario, di ogni
ricercare, sul piano dell’originalità teorica come della sperimentazione
concreta, di quella possibile mediazione tra valori di cui si diceva sopra. La
rinuncia cioè di ogni elaborazione della propria identità e pratica specifica
di vita – di operatori e trasmettitori culturali, o dirigenti delle
professioni, in formazione – e l’obbligo di una radicale diversione dalla
formazione del Sé alla formazione dell’Altro da
Sé.
2. La conseguenza è stata che il prezzo
pagato del dilatarsi positivo del valore dell'autodeterminazione a pressoché
l’intero corpo sociale, a partire dal biennio 68-69, fu poi, in realtà,
l’incapacità di promuovere e agire una mediazione significativa tra le culture
antagonistiche del ‘900, con l’effetto di generare un nesso, all’inizio
fecondo, ma poi in effetti solo rigido e dogmatico di contrapposizione. Così
carattere costitutivo della nuova cultura dell’emancipazione non poteva che
essere il rifiuto di tutte le categorie teoriche fondamentali che avevano
configurato il marxismo novecentesco, quali quelle in primis di dialettica e di
totalità, di storicismo e di materialismo storico, di struttura e
sovrastruttura, di teoria del valore-lavoro e di feticismo.
Non
solo dunque, come pure era opportuno e inevitabile, con la cultura
dell’umanismo e del continuismo storicistico che aveva costituito l’anima
perdente del togliattismo, con la sua incapacità strutturale di comprendere i
meccanismi del capitalismo moderno e di proporre un’egemonia politico-culturale
adeguata alla contemporaneità. Ma anche, e questo va fortemente sottolineato,
quanto dello stesso pensiero di Marx e della sua teoria del Capitale rimandasse
alla tradizione e alla sistematicità del pensiero dialettico. Giacché
l’attualità di Marx poteva riaffermarsi, sembrò all’opinione dei molti, solo
tagliando i ponti con quella dialettica dell’idealismo tedesco, di Hegel in
primo luogo, nella cui cornice il comunismo storico l’aveva pensato e
legittimato.
Non
che in questa rimozione della dialettica non ci fossero ragioni da vendere.
Basti pensare a quella scolastica della contraddizione con cui
il marxismo sovietico aveva composto il canone da diffondere nel comunismo
internazionale, secondo la semplificazione iconografica di un materialismo che
s’intensificherebbe nella continuità lineare di Hegel, Feuerbach, Marx. Logoro
e vieto marxismo(-leninismo) della contraddizione, in cui, va ricordato, non a
caso, una parte degli stessi movimenti di ribellione continuò a riconoscersi,
per dogmatismo e semplicismo teorico.
Ma
sta il fatto che per i più, nell’urgenza anche di quei giorni fatti di riunioni,
assemblee, cortei, militanza politica e sociale, non era più possibile
confrontarsi con la difficoltà e la complessità della tradizione tedesca. Se si
doveva continuare ad usare Marx, questo doveva essere condito con un’altra
salsa. E a questo valse l’interpretazione di Louis Althusser, che spostava la
base del marxismo dalla storicismo hegeliano allo strutturalismo: ossia, con un
ribaltamento radicale, dalla scienza della storia alla scienza del linguaggio.
Così buona parte dell’intellettualità si fece althusseriana e poi, attraverso
quel varco, esposta ed aperta a tutta la cultura francese del desiderio, della
differenza e dei rizomi, della microfisica del potere.
Certo
non è da sottovalutare la presenza dei temi della Scuola di Francoforte, quanto
a persistenza della tradizione critica tedesca: anche se con riferimenti molto
più diffusi a Marcuse e a Fromm che non ad Adorno e Benjamin. Ma l’influenza
ideale determinante fu della cultura francese: Althusser, Lacan, Deleuze,
Foucault. Attraverso i quali ci si poteva finalmente affrancare dal confronto
con la dialettica ed impadronirsi di strumenti teorici assai meno, almeno a
parere di chi scrive, controllati e rigorosi.
Per
dire insomma che il volgersi dalla Germania alla Francia, come
luoghi di diverso riferimento culturale e di una costellazione alternativa di
valori, ha costituito il passaggio determinante nell’ispirazione di fondo dei
nuovi movimenti. Forse anche per quanto di trasgressivo, innovativo e
rivoluzionario, un certo immaginario ha da sempre legato alla Francia, quale
scena originaria, con la Rivoluzione francese, della rivoluzione per
antonomasia della modernità. Ma, per quello che qui interessa dire,
l’essenziale era abbandonare la dialettica, ossia il contenitore teorico del
comunismo e del marxismo dell’800 e della prima metà del 900, e riferirsi a
nuove contenitori ideali delle istanze di emancipazione e trasformazione
sociale. E la cultura francese s’apprestava benissimo alla bisogna, per la
perseveranza antigermanica della sua tradizione, per la rifondazione del
marxismo, operata da Althusser, in una scienza nuova come lo strutturalismo
linguistico, per l’abisso introdotto da Jacques Lacan tra bisogno e desiderio e
la lettura metafisica e antimaterialistica dell’opera di Freud che ne conseguiva,
per la moltiplicazione rizomatica del desiderio teorizzata da Deleuze e
Guattari, per la rottura della categoria di totalità messa in atto da Foucault
e la sua predilezione non «per la continuità della Storia» quanto invece per
«la dispersione degli eventi»[2] .
Del
resto la dialettica, nella tradizione filosofica moderna, di matrice
fichtiano-hegeliana, è sempre stata pensiero della differenza e
dell’opposizione in quanto coniugate e articolate in una struttura di
permanenza e in una cornice d’identità. Vale a dire che la dialettica moderna
ha sempre pensato l’opposto come forma di una differenza che si
coniugasse con la sintesi di un identico. Ed è proprio il travaglio
di pensare questa connessione tra identità e differenza che,
con la sola eccezione di Sartre, la cultura francese contemporanea per
definizione non ha tollerato: muovendo in particolare, tra le altre fonti
possibili, dal vitalismo antipositivistico di Bergson e dalla sua esaltazione
della vita come élan vital, produttrice inesauribile ed eccedente
di differenze.
Sta
il fatto che la cultura dei movimenti, nella sua maggioranza, e per quanto sia
difficile ridurre ad alcuni filosofemi di base approcci teorico-pratici anche
molto eterogenei, si sviluppò, di fondo, sotto l’egemonia del pensiero
antidialettico francese. Soprattutto quando, almeno in Italia, il movimento del
’77, con il passaggio dall’«operaio-massa» all’«operaio metropolitano» accentuò
in modo estremo il valore dell’immediato contro il valore del mediato, ovvero
l’affermazione istantanea di un diritto alla vita e alla felicità che non
mediasse il principio del piacere con il principio di realtà, il godimento con
il lavoro, la propria visione delle cose con la cultura e la tradizione: in una
tale estremizzazione dell’immediatezza, del desiderio e della supposta
individuazione d’ognuno, da non potersi poi non rovesciare, nel volgere di poco
tempo, in un’esperienza di massa di disperazione e di vuoto, colmata da molti
con l’artificialità mortale delle droghe, quando non con l’arruolamento, ma ciò
valse per più pochi, nel militarismo sciagurato, violento e miope, aperto alle
manipolazioni dei servizi segreti nazionali e internazionali, della lotta
armata .
Per culminare infine sul piano più propriamente teorico e filosofico, tale
rifiuto generalizzato della dialettica quale metodo e sistema teorico legato al
vecchio comunismo, con l’operaismo italiano: quando, in particolare con Tronti
e Cacciari, sia pure con percorsi diversi, si traghettava il popolo dei movimenti
nelle braccia di pensatori come C. Schmidt, Nietzsche e M.Heidegger, che il
vecchio Lukács della Distruzione della ragione, con il suo marxismo
certamente schematico, aveva comunque collocato tra i pensatori della reazione
e dell’irrazionale. Dove quel che valeva, anche qui, era la spregiudicatezza di
rompere, in modo profondo e irreparabile con la tradizione della sinistra
tradizionale, facendo riferimento a quanto – ritornando a guardare ora di nuovo
alla cultura tedesca – era comunque pensiero nato e concepito fuori o meglio contro la
dialettica . Quasi con un gioco delle tre carte, per cui il pensiero di destra,
con teorici come Heidegger e Schmidt in odore di nazismo, diveniva ora il
pensiero originale e propulsivo della nuova sinistra, con quel tanto di
maledetto e di sacrale che a quei pensatori, come la triade citata, era
connaturato e che non guastava appunto, trasferito ora, nelle gesta e nei
pensieri dei nuovi sacerdoti cui competeva l’orgoglioso compito di pensare la
rivoluzione, non più attraverso la critica dialettica del Capitale,
ma attraverso le categorie del Nulla e della Differenza
Ontologica, della Volontà di Potenza, dello Stato di
Eccezione, della NudaVita, e così via.
3.
Solo pochi, anzi a dire il vero, solo pochissimi hanno cercato, come si diceva,
di percorrere una mediazione, presaga di futuro e di originalità, tra le due
culture di cui abbiamo discorso qui fin dall’inizio: tra la vecchia
antropologia della penuria e i diritti all’eguaglianza che ne derivavano e la
nuova antropologia del riconoscimento, con i diritti all’autorealizzazione in
essa impliciti. Valga per tutti il nome, ancora, di Franco Fortini, che qui
viene citato non tanto per la ricchezza delle soluzioni proposte, certamente
presenti ma in modo assai spesso gracile e problematico nella sua opera, quanto
per il forte valore simbolico della sua figura intellettuale, costruita
sull’incrocio tra un marxismo critico da un lato, alimentato dalla
partecipazione ai «Quaderni rossi» di R. Panieri e dalla frequentazione dei
francofortesi, e dall’altro una filosofia, non dell’esistenzialismo, ma dell’esistenziale.
Quale cura, dignità e valorizzazione teorica data a tutto quel mondo emozionale
ed affettivo dell’individuo umano, corporeo e mortale, che non è riducibile
alle trame egualitarie della ragione illuministica ed emancipativa ma che
costruisce invece proprio il fondo di quanto rende quel singolo unico e
irripetibile, per questo verso né eguagliabile né omologabile agli altri esseri
umani.
Né,
a proposito di una fecondazione reciproca tra marxismo dell’eguaglianza e
filosofia dell’esistenza, si sono citati a caso i pensatori della Scuola di
Francoforte di prima generazione come Adorno e Marcuse, perché nella loro
opera, quei pochi che approfondivano faticosamente il percorso della
mediazione, risalivano, attraverso la categoria dell’antiautoritarismo, a fonti
lontane della cultura europea. Per le quali si rimetteva in gioco quel valore
dell’autenticità e dell’irripetibilità del proprio sé più personale che, in
terra francese era stato coltivato ad es. da Rousseau, e che in Germania,
radicato nel romanticismo tedesco di Schiller, di Herder e di Schleiermacher,
aveva fecondato l’esistenzialismo di Kierkegaard, l’anarchismo di Stirner e la
visione dell’oltre-uomo di Nietzsche. Pensatori per i quali il valore supremo
dell’umano non consiste nell’universalità della ragione, nell’autonomia di
coscienza e di pensiero, quale principio dell’eguaglianza di tutti i cittadini
e di tutti i membri del genere umano, bensì, com’è noto, – accanto od oltre a
tale orizzonte democratico-illuminista della non-differenza di ognuno quanto a
diritti di cittadinanza – nel valore dell’autenticità come diritto
di ciascuno di realizzare un proprio percorso di vita, non omologabile ed
eguagliabile a quello degli altri.
Ma
con la peculiarità, da parte dei francofortesi, che tale valore
dell’individuarsi veniva sottratto alla curvatura elitaria e aristocratica
della sua genesi romantico-esistenzial-nietzschiana, per essere proposto, per
la prima volta, come valore generalizzabile ed estensibile a tutti, in ogni
classe, in ogni luogo di lavoro, in ogni istituzione della vita sociale,
educativa e affettivo-relazionale. Veniva cioè sottratto all’estremismo
anticomunitario di Kierkegaard e Nietzsche e avanzato in una proposta di
utopica mediazione con l’uguaglianza del socialismo illuminista. Secondo il
lavoro migliore che per questo verso era stato compiuto dalla Scuola di
Francoforte con la sua fecondazione di psicanalisi e marxismo e la sua denuncia
su quanto l’individuazione proposta dal liberalismo classico non solo fosse
impraticabile per le classi subalterne ma pagata, anche nel suo realizzarsi tra
le classi dominanti, a prezzo di un’umanità astratta dalla relazione,
e perciò intrinsecamente autoritaria, prima che con gli altri, con se stessa,
perché scissa e repressa. Per cui appunto si trattava d’inaugurare niente meno
che una idea e una pratica di libertà insieme post-liberale e post-comunista,
alla ricerca di nuove modalità d’intreccio e di reciproca cura tra sviluppo
delle relazioni sociali e intersoggettive e di quella psichiche e
intrasoggettive.
Ma
anche qui senza trattenerci dal considerare che finanche tale ricerca, di
mediare eguaglianza ed autenticità, rimaneva, presso gli stessi fancofortesi,
inevasa e inconclusa. A motivo della fragilità della loro interpretazione di
Marx, pesantemente limitata da Lukács e dalla dilatazione senza freni della
tematica del feticismo, oltre che da un corto circuito troppo rapido tra la
repressione delle istanze pulsionali della psicoanalisi e gli istituti
autoritari della socializzazione.
4.
Tutto ciò viene detto e riflettuto, ovviamente, con il senno di poi e con un
distacco ormai di molti anni da quegli eventi, che consente di estrarne, per
una sorta di memoria del futuro, quanto di meglio e di più avanzato
quel movimento epocale seppe produrre, o almeno iniziare a delineare, lasciando
cadere di esso, e non fu poco, quanto ricadeva in forme tradizionali e arcaiche
del pensare e dell’agire.
Perché è banale ricordare come nel rivolgimento studentesco-operaio degli anni
’60 e ’70 ci siano state molte più cose, confuse e contraddittorie, violente e
regressive – va detto assai più nel versante studentesco che non in quello
operaio – del filone della nuova antropologia che stiamo qui ricomponendo e
sintetizzando. Come per altro verso va ovviamente ricordato quanto assai varie
e numerose fossero già state nella cultura del ‘900 le sollecitudini verso
un’antropologia dell’individuazione e della differenza. Basti pensare alle
nuove e multiverse configurazioni dell’umano proposte dalle avanguardie
artistiche e letterarie, che attraversano l’intero secolo, sino a giungere alle
provocazioni dei situazionisti, durante gli anni ’60, e alle analisi del
moderno come la società dello spettacolo di Guy Debord.
Solo
che volendo fissare un punto spirituale, attinente alla storia delle idee e
delle forme della coscienza diffusa, che sottragga la ribellione del ‘68-‘69 e
degli anni che ne seguirono alla riduzione, quanto mai miope e conservatrice,
di un agire solo violento e propedeutico al terrorismo, e che invece ne
compendi l’originalità rispetto alla storia del passato e di quanto quel periodo
possa ancora dire al futuro, non si può che rintracciarlo, a mio avviso, nella
inaugurazione, accanto ed oltre la pratica democratica e comunista
dell’eguaglianza, nella cultura e nella pratica, non elitaria ma di massa,
della differenza e dell’autenticità: dove appunto autenticità è
valore distinto e ulteriore rispetto a quello diautonomia. Giacché,
mentre questa rimanda a un farsi soggetto secondo l’orizzonte critico di un
Illuminismo che svincola l’individuo da ogni potere esteriore, ma consegnandolo
ad universali di ragione che ne mortificano sensibilità ed emozioni, quella
implica un tale incremento d’individuazione da significare l’esplicitazione,
col grado minimo di repressione, delle potenzialità più proprie e individuali.
Né
si capirebbe, ad es., granché della genesi del pensiero della differenza di
genere, malgrado la favola autopoietica che spesso il femminismo s’è voluto
raccontare con la celebrazione di non si sa quale scarto ontologico tra donna e
uomo, e dunque di un inizio ex nihilo, se non la si riconducesse a
tale fondazione culturale e politica, prefemminista, che, a muovere dalle
Università, si diffuse con una rapidità certo imprevista, attraverso la
gioventù, prima studentesca, poi operaia – in Italia bisognerebbe specificare
gioventù operaia d’immigrazione ed estrazione meridionale – nel gridare e nel
pretendere il diritto generalizzato di tutti a percorrere una propria vicenda
personale di vita, al fine di una coincidenza, non autoritaria, con il proprio
più ineguagliabile sé.
5. Il
seguito della storia ha la configurazione tipica del paradosso: tipica, ma non
meno drammatica e stupefacente per quanto riguarda la qualità del nostro
presente e del nostro vivere. La conclusione dei movimenti di rivolta degli
anni ’60 e ’70 infatti è stata non solo quella di una sconfitta definitiva,
almeno per un lungo periodo storico, di quanto concernesse l’attesa di un nuovo
ordine economico e sociale. Ma è stata anche quella di una realizzazione e
diffusione di massa, solo di segno rovesciato, proprio del
valore, che in forme spesso, s’è detto, minoritarie e assai incerte, aveva
comunque toccato e in qualche modo unificato, pur se in gradi diversi, la
storia di quei movimenti e che consisteva, appunto, nella fuoriuscita,
materiale e culturale, da un’antropologia della penuria e nell’introdursi verso
un’antropologia nuova del riconoscimento e dell’individuazione. E’ cioè la
storia, per dirla con un vecchio termine gramsciano, di una «rivoluzione
passiva», ossia di una rivoluzione-restaurazione, che vede assumere
e realizzare da parte delle classi dominanti – dunque con un paradossale
rovesciamento di senso e di destinazione – l’esigenza di cambiamento di
movimenti giunti all’esaurimento della loro iniziativa storica.
Giacché
quello che è avvenuto nell’ultimo trentennio sembra proprio che possa definirsi
come l’utilizzazione dei valori della flessibilità e della progettualità
individuale, della personalizzazione del proprio stile di vita, allo scopo,
invece, della perpetuazione del sistema economico dominante e della trama di
asimmetrie sociali e mortificazione della vita individuale che esso comporta
con sé. L’ultimo trentennio è stato il tempo in cui il rivendicare la
scoperta-di-sé, s’è fatto, da principio antisistema, fattore di facilitazione e
di consolidamento dell’organizzazione sociale data. Per cui a ripercorrere
sinteticamente l’intera nostra storia, dalla fine degli anni ’60 ad oggi, si fa
l’esperienza di quel singolare capovolgimento nell’opposto che qualche tempo fa
Axel Honneth ha avuto modo di definire come «autorealizzazione organizzata»[3],
concependolo appunto come il tradursi dei valori della scoperta-di-sé e
dell’autenticità personale in fattori, invece, di trasformazione dinamica e di
sostegno dell’assetto sociale dominante.
Il
fatto è che dagli anni ’80 ai giorni nostri, s’è realizzata un’altra
rivoluzione, questa volta non nell’idealità e nelle prefigurazioni ideali dei
movimenti di protesta, bensì nella realtà concreta delle innovazioni
tecnologiche e dello sviluppo produttivo e che si è ben sintetizzata
nell’espressione: dal fordismo al postfordismo. Una rivoluzione
economica che molti ci dicono essere stata di natura epocale, giacché avrebbe
significato la fine della modernità novecentesca fondata sull’industrialismo,
sulle grandi masse operaie di fabbrica e sulla lotta di classe. Una rivoluzione
scandita dal dissolversi del comunismo e dall’esaurirsi delle ideologie, dal
passaggio dal lavoro manuale e di massa al lavoro mentale e alla tecnologia
informatica, dalla fine della grande fabbrica e dalla dislocazione nello
spazio, fino a quello planetario della globalizzazione, di unità produttive più
leggere e flessibili, integrate attraverso flussi continui d’informazioni.
Insomma un transito epocale dal materiale all’immateriale,
simboleggiato dal computer e dal fatto che la conoscenza
sarebbe divenuta la principale forza produttiva di creazione della ricchezza.
Tanto da potersi definire tale genere di società postindustriale, che avrebbe
conclusa quella moderna per dar vita a una nuova formazione
storico-sociale, la società appunto del postmoderno.
Il postmoderno designerebbe così il tempo storico in cui l’Essere, per
esprimerci con la filosofia, sarebbe divenuto essenzialmente linguaggio,
ossia il tempo in cui l’intera realtà, sociale e individuale, si sarebbe fatta
fondamentalmente segno e comunicazione[4]. E che appunto avrebbe concluso la
materialità del moderno, giacché la rete sempre più ampia di simboli e
d’informazioni, che attraversa ormai la nostra vita, farebbe della realtà
extralinguistica alcunché sempre più residuale e marginale, e del
nostro esperire, legando segno linguistico a segno linguistico, un processo
infinito d’interpretazione e d’ermeneutica. Come vuole per altro un modo di
conoscere, appunto, postideologico, che si sarebbe finalmente
liberato da ideologie totalizzanti e sistemiche, da pensieri forti, per farsi pensiero debole,
capace di cogliere, nell’assenza in sé di volontà di potenza e di assolutezza,
i volti sempre relativi e vari del vivere umano.
Per
questo è il postofordismo la chiave di volta del postmoderno. Giacché la
rivoluzione informatica, si afferma, con la messa in campo di un lavoro che
opera essenzialmente su informazioni, sopprime la distinzione antichissima,
nella storia del genere umano, tra lavorare e comunicare,
tra pratiche fisiche del corpo e vita intellettiva della mente. Ed è proprio
con tale trascorrere, nei processi di lavoro, dal corpo alla mente – e con tale
superamento della distinzione tradizionale tra teoria eprassi –
che si concluderebbe la modernità e s’inaugurerebbe la postmodernità. Visto che
si conclude un’antropologia della penuria e della fatica legata alla
manipolazione del mondo materiale e s’inaugura un’antropologia creativa basata
sull’uso dell’intelligenza e sull’elaborazione dei dati virtuali: sulla messa
in campo cioè da parte d’ognuno delle qualità più proprie della sua mente e
meno riducibili, diversamente da quanto accadeva nell’industrialismo moderno
con l’uso del corpo, a costrizioni meccaniche e omologanti.
6.
Eppure proprio tale dilatazione metafisica del
linguaggio, col suo farsi totalità e col suo miracolistico
annullamento d’ogni distinzione tra agire materiale-strumentale e agire
linguistico-comunicativo che ne deriva, avrebbe dovuto generare sospetti negli
spiriti critici e impedire che si celebrasse il postfordismo e il venir meno del
lavoro a catena come l’inveramento dei valori della rivoluzione culturale del
’68. Sia nel verso di un’appropriazione personalizzata delle funzioni di
lavoro, com’è avvenuto con la retorica del toyotismo e con il preteso trionfo,
nell’organizzazione produttiva, del criterio liberatorio della qualità su
quello della quantità, sia nel verso dei sognatori dellamoltitudine,
i quali hanno visto con la rivoluzione informatica prendere finalmente corpo in
una supposta intellettualità diffusa, di elevatissima competenza linguistica e
di irriducibile passione rivoluzionaria, l’«intelletto generale», il «general
intellect» di cui Marx ebbe a parlare in una delle sue pagine meno meditate
quanto a esaltazione della tecnologia e del produttivismo capitalistico.
Ma va detto che, almeno per quanto concerne quest’ultimo versante di
esaltazione della tecnicacome immediata produzione di una
soggettività rivoluzionaria, la tradizione dell’operaismo italiano appare aver
speso assai più tempo nell’inventarsi slogans e neologismi di
rottura, per sedurre i giovani e pour épater le bourgeois, che non
costruire seriamente processi di trasformazione sociale.
Invece a chi scrive sembra che per tutti coloro che hanno esaltato il
postmoderno informatico e segnico-linguistico, quanto a liberazione del lavoro
e della soggettività, si sia ripetuto, invero, l’effetto di deformazione ottica
provocato dalla sovrapposizione di ciò che è tecnica a ciò che
è tecnologia, che da sempre impedisce a uno sguardo, che pur
si vorrebbe critico, di lacerare il velo di un accecante positivismo e di
un’ottundente reificazione. L’indistinzione di «tecnologia» e «tecnica», dei
loro rispettivi ambiti semantici che rimandano a prospettive profondamente
diverse, la prima legata alla scienza dello Stato e dell’amministrazione, la
seconda di natura più propriamente pratico-economica, costituisce del resto, io
credo, l’errore capitale di fraintendimento dell’essenza della modernità. Nasce
fondamentalmente con Max Weber, attraverso il rilievo dato alla sola tecnica (Technik)
e la rimozione nella sua opera di ciò che era Technologie, si
sviluppa nella cultura tedesca attraverso l’opposizione diKultur/Technik, Kultur/Zivilitation, Kultur/Mechanisierung,
e sfocia in una lettura del moderno ispirata dalla riproposizione di princípi
arcaici, com’è accaduto con il celeberrimo discorso heideggeriano sulla
«tecnica».
Per
necessità di spazio in queste pagine introduttive basti dire, assai
schematicamente, che la tecnologia (Technologie) nasce come disciplina
autonoma nelle università tedesche del XVIII° sec., particolarmente a
Göttingen, come disciplina specifica della Polizey (o
amministrazione dello Stato)[5], e il suo oggetto di studio è una sfera
specifica di dominio e di controllo (Herrschaft) politico-economico: la
conoscenza e la signoria che quell’attore sociale, che è il burocrate
cameralista, il quale non ha il corrispondente nelle istituzioni britanniche e
americane, deve avere dei diversi rami di attività produttive di allora perché
venga prodotta ricchezza nello Stato e il principe, o sovrano, possa garantire
in modo illuminato e paternalistico ai suoi sudditi «ordine e benessere» (Ordnung
und Wohlfahrt)[6]. La Technologie muove dalla prospettiva
oggettivistica delle scienze naturali, perché oltre a studiare le proprietà
naturali delle materie prime e dei mezzi di lavoro, identifica
naturalisticamente, senza attribuire un ruolo e una nobiltà specifica al lavoro
dell’uomo, le procedure della produzione, definendo appunto le relazioni più
utili che intercorrono tra gli elementi del proprio dominio (i sottoposti al
lavoro, l’ambiente naturale e gli strumenti di lavoro). Essa pertanto consiste
nell’applicazione al campo della produzione del metodo delle scienze esatte e
nella codificazione della forma delle procedure che vengono comandate e imposte
dai burocrati, che svolgono appunto funzioni di Polizey, ai
lavoratori nelle diverse branche delle manifatture, dell’artigianato, delle
miniere, dell’agricoltura. La Technologie dunque nella
Germania del XVIII° sec. – con una risignificazione radicale dell’antico
termine greco riferito all’arte teorica del discorso (del logos) –
è una disciplina che ha origine in un ambito amministrativo-politico ed è
rivolta a formare i cameralisti, ossia i funzionari burocrati
dell’amministrazione statale, che devono garantire il dominio assolutistico del
principe sui suoi sudditi.
Ben
diverso è il significato di «tecnica» (Technik) nell’opera di Max Weber.
Essa, nella sua accezione generale, designa per il sociologo tedesco, non una
procedura o una regola d’azione imposta socialmente (come nel caso della Technologie),
ma l’insieme dei mezzi utili al conseguimento di un fine da parte
di un qualsiasi attore sociale che calcola nel senso della proporzione più
efficace tra mezzi scarsi e scopo prescelto. La tecnica per Weber acquista
senso perciò nell’ambito della razionalizzazione moderna quando il calcolo tra
mezzi adeguati e fini subentra a considerazioni e a credenze di altra natura,
religiose, comunitarie e tradizionali. «La ‘tecnica’ di un agire designa il
complesso dei mezzi da esso impiegati, in opposizione al senso o al fine dal
quale quell’agire è in ultima istanza orientato; la tecnica ‘razionale’ implica
un impiego di mezzi orientato consapevolmente o sistematicamente in base
all’esperienza e alla riflessione. […] Una tecnica in questo senso sussiste per
qualsiasi tipo d’agire – tecnica della preghiera, tecnica dell’ascesi […]
tecnica dell’amministrazione, tecnica educativa, tecnica del dominio politico o
ierocratico […] Criterio di razionalità è dunque per la tecnica, accanto ad
altri, anche il celebre principio del ‘minimo sforzo’ – e cioè del risultato
ottimo in rapporto ai mezzi da impiegare»[7]. Nel suo senso più specifico la
tecnica definisce per Weber l’agire in modo razionale rispetto allo scopo più
propriamente moderno, costituito dall’azione economica, nella quale al rapporto
tra mezzi adeguati e scopi si aggiunge nel calcolo dell’attore sociale la
considerazione dei «costi». «Considerate dal punto di vista dell’‘agire
economico’, le questioni ‘tecniche’ designano la necessità di prendere in esame
i ‘costi’»[8]. E in questo senso – del calcolo di congruenza tra mezzi e scopo
definito quantitativamente – il calcolo economico moderno è il fondamento di
senso di ciò che è tecnica. «Senza dubbio il centro di gravità dello sviluppo
tecnico risiede da sempre, e principalmente oggi, nel suo condizionamento
economico; senza il calcolo razionale che sta a base dell’economia e cioè senza
condizioni storico-economiche molto concrete, non sarebbe sorta neppure la
tecnica razionale»[9].
Del
resto dopo Nietzsche e la sua decostruzione di ogni possibile verità e senso
oggettivo della storia, Weber ha posto a base di tutta la sua ricerca il
cosiddetto individualismo metodologico per cui l’agire sociale sarebbe sempre
risolubile nelle operazioni di conferimento di senso e nell’opzione di valore
dei singoli, nonché nelle aspettative intersoggettive che tali orientamenti di
senso determinano. E coerentemente con tale risolversi del mondo nelle
prospettive e nelle aspettative dei singoli, anche l’azione razionalizzatrice
della tecnica viene vista come un lato del processo più generale di
«razionalizzazione» e di «disincanto» che investe i valori dell’Occidente
nell’instaurarsi della modernità e che conduce all’introduzione del calcolo
nell’azione. Apparendo così sufficientemente chiaro, io credo, quanto e come
tale interpretazione soggettivistica abbia dislocato radicalmente
il significato di ciò che è «tecnica», quale insieme di mezzi a disposizione
della scelta di un attore sociale, dall’orizzonte della tecnologia, quale
insieme invece di norme e di procedure che socialmente e autoritariamente
vengono imposte alle funzioni pratiche del lavoro.
La pubblicazione degli Experte marxiani (che nella loro totalità vengono
pubblicati nella IV sezione della nuova MEGA) e in particolre
quella dei technologisch-historischen Exzerpten[10],
testimonia in quale misura Marx, a partire dagli anni ’50, abbia avuto a che
fare con le tematiche dellaTechnologie cameralista, studiando in
particolare i Beyträge zur Geschichte der Erfindungen di
Johann Beckmann e la Geschichte der Technologie del suo
allievo, J.H.M. Poppe[11]. Attraverso questi autori Marx ha conquistato una
prospettiva sulla rivoluzione industriale e sul sistema di fabbrica
profondamente diversa dal punto di vista dell’economia politica classica e di
studiosi del factory system come A. Ure e C. Babbage. Perché,
laddove Technik rimanda alla tecnica come insieme di mezzi e
di strumenti di produzione utilizzabili per un determinato scopo, cioè ad una
ragione strumentale che è indipendente dal contesto sociale e dagli attori che
ne fanno uso e che comunque esalta, nel suo essere strumento a disposizione, la
potenza creativa dell’essere umano, la Technologie è invece
disciplina di natura sociale che studia l’organizzazione della produzione in
quanto subordinata al comando del burocrate cameralista e al servizio
dell’apparato statale. Ed è dunque disciplina che segna l’incontro tra scienza
e produzione nell’ottica di una prospettiva di dominio e di comando, che ha la
funzione di ridurre scientificamente la presenza del fattore umano a cosa tra
cose[12].
Ma
è appunto proprio un’acritica identificazione di «tecnologia» e di
«tecnica»[13] che ha costantemente operato per l’intero Novecento, persistendo
ancora oggi, ad attribuire una cornice umanistica e antropocentrica di senso
alle innovazioni produttive, quasi fossero sempre mezzi, per quanto dilatati e
complessi, a disposizione di un soggetto. Per cui anche la tecnica informatica
è stata celebrata nel verso, come si diceva, di una valorizzazione delle
competenze intellettuali e culturali dell’essere umano, del fatto cioè che finalmente
sarebbe, non più la materialità del corpo, bensí l’intelligenza, la conoscenza,
la cultura, a costituire le fonti della nuova ricchezza e della nuova
organizzazione del lavoro. Fino a teorizzare che sarebbe la stessa facoltà di
linguaggio – nella sua dimensione transindividuale di facoltà
che appartiene alle specie e che attiene dunque a un’intelligenza comune – ad
essere messa al lavoro dal capitale: nella subalternità, certo dell’oggi, ma
anche nella pregnanza d’emancipazione che quel porre in comune di un lavoro,
ormai essenzialmente linguistico e comunicativo, garantirebbe e prefigurebbe.
7. A
mio avviso, invece, l’informazione in un processo di lavoro capitalisticamente
organizzato non è mai solo descrittiva o dichiarativa ma è
sempre anche prescrittiva. Implica cioè un codice di sensopredeterminato
che obbliga l’operatore al computer a muoversi secondo un contesto di
possibilità già definite e fissate. Non a caso, anche dal punto di vista
topografico e spaziale, la caratteristica più evidente delle nuove tecnologie è
quella di collocare una serie enorme d’informazioni al di fuori del cervello
umano, che si sedimentano in una sorta di gigantesca mente artificiale accanto a
quella umana dell’operatore. Ora, se è indubbio che tale mente artificiale
possa valere come ampliamento di memoria, a disposizione di un soggetto
elaboratore e creativo, nel caso di attività private, di scrittura e di
composizione grafica, nel caso invece di processi lavorativi finalizzati alla
produzione-circolazione di merci essa appare funzionare quale mente
esterna che organizza e accumula le informazioni secondo un codice che
implica percorsi o schede di lavoro predefinite, ossia modalità flessibili ma
predeterminate d’intervento e di risposta da parte della mente del lavoratore
non manuale. Certo in tal modo non è più il corpo e la
segmentazione tayloristica dei suoi movimenti ad essere in questione bensì l’anima,
ossia la capacità di scelta del nuovo lavoratore mentale, la sua intelligenza
sia come comprensione globale-intuitiva che come attitudine logico-discorsiva.
Ma ciò ci dice che proprio quanto, nella modernità,
veniva considerato per eccellenza come l’ambito di attitudini e qualità più
personali e non omologabili dell’essere umano, ora, nella postmodernità,
è stato invece messo al lavoro, entrando in un campo, sí di fungibilità
interagente, ma intrinsecamente subalterna, con la macchina dell’informazione.
La quale per suo verso, accumulando quantità di dati alfa-numerici sulla base
del linguaggio binario, riproduce il mondo reale secondo la riduzione e la
semplificazione di unaGestalt, di una forma che è prevalentemente
quantitativo-linguistica, e che dunque pretende la cooperazione di una
soggettività istituita più sulla valorizzazione astratto-calcolante del proprio
essere che non sulla messa in gioco di tutte le altre componenti del proprio
sé.
In una condizione non patologica e scissa dell’essere umano – qual è certo non
quella vissuta dalla forza-lavoro messa in opera dal capitale – il senso del
vivere e dell’agire è dato fondamentalmente da una relazione, in cui il
corporeo-emozionale, compresente ma irriducibile al mentale, rappresenta la
fonte mai esauribile dell’attività interpretativa ed elaborativa della mente:
in una costituzione verticale del senso che s’integra con quella orizzontale derivante
dal nesso del medesimo individuo con le altre soggettività. Nel nuovo tipo di
lavoro invece il sistema macchina informatica-forza-lavoro richiede una
separazione radicale, opposta a quella del lavoro taylorista-fordista, della
mente dal corpo: separazione che consegna la mente umana a una semantica
decorporeizzata e anaffettiva. Del resto la sintassi del linguaggio
informatico, costruita sulla logica binaria dell’alternanza tra il sì e il no,
riproduce ed elabora il mondo della vita secondo una forma astratta, perché
priva di contrasti e contraddizioni. L’esclusione cioè del sì dal no, che sta a
base della sintassi informatica, impedisce d’esprimere l’ambivalenza che
strutturalmente connota l’esperienza emotiva e proprio per questo può essere
principio di un mondo informatizzato il cui orizzonte è quello della certezza
analitica, anziché quello dialettico e multiverso dell’esperienza concreta.
L’astrazione del nuovo lavoro mentale è perciò quella di una mente la cui
attenzione e cura, astratta dal senso e dal fondamento della corporeità, è
tutta assorbita da un universo di immagini e simboli alfa-numerici, attraverso
la cui apparente neutralità ed oggettività si dispone il senso e il comando di
un’organizzazione del processo produttivo volto, come sempre, alla
valorizzazione.
L’economia dell’informazione dunque non va letta secondo le dottrine classiche
dell’economia industriale e fordista, a muovere da quella celeberrima di Marx
del lavoro alienato, e ripresa da un celebre libro degli anni ‘70 di H.
Braverman, quale progressiva separazione di esecuzione e ideazione e quale
lavoro perciò sempre più dequalificato perché obbediente a un progetto e a un
comando di altri. Giacché l’invenzione dei nuovi macchinari informatici
richiede proprio l’opposto: la valorizzazione della soggettività, della sua
autonomia, di una sua maggiore qualificazione e ricchezza di conoscenze. Ossia
richiede quella flessibilità e mobilità del lavoratore, quella ricomposizione
delle mansioni che nell’automatismo ininterrotto della fabbrica fordista e nel
disciplinamento oggettivo della forza-lavoro che ne conseguiva era proprio il
nemico costantemente da battere e da escludere. Ma dove appunto ciò che viene
messo in gioco è un soggetto solo apparentemente autonomo e concreto, volontario
e creativo, perché la sua pretesa individualità è invece l’esito di un processo
di omologazione a competenze e forme del sapere già fortemente astratte e
codificate o d’interventi innovativi-riflessivi, la cui creatività è ammessa
solo nella cornice di un ambito di lavoro già fortemente stereotipato.
Nella cornice del postfordismo ha avuto luogo perciò un singolare effetto di
deformazione visiva, consistente nella fallacia rappresentativa di un lavoro
intrinsecamente ed essenzialmente astratto che assume invece le parvenze di un
lavoro invece individualizzato e concreto. Ossia che la natura sostanzialmente
eterodiretta e prefissata del processo di lavoro prenda la forma di un’attività
autorganizzata presuntivamente ricca di variazioni e di libertà.
Il postfordismo svuota dunque di senso concreto la soggettività proprio nel
momento stesso che ne fa supposto principio di senso.
E lo fa dando vita a un nesso dialettico di contenuto e contenitore, di realtà
e superficie, secondo cui lo svuotamento è, proprio nel suo stesso modo di
realizzarsi, occultamento e dissimulazione di sé. Per cui sulla superficie
della scena, quale esito di un effetto-simulacro, rimangono solo due attori: un
nuovo lavoratore, la cui mente è predisposta a interiorizzare il comando
eliminando ogni traccia esterna di costrizione, e una nuova macchina la cui
natura linguistica ne fa per definizione, non più un apparato tecnico
macchinico e costrittivo, bensì un’alterità dialogica e collaborativa.
Si badi, stiamo parlando di astrazione, non come un processo logico di
generalizzazione del concreto, bensì come processo reale e pratico di
svuotamento del concreto – ad opera appunto di una soggettività, costruttrice
di storia e di società, astratta – e nello stesso tempo di sovradeterminazione,
cioè di eccessivo investimento di visibilità, della superficie, per il quale
del concreto rimane solo la pelle, lo strato più superficiale, che copre con la
sua esteriorità quanto accade veramente al suo interno. Ed è proprio su questo,
su un soggetto astratto che opera nella società e nella storia del nostro
presente, che questo libro vuole riflettere: sul modo in cui un’astrazione
possa essere messa al lavoro, produrre paradossalmente realtà attraverso
colonizzazione, occupazione e svuotamento del concreto e contemporaneamente
generare, attraverso sovrinvestimento della superficie, occultamento e
dissimulazione di sé.
L’effetto-simulacro, quale svuotamento del concreto e sua contemporanea
sovradeterminazioneisterica[14], è infatti il nuovo nome e la
nuova funzione che, a mio avviso, un pensiero critico deve dare ai processi di
deformazione e mistificazione ideologica, sostituendola alla vecchia e troppo
abusata categoria del feticismo. Giacché è proprio quanto sintetizza nel modo
più efficace l’esperienza più comune, continua e generalizzata del nostro
vivere: secondo un nesso dialettico per il quale la forma dell’apparire
dissimula, nel suo contrario, il proprio più verace contenuto e per il quale il
superficializzarsi del mondo è la faccia complementare del suo svuotamento e
della sua mancanza di radicamento e profondità.
Così, con la trasfigurazione del valore dell’individuazione nella flessibilità
e nella deregulation del nostro patto sociale di vita, la
durata della nostra giornata lavorativa è incredibilmente aumentata, con un
capovolgimento stupefacente rispetto alla precedente tendenza storica alla
riduzione del tempo di lavoro. Tale invasione da parte del tempo di lavoro del
nostro tempo di vita s’è accompagnata altresì, non a una crescita, quanto a
intensità di emozioni e di affetti, del nostro sé ma a una forma d’esistenza
sostanzialmente monotòna e priva di esperienze emozionali profonde. A meno di
non compensare tale obbligato blocco dell’emotività con identità di fattura
superficiale e istericamente sovradeterminata, quando non con sballi di fine
settimana e assunzione “controllata” di droghe. Così come la moltiplicazione,
pressoché inesauribile, delle informazioni cui abbiamo accesso, attraverso i
vari mass-media (si pensi alla superficialità dei quotidiani e a una TV fatta
sempre più di fiction, talk-show urlati esoap-opera spazzatura)
e l’utilizzo della rete, s’è tradotta in una radicale incapacità di
approfondimento e di autentico sapere, per cui nella pretesa società della
conoscenza e dell’intellettualità diffusa la merce più rara è divenuta il bene
dell’attenzione e della possibilità di riflessione.
Né
a caso i nostri consumi, in concomitanza con la nostra atonia emotiva, pur
quando sono riusciti a mantenere lo stesso livello quantitativo, hanno visto
comunque via via perdere ogni loro pregnanza qualitativa, con una vera e
propria catastrofe del valor d’uso. La mercificazione della vita ha
sottratto infatti, per non fare che qualche esempio, ogni sapore alla frutta
che mangiamo e che matura in celle frigorifere, ha tolto ogni distinzione di
genere tra carne e pesce, entrambi alimentati con i medesimi pastoni chimici,
ha eliminato intensità di gusto a tutta la produzione orto-cerealicola di
matrice transgenica. Come, per altro, la monetizzazione del numero sempre più
ampio di relazioni sociali ha sottratto spazio e tempo di vita alla socialità
interpersonale, spingendo i singoli, nella loro solitudine di massa, a
frequentare sempre di più i centri commerciali che non i centri della vita
urbana e municipale.
Tutto
ciò, per dire insomma che durante l’ultimo trentennio s’è messo in opera un
singolare meccanismo sociale che ha drammaticamente svuotato l’interiorità
della nostra esistenza, dando rilievo, per compenso, solo all’esteriorità del
vivere, dell’esperire e del godere. Si è messa in scena cioè quella sorta di
superficializzazione del mondo, di cui si diceva, che, nell’originalità di
configurazione antropologica che implica, richiede di essere compresa e
spiegata, sottratta alla sua singolare magia e identificata nel suo processo
genetico e casuale.
Ma
sulla natura misteriosa della funzione sociale che agisce così nelle nostre
vite c’è da fare un’ulteriore considerazione, anch’essa di carattere
paradossale. Questa volta, più sul piano delle idee e dei processi culturali
che non su quello della materialità dei nostro corpi di vita. Un paradosso che
nasce dalla domanda del perché per tutto l’ultimo periodo storico – anche qui
un trentennio all’incirca – si sia data e continua a darsi fino ad oggi un
disaccordo, una discrasia così profonda, tra il piano dell’Essere e
quello del Sapersi dell’Essere, tra il piano cioè della realtà
economica e sociale e quello del suo apparire nella visione teorica e
filosofica.
Sul
piano dell’Essere infatti la globalizzazione liberalcapitalistica,
nel suo coincidere con la dissoluzione del comunismo realizzato, ha unificato
il mondo mettendo in campo, pur con una mappatura a macchia di leopardo, un
unico modello di vita economica e sociale. Invece sul piano della filosofia si
sono fatte egemoni le teorie del postmoderno, accomunate nel rifiuto di
categorie comeunità, totalità, sistema, per la
rivendicazione della dignità del frammento e dell’evento, dell’accendersi
costante della differenza, della rottura di ogni linearità causalistica, del
rifiuto di ogni ideologia quale pretesa di ogni concezione unitaria del mondo.
Per dire cioè del paradosso cui abbiamo assistito ed a cui hanno dato vita postfordismo da
un lato e postmoderno dall’altro che, pur appartenendo a un
medesimo tempo storico e sociale, hanno costruito una compresenza radicalmente
oppositiva tra realee simbolico, tra piano cioè dell’economico e
piano del culturale.
Provare
a far luce su questi paradossi è uno degli scopi di questo libro, che vuole
comprendere quale sia il fattore che, immediatamente non evidente né
percepibile, ha operato e continua ad operare nell’ombra per generare tali
effetti, quali quello di un mondo che si superficializza ed occulta se stesso
nella trama deforme della sua superficie e, parimenti, quello di un Uno che
unifica ed omologa su scala amplissima stili ed habitus di
vita, mentre al contrario appare, agli occhi del filosofo, e si dissimula come
il luogo invece dei molti uno e dell’inesauribilità della
differenziazione ermeneutica.
Sono
questioni assai singolari e chi scrive ritiene che appunto solo qualcosa
d’impersonale – qualcosa di astratto e non antropomorfo, non riducibile a
soggetti umani – possa produrre fenomeni sorprendenti e mirabolanti di tale
natura. Ovviamente con una storia di misteri e di fantasmi che vale per i più e
non per i pochi, giacché dello svuotamento del mondo, della
catastrofe qualitativa del consumo e del valor d’uso dei beni, sembra
partecipare e soffrire assai più la comune maggioranza dei mortali che non la
minoranza dei privilegiati, che godono di circuiti sempre più separati e
privilegiati di vita e di quella superborghesia internazionale che, trasversale
agli stati e alle nazioni, si sta costituendo, quanto a comuni stili di consumo
di beni di lusso, come uno dei pilastri portanti della globalizzazione.
Anche
perché la radicalità della crisi economica, che ormai in corso da qualche anno
attraversa in vario grado le nostre vite, sta decretando la conclusione del
postmoderno come filosofia del frammento e della molteplicità liquida,
coll’anteporre sempre più il duro monismo dell’economico e della sua realtà
unificata alla coscienza riflessa delle ideologie della differenza. La crisi
economica cioè sta cancellando il postmoderno, quale visione arbitraria
dell’intellettuale, per affermare sempre più la realtà, invece, del postfordismo,
quale intensificazione di quel soggetto impersonale ed astratto che a noi è
sempre apparso, auctore Marx, costituire il vero
soggetto dominante della modernità, ben oltre la funzione del soggetto politico
e statuale. Realtà del postfordismo contro l’ideologia del
postmoderno, che intensifica e approfondisce l’astratto reale della modernità
fordista, radicalizzandolo nel verso, appunto, storico e sociale di un soggetto
dominante che, per la cogenza della sua natura astratta, si viene facendo sempre
più volatile, alla ricerca di tempi, spazi e modi della sua
affermazione che siano quanto mai sganciati dai limiti irrigiditi e fissi di
strutture di permanenza.
Del
resto la crisi drammatica dell’oggi esplicita assai bene l’intreccio perverso
che non può non darsi nei nostri giorni tra l’accumulazione di una ricchezza
astratta che ormai ha esaurito il percorso espansivo della produzione e del
consumo dei beni durevoli di massa, caratteristico del ‘900, e la necessità di
trovare nuove strade, anche solo finanziario-speculative, alla propria
imprescindibile accumulazione. Ma che oggi l’organizzazione sociale del
capitalismo si venga strutturando, dal lato della produzione, secondo un enorme
bacino di disponibilità e di arrendevolezza della forza-lavoro in rapporto ad
un’iniziativa estremamente mobile e flessibile della ricchezza astratta, così
come, dal lato del consumo, si venga sempre più polarizzando una sfera di
consumi di lusso e di alta qualità di contro a consumi generalizzati e di massa
di bassissima fattura e qualità, non toglie nulla al fatto che siamo nella
continuità storica di una soggettività astratto-quantitativa che rimane fedele
alla sua natura di colonizzare il mondo del concreto per ritrovarvi, ogni
volta, la logica imperativa della sua accumulazione.
8. Ma
qual è dunque il fantasma, oggetto del discorso? Di che si tratta quando
parliamo di cose così strane come di un astratto che svuoterebbe il concreto o
di un mondo che si nasconde nella sua superficie?
Gosthbuster (acchiappafantasmi),
era il titolo di un film americano, che ebbe fortuna anni fa. E appunto questo
libro vuole provarsi a muoversi come un gosthbuster, costruendo una
macchina acchiappafantasmi che possa gettare la rete sull’astratto, afferrarlo
nella sua identità e impedirgli di tornare a volatilizzarsi nella sua
indeterminatezza.
La
macchina in questione, vedremo, sarà costruita attraverso un singolare congegno
teorico che chiameremo il «circolo del presupposto-posto» e che qui possiamo
anticipatamente definire come l’iscrizione in un cerchio di due assi di diversa
congiunzione temporale, rispettivamente sincronica e diacronica. Un alambicco
nell’apparenza meccanico e geometrico, ma nella sostanza filosofico e
concettuale: visto che è in giuoco quella dimensione per nulla scontata e assai
meditata dalla storia della filosofia che è la temporalità e visto,
soprattutto, che, confrontandoci con astrazioni che muovono realtà, siamo per
definizione nel campo di cui si presume sia competente la filosofia.
E,
in effetti, questo è un libro che tratta della postmodernità attraverso la
riproposta sulla scena (ma come, ancora!, dirà qualcuno) di quel
drammone filosofico che tanto a lungo ha pesato su molte coscienze
dell’intellettualità del ‘900 e che è stato il tormentassimo rapporto Hegel-Marx.
La riproposizione del quale, va però subito detto, in queste pagine si spera di
trattare con minor peso di quanto finora non si sia mai dato, o, addirittura,
se bastessero le forze a chi scrive, con la lievità concettuale dovuta alla
leggerezza dei fantasmi. Del resto, dato che si tratta, oltre che di
astrazioni, appunto di fantasmi, la sceneggiatura attraverso la quale qui si
vuole riscrivere e riutilizzare quel famoso incontro, non potrà evitare di
essere, oltre che filosofica, anche psicanalitica. O, per meglio dire, una
sorta di psicanalisi filosofica, dove le filosofie e le dottrine in gioco
verranno considerate più per quello che hanno taciuto e rimosso che non per
quanto abbiano esplicitamente formulato e teorizzato. Ma, in modo assai diverso
da quello che fece, più di cinquant’anni fa, Louis Althusser, la nostra
macchina per afferrare il non detto, (di Marx in primo luogo), non espelle
dalla scena della nostra psicoanalisi teorica la grande figura terribile e
patriarcale di Hegel, bensì ne fa il Terzointerlocutore
ineliminabile e insostituibile. Anzi, per proseguire il dramma concettuale che
ho allestito con un libro dedicato al rapporto tra Hegel e il giovane Marx e
dal titolo Un parricidio mancato, questo volume mette
in scena, questa volta, Un parricidio al quadrato. La cui tesi di
fondo è che per estrarre dal non detto di Hegel e Marx degli strumenti ancora
utili, anzi indispensabili, per afferrare il fantasma che angoscia e terrorizza
le nostre vite, sia necessario dar luogo appunto a un doppio parricidio,
naturalmente metaforico e culturale: ovvero che noi si uccida quel Marx che
nelle forme più esplicite e conosciute del suo pensare è rimasto subalterno ad
Hegel e si faccia luce, perché nasca al nostro presente, quel Marx maturo,e silenzioso
alla sua medesima autocoscienza, il quale è stato capace, invece, di
uccidere e superare realmente il grande padre Hegel. E, come si vedrà, la mossa
vincente per praticare questo doppio parricidio consisterà nel poter concepire
una nuova scienza della dialettica, istituita non più sulla contraddizione,
com’è sempre accaduto nell’interpretazione più celebrata dell’hegelismo e del
marxismo, ma sull’astrazione e sulla funzione di
svuotamento/simulacro perpetrata dall’astratto ai danni del concreto.
Astrazione
versus contraddizione, dunque! Ovvero il Marx che è riuscito
a mettere a tema un’astrazione paradossalmente reale come orizzonte e soggetto
della modernità contro il Marx che ha preteso di stringere il nesso
capitale-lavoro in una relazione intrinsecamente contraddittoria, che
consegnasse la classe operaia a un ruolo inevitabile, quanto ineludibile, di
antagonismo e di emancipazione rivoluzionaria! Tale è il nodo teorico di fondo
che agirà in questo libro, nella chiara consapevolezza che si tratta di
abbandonare un paradigma politico-sociale cui s’è rifatta la maggior parte dei
marxismi del secolo XX°, contribuendo non poco, per tale errore d’assunzione
economico-antropologica, alla loro inconcludenza, quando non vera e propria
sconfitta, storica.
Non
che il capitalismo non sia basato su un rapporto di classe, cioè di dominio e
di sfruttamento attraverso appropriazione di lavoro non pagato, da parte dei
possessori dei mezzi di produzione sui possessori di forza-lavoro. Non che il
controllo e il disciplinamento dei lavoratori nei processi produttivi, da
rinnovarsi ad ogni nuova generazione di forza-lavoro, non sia la chiave di
volta dell’accumulazione di capitale. Non che l’intera economia capitalistica
non sia esposta a una tendenza ineliminabile alla sovraccumulazione e, forse
insieme, al sottoconsumo e dunque a fasi di drammatiche crisi da cui si esce
con profonde trasformazioni tecnologiche oltreché con distruzioni generalizzate
di merci, di capitale e di forza-lavoro. Secondo quanto in tal senso ha magistralmente
compreso e concettualizzato il Marx del Capitale. Ma che tutto ciò
debba tradursi in una intrinseca capacità rivoluzionaria ed antagonistica da
parte dei lavoratori, secondo la quale il venditore di forza lavoro è in quanto
tale in opposizione e in contraddizione con il capitale, è proprio quanto il
passaggio alla nuova organizzazione del lavoro, con il postfordismo, ha reso
problematico e messo in discussione: con un effetto di retroazione critica
sulla legittimità dell’intera operazione marxiana di vedere nel proletariato,già
solo per il suo essere escluso dagli egoismi e dalle divisioni della proprietà
privata, la classe per definizione capace di un sentire e di un volere
universale e dunque necessariamente principio e soggetto del comunismo futuro:
la classe particolare cioè che nello stesso tempo è già classe universale,
perché estranea ad ogni possesso e diritto che valga contrapporre il suo
«particulare» di contro a quello delle altri classi[15]
Il
marxismo della contraddizione infatti, nella sua pretesa che la classe operaia
e il proletariato industriale fossero, già nella loro funzione
economica, sostanzialmente in opposizione e in negazione della società del
capitale, e che il transito da quell’antagonismo economico all’opposizione e
all’emancipazione politica necessitasse, al massimo, solo di ulteriori gradi di
organizzazione e di radicalizzazione, non è mai riuscito a dar veramente conto
di quello che oggi, con una brutta espressione, si chiama il simbolico,
ovvero delle forme di coscienza che il capitale riesce a produrre e a
generalizzare. Ha sempre cioè scisso e contrapposto contraddizione e totalizzazione,
rimuovendo dalla sua scena madre, fatta di forze sociali strutturalmente in
conflitto, la tendenza intrinseca del capitale di porsi come totalità che nell’unità
del medesimo tempo: a) produce beni economici, merci e servizi; b) produce
e riproduce rapporti di sfruttamento e di diseguaglianza sociale; c) produce
immagini e rappresentazioni del mondo che negano e dissimulano quella relazione
di disuguaglianza. Per dire insomma che al fondo del marxismo della
contraddizione, a partire dai testi dello stesso Marx che lo hanno alimentato,
c’è sempre stata una sopravalutazione e una retorica della classe lavoratrice
come soggetto necessariamente rivoluzionario cui ha
corrisposto una costante sottovalutazione dell’ampiezza e della portata,
oltreché economica, anche ideale e culturale dell’egemonia capitalistica e
della sua capacità di dissimulazione.
Come
scrive correttamente D. Harvey, rifacendosi alla cosiddetta scuola
della regolazione di Aglietta e Lipietz, ogni tipologia e regime di
accumulazione – per dirla con Marx, ogni modo diproduzione –
ha necessità, nella società capitalistica, per sussistere e riprodursi, di
accompagnarsi a un modo di regolazione sociale e politica,
ossia ha necessità di far corrispondere ai ruoli e alle funzioni specificamente
economiche delle regole concernenti l’assetto dei valori e dei disvalori morali
ed etico-politici. Il cui fine è appunto quello di produrre consenso alla
regolazione economica propriamente detta. «Un particolare sistema di
accumulazione può esistere ‘perché il suo sistema di riproduzione è coerente’.
Il problema, tuttavia, consiste nel dare ai comportamenti di tutte le categorie
di individui – capitalisti, lavoratori, dipendenti statali, finanzieri e tutti
gli altri agenti politico-economici – una configurazione che permetta al regime
di accumulazione di continuare a funzionare. Deve esistere, perciò, ‘una
materializzazione del regime di accumulazione sotto forma di norme,
consuetudini, leggi, reti di regolazione, ecc., che garantisca l’unità del processo,
cioè la coerenza dei comportamenti individuali con lo schema di riproduzione.
Questo insieme di norme e processi sociali interiorizzati viene definito modo
di regolazione [Lipietz, 1986, p. 19]»[16]. E questa rilevanza del piano ideale
e rappresentativo vale ovviamente tanto più quando, con il passaggio
postfordista dal lavoro materiale al lavoro mentale, le tipologie e i modi del
sapere e del credere non solo diventano centrali ma vengono anche profondamente
riorganizzati all’interno della nuova forma dell’accumulazione capitalistica.
9. Certo
questo Marx – il Marx dell’astrazione contro il Marx
della contraddizione e della rivoluzione – siamo noi a farlo nascere e
a condurlo a coerenza. Ma, va aggiunto, secondo una trama teorica che, a nostro
avviso, è già tutta immanente nell’opera marxiana della maturità. A condizione,
come si diceva, di liberarla dall’ostinazione con cui lo stesso Marx ha preteso
di presentare e legittimare la scienza del Capitale secondo
forme di consapevolezza epistemologica, antropologica e politica che attengono
alla sua giovinezza e alla sua vita prima del 1848. Quasi che un così grande
ingegno, nella presunzione di una sostanziale continuità e immutabilità del suo
pensare, non potesse tollerare di consegnarsi alla trasformazione del proprio
stesso divenire e maturare.
Del
resto che non sia atto d’arbitrio il nostro, di contrapporre il Marx del
parricidio riuscito al Marx del parricidio mancato, utilizzando l’astrazione versus la
contraddizione, appare giustificato, visto che siamo in una sorta di
psicoanalisi filosofica, anche da quell’aprés coup, o retroattività del
tempo, che è proprio di una feconda attività psicoanalitica e, più in generale,
di un divenire storico che, raggiungendo globalità e maturazioni, consente di
rileggere con maggiore acume e pienezza di significato il tempo della propria
genesi e anteriorità. A mio avviso infatti il paradosso di fondo del nesso che
lega Marx alla modernità riposa nel fatto che la modernità è dovuta maturare e
trapassare temporalmente nella postmodernità affinché diventasse esplicito ed
evidente alla maggioranza di noi –e si badi, più nel senso del sentire che
non in quello del conoscere e del vedere - quanto Marx aveva
afferrato rispetto al farsi soggetto del mondo di un’astrazione, qual è la
ricchezza del capitale, la logica produttivo/accumulativa e l’asservimento del
mondo della qualità al mondo della quantità che ne consegue.
Solo
oggi tutti noi sentiamo e soffriamo dell’astrazione che svuota le nostre vite e
che s’accampa, al di là delle nostalgie metafisiche di Martin Heidegger, come
il vero Essere del nostro Esserci. Solo oggi
percepiamo in tutta l’atonia della nostra emotività più profonda e
nell’isteria compensatrice della nostra vita di superficie quanto un universale
quantitativo stia sciogliendo, nella sua accumulazione tendenzialmente
infinita, tutte le relazioni e l’esperienza di natura qualitativa (non
quantificabile e non monetizzabile) del nostro esistere. Quanto l’astratto cioè
stia colonizzando e svuotando il concreto.
Ma
appunto c’è voluta tutta la maturazione della modernità dell’Ottocento e del
Novecento, il crollo dei sistemi del cosiddetto socialismo reale e la
conseguente l’unificazione del mondo sotto la dimensione dell’economia
capitalistica – insomma l’erigersi a sistema mondiale, pur con tutte le
differenze e asimmetrie al suo interno, della civiltà del capitale – perché la
scienza sistematica e circolare del Capitale divenisse da
convincimento del solo Marx verità esperita e sofferta da tutti. Un gigantesco
gioco di Nachträglichkeit, di retroattività storica, che dà verità
alla verità di Marx, traducendo hegelianamente quello che era solo per
lui in qualcosa che è per tutti noi. O, per esser più
precisi, quello che – più che per Marx (ovvero presente
pienamente alla sua consapevolezza) – era inMarx: ovvero per certi
versi solo implicito e velato alla sua medesima autocoscienza.
Ma
è tempo di immergerci in medias res e di andare sulle tracce
dell’implicito, del non ancora esplicitato, dell’inconscio teorico e
concettuale di Marx. Lì si cela infatti il fantasma che continua a svuotare di
senso e immalinconire le nostre vite. Armiamoci dunque con fiducia di circoli,
di diacronie e sincronie, di aprés coups temporali di un
presente che risignifica il passato, e forse, come riteneva Platone, non
temendo di compiere parricidio verso i padri terribili e venerandi, riusciremo
al fine a gettare la rete e a catturare lo sfuggente e indefinibile sofista.
Indice
Introduzione
- Dal bisogno al riconoscimento
Capitolo
I – Materialismo storico: un paradigma da superare
1. Due
coppie a confronto.
2. Al
di là del materialismo storico
3. Un
edificio di apparente solidità.
4. L’autoconfutazione
del materialismo storico e il modulo del soggetto-predicato
5. L’«astratto»
nella filosofia di Hegel.
6. Genere
contro Individuo.
7. Il
materialismo storico come filosofia della storia.
Capitolo
II- Circoli e linee rette: dal materialismo storico al Capitale
1. Un’astrazione
praticamente vera: dalla prima alla seconda libertà di Marx.
2. Un
nuovo paradigma di scienza.
3. La
scissione in due mondi: il «cominciamento» nel Capitale.
4. Un
soggetto che non è persona: la «determinazione formale» (Formbestimmung).
5. Dal
denaro al capitale: la distanza marxiana da Hegel.
Capitolo
III – Il Capitale, ossia il parricidio marxiano di
Hegel
1. Il
salto mortale di Marx a Londra: dal lavoro alla forza-lavoro.
2. L’inganno
della divisione del lavoro.
3. Dallo
strumento alla macchina: una discontinuità epocale.
4. Darwin
e Marx: una nuova scienza della storia.
5. L’autofraintendimento
di Marx nella Einleitung del 1857.
Capitolo
IV – La vicenda del «circolo» nella storia della filosofia
1. Leibniz:
l’Essere come Autosapersi.
2. Fichte:
«L’Io pone se stesso».
3. Hegel:
il compimento del circolo.
4. Marx:
«astrazione» contro «negazione».
Appendice. Tipologie
della negazione in Hegel: variazioni e sovrapposizioni di senso.
Capitolo
V - Dall’astronomia di Newton alla
trasformazione dei valori in prezzi: Smith, Hegel, Marx e le disavventure
dell’impersonale
1. Il
mercato, invenzione della modernità. L’impersonalità del nesso sociale.
2. All’inizio
della modernità è ancora il cielo a dettare legge alla terra.
3. A.
Smith, teorico della morale e dell’economia politica.
4. Hegel:
la dislocazione nello spazio del nesso sociale. L’impersonalità moderna come
reificazione
5. Dal
valore ai prezzi: come da essenza ad apparenza.
6. Le
tre teorie dell’«ideologia» nell’opera di Marx.
Capitolo
VI – Marxismi in lotta tra
loro
1.
Un marxismo estenuato: tra alienazione e feticismo.
2.
Marxismo della contraddizione e marxismo dell’astrazione.
3.
La breve vita del marxismo filosofico in Italia.
4.
Althusser: la ripulsa di Hegel.
5.
Moishe Postone.
6.
Jacques Bidet.
Capitolo
VII – La ragione del
riconoscimento
1.
Una memoria del futuro.
2. Tecnologie
e pratiche della dissimulazione.
3.
Prolegomeni a un’emancipazione futura.
4.
Un nuovo materialismo.
5. Aporie
e limiti del «riconoscimento» in Hegel.
6.
Fuoriuscire dal capitalismo: vecchi e nuovi paradigmi.
Note
[1]
F. Fortini, Violenza e non violenza, in Non solo oggi.
Cinquantanove voci, Editori Riuniti, Roma 1991, pp. 302-303.
[2]
M. Bertani, Lavoro del pensiero ed esperienza della libertà, in
P.-P. Poggio (a cura di)L’ALTRONOVECENTO. Comunismo eretico e
pensiero critico, II, Jaca Book, Milano 2011. pp. 589-611.
[3]
A. Honneth, Autorealizzazione organizzata. Paradossi
dell’individuazione, in Id., Capitalismo e riconoscimento, a
cura di M. Solinas, Firenze University Press, 2010, p. 39.
[4]
Cfr. R. Luperini, L’allegoria del moderno, Editori Riuniti, Roma
1990, p. 12 sgg.
[6] Su ciò cfr. H. Maier, Die ältere
deutsche Staats- und Verwaltungslehre (Polizeiwissenschaft). Ein Beitrag zur
Geschichte der politischen Wissenschaft in Deutschland, Luchterhand,
Neuwied a.R-Berlin 1966; P. Schiera, Dall’arte di Governo alle Scienze
dello stato. Il cameralismo e l’assolutismo
tedesco, Giuffré. Milano 1968;. L. Firpo, La
concezione amministrativa dello Stato in Germania (1550-1750), in L. Firpo
(a cura), Storia delle idee politiche, economiche e sociali,
UTET, Torino 1980, v. IV, I, pp. 363-442. Di P. Schiera cfr. anche le voci
«Cameralismo» e «Società per ceti», in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino,
Dizionario di politica, UTET, Torino 1990², rispettivamente pp. 124-131 e
1067-1071.
[7]
M. Weber, Economia e società, tr. it. di P. Rossi, Edizioni di
Comunità, Milano 1980, v. I, p. 59.
[8]
Ivi, p. 60.
[9]
Ivi, p. 61.
[10] K. Marx, Die
technologisch-historischen Exzerpte, Historisch-kritische Ausgabe,
transkiviert und herausgegeben von H.-P. Müller, Frankfurt a M. u. a. 1981.
[11]
Nei quaderni di estratti del 1851 dei Beyträge di J.Beckmann Marx fa estratti
abbastanza superficiali del Band I, dando più evidenza all’opera dell’allievo
Poppe. Laddove nei successivi nove quaderni del 1863 dedicati a temi
tecnologici, esamina, in particolare con il “Beiheft C”, tutti i cinque volumi
dei Beyträge. Sull’opera di Beckmann cfr. G. Bayerl-J. Beckmann (hrsg.), Johann
Beckmann (1739-1811) , Waxmann, Münster u.a., 1999.
[12]
Anche la riflessione sulla tecnica svolta da M. Heidegger, che tanto rilievo ha
avuto nella cultura dell’’ultimo cinquantennio, è ben lontana dal sospettare la
pregnanza storica e concettuale che l’esperienza del Cameralismo e
della Technologie di area germanica hanno consegnato alla
tradizione moderna. Heidegger, analogamente in ciò al miglior Marx quando
questi fa riferimento all’area semantica della Technologie, ha ben
inteso quanto la tecnica non solo un mezzo in vista di fini, non sia cioè
definibile solo attraverso una rappresentazione strumentale. In tal modo egli
ha sottratto l’interpretazione della tecnica a un contesto di senso solo
antropocentrico, di derivazione weberiana, incentrato sulla ragione calcolante
della coerenza o meno tra mezzi e fini. Ma tale superamento di un’impostazione
solo calcolante-strumentale non avviene in Heidegger attraverso una letturastorico-sociale dell’applicazione
delle macchine e della scienza nei processi di produzione: bensì attraverso la
teorizzazione della tecnica come appartenente all’orizzonte del «disvelamento»,
cioè della verità come «aletheia». «La tecnica è un modo del disvelare. La
tecnica dispiega il suo essere (west) nell’ambito in cui accadono
disvelare e disvelatezza (Unverborgenheit)» (M. Heidegger, La questione
della tecnica, in Id, Saggi e discorsi, tr. it. a cura di G.
Vattimo, Mursia, Milano, 1991, p. 10). Per cui che l’essenza della tecnica non
coincida con il tecnico non deriva dalla distanza semantica
che Marx, sia pure con molte incertezze, ha utilizzato distinguendo tra Technik e Technologie,
bensì deriva dalla misteriosa lontananza che Heidegger è tornato ad assegnare
nella filosofia moderna al principio antico, per non dire arcaico, dell’Essere e
al suo disvelarsi/nascondersi attraverso le varie modalità dell’invio, del
«destino». Così anche l’analisi della tecnica moderna che Heidegger distingue
come Gestell (im-posizione) dal pro-durre antico della poiesis,
giunge ad afferrare e descrivere la tendenza infinitamente accumulativa delle
energie terrestri, lo spingere sempre in avanti, il ridurre la natura a mero
fondo da impiegare, quali caratteristiche principali dell’economia moderna, ma
si limita a una definizione solo ecologico-ambientale di tale toglimento di
limiti, che non mette mai a tema l’accumulazione del capitale e della sua
ricchezza astratta come vero Essere (Sein) e Fondamento (Grund)
della modernità.
[13]
Su tutto ciò il riferimento indispensabile è all’opera di ricerca che Guido
Frison è venuto svolgendo ormai da molti anni, e dai cui scritti io
personalmente ho tratto le indicazioni fondamentali per lo studio del
Cameralismo nella cultura e nella società tedesca e, insieme, per
l’approfondimento della distinzione semantica e concettuale tra «Technologie» e
«Tecnik». Dell’ampia produzione al
riguardo di G. Frison qui basti citare: Linnaeus, Beckmann, Marx and
the foundation of Technology. Between natural and social sciences: a hypothesis
of an ideal type. FirstPart: Linnaeus and Beckmann, Cameralism,
Oeconomia and Technologie, in History and Technology, 1993,
vol. 10, pp. 139-160 – Second and Third Parts, Beckmann, Marx,
Technology and Classical Economics, in «History andTechnology», 1993, vol.
10, pp. 161-173. Ma si guardi dello stesso autore anche Technical and
technological innovation in Marx, in «History and Technology»,
1988, vol. 6, pp. 299-324.
[14]
Cfr. F. Jameson, Postmodernismo ovvero La logica culturale del tardo
capitalismo, tr. it. di M.Manganelli, Fazi, Roma 2007.
[15]
«Questa dissoluzione della società in quanto ceto particolare è il proletariato [..]
Quando il proletariato annunzia la dissoluzione dell’ordinamento
tradizionale del mondo, esso esprime soltanto il segreto della sua
propria esistenza, poiché esso è la dissoluzione effettiva di
questo ordinamento del mondo. Quando il proletariato esige la negazione
della proprietà privata, esso eleva a principio della società solo
ciò che la società ha elevato a suo principio, ciò che in esso
è già impersonato senza suo apporto, in quanto risultato negativo della
società» (K. Marx, Per la critica della filosofia del
diritto di Hegel, in «Deutsch-Französiche Jahrbücher», trad. it. di
R. Panzieri, in MEO, III, p. 203).
[16]
D. Harvey, La crisi della modernità. Riflessioni sulle origini del presente, tr. it. di M. Viezzi, Net, Milano 2002, p.
151-152. Il riferimento è a A. Lipietz, New tendencies in the
international division of labour: regimes of accumulation and modes of
regulation, in A. Scott, M. Storper (a cura di), Production, work,
territory: the geographical anatomy of industrial capitalism, Allen &
Unwin, London 1988.