Miguel Mellino |
Negli ultimi anni, il concetto marxiano di “accumulazione originaria” è
stato oggetto di un rinnovato dibattito (Perelman 2001; Glassman 2006; Bonefeld
2008; Mezzadra 2008; Van Der Linden 2010). Si tratta di uno degli sviluppi più
stimolanti di un più ampio processo di ripensamento delle categorie analitiche
indotto sia dalle trasformazioni avvenute nei modi dell’accumulazione del
capitale globale sin dalla fine degli anni novanta, sia dall’emergere di nuove
forme e movimenti di resistenza in tutto il mondo.
1. L’accumulazione
per espropriazione e il nuovo spirito del comando capitalistico
E’ innegabile che fenomeni come il progressivo divenire
rendita del capitale; l’invasione americana dell’Afghanistan e dell’Iraq;
l’emergere della Cina e complessivamente dei cosiddetti BRICS come motori
“produttivi” dell’economia mondiale; il boom dell’agrobusiness e del
capitalismo “estrattivo” in molti dei paesi dell’ex Terzo mondo e dell’Est
Europa; il fenomeno di una precarietà e/o disoccupazione di massa sempre più
strutturale; il progressivo indebitamento dei ceti medi occidentali e non solo;
la crisi economica che dal 2007 stringe nella propria morsa buona parte dei
centri nevralgici dell’attuale capitale globale, così come la provocatoria
determinazione dell’amministrazione Obama e dell’UE a perseverare nelle
politiche neoliberiste di aggiustamento e di austerity degli ultimi vent’anni.
L’espandersi di un fronte di fronte di guerra (civile ma anche globale) che
attraversa tutto il corno d’Africa, parte dell’Africa centrale (Mali,
Repubblica Centroafricana), il Maghreb (con la Libia e l’Egitto in testa) fino
alla Siria, l’Iran, il Medioriente con la recente recrudescenza dell’offensiva
israeliana contro i palestinesi e l’Ucraina; e infine la comparsa di nuove istanze
radicali come quelle di Occupy Wall Street e Londra, degli indignados spagnoli,
delle lotte anti-austerity in Grecia, dei riot “razziali” in Francia, Gran
Bretagna e Svezia, dell’insurrezione di massa nel Maghreb e nel Mashreq, di
Gezy Park in Turchia, delle lotte più recenti in America Latina contro i
governi progressisti “post-neoliberisti” (vedi Ecuador, Bolivia, Argentina, ma
soprattutto le ultime insorgenze in Brasile) abbiano posto sempre di più
intellettuali e movimenti di tutto il mondo di fronte agli inevitabili limiti
storici della propria cassetta degli attrezzi. E’ chiaro dunque che il ritorno
del discorso dell’accumulazione originaria al centro delle pratiche teoriche
non è il frutto di un mero esercizio filologico o scolastico: forse nessun
altro termine del lessico marxiano riesce a interpellare in modo così efficace
questo “nuovo spirito” del comando capitalistico svelato dalle diverse lotte
globali degli ultimi vent’anni in tutti gli angoli del pianeta.
La produzione recente di David Harvey – La guerra perpetua (2004), L’enigma del capitale (2010), Città ribelli (2013) – rappresenta
alla perfezione questa “struttura del sentire” diffusa presso una parte
importante del marxismo contemporaneo, ovvero l’esigenza di ripensare alcune
delle categorie chiave dell’archivio marxiano alla luce di una nuova
congiuntura storica come precondizione necessaria di un più efficace agire
politico da parte dei movimenti sociali. In L’enigma del capitale e,
soprattutto, in Città ribelli, Harvey ha sensibilmente spostato il fuoco
della sua attenzione dai Limiti del capitale (per richiamare il titolo di
un’altra delle sue opere più famose), vale a dire dall’analisi del ciclo
continuo di crisi di sovraccumulazione a cui è soggetto da sempre il
capitalismo, al ruolo dei movimenti sociali di riappropriazione emersi negli
ultimi due decenni nella produzione di un’alternativa al capitale fondata sul comune.
Non è difficile intuire che Harvey debba buona parte della sua notorietà
proprio all’aspetto sperimentale, radicale ed eterodosso, per così dire, della
sua riflessione. Come si ricorderà, uno dei suoi ultimi passaggi per l’Italia
(Ottobre 2013) generò aspettative importanti all’interno del movimento per i
“beni comuni”. Inoltre, la sua nozione di “accumulazione per espropriazione” è
venuta a costituirsi nello scenario teorico-politico attuale come una delle
reinterpretazioni più diffuse del tradizionale concetto marxiano di
“accumulazione originaria”. Per questo, crediamo che la sua proposta teorica
meriti un esame attento.
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David Harvey |
2. L’inflessione di Harvey sul concetto
marxiano
Che cosa
intende Harvey con accumulazione per espropriazione? Diciamo subito che la
traduzione italiana dell’originale inglese (“accumulation by dispossession”)
appare accettabile, ma non del tutto adeguata. In effetti, accumulazione per
espropriazione non ci immette nella stessa catena di significazione mobilitata
da “accumulation by dispossession”. In termini strettamente linguistici, si può
dire che “accumulazione per espropriazione” non trasmetta gli stessi effetti
performativi di “accumulation by dispossession”. Dispossession, letteralmente
“spossessamento” o “spoliazione”, è chiaramente un significante più generico e
meno storicamente connotato di “espropriazione”. Ci pare quindi che i termini italiani
“spossessamento” e soprattutto “spoliazione” rendano meglio il tipo di
inflessione che Harvey intende imprimere alla sua espressione. Nell’accezione
di Harvey, come cercherò di mostrare, l’enunciato “accumulation by
dispossession” non intende portarci tanto verso l’oggetto dell’azione, ovvero
l’esproprio di “qualcosa” (di qualche proprietà, fisicamente o materialmente
intesa), quanto verso le modalità stesse attraverso cui si svolge
l’esercizio dell’accumulazione: la “spoliazione”, ovvero un atto di mera
“forza” o “violenza” reso possibile dal potere di cui dispone nuovamente la
classe capitalista dominante. Questo primo significato della nozione ci dà una
chiave importante per comprendere il tipo di lettura che ci propone Harvey
delle dinamiche dell’attuale capitale globale: il ritorno dei processi di
“accumulazione per spoliazione” al centro della riproduzione del capitale sta
qui a indicare il ritorno della “violenza” (della coercizione extra-economica,
ma si può anche dire di una “logica estrattiva”) nei dispositivi di
sfruttamento capitalistici.
Può essere interessante notare che è proprio lungo questa
“duplice dimensione” del ritorno della violenza nel cuore del comando
capitalistico – a) il ritorno di un esercizio del potere violento e arbitrario
(non più egemonico) da parte della classe capitalista, b) il ritorno di una
logica di accumulazione del capitale fondata su un tipo di violenza
extraeconomica – che Harvey ci chiede di pensare il divenire condizione globale
di governo della pratica neoliberista di governo in La guerra perpetua (2004)
e in Breve storia del neoliberismo (2007). In questi due testi, la
violenza viene posta come un sorta di “significante padrone” di una nuova
congiuntura storica del capitale: il ritorno della violenza dell’accumulazione
per spoliazione è visto da Harvey come l’effetto principale di un mero
rovesciamento (soprattutto mediante il ricorso a soluzioni autoritarie e
antidemocratiche) dei rapporti di forza tra le classi, ovvero, per riprendere le
sue stesse parole, come il frutto di una “restaurazione del proprio potere
della classe capitalista cominciata verso metà degli anni settanta” (dopo la
crisi dei profitti originata dalle lotte operaie degli anni sessanta) operato
attraverso la produzione sistematica del discorso neoliberista come pratica di
governo.
Siamo qui di fronte a uno degli enunciati chiave della
prospettiva di Harvey: il capitalismo non si espande più attraverso un “dominio
mediante egemonia”, un’espressione gramsciana ricorrente nei testi di Harvey e
che avvicina la sua prospettiva a quella di Giovanni Arrighi1,
bensì anche e soprattutto, visto il divenire sempre più finanziario e
improntato alla rendita del capitale, un “dominio mediante coercizione”. Sia
Arrighi nei suoi Il lungo XX secolo (1994) e Adam Smith a
Pechino (2008) sia Harvey in La guerra perpetua vedono l’America
di Bush come la materializzazione di un “nuovo imperialismo” governato da
questa logica autoritaria ed estrattiva. Le scelte imperialiste degli USA da
Reagan in poi, così come la finanziarizzazione promossa dal neoliberismo
globale, vengono qui viste come “soluzioni autoritarie” a una fase di transizione del
capitalismo iniziata nei primi anni settanta e segnata da una “doppia” crisi:
a) la consunzione del modello fordista di accumulazione; b) il declino
dell’egemonia politico-economica americana. Su temi così aspri come la
fruibilità teorico-politica della stessa categoria di fordismo intesa in questo
modo diciamo storicistico, o come il presunto declino dell’America il dibattito
è naturalmente aperto. Qui può essere importante notare che in questo caso
specifico tali discorsi vengono a saldarsi con concezioni di più lungo corso,
come quelle di Braudel e Polanyi, secondo cui l’irruzione violenta del trittico
stato-monopoli-finanza come strumento di governo del capitale – “l’attrezzo
mostruoso della storia del mondo”, per ricordare la popolare espressione di
Braudel – suona la campana a morte del modo dominante di accumulazione.
Nello sviluppo del suo particolare discorso su questo
argomento Harvey non esita a paragonare il “nuovo imperialismo” di Bush – vale
la pena ricordare che The New Imperialism è vero titolo del suo testo
e non La guerra perpetua come scelto dalla traduzione italiana –
all’imperialismo britannico di fine ‘800, nel senso che esso altro non è che un
nuovo tentativo di dare una “soluzione autoritaria a una crisi di
sovraccumulazione di capitale, “anche se le risposte alla crisi potevano essere
altre”. In proposito, egli ricorda “l’errore” – sono le sue parole – di
Chamberlain durante la guerra boera: la sua scelta mostrava l’incapacità delle
élite al potere in Gran Bretagna di elaborare una scelta diversa da quella
imperialista per risolvere la crisi. E’ così che Harvey definisce la guerra
americana all’Iraq del 2003 come l’equivalente contemporaneo della guerra boera
provocata dall’imperialismo inglese: “entrambe queste guerre – ci viene
precisato – accadono in un momento in cui l’egemonia internazionale delle due
potenze (GB prima, USA poi) è arrivata a un punto di non ritorno”.
Per dare ulteriore forma alla sua singolare impostazione sul
ritorno della violenza al cuore del comando capitalistico Harvey ci propone una
reinterpretazione dell’analisi dell’imperialismo di Hannah Arendt. Come si
ricorderà, in Le origini del totalitarismo (1951), Arendt vede
l’imperialismo inglese di tardo ottocento come una sorta di “svolta
politico-autoritaria” rispetto a quello che possiamo chiamare il corso normale
(pacificato) dello sviluppo del capitale improntato al free trade (e
alla riproduzione allargata). Secondo Arendt, è con l’imperialismo coloniale di
fine ottocento e con la sua rincorsa all’Africa che si ha un ritorno decisivo
sullo scenario mondiale dell’accumulazione originaria, del monopolio, della
rendita e della predazione come motore dell’accumulazione capitalistica. Non ha
molto senso soffermarci qui sugli evidenti limiti di questa concezione
arendtiana dell’imperialismo. Ci sembra più importante notare che il lavoro di
Hannah Arendt è una delle principali risorse teoriche (forse la più importante)
attraverso cui Harvey costruisce la sua categoria di “accumulazione per
spoliazione” come fenomeno “altro” dalla “normale” accumulazione capitalistica.
Tornando più nello specifico al discorso di Harvey sul
presente, si può essere naturalmente d’accordo con l’assunto centrale della sua
prospettiva, il ritorno di una violenza “predatoria” o “estrattiva” al centro
del dispositivo di sfruttamento capitalistico eseguito per mano del
neoliberismo e della progressiva finanziarizzazione del capitale, ma non si
rischia in questo modo di sottovalutare la dinamica governamentale o
biopolitica dell’esercizio del potere neoliberista? In altre parole, non si
rischia di avere una visione un po’ troppo riduttiva del neoliberismo,
sottovalutando la costituzione del neoliberismo come “razionalità di governo”,
o come “ragione governamentale”, per stare al lavoro dello stesso Foucault o a
quello più recente di Dardot e Laval (2013)? Sia chiaro: sappiamo che in
America Latina e non solo, il neoliberismo è stato imposto attraverso la
violenza e il “terrorismo di stato”, ma basta questo a spiegare il suo
costituirsi in una “struttura del sentire” dominante? Allo stesso tempo, questa
contrapposizione (benché intesa da Harvey in modo spazialmente sincronico e
dialettico) tra una congiuntura capitalistica organizzata attorno a una logica
di “riproduzione allargata” del capitale e un’altra improntata
all’accumulazione per spoliazione non è agita da una certa idealizzazione del
fordismo, inteso qui come un sistema globale governato da un principio di
regolazione in qualche modo riuscito o pacificato? Non si finisce qui per fare
dell’eccezione fordista – di un sistema globale non tanto “regolato” quanto
improntato, almeno nei suoi centri nevralgici, a un qualche tipo di compromesso
tra capitale e lavoro – la regola strutturale dell’accumulazione del capitale?
Infine, ancora più importante, questa contrapposizione così netta non rischia
di ricadere in una visione storicistica e coloniale della storia del
capitalismo, che scambia l’eccezione degli ex centri metropolitani come regola
o come legge del capitale? Come cercherò di mostrare più avanti, il problema
fondamentale sta qui nel fatto che nella messa a fuoco della nozione di
“accumulazione per spoliazione” ci sembra che Harvey si soffermi più su quello
che possiamo chiamare i “mezzi” del processo di accumulazione originaria così
come ci è stato descritto dalla narrazione marxiana – lo stato in quanto
strumento, la violenza come modalità, l’espropriazione come atto – che non su
quello che per Marx era il suo “fine ultimo”: la separazione dei produttori dai
mezzi di produzione come precondizione essenziale per la nascita e lo sviluppo
dei rapportitipicamente capitalistici.
Al momento vorrei sostenere, in termini bachtiniani, che la
forza e il successo del concetto di “accumulazione per spoliazione” sta
soprattutto nell’inflessione performativa di cui è portatore; si tratta di
un’inflessione che rende in modo piuttosto efficace quella percezione comune di
un comando capitalistico sempre meno disposto a mediare e sempre più costretto
a ricorrere alla violenza degli apparati repressivi dello Stato e
all’articolazione di “forme di controllo privato o indiretto” delle popolazioni
(come ben ci spiegano Achille Mbembe (2001; 2010) e John e Jean Commaroff
(2001; 2006; 2011) sulla nuova geografia politica del capitale in Africa) nel
suo tentativo di costituire società improntate alla rendita, alla concorrenza
generalizzata, all’individualismo proprietario, all’austerity e alla
securitizzazione del conflitto sociale. Tuttavia, ci sembra che questa
particolare suggestione della sua tonalità semantica debba essere rafforzata da
un ulteriore approfondimento teorico.
3. Accumulazione per
spoliazione come “altro” del capitale
Ma vediamo più dettagliatamente in che modo Harvey procede
alla costruzione del concetto di “accumulazione per spoliazione”. In primo
luogo, come abbiamo anticipato, in La guerra perpetua Harvey propone
la sua espressione come un necessario aggiornamento di quella di “accumulazione
originaria” di Marx. A suo parere, l’espressione di Marx è troppo connotata da
un’impronta, per così dire, storica. Secondo Harvey, Marx “sbaglia” nel
considerare “l’accumulazione fondata sulla predazione e la violenza fisica” (secondo
modalità extra-economiche) come qualcosa di “originario”, ovvero di
appartenente al passato o agli albori del capitalismo, “poiché i processi di
accumulazione originaria sono stati una costante della geografia storica del
capitale”. Dal suo punto di vista, dunque, è irragionevole definire dei
processi economici tuttora in atto come “originari” o “primitivi”, ed è proprio
per questo che egli propone l’idea di “accumulazione per spoliazione” al posto
di “accumulazione originaria”.
C’è poi un secondo aspetto sottostante all’idea di
accumulazione originaria di Marx che appare oggi ad Harvey come del tutto
anacronistico. Mentre Marx – afferma Harvey – ci mostra come i processi di
accumulazione originaria abbiano consentito lo sviluppo della “riproduzione allargata”
del capitalismo, i processi di “accumulazione per spoliazione” contemporanei
producono solo l’esclusione di importanti fette di popolazioni dal circuito di
riproduzione capitalistico. In sintesi, per Harvey, l’accumulazione per
spoliazione del presente, a differenza dell’accumulazione originaria del
passato, non espande il dominio dei rapporti capitalistici a ogni segmento
della società, anzi, finisce per estromettere dal vincolo capitalistico una
parte importante della popolazione umana.
Cominciamo da quest’ultima parte dell’enunciazione. La prima
cosa da dire è che vi è qui una certa convergenza con quanto sostenuto da molte
analisi postcoloniali su ciò che possiamo chiamare il “capitalismo
postcoloniale” contemporaneo. Diversi autori si soffermati su questo tratto
“escludente” o “necropolitico”, per riprendere l’espressione di Achille Mbembe,
dell’attuale comando capitalistico. Basti pensare, oltre che allo stesso
Mbembe, ai lavori di Annanya Roy (2010), Ahiwa Ong (2005), Couze Venn (2005),
Partha Chatterjee (2006, 2012) per citare solo alcuni. Ma forse quello che
mostra più affinità con questo aspetto della prospettiva di Harvey è Ripensare
lo sviluppo capitalistico (2010) di Kalyan Sanyal, un lavoro incentrato
proprio sul modo in cui i nuovi processi di accumulazione originaria in atto
nell’India del boom economico, diversamente che in passato, finiscono per
espellere porzioni importanti delle masse subalterne indiane in aree non
dominate dalla logica capitalistica.
Non è difficile essere d’accordo sul fatto che la nuova
geografia del “capitale postcoloniale” (e qui il significantepostcoloniale sta
a indicare proprio questo) presenti sempre di più società e territori più che
“duali” (come affermano Sanyal e Harvey) vorremmo dire “striate”, sfere e spazi
di “inclusi” e sfere e spazi di “esclusi”, mettendo al lavoro una
concezione “multiscalare” o “gerarchicamente differenziata” dell’umanità
venuta alla luce con il razzismo coloniale, e che spesso sono proprio questi
“territori di esclusi” a produrre forme importanti e radicali di
riappropriazione di beni e diritti in nome delcomune: ma in quali termini si
può parlare effettivamente, come fanno esplicitamente Harvey, Sanyal e anche
Chatterjee, dell’esistenza di un “fuori” o di un “altro del capitale”
nelle società attuali?
Harvey prende come punto di partenza della sua
argomentazione su questo punto una nota idea di Rosa Luxemburg, secondo cui il
capitalismo deve sempre “creare” un suo “altro”, un suo “fuori”, per
stabilizzarsi e riuscire ad assorbire l’eccedenza di plusvalore creato.
Luxemburg, come Lenin, cercava così di spiegare la corsa alla conquista
violenta del mondo da parte imperialismo coloniale europeo di fine XIX secolo:
nella loro ottica, al di là delle loro differenze su altri punti, l’imperialismo
a cavallo tra XIX e XX secolo veniva concepito come il prodotto della
“soluzione capitalista” alla crisi di sovraccumulazione di capitale dell’epoca.
Prendendo come spunto questa concezione “classica”, e al di là della
specificità storica del discorso di Luxemburg, Harvey trae una delle
conclusioni alla base del suo approccio: “il capitale necessiterà sempre di uno
‘sviluppo multilineare’ o ‘differenziale e combinato’ per potersi espandere”.
Detto nei suoi stessi termini, uno degli aspetti storicamente costitutivi della
riproduzione del capitale è stato uno “sviluppo geograficamente disomogeneo”
indotto dalla dinamica di quello che chiama i “fix” spazio-temporali: si
tratta, secondo Harvey, dell’effetto primario della soluzione capitalista alle
crisi cicliche di sovraccumulazione, ovvero dell’unico modo possibile per il
capitalismo di risolvere “il problema delle ricorrenti eccedenze di capitale”
(2010, p. 38).
Ad un livello astratto, non è difficile trovarsi d’accordo
con questo presupposto: il problema è che risulta assai difficile definire
l’eterogeneità costitutiva del capitale come governata da qualcosa come la
produzione o proliferazione di “altri del capitale”. Si tratta di un punto ben
sviluppato, per esempio, dalla critica postcoloniale di Chakrabarty (2000) o
anche dall’opera più importante di Yann Moulier Boutang (1998): quello che ci
mostrano i loro lavori è che nella storia dell’espansione del capitalismo il
rapporto salariale (la compra-vendita libera di forza lavoro) è stata solo una delle
sue modalità di articolazione. In questo senso, è proprio l’assunto centrale
alla base della specificità della nozione di “accumulazione per spoliazione” a
restare un po’ ambivalente e a necessitare di un ulteriore chiarimento.
Crediamo che la categoria di “incorporazione differenziale” o “sussunzione
differenziale” di territori, popolazioni, soggetti, culture e saperi si riveli
più utile ed efficace a livello teorico-politico di quella di “altro del
capitale”.
Vi sono però altri nodi irrisolti. Altrettanto problematica
resta poi l’idea di Harvey secondo cui i processi di “accumulazione originaria”
del passato, a differenza di quelli di “accumulazione per spoliazione” del
presente, “hanno consentito lo sviluppo della ‘riproduzione allargata’ del capitalismo”.
Tenendo presenti il Foucault di Sorvegliare e punire o lavori come I
ribelli dell’Atlantico (2005) di Linebaugh e Rediker, ma soprattutto
vedendo il processo di affermazione ed espansione del capitale dalle colonie
anziché dai centri metropolitani, l’affermazione di Harvey appare quanto meno
azzardata. Rinviando a un’altra sede la discussione sul discorso specifico di
Marx su questi processi, e concentrandoci invece sulla lettura che ne fa
Harvey, basta ricordare l’opera di alcuni degli autori più importanti della
tradizione di quello che Cedric Robinson ha denominato “Black Marxism”, come
Fanon o C.L.R James o Malcolm X, per comprendere le difficoltà di una
sostituzione di “originaria” con “spoliazione” sulla base di questa
enunciazione.
Diciamolo in modo più semplice, alludendo alla condizione
del capitale globale contemporaneo: dovremmo parlare di “accumulazione per
spoliazione” anziché di “accumulazione originaria” per il semplice fatto che
oggi questi processi finiscono spesso per produrre “esclusione”, cioè “altri
del capitale”, mentre in passato “immettevano” i soggetti espropriati nel
circuito capitalistico della “riproduzione allargata”? Dovremmo aggiungere che
anche qui Harvey rischia di non discostarsi troppo da una posizione enunciante
storicistica e coloniale piuttosto diffusa all’interno di un certo “marxismo
bianco”, poiché egli sembra assumere in modo aproblematico la “positività” di
quella narrazione eurocentrica e lineare sulla transizione alla modernità e al
capitalismo attraverso cui l’Europa si è posta come il Significante padrone
dello sviluppo e del progresso storico, come Soggetto Universale di una
filosofia (coloniale) della Storia. Come sappiamo, si tratta di un tipo di
immaginazione storica, comune alle ideologie borghesi liberali e a un certo
tipo di marxismo occidentali, che ha posto una particolare autorappresentazione
della storia dell’Europa come Significante di un movimento storico
improntato alla modernizzazione e al progresso, ovvero di un processo governato
nella sua “norma” dalla tendenza alla “riproduzione allargata” del capitale,
per dirla nel linguaggio del marxismo alla Harvey, e quindi da una spinta
comunque intrinsecamente emancipatoria. Si pensi a questa sua enunciazione in La
guerra perpetua, ma che trova spazio anche nel più recente Città ribelli:
“i processi di accumulazione originaria sono stati sempre comunque
positivi, dolorosi ma necessari in società altrimenti stagnanti. Esprimevano
violenza di classe, ma liberavano i subalterni dai rapporti feudali di dipendenza,
aprivano le forze produttive allo sviluppo tecnologico e scientifico,
liberavano le culture dalla superstizione e dall’ignoranza” (p. 176).
Lasciando da parte l’intenso dibattito su questo argomento
all’interno del marxismo, ci sembra che la chiave per comprendere nello
specifico questa concezione di Harvey stia più in Schumpeter che in Marx: in L’enigma
del capitale egli definisce i processi di accumulazione originaria come
uno dei fenomeni tipici di “distruzione creativa”. Da qui anche la sua idea
secondo cui le crisi ricorrenti del capitalismo non siano altro che
“razionalizzazioni irrazionali” (2009, p. 126) degli squilibri costitutivi
dello sviluppo capitalistico. Sappiamo però che per una vasta parte
dell’umanità – fuori, ma anche dentro l’Europa – l’incontro/scontro con il modo
di produzione capitalistico non significò affatto proletarizzazione,
emancipazione o liberazione, bensì terrore, schiavitù, segregazione, morte,
fisica e sociale. Non vi è dubbio che l’opera di Harvey si sia mostrata da
sempre attenta e sensibile a questa pulsione “necropolitica” della modernità
capitalistica occidentale. Tuttavia, sarebbe necessario porre un importante
interrogativo: come dobbiamo intendere questo “lato” genocida, violento,
predatorio, escludente dello sviluppo capitalistico? Come parte della “norma”
del suo sviluppo o come una sua “deviazione” o “corruzione” indotta dalla politica,
ovvero da logiche – quali il razzismo, la volontà di potere delle élite
dominanti, la logica territoriale degli stati-nazione moderni – concepite come
estranee a quella puramente “capitalista” del capitale?
A complicare il quadro, vi è una sua ulteriore enunciazione
piuttosto problematica in L’enigma del capitale: “Il razzismo e
l’oppressione delle donne e dei bambini furono determinanti nell’ascesa del
capitalismo. Ma il capitalismo, per come è attualmente costituito, può in
principio sopravvivere senza queste forme di discriminazione e oppressione (…)
La tiepida accettazione del multiculturalismo e dei diritti delle donne nel
mondo aziendale, in modo particolare negli USA, ci dà una misura della capacità
del capitalismo di accogliere queste dimensioni del cambiamento sociale, ribadendo
al contempo la rilevanza delle divisioni di classe quale principale dimensione
dell’azione politica” (p, 259, corsivo mio). Sarebbe fin troppo semplice
ricordare i recenti fatti di Ferguson e la storica questione nera negli Stati
Uniti, le lotte dei migranti in Europa, o la persistente resistenza delle
comunità indigene al modello dell’attuale capitalismo razziale estrattivista
dell’America latina, per mostrare in che modo razza e razzismo siano venuti a
configurarsi sin dalla conquista dell’America, sin dalla nascita stessa della
modernità, come un dispositivo di sfruttamento globale e “costitutivo”, e non
semplicemente “locale”, “esterno” o “residuale”, del comando capitalistico.
Tuttavia, ci sembra importante cercare di riaprire il dibattito su quello che
Anibal Quijano (2003) ha chiamato la “colonialità del potere capitalistico
globale” non tanto per ribadire la sua dimensione “strutturale”, quanto per
lavorare in modo più efficace e meno “autoreferenziale” alla costruzione
politica di un “movimento globale di movimenti anticapitalisti incentrati
sull’appropriazione del comune”, per riprendere la stessa espressione di
Harvey.
4. Accumulazione per spoliazione senza
espropriazione?
Riprendiamo ora la prima parte dell’enunciazione di Harvey
in favore della sostituzione di “originaria” con “spoliazione” per qualificare
“accumulazione”. Si può essere d’accordo con l’idea secondo cui l’aggettivo
“originaria” risulta oramai poco efficace, a livello politico, per definire
processi che sono stati una costante dell’espansione del capitale e che sono
perennemente in atto. Tuttavia, prima di trarre conclusioni affrettate,
dobbiamo chiederci: quali sono gli aspetti dei processi di “accumulazione
originaria” che secondo Harvey sono stati una costante dell’espansione del
capitale e che sono tornati al centro del comando capitalistico dal
neoliberismo in poi? Come abbiamo anticipato, Harvey è molto chiaro su questo
punto: la violenza, fisica ed economica, l’arbitrio, la predazione, la rendita,
ovvero, ancora una volta, un qualcosa che egli ritiene “altro” dalla logica
“produttiva” della “riproduzione allargata” del capitale. E’ in virtù di questo
presupposto che “spoliazione” viene a rivelarsi per Harvey come un significante
più efficace di “originaria”, non solo per nominare la logica
“estrattiva” e “violenta” costante della riproduzione del capitale,
ma soprattutto per indicare la ricostituzione di tale modalità come logica
primaria dell’attuale comando capitalistico. Esempi contemporanei di
“accumulazione per spoliazione” sono per Harvey le nuove “recinzioni” di “beni
comuni” come l’acqua, l’elettricità, il gas, l’istruzione, la salute,
l’edilizia popolare e la rete portate avanti dalle privatizzazioni, dai diritti
di proprietà intellettuale e dai brevetti; la finanza e la sua progressiva
intromissione nei bisogni della vita quotidiana (derivati, subprime,
estensione generalizzata del sistema del credito/debito, privatizzazione dei
fondi pensione, ecc.); la speculazione immobiliare e la conseguente
gentifricazione di specifiche aree urbane (un processo che finisce spesso con
l’espulsione di poveri e subalterni da questi territori), nonché la
mercificazione delle forme culturali e della creatività intellettuale che da
esse emergono; lo sviluppismo “estrattivista” in corso in alcune regioni
dell’ex terzo mondo e dell’Europa dell’Est, legato allo sfruttamento da parte
di corporation transnazionali di diverse risorse naturali (petrolio, gas,
minerali, semi particolari come la soja) e al boom delle commodities nel
mercato dell’agrobusiness.
Per quanto efficace nella descrizione del processo di
divenire rendita del capitale, di questo nuovo movimento di “enclosures”,
l’espressione “accumulazione per spoliazione”, come anticipato, sembra enfatizzare
più i “mezzi” dell’accumulazione originaria che non quello che per Marx era il
suo fine essenziale. E’ l’atto di separazione/espropriazione dei mezzi di
produzione, di riduzione (o di assoggettamento) del lavoro vivo in forza
lavoro, ciò di cui deve assicurarsi ogni giorno il capitale, ed è qui che
risiede la sua violenza costante e costitutiva. Se, come sostiene Harvey, i
processi di accumulazione originaria non sono qualcosa che appartiene
unicamente al passato del capitale è proprio perché il capitale deve ripetere
questa “separazione originaria” ogni giorno e attraverso ogni mezzo necessario.
Questa violenza – l’addomesticamento o imbrigliamento della forza lavoro – è
stato da sempre il motore stesso della sua espansione e riproduzione: tanto dentro come fuori il
mondo della “riproduzione allargata”. Si tratta di una dimensione del discorso
marxiano lasciata piuttosto in ombra dalla prospettiva di Harvey: e questa
marginalizzazione finisce per indebolire alla base le potenzialità di
“accumulazione per spoliazione” in quanto significante chiave per la
comprensione delle dinamiche dell’attuale comando capitalistico.
Crediamo sia piuttosto difficile parlare della
privatizzazione dell’istruzione, della rete e dei servizi pubblici; della
speculazione immobiliare, della rendita finanziaria e di fenomeni come
l’espulsione di gruppi e soggetti dai territori urbani legati ai fenomeni di
gentrificazione, come dei “processi di “accumulazione originaria” senza
inserire tale considerazione all’interno di un discorso più esplicito sul
divenire “immateriale” della produzione e sul divenire della metropoli come
luogo chiave della produzione biopolitica del capitalismo contemporaneo, ovvero
senza un discorso sul ruolo dei saperi, dei linguaggi, della cooperazione e del
comune come motori dell’attuale sistema produttivo. Harvey si tiene
consapevolmente distante da questo discorso, e qualifica come “nebuloso” il
concetto di moltitudine. Il problema è che senza questo ulteriore passaggio il
concetto di “accumulazione per spoliazione” viene a trovarsi in una sorta di
“terra di mezzo” teorica. Perché dovremo considerare la privatizzazione
dell’istruzione e della rete, la finanza o gentrificazione urbana come nuovi
processi di “accumulazione originaria” se non ci viene specificato che cosa
questi processi separano/espropriano e per quale motivo? In che senso un
capitale divenuto “rendita” è “estrattivo”? Solo perché ripete un atto
violento? Ma in che cosa consiste quella violenza? Nel fatto che essa viene
eseguita in modo arbitrario da un esercizio del potere divenuto più
“coercitivo” e “repressivo” che egemonico? Ci sembrano punti su cui occorre
ritornare.
Se abbiamo voluto mettere a fuoco alcuni problemi
teorico-epistemologici intrinseci alla nozione di “accumulazione per spoliazione”
è perché crediamo nelle sue potenzialità; consapevoli di una vecchia premessa
althusseriana secondo cui ogni problema teorico è anche un problema politico.
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