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Karl Marx ✆ Alessandro D’Alatri
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J. | Le
trasformazioni profonde del recente passato - lo smantellamento dello
stato-provvidenza ad Ovest, il crollo del blocco dei paesi dell'Est e dei
partiti "comunisti", e l'emergere di un nuovo ordine capitalista
mondiale e liberale, apparentemente trionfante, ha restituito tutta la sua
importanza al problema della dinamica storica e della possibilità di
trasformare il mondo. Il crollo del blocco dell'Est, la dissoluzione definitiva
dell'Unione Sovietica, e l'abbandono del riferimento al "comunismo"
non segnano affatto la fine storica del marxismo, ma piuttosto le deformazioni
radicali dello stesso, per cui il socialismo sarebbe caratterizzato
principalmente dalla proprietà collettiva dei mezzi di produzione e dalla
produzione centralizzata, e da un modo di distribuzione regolato in maniera
giusta e cosciente.
Questa visione deformata del marxismo non ha permesso la
critica dei regimi "socialisti". Per coloro che hanno tenuto gli
occhi aperti, i regimi cosiddetti "socialisti" non apparivano come
una risposta ai problemi del capitalismo, poiché non differivano dal
capitalismo occidentale se non per l'introduzione della pianificazione
centralizzata e per la proprietà da parte dello Stato.
Negli anni '30, per
esempio, Gide, nel suo "Ritorno dall'URSS", scriveva a proposito del
regime stalinista: "Sì, certo, dittatura evidentemente; ma quella di un
uomo, non più quella dei proletari uniti, dei soviet. Il punto è di non
illudersi, e sforzarsi di riconoscerlo chiaramente: non è quello che volevamo.
Ancora un passo e potremmo perfino dire: è proprio quello che non volevamo
affatto".
Tenere gli occhi aperti, oggi significa riconoscere i
cambiamenti intervenuti dopo la seconda guerra mondiale circa il modo in cui il
capitalismo si valorizza, i cambiamenti intervenuti nella classe operaia, e il
modo in cui gli sfruttati possono sviluppare il progetto rivoluzionario, a
partire dall'integrazione delle tematiche e dalle fonti di malcontento sociale:
il declino, numericamente e della potenza, della classe operaia dei paesi centrali,
l'insoddisfazione per le forme di lavoro esistente, la precarizzazione, la
flessibilità, l'importanza crescente delle forme di identità sociale che non si
fondano più principalmente sulle classi, ma anche la povertà, le migrazioni, lo
sviluppo della xenofobia, le catastrofi ecologiche, i genocidi, l'introduzione
sempre maggiore della scienza e della tecnologia nel processo di produzione, la
privatizzazione del patrimonio comune, come il patrimonio genetico, la
privatizzazione dell'impegno collettivo, come il software libero, ...
Hardt e Negri (H&N), nel loro due opere, "Impero" e
"Moltitudine", elaborano una teoria di questi cambiamenti, nella
quale i vecchi concetti di "Stato-nazione", di "classe
operaia", di "comunismo", vengono sostituiti da concetti quali
l'Impero, la moltitudine, la democrazia. Non è nostra intenzione fare qui una
critica esaustiva delle teorie di H&N espresse in "Moltitudine":
l'erudizione dei due autori, l'abbondanza di riferimenti, l'estensione e la
varietà delle aree coperte, il lungo percorso intellettuale e militante di
Negri, rendono queste teorie complesse e ricche. Ci limiteremo quindi a
discutere tre punti: Nel periodo post-fordista,
(i) la produzione di valore rimane il fine della produzione
capitalista? Come misurarlo?
(ii) il soggetto rivoluzionario rimane la classe operaia o è
la moltitudine?
(iii) la prospettiva di un'altra società: comunismo o
democrazia?
Il nostro approccio è quello di mostrare
(i) la natura specificamente capitalista dei fenomeni
summenzionati;
(ii) la necessità di tornare al nocciolo del marxismo, al
modo in cui rivela la natura profonda del capitalismo, i suoi rapporti sociali,
le sue forme di dominio, la sua dinamica storica, al fine di rendere contro di
questi cambiamenti;
(iii) che i nuovi concetti di H&N sotto delle apparenze
radicali, sono privi di acutezza e teorizzano solamente l'impotenza.
I. Il valore rimane
al centro della produzione capitalista? Come misurarlo?
H&N affermano che:
"… negli ultimi
decenni del XX secolo, il lavoro industriale ha perso la sua egemonia e al suo
posto è emerso il «lavoro immateriale», un lavoro che crea prodotti immateriali
come la conoscenza, l'informazione, la comunicazione o ancora, una relazione,
una risposta emotiva." (...) "La nostra tesi è che il lavoro immateriale
è predominante in termini qualitativi, e ha imposto una tendenza alle altre
forme del lavoro e alla società nel suo complesso. Il lavoro immateriale occupa
attualmente la stessa posizione che il lavoro industriale occupava
centocinquanta anni fa(...)come in quella fase
tutte le forme del lavoro e la società in quanto tale dovettero
industrializzarsi, così anche oggi sia il lavoro sia la società devono
informatizzarsi, devono diventare intelligenti, comunicativi e affettivi".
"L'egemonia del lavoro immateriale lo sfruttamento non è più declinabile
come espropriazione del valore indicizzata sul tempo di lavoro individuale o
collettivo, bensì come cattura del valore prodotto dalla cooperazione
lavorativa, valore che diviene sempre più comune attraverso la sua circolazione
nelle reti sociali."
Le idee di H&N sono vicine a quelle di Gorz, secondo il
quale
"il termine
'economia della conoscenza' definisce degli sconvolgimenti fondamentali del
sistema economico. Esso implica che la conoscenza è divenuta la principale
forza produttiva. Che, di conseguenza, il prodotto dell'attività sociale non è
più, principalmente, il lavoro cristallizzato bensì la conoscenza
cristallizzata. Che il valore di scambio delle merci, materiali o no, non viene
più determinato in ultima analisi dalla quantità di lavoro sociale generale che
la merce contiene ma, soprattutto, dal contenuto di conoscenza, di
informazione, d'intelligenza generale. E' quest'ultima, e non più il lavoro
sociale astratto, misurabile secondo un unico standard, che diventa la
principale sostanza sociale comune a tutte le merci. E' questa che diventa la
principale fonte di valore e di profitto, e perciò, secondo numerosi autori, la
principale forma di lavoro, e di capitale"(...)"L'eterogeneità delle
attività lavorative dette 'cognitive', dei prodotti immateriali che esse creano
e delle capacità e dei saperi che esse implicano, rende non misurabile tanto il
valore della forza lavoro quanto quella dei suoi prodotti (...) La crisi della
misura del lavoro porta inevitabilmente la crisi della misura del valore.
Quando il tempo socialmente necessario per una produzione diventa incerto,
quest'incertezza non può non ripercuotersi sul valore di scambio di quel che
viene prodotto. Il carattere sempre più qualitativo, sempre meno misurabile del
lavoro, mette in crisi la pertinenza della nozione di 'pluslavoro' e di
'plusvalore'. La crisi della misura del valore mette in crisi la definizione
dell'essenza del valore".
E' più facile comprendere intuitivamente lo sfruttamento (e
dunque il pluslavoro, ed il valore) quando si vedono immagini di file di
operaie che cuciono jeans, come attualmente avviene in Cina, che quando vediamo
immagini di robot, che formano la catena di montaggio di un'industria
automobilistica, sorvegliati da dei lavoratori che stanno di fronte allo
schermo del loro computer. Tuttavia, se si prende per angolo di visione la
produzione totale di merci, legate al lavoratore collettivo, e non la
produzione dei beni materiali o immateriali legata al lavoro individuale di
ciascuno, non c'è alcuna ragione di dubitare che la produzione capitalista è
sempre basata sul valore legato all'estrazione di pluslavoro. Il dubbio e
l'incredulità di H&N ( e di Gorz), in rapporto alla nozione di valore nel
periodo del dominio formale del capitalismo, troverebbe un equivalente nel
fatto di dubitare dell'attrazione terrestre quando si videro decollare i primi
aerei.
Un concetto essenziale per affrontare l'evoluzione del
capitalismo nel XX secolo, è quello del passaggio dal dominio formale al
dominio reale. Marx aveva già tracciato a grandi linee, in un "capitolo
inedito del Capitale", le caratteristiche essenziali del passaggio alla
sottomissione reale del lavoro al capitale, che egli chiamava il "modo di
produzione specificamente capitalista", e le implicazioni di un tale
passaggio per il carattere sociale della produzione, e l'emergere del
"lavoratore collettivo".
"Nello
svilupparsi, le forze di produzione della società, o forze produttive del
lavoro, si socializzano, e divengono direttamente sociali (collettive), grazie
alla cooperazione, alla divisione del lavoro in seno all'officina, all'impiego
di macchinari e, in generale, alle trasformazioni che subisce il processo di
produzione, grazie all'utilizzo cosciente delle scienze naturali, della
meccanica, della chimica, ecc., applicate a determinati fini tecnologici, e
grazie a tutto quello che si collega al lavoro effettuato su grande scala, ecc.
(Solo questo lavoro socializzato è in grado di applicare i prodotti generali
dello sviluppo umano - per esempio la matematica - al processo di produzione
immediato, essendo, a loro volta, lo sviluppo di queste scienze, determinato
dal livello raggiunto dal processo di produzione materiale)"."La sottomissione
reale del lavoro al capitale si accompagna ad una rivoluzione completa (che
continua e si rinnova costantemente, cfr. Il Manifesto Comunista) del modo di
produzione, della produttività del lavoro, e dei rapporti tra capitalisti ed
operai". "E' così che la produzione capitalista tende a conquistare
tutti i settori dell'industria dove ancora non domina e dove regna solo una
sottomissione formale. Non appena si è impadronita dell'agricoltura,
dell'industria estrattiva, dei principali settori tessili, ecc., essa guadagna
quegli altri settori dove la sottomissione è puramente formale, ossia dove
sussistono ancora dei lavoratori indipendenti"."Se la produzione
di plusvalore assoluto corrisponde alla sottomissione formale del lavoro al
capitale, quella del plusvalore relativo corrisponde alla sottomissione reale
del lavoro al capitale". "Il risultato materiale della produzione -
oltre allo sviluppo delle forze di produzione sociale del lavoro - è l'aumento
della massa di prodotti, la moltiplicazione e la diversificazione dei settori e
dei rami della produzione, per cui solo il valore di scambio si sviluppa allo
stesso tempo delle sfere di attività nelle quali i prodotti si realizzano come
valore di scambio"."Questa
produzione non è affatto ostacolata da dei limiti fissati in anticipo o
determinata dai bisogni. (...) Il suo carattere antagonista tuttavia impone
alla produzione dei limiti che esso cerca continuamente di oltrepassare: da qui
le crisi, la sovrapproduzione, ecc. Ciò che rende negativo o antagonista il suo
carattere, è che esso si svolge in contrasto coi produttori e senza riguardo
per loro, essendo dei semplici mezzi per produrre, mentre, divenuta un fine in
sé, la ricchezza materiale si sviluppa in opposizione all'uomo ed a sue spese.
La produttività del lavoro significa il massimo del prodotto con il minimo del
lavoro, in altre parole, delle merci al miglior prezzo possibile. Nel modo di
produzione capitalista, questo diviene una legge, indipendentemente dalla
volontà del capitalista. In pratica, questa legge ne implica un'altra: i
bisogni non determinano il livello della produzione, ma, al contrario, la massa
dei prodotti viene fissata ad un livello sempre crescente, prescritto dal modo
di produzione. Ora, lo scopo di questo è che ciascun prodotto contenga il più
possibile di lavoro non pagato, cosa che si può realizzare solo producendo per
la produzione".
Leggendo queste citazioni, si può vedere che nel disegno a
grandi linee dello sviluppo del modo di produzione specificamente capitalista
(il carattere antagonista della produzione, l'incorporazione della scienza e
della tecnica ...), Marx dà un ruolo centrale alla legge del valore, al fatto
che "ciascun prodotto contenga il più possibile di lavoro non
pagato". La produzione immateriale è, quanto ad essa, delineata da Marx,
ma in modo molto succinto:
"La produzione
immateriale, effettuata per lo scambio, fornisce anch'essa delle merci, e sono
possibili due casi:1°) le merci che ne
risultano hanno un'esistenza separata dal produttore e, nell'intervallo tra
produzione e consumo, possono circolare come qualsiasi altra merce. Così, i
libri, i quadri ed altri oggetti d'arte possono staccarsi dall'artista che li
ha creati. Tuttavia, la produzione capitalista qui non può essere applicata che
in misura assai limitata. Queste persone, se non impiegano nessun apprendista o
operaio (come avviene per gli scultori), lavorano più spesso per un mercante
capitalista, ad esempio per un editore. E' questa una forma di transizione
verso il modo di produzione capitalista semplicemente formale (...)2°) il prodotto è
inseparabile dall'atto che lo produce. Anche qui il modo di produzione
capitalista gioca solo negli stretti limiti e, a seconda della natura della
cosa, in qualche rara sfera (voglio il medico, e non il suo fattorino). Per
esempio, negli stabilimenti di insegnamento, "i maestri possono essere dei
puri salariati dall'imprenditore della fabbrica scolastica". Marx ha anche
affrontato la questione dell'incorporamento della scienza, delle conoscenze,
nel processo di produzione: "La scienza, prodotto intellettuale generale
di sviluppo della società appare, anch'essa, direttamente incorporata nel
capitale, e le sue applicazioni nel processo di produzione materiale
indipendente dal sapere e dalla capacità dell'operaio individuale: lo sviluppo
generale della società, essendo sfruttata dal capitale grazie al lavoro e
agendo sul lavoro come forza produttiva di capitale, appare come lo sviluppo stesso
del capitale, tanto più che per molti la capacità del lavoro è svuotata della
sua sostanza."
Le implicazioni per la definizione di lavoro produttivo e di
classe operaia più generalmente, sono chiaramente esposte da Marx:
"... con lo sviluppo
della sottomissione reale del lavoro al capitale, o modo di produzione
specificamente capitalista, il vero agente del processo di lavoro totale non è
più il lavoratore individuale, ma una forza lavoro che si combina sempre più
socialmente. In queste condizioni, la numerosa forza lavoro che coopera e forma
la macchina produttiva totale, partecipa in maniera, la più diversa, al
processo immediato di creazione delle merci, o meglio dei prodotti: gli uni
lavorando intellettualmente, gli altri manualmente, gli uni come dirigenti,
ingegneri, tecnici o come sorveglianti, gli altri, infine, come operai manuali,
oppure semplici ausiliari. Un numero crescente di funzioni della forza lavoro
prende il carattere immediato di lavoro produttivo, essendo quelli che lo
eseguono degli operai produttivi direttamente sfruttati dal capitale e
sottomessi al suo processo di produzione e di valorizzazione. Se si considera
il lavoratore collettivo che forma l'officina, la sua attività combinata si
esprime materialmente e direttamente in un prodotto globale, cioè a dire una
massa totale di merci. Perciò è del tutto indifferente determinare se la
funzione del lavoratore individuale consista più o meno in semplice lavoro
manuale. L'attività di questa forza lavoro globale viene consumata direttamente
in maniera produttiva dal capitale nel processo di auto-valorizzazione del
capitale: essa produce dunque immediatamente del plusvalore, o meglio, come
vedremo in seguito, essa trasforma direttamente sé stessa in capitale."
Questa ampie citazioni mostrano che l'importanza crescente
assunta dalle conoscenze, dal "lavoro immateriale", nello sviluppo
della produzione capitalista non è perciò un fenomeno nuovo, ma un fenomeno che
si è accentuato alla fine del XX secolo, all'inizio del XXI. La questione
attivamente discussa oggi è quella di sapere se (e come?) il lavoro immateriale
cambia la nozione di valore, di pluslavoro, ecc. Per mettere in prospettiva la
questione, sembra necessario esplicitare le tendenze contraddittorie. Vale a
dire, (a) la generalizzazione della legge del valore e la tendenza ad una
produzione senza valore, (b) la generalizzazione del lavoro salariato e la
tendenza alla produzione automatizzata, "senza operai".
a. Generalizzazione
della legge del valore e tendenza ad una "produzione senza valore"
Il valore designa sempre il valore di scambio di una merce
contro altre merci. Esso designa le diverse quantità di merci diverse contro le
quali un quantum di una merce specifica è scambiabile, cioè a dire il rapporto
di equivalenza delle merci, le une in rapporto alle altre. Questo rapporto
viene espresso in unità di una merce-standard che è scambiabile con tutte le
altre: il denaro. Nel corso degli ultimi decenni, un gran numero di attività o
di beni comuni è stato trasformato in merci. Di nuovo, questo fenomeno è stato
descritto da Marx:
"... nella produzione
capitalista, la regola assoluta diviene, da una parte, la produzione di
articoli sotto forma di merci e, dall'altra parte, il lavoro sotto forma
salariata. Un gran numero di funzioni e di attività, che, adornate di
un'aureola e considerate come fini in sé, essendo una volta esercitate
gratuitamente oppure remunerate in maniera diversa (...) si trasformano
direttamente in lavoro salariato, per quanto diversi siano i loro contenuti,
ricadono sotto le leggi che regolano il prezzo del salario, che è la stima del
loro valore e dal prezzo delle differenti prestazioni, da quello della puttana
a quello del re (...) Con lo sviluppo della produzione capitalista, tutti i
servizi si trasformano in lavoro salariato e tutti coloro che li esercitano in
lavoratori salariati, di modo che acquisiscano questo carattere in comune con i
lavoratori produttivi".
Lavori di casa, cura dei bambini, manutenzione dei giardini,
consulenze psicologiche, lezioni particolari, preparazione dei piatti "da
portar via", non mancano gli esempi di attività "una volta esercitate
gratuitamente oppure remunerate in maniera indiretta" che oggi sono invece
oggetto di uno scambio di mercato. Anche i beni comuni che, a priori, non sono
delle merci, perché non vengono prodotte in vista di uno scambio, sono
confiscati per mezzo di barriere artificiali che ne riservano il godimento a
coloro che pagano il diritto di accesso. Sia che si pensi all'ossigeno
(il verde) nelle città altamente inquinate, o al genoma umano decodificato.
"La privatizzazione delle vie di accesso permette di trasformare delle
ricchezze naturali e dei beni comuni in quasi-merci che procurano una rendita
ai venditori dei diritti di accesso. Il controllo dell'accesso è (...) una forma
privilegiata della capitalizzazione delle ricchezze immateriali".
Il lavoro immateriale (per esempio sotto forma di software)
costituisce una delle espressioni della traiettoria del capitalismo verso la
produzione senza valore. Questa tendenza risulta dall'introduzione della
scienza e della tecnologia nel cuore stesso del processo produttivo.
L'introduzione della tecnologia nella produzione, permette di economizzare
molto più lavoro di quanto costi. Essa distrugge più valore di quanto ne crei:
economizza delle quantità immense di lavoro socialmente remunerato e di
conseguenza annulla o diminuisce il valore di scambio di un numero crescente di
prodotti. Questa tendenza ha delle conseguenze distruttive: distruzione degli
stock, licenziamenti e disoccupazione, ... Ha anche un costo positivo: la
traiettoria del capitalismo fa sì che il valore di scambio tenda a diventare
obsoleto, e crea, nei rapporti di produzione, una tensione, una contraddizione
che prevede una sua soluzione per mezzo di un sistema di produzione che non sia
più basato sul valore.
Questi due fenomeni (generalizzazione della legge del valore
e tendenza ad una produzione senza valore) sono quindi contraddittori.
b. Generalizzazione
del lavoro salariato e tendenza verso una produzione "senza operai"
In rapporto al sistema di produzione capitalista, sempre più
persone appaiono come venditori dell'unica qualità che posseggono: il lavoro
vivente, cioè a dire la loro forza lavoro. E' la conseguenza della
generalizzazione della legge del valore su tutti gli aspetti della società. Nel
corso dell'ultimo decennio, in Cina, si vede molto chiaramente questo processo:
i contadini vengono cacciati dalle loro terre o le abbandonano lasciandole ad
una parte delle loro famiglie, e vanno a cercare lavoro nelle città.
Nel secolo scorso, il lavoro vivente poteva generalmente
venire integrato al processo di produzione e divenire lavoro salariato,
partecipando alla produzione di plusvalore e all'auto-valorizzazione del
capitale.
"Dunque, è
produttivo solo il lavoro che, per l'operaio, riproduce unicamente il valore,
determinato in anticipo, della sua forza lavoro e valorizza il capitale per
mezzo di un'attività creatrice di valore che mette di fronte all'operaio dei
valori produttivi in quanto capitale. Il rapporto specifico tra lavoro
oggettivo e lavoro vivente che fa del primo il capitale, fa del secondo il
lavoro produttivo.Il prodotto specifico
del processo di produzione capitalista, il plusvalore, viene creato unicamente
ai fini dello scambio con il lavoro produttivo. Ciò che ne costituisce il
valore d'uso specifico per il capitale, non è l'utilità particolare del lavoro
o del prodotto nel quale si oggettivizza, ma la la facoltà del lavoro di creare
il valore di scambio (plusvalore)".
Inoltre, lo sviluppo della produttività del lavoro ha come
conseguenza che una proporzione sempre più grande di "venditori di forza
lavoro" non trovano più a chi vendere questa forza lavoro, e vengono
perciò esclusi, temporaneamente o definitivamente, dal processo di produzione:
disoccupati di età superiore ai 50 anni nei paesi europei, i giovani, ... Anche
nei paesi come la Cina, la disoccupazione, il sottoimpiego si è largamente
diffuso. Questa contraddizione fra la generalizzazione dello statuto di "venditore
di forza lavoro" e il ritiro (relativo, non assoluto) delle possibilità di
incorporazione di questa forza lavoro nel processo di produzione è
interessante, perché è uno degli ingredienti che spingono alla presa di
coscienza dell'obsolescenza del sistema capitalistico.
Le ragioni che spingono H&N a definire la produzione di
prodotti immateriali come delle "relazioni" oppure delle
"relazioni emozionali", e il valore come qualcosa che venga prodotto
dal "lavoro cooperativo", "che circola in seno alla rete
sociale", sono di due ordini: confusione fra valore e ricchezza sociale, e
confusione fra produzione di relazioni sociali, di emozioni, e produzione di
valore. E' interessante dipanare il filo di questa confusione, perché questo ci
permette di toccare quelli che sono degli aspetti essenziali della società
attuale.
1°) La confusione fra
valore e ricchezza sociale
Per
H&N, tutto è produttivo. Dappertutto e sempre si dà produzione di
"valore". Il valore viene prodotto da tutti, che si sia o no
integrati nel processo di produzione, anche dai disoccupati, dagli immigrati
clandestini (i quali trovano dei modi per cavarsela). H&N vedono la
"produzione" come tutto ciò che viene fatto nella società, tanto la
produzione di automobili quanto il sorriso (o l'assenza di sorriso) fra il
manager e i suoi impiegati. Se parlo, produco valore; se taccio, produco valore
(il valore del silenzio). Siamo tutti come il signor Jordain di Molière, che
faceva prosa senza saperlo ... Questa concezione chiarisce veramente qualcosa?
H&N non fanno distinzione fra valore e ricchezza
materiale e sociale. Ora, questa distinzione è essenziale al fini di
comprendere perché gli enormi aumenti di produttività generati dal capitalismo
non hanno portato a dei livelli generali di abbondanza sempre più elevati, né
ad una ristrutturazione fondamentale del lavoro sociale con una conseguente
riduzione generale significativa del tempo di lavoro.
"Da un lato, la tendenza del capitale a degli aumenti
permanenti di produttività genera un apparato produttivo dotato di una
considerevole sofisticazione tecnologica che rende la produzione di ricchezza
materiale essenzialmente indipendente dal dispendio di lavoro umano diretto.
Dall'altro lato, questa tendenza apre la possibilità di ridurre il tempo di
lavoro a livello di tutta la società e di una trasformazione fondamentale nella
natura e nell'organizzazione del lavoro. Tuttavia, nel capitalismo, queste
possibilità non si realizzano. Benché si faccia sempre meno ricorso al lavoro
manuale, lo sviluppo di una produzione tecnologicamente sofisticata non libera
affatto la maggioranza delle persone da un lavoro frammentato e ripetitivo.
Parimenti, il lavoro non viene ridotto al livello di tutta la società, ma viene
distribuito in modo ineguale, perfino aumentandolo, per molti. La struttura
attuale del lavoro e dell'organizzazione della produzione non può perciò essere
compresa solo in termini tecnologici: lo sviluppo della produzione sotto il
capitalismo deve essere compreso anche in termini sociali." (Postone).
La traiettoria della crescita dentro il capitalismo è
determinata dal fatto che il fine ultimo della produzione è quello di aumentare
il plusvalore, e non la quantità di beni. "Detto in altri termini, la
traiettoria dell'espansione sotto il capitalismo non dev'essere confusa con la
'crescita economica' in quanto tale - si tratta in realtà di una traiettoria
determinata, che genera una tensione crescente fra le preoccupazioni
ecologiche, da una parte, e gli imperativi del valore in quanto forma della
ricchezza e della mediazione sociale, dall'altra". Il lavoro sotto il
capitalismo risponde solo apparentemente ai bisogni degli uomini ("lavoro
concreto"): in realtà, vero fine in sé, esso serve essenzialmente
all'aumento del valore per il valore ("lavoro astratto"):
"Il carattere
astratto della mediazione sociale che sottende il capitalismo, si esprime anche
sotto la forma della ricchezza che domina questa società. La 'teoria del
valore-lavoro' di Marx, sovente è stata compresa in maniera erronea come teoria
della ricchezza-lavoro, cioè a dire come teoria che cerca di spiegare il
meccanismo del mercato e cerca di provare l'esistenza dello sfruttamento
affermando che il lavoro, sempre e dappertutto, è la sola fonte sociale di
ricchezza. Ma l'analisi di Marx non è affatto un'analisi della ricchezza in
generale, né del lavoro in generale. Essa analizza il valore in quanto forma
storicamente specifica della ricchezza, in quanto forma legata al ruolo
storicamente unico del lavoro sotto il capitalismo: in quanto forma di ricchezza,
il valore è anche una forma di mediazione sociale. Marx ha esplicitamente fatto
distinzione fra valore e ricchezza materiale, ed ha legato queste due forme
distinte di ricchezza alla dualità del lavoro sotto il capitalismo. La
ricchezza materiale è determinata dalla quantità di beni prodotti, e dipende da
numerosi fattori, come il sapere, l'organizzazione sociale e le condizioni
naturali, oltre al lavoro. Il valore, secondo Marx, è costituito solamente dal
dispendio di tempo di lavoro umano, ed esso è la forma dominante di ricchezza
sotto il capitalismo." (Postone).
Il valore, fine della produzione capitalista, rimane perciò
legato all'estrazione di plusvalore dal lavoro umano.
Una deriva diretta della concezione che assimila valore e
ricchezza materiale e sociale, è quella che serve da base per la rivendicazione
di un "salario sociale", o "salario garantito", come quella
espressa da Guilloteau:
"Contro la
precarietà, è sul salario sociale, ovvero dissociato dal lavoro remunerato da
impresa, che si manifesta il rapporto di forza in seno alla condizione
salariale. Sappiamo che gli importi e le condizioni di attribuzione esistenti,
come insieme della gerarchia dei salari garantiti dallo Stato, sono del tutto
arbitrari. Bisogna trovare una forma di accesso alla ricchezza materiale e
sociale che risponda ai bisogni dei lavoratori intermittenti, a tempo ridotto o
in formazione. Dopo la creazione dello SMIC, nel 1967, la socializzazione di un
salario staccato dall'implicazione produttiva individuale è divenuta evidente.
La produzione è immediatamente sociale. Grazie alle lotte contro il lavoro, il
suo carattere di attività collettiva viene parzialmente retribuito. La
cooperazione sociale allora cessa di essere una risorsa gratuita. Se le lotte
per il reddito garantito fanno seguito ad un movimento secolare di riduzione
del tempo di lavoro, è perché solo esse tengono conto della confusione delle
vecchie frontiere fra tempo di vita e tempo di lavoro, superando la classica
distinzione fra produzione e riproduzione. Solo esse rispondono alla riduzione
del tempo di lavoro che caratterizza la precarietà."
Ma, come sottolinea Gorz, la giustificazione della
rivendicazione del "salario garantito" è contraddittoria. Parla
innanzi tutto di rispondere "ai bisogni dei lavoratori
intermittenti", di staccare il salario dalla "implicazione produttiva
individuale". Ma poi glissa rapidamente e dice che la produzione è
"diventata sociale". Il salario cessa allora di essere
incondizionale, ma è legato alla retribuzione di un'attività
"collettiva", alla "cooperazione sociale". Questo esempio
mostra fino a che punto queste idee manchino di acutezza, di radicalismo, di
messa in discussione del sistema capitalista.
2°) La confusione fra
produzione immateriale produzione di relazioni, di reazioni emotive
Il fatto che il capitalismo ponga sempre più l'accento sulle
relazioni sociali, anche in seno alle imprese o nel rapporto con il potenziale
acquirente, così come sulle reazioni emotive, è innegabile. Tuttavia, possiamo
dire che quando il controllore dei biglietti li buca con il sorriso sulle
labbra, anziché con un aria triste, allora produce valore? Possiamo dire che la
pubblicità per la Nike, che mostra degli uomini o delle donne che corrono senza
preoccuparsi dello stato della strada, dell'acqua che scorre ... ci sia una
produzione diretta di valore? Di quale valore si sta parlando? Del valore di
scambio, monetario e di mercato, che è il solo che l'economia politica conosca?
Oppure del valore intrinseco, di ciò che è intrinsecamente desiderabile e, per
definizione, non scambiabile in quanto merce con le altre merci?
Piuttosto che produrre valore, l'immagine del marchio, gli
slogan pubblicitari, costituiscono degli strumenti attraverso i quali la merce
produce i suoi consumatori, cioè suscita i desideri, le voglie, l'immagine di
sé di cui la merce dovrebbe rappresentare l'espressione più adeguata.
L'importanza di un tale fenomeno è stata ben analizzata da Naomi Klein nel suo
libro "No logo" (vedere anche la critica dettagliata, fatta da Aufheben,
della nozione di lavoro immateriale di H&N)
II. Il soggetto
rivoluzionario: Classe operaia o Moltitudini?
H&N riconoscono assai chiaramente i cambiamenti che
hanno interessato la classe operaia nei paesi occidentali, gli Stati Uniti, e
vedono nella precarietà, nella flessibilità, le nuove caratteristiche della
forza lavoro odierna: "vedremo come le identità compatte degli operai
dell'industria siano state erose dall'aumento dei contratti a tempo determinato
e dalla mobilità forzata che caratterizzano le nuove fome di lavoro nei paesi
dominanti". Alla domanda su chi sarà il soggetto rivoluzionario
dell'avvenire, rispondono col concetto di "moltitudine": "Il
nostro approccio iniziale consiste perciò nel concepire la moltitudine come
l'insieme di quelli che lavorano sotto la tutela del capitale e dunque,
potenzialmente, come la classe di quelli che rifiutano il dominio del capitale.
Il concetto di moltitudine è del tutto distinto da quello di classe operaia,
segnatamente come lo si è inteso nel XIX e nel XX secolo. Il concetto di classe
operaia è un concetto restrittivo che si definisce per esclusione. Nella sua
accezione più stretta, designa solo le forme industriali di lavoro, escludendo
tutte le altre. Nel senso più largo, la classe operaia include tutti i
lavoratori salariati ed esclude di conseguenza le diverse classi non
salariate". "La società contemporanea si compone di un numero
potenzialmente infinito di classi sociale che riflettono delle differenze che
non sono esclusivamente di ordine economico, ma che riguardano l'appartenenza
etnica o comunitaria, l'appartenenza geografica, il genere, la sessualità,
insieme ad altri fattori". Secondo loro, la determinazione economica alla
resistenza ha preso il posto della determinazione politica: "un'analisi
del concetto economico di classe sociale, così come un'analisi del concetto di
razza, non deve cominciare rilevando le differenze empiriche ma il fronte di
resistenza collettiva al potere. La classe è un concetto politico, nella misura
in cui una classe è, e non può essere altro che, un collettivo in lotta".
Il merito di questo approccio è quello di voler rompere con
un determinismo economico che vede le possibilità dell'emergere di una
coscienza rivoluzionaria solo come reazione a degli attacchi economici. Ma se
le determinazioni economiche sono meno evidenti, nella società di oggi rispetto
a quella dopo la seconda guerra mondiale, esistono sempre, anche se ad un
livello più astratto. Di fronte al capitalismo, la classe operaia è costituita
da quelli che hanno solo da vendere la loro forza lavoro.
Abbiamo già detto, sopra, del modo in cui Marx ha esaminato
le conseguenze del passaggio dal dominio formale al dominio reale sull'agente
del processo di lavoro totale, che non è più il lavoratore individuale, ma il
lavoratore collettivo. Il passaggio dal fordismo al post-fordismo ha avuto
delle importanti conseguenze sulla "coscienza di sé" di un tale
"lavoratore collettivo". Lo sviluppo della precarietà, dei
sotto-statuti, la sostituzione della catena di produzione per mezzo di robot
sorvegliati da lavoratori, ecc., rendono difficile l'emergere della coscienza
di un destino comune. Ma, piuttosto che un numero "infinito di classi
sociali", la società moderna va verso una semplificazione: un numero crescente
di elementi vengono proletarizzati, cioè non hanno altro che la loro forza
lavoro da vendere. La categoria "lavoro" perciò rimane, finché esiste
il capitalismo, primordiale come categoria mediatrice dei rapporti sociali,
come sottolinea Postone: "Marx cerca di individuare la forma più
fondamentale dei rapporti sociali che caratterizzano la società capitalista.
Questa forma fondamentale, è la merce: una forma storicamente specifica dei
rapporti sociali", costituita dal lavoro.
"In una società
dove la merce è la categoria fondamentale della strutturazione della totalità,
il lavoro ed i suoi prodotti non vengono distribuiti socialmente per mezzo di
legami, di norme e di rapporti palesi di potere e di dominio tradizionali -
cioè a dire di rapporti sociali manifesti - come avviene nel caso di altre
società. Al contrario, è il lavoro stesso che sostituisce questi rapporti,
servendo da mezzo quasi oggettivo per mezzo del quale si acquisiscono i
prodotti degli altri. Viene per emergere una nuova forma di interdipendenza dove
nessuno consuma quello che produce, ma dove, tuttavia, il lavoro, o il prodotto
del lavoro, di ciascuno serve da mezzo necessario per ottenere i prodotti degli
altri (...)"."Nell'opera del
Marx della maturità, dunque, l'idea secondo la quale il lavoro è centrale nella
vita sociale, non è una proposizione trans-storica. Non si rapporta al fatto
che la produzione materiale sarebbe un prerequisito per ogni vita sociale. Non
significa perciò che la produzione materiale sarebbe la dimensione più
essenziale della vita sociale in generale, o anche del capitalismo in
particolare. In realtà, nel capitalismo, essa si rapporta alla costituzione,
storicamente specifica, del lavoro come forma di mediazione sociale che
caratterizza fondamentalmente questa società. E' su questa base che Marx fonda
socialmente i tratti essenziali della modernità".
Anche la questione degli "esclusi" dalla
produzione dev'essere considerata. L'aumento della produttività del lavoro,
legato all'introduzione della tecnologia e della scienza nella produzione,
porta ad una diminuzione del tempo di lavoro necessario, quindi a maggior
disoccupazione, una massa più grande che non verrà mai integrata nel processo
di produzione, e che fa tuttavia parte della classe operaia. La questione del
lavoro, lungi dall'aver perso di importanza, rimane al contrario al cuore della
resistenza al capitalismo, e al cuore delle battaglie a venire. "Né
lavoratori, né disoccupati", recitava uno slogan nel corso dell'assemblea
dei giovani studenti (marzo-aprile 2006, Francia). Si assiste all'emergere di
una coscienza, fra i giovani, futuri lavoratori, del sistema di sfruttamento
basato sul lavoro, e al di fuori del quale rimane solo il rifiuto di entrare
ciecamente in questa logica.
Una delle questioni connesse, sollevata da H&N, riguarda
il fatto che la classe operaia si riconosce solo quando è in azione, e quando
si può misurare l'effetto della sua azione. In effetti, l'azione permette di
percepirsi come soggetto, e di distinguersi dagli altri. Tuttavia, l'azione non
basta a sé stessa. Quando i giovani delle periferie sono entrati in azione
(novembre 2005), i giovani universitari ed i lavoratori attivi non hanno
riconosciuto un tale movimento come facente parte della classe operaia. Convergere
nell'azione di resistenza, di opposizione al capitalismo, necessita già di una
coscienza del comune destino, di ciò che unisce, cioè a dire del rifiuto dello
sfruttamento per mezzo del lavoro.
Inoltre, la tendenza della legge del valore ad invadere
tutti gli aspetti della vita sociale, si accompagna ad una maggiore fragilità
della base sociale del capitalismo: conflitti culturali, ecologici,
rivendicazioni degli omosessuali, dei giovani, degli studenti ... danno
l'impressione che la rivolta sia dappertutto ( e molto poco nelle fabbriche ).
Il concetto di classe operaia è un concetto superato della storia? Quali sono
le strade che prenderà il cambiamento rivoluzionario?
III. Il cambiamento: Rivoluzione o presa del potere dall'interno?
H&N fanno parte di un movimento che sostiene che la
rivoluzione non è più indispensabile, che è possibile cambiare il mondo senza
prendere il potere,
"svuotandolo
della sua sostanza e delegittimando il potere delle istituzioni e di coloro che
lo detengono, sottraendo all'impresa planetaria del capitale degli spazi di
autonomia sempre più crescenti, e riappropriandosi di ciò di cui le popolazioni
sono state spossessate. Tutto avviene come se il movimento del software libero,
e gli altri movimenti come 'Reclaim the Streets', 'Ya Basta!', 'People's Global
Action', 'Un altro mondo è possibile', 'Via campesina', oppure come 'l'Armata
Zapatista di Liberazione' - che non ha mai sparato un colpo ma è riuscita ad
unire decine di altri movimenti intorno ad una carta comune - fossero i
componenti di un solo movimento in via di differenziazione e di ricomposizione
perpetua, le cui reti libere sarebbero la comune matrice (...) Non ci sarà
nessuna rivoluzione attraverso il rovesciamento del sistema da parte di forze
esterne. La negazione del sistema si diffonde all'interno per mezzo delle
pratiche alternative che suscita." (Gorz)
Questa concezione è vicina a quella di H&N, svolta nella
terza parte del loro libro, intitolata "democrazia". H&N
identificano tre tipi di rivendicazioni (che preferiscono chiamare
"rimostranze") le quali suscitano delle opposizioni: quelle che
riguardano la rappresentanza (per esempio, la mancanza di rappresentatività
delle istituzioni globali come il Consiglio di Sicurezza dell'ONU, l'FMI);
quelle che riguardano il diritto, la giustizia e la povertà economica: "il
reddito medio dei 20 paesi più ricchi del pianeta è 37 volte più elevato del
reddito medio dei paesi più poveri - uno scarto che si è raddoppiato nel corso
degli ultimi 40 anni. Anche quando queste cifre sono ponderate tenendo contro
del potere di acquisto, lo scarto rimane astronomico. La costruzione del
mercato mondiale e l'integrazione globale delle economia nazionali non ci
avvicinano gli uni agli altri, ma al contrario, non fanno altro che accrescere
il fardello che grava sui poveri" (H&N); e le rivendicazioni
biopolitiche, fra cui le rivendicazioni ecologiche, che sono necessariamente di
ordine mondiale: movimenti contro l'inquinamento, contro le grandi dighe che
comportano la deportazione di popolazioni di centinaia di migliaia di persone,
movimenti contro la privatizzazione del genoma umano, privatizzazione della
natura e delle conoscenze necessarie alla produzione di farmaci. H&N
ravvisano in questo uno sforzo reale di integrazione dei temi e delle fonti di
insoddisfazione sociale, che esiste a livello mondiale.
Noi pensiamo che questi movimenti emergono come reazione
alla traiettoria del capitalismo nel suo periodo di decadenza, che distrugge il
pianeta, accentua le disuguaglianze economiche, saccheggia le risorse dei paesi
del Terzo Mondo o "in via di sviluppo". Questi movimenti testimoniano
l'emergere della coscienza che la "soluzione" può essere solo
mondiale, che è necessario un governo mondiale, il quale si preoccupi dei
bisogni del genere umano, e non dei bisogni del profitto del capitalismo. E'
questa la nuova utopia, il nuovo progetto sociale, che tende a polarizzarsi per
mezzo di questi movimenti. Ma l'idea che ci si possa arrivare per mezzo di
un'evoluzione "venuta dall'interno", per mezzo di istanze
democratiche internazionali, facendo dell'economia una rivoluzione cosciente,
chiara sui principi dell'abolizione del capitalismo, del lavoro salariato, ...
crediamo che semini confusione, più di ogni altra cosa.
Alex Callinicos sottolinea giustamente fino a che punto
l'ideologia autonomista abbia contribuito largamente a ridurre i manifestanti
pacifisti del G8 di Genova del 2001, allo stato di vittime passive del terrore
poliziesco. Le Tute Bianche avevano annunciato, prima del vertice di Genova,
l'obsolescenza della sinistra tradizionale ed il superamento "di tutte le
opposizioni classiche del XX secolo: riformismo contro rivoluzione, avanguardie
contro movimento, intellettuali contro operai, presa del potere contro esodo,
violenza contro non violenza". Il 20 luglio 2001, le manifestazioni delle
Tute Bianche furono preda dei violenti attacchi polizieschi che impedirono loro
di raggiungere la zona rossa dove si teneva il G8: gas lacrimogeni, autoblindo,
pallottole ...
A forza di fare l'elogio dei movimenti alter-mondialisti che
"svuotano il potere della sua legittimità senza sparare un solo
colpo", a forza di descrivere solo il movimento visibile, e non le
contraddizioni astratte che lo animano, H&N rischiano di trovare delle affinità
con ... la sinistra socialdemocratica. Si può trovare nelle teorie di H&N
una teoria della globalizzazione vicina a quel pensieri e che permette loro di
assumerne le conseguenze, ricevendone degli inattesi titoli nobiliari. E
recuperare facilmente le idee di H&N:
"Così, Mark
Leonard, un ideologo blairista particolarmente grossolano, ha pubblicato
un'intervista entusiasta con Negri, nella quale ha lodato quest'ultimo per aver
arguito che la globalizzazione è un'opportunità per una sinistra preoccupata
della libertà e della qualità della vita, piuttosto che preoccupata per una
riduttiva ricerca dell'uguaglianza fra i gruppi, cosa che suona più da Tony
Blair che da Toni Negri". (Callinicos)
Altre dichiarazioni, mostrano come H&N abbiano più la
preoccupazione di piacere al più grande numero di persone possibili, che una
preoccupazione rivoluzionaria (cioè un cambiamento radicale della società).
Sulla questione "riforme o rivoluzione", H&N difendono
l'argomento che "non c'è contraddizione fra riforme e rivoluzione. Anche se
esse restano due concetti distinti, nelle condizioni attuali ci sembrano
inseparabili. La trasformazione storica cui assistiamo è così radicale che
delle proposte riformiste possono bastare a portare dei cambiamenti
rivoluzionari. E quando le riforme democratiche del sistema globale si rivelano
incapaci di fornire le basi per una vera democrazia, dimostrano ancora di più
che una trasformazione rivoluzionaria è necessaria e possibile. Perciò è
inutile spremerci le meningi per sapere se una proposta sia riformista o
rivoluzionaria; serve assai più sapere se essa sia parte o no di un processo
costituente" (H&N).
Ancora più forte: H&N difendono i tribunali
internazionali, in quanto "embrione di un sistema giudiziario
globale"!!!
L'analisi di Marx afferma esplicitamente che una rivoluzione
è necessaria e possibile. Emanciparsi dal capitalismo non significa liberare il
lavoro e neppure redistribuire la ricchezza, ma emanciparsi da queste
astrazioni reali che sono il lavoro ed il valore. Il valore di scambio tende a
diminuire, in seguito all'introduzione nella produzione della scienza e della
tecnica. Diventa possibile liberarsi dal valore, dalle forme concrete del
lavoro, e dalle forme concrete della produzione e della vita sociale modellate
dalle strutture sociali astratte basate sul valore. Noi facciamo nostre le
parole di Postone:
"L'analisi di
Marx afferma esplicitamente che la forma di produzione industriale fondata sul
proletariato, così come una folle forma di crescita economica, sono modellate
dalla forma merce, e questo dimostra che le forme di produzione e di crescita
sarebbero diverse in una società dove la ricchezza materiale sostituirebbe il
valore, in quanto forma dominante di ricchezza. E' il capitalismo stesso a
generare la possibilità di una tale società, di una diversa strutturazione del
lavoro, di una forma diversa di crescita e di una differente forma di
un'interdipendenza mondiale complessa - ma, allo stesso tempo, esso mina
strutturalmente la realizzazione delle sue possibilità."
Non si tratta semplicemente, come pensano i riformisti, di
una questione di riduzione della durata del lavoro, e neppure di installare una
società del tempo libero. Le parole di rivolta dei giovani nel movimento
anti-"contratto di primo impiego", che proclamano "né disoccupati,
né lavoratori", che rifiutano lo sfruttamento da e per mezzo del lavoro,
sono assai più chiare e vanno nel senso di un messa in discussione del
capitalismo.
Qualche parola per
concludere
Riconoscere i cambiamenti intervenuti dopo la seconda guerra
mondiale circa il modo in cui il capitalismo si valorizza, riconoscere le
modifiche intervenute nella classe operaia, integrare le tematiche e le cause
di insoddisfazione sociale esistenti nella società industriale avanzata, ecco
una serie di obiettivi che il marxismo deve affrontare se vuole contribuire
all'emergere della coscienza di classe. I gruppi, le tendenze che cercano di
teorizzare questi cambiamenti non mancano, e "Moltitudini" di H&N
è un reale contributo a questo processo. Ma bisogna situare questo sforzo nel
quadro del marxismo, tornando al nocciolo, sotto pena altrimenti di smussare
l'acutezza della critica. In caso contrario, H&N rischiano di essere i
teorici dell'impotenza, acclamati ad ogni loro nuova uscita, ma rapidamente
dimenticati quando si svilupperà il movimento rivoluzionario radicale.