Pubblichiamo questo saggio dal
terzo volume di “L’altro Novecento.
Comunismo eretico e pensiero critico. Il capitalismo americano e i suoi
critici”, vol. III. Jaca Book 2013. Il titolo originale è: “Interpretazioni del capitalismo
contemporaneo. Fredric Jameson, David Harvey, Giovanni Arrighi” [1]
Daniele Balicco & Pietro Bianchi | Nel
secondo dopoguerra, il marxismo ha occupato un ruolo importante nel campo della
cultura politica europea, soprattutto in Italia, Germania e Francia. Ma è solo
a partire dagli anni Sessanta che la sua influenza travalica gli argini
tradizionali della sua trasmissione (partiti comunisti e socialisti; sindacati
e dissidenze intellettuali) per radicarsi come stile di pensiero egemonico
nell’inedita politicizzazione di massa del decennio 1968-1977. Tutto cambia
però, e molto rapidamente, con la fine degli anni Settanta: una serie di cause
concomitanti (cito in ordine sparso: la sconfitta politica del lavoro, l’esasperazione
dei conflitti sociali, l’uso della forza militare dello Stato conto i
movimenti, una profonda ristrutturazione economica, la rivoluzione cibernetica,
il nuovo dominio della finanza anglo-americana) modifica non solo l’orizzonte
politico comune, ma, in profondità, le forme elementari della vita quotidiana.
In pochi anni, tutta una serie di nodi teorici (giustizia sociale, conflitto di
classe,
redistribuzione di ricchezza, industria culturale, egemonia, ecc.)
escono di fatto dal dominio del pensabile; e in questa mutazione occidentale il
marxismo, come forma plausibile dell’agire politico di massa, semplicemente
scompare.
Sopravviverà contro se stesso come teoria pura, protetta
in alcune riviste internazionali prestigiose («New Left Review»; «Monthly
Review»; «Le Monde Diplomatique»), in un eccentrico quotidiano italiano («Il
Manifesto») e in alcuni fortilizi accademici minoritari, per lo più americani
(come per esempio Duke, cuny e New School). La maggior parte degli studi
pubblicati in questo nuovo contesto sradicato e internazionale non riesce, come
è ovvio, a superare il confine minoritario nel quale è imprigionato. E tuttavia
esistono alcune eccezioni, come, per esempio, Postmodernism di
Jameson, Limits to Capital di Harvey, The Long Twentieth-Century di
Arrighi. Pochi altri testi – forse soltanto Empire di Hardt e Negri,
escluso da questo saggio anche perché la sua tesi di fondo, già a distanza di
pochi anni, veniva smentita non dalla teoria, ma dalla storia – sono riusciti
infatti ad attraversare il deserto politico di questi decenni conquistandosi,
magari retrospettivamente, il ruolo di bussola teorica di questo nostro tempo
disorientato. Prima di avvicinare questi lavori importanti, fondamentali per
decifrare il capitalismo contemporaneo, solo una precisazione: di questi tre
autori – tutti e tre firme prestigiose della «New Left Review» – solo
Jameson è americano; Harvey è britannico ed Arrighi italiano. Tuttavia, l’associazione
non è impropria perché medesimo è il contesto nel quale hanno lavorato e
pubblicato la gran parte dei loro studi.
Postmodernismo
Non è stato Fredric Jameson ad inventare il termine
«postmodernismo»; e neppure Jean François Lyotard, sebbene lo scelga come
aggettivo per il titolo del suo pionieristico saggio pubblicato alla fine degli
anni Settanta[2]. Tuttavia, è solo con il lavoro teorico di Jameson che la
parola «postmoderno» diventa termine guida del dibattito teorico contemporaneo
fino ad assumere la dignità di concetto storico periodizzante. Dopo la
pubblicazione di Postmodernism or the Cultural Logic of Late Capitalism sulla
«New Left Review» nel 1984 diventerà comune, infatti, pensare come postmoderna
l’età contemporanea, qualificandola, con questo aggettivo, come «età della fine
del processo di modernizzazione»[3]. La discussione teorica, che lo scritto ha
inaugurato, sul significato di questa trasformazione profonda della vita
quotidiana nelle società occidentali, ha occupato il centro della teoria
critica internazionale per almeno vent’anni. Non stupisce che Postmodernism sia
stato subito tradotto in moltissime lingue, fra cui, già alla metà degli anni
Ottanta, il cinese mandarino.
Professore di letterature comparate alla Duke University in
North Carolina, Fredric Jameson può, senza problemi, essere considerato come
l’importatore negli Stati Uniti del marxismo critico europeo. Allievo di
Auerbach e di Marcuse, Jameson ha infatti incarnato, con tutti i pregi e i
difetti del caso e forse fuori tempo massimo, una figura un tempo tradizionale
per la cultura europea, ma sicuramente eccentrica per quella americana: il
critico letterario di formazione marxista. Con la differenza, però, che
l’innesto di questa tradizione politica in un contesto asettico come quello deicampus americani
– universi per lo più avulsi dal mondo reale ed estranei a qualsivoglia
movimento sociale, organizzazione politica o sindacale – si è spesso
trasformato in un esausto esercizio accademico. Anche nei saggi più riusciti di
Jameson, come L’inconscio politico[4] o lo stesso Postmodernismo,
probabilmente i suoi due veri capolavori, è difficile non percepire il contesto
da cui si originano. Tanto la forma confusa e debordante dell’argomentazione
quanto l’accumulo bulimico di eterogenei materiali d’analisi potrebbero senza
difficoltà essere letti come una freudiana formazione di compromesso. O forse,
molto più probabilmente, come la stanca trascrizione crittografica di un
sismografo che segnala ad estranei la presenza di un terremoto avvenuto
altrove.
La prima stesura di Postmodernism risale ad un
famoso intervento pubblico di Jameson tenutosi al Whitney Museum di New York
nell’autunno del 1982. Il titolo anticipa già la sostanza dell’argomentazione: Postmodernism
and Consumer Society. La rielaborazione sarà pubblicata in una prima versione
nel 1983[5], e in una seconda, più estesa e parzialmente differente, l’anno
successivo, con il titolo, negli anni divenuto celebre, di Postmodernism
or the Cultural Logic of Late Capitalism. Tutti i lavori successivi
approfondiscono spunti od intuizioni già presenti in questo primo saggio,
davvero straordinario per condensazione di temi e proposte. Nel 1991 Jameson ha
pubblicato in volume – ed è un libro ponderoso, di oltre quattrocento pagine –
i suoi lavori più importanti sul tema, incluso, naturalmente, quel primo saggio
apparso sulla «New Left Review» che ora dà il titolo e apre l’intera raccolta.
Ed è questo il libro canonico per chiunque voglia iniziare ad occuparsi della
«questione postmoderna». Vediamo rapidamente come è costruito.
Il volume è diviso in due parti: la prima comprende nove
capitoli e sono per lo più saggi già apparsi in rivista, e qui ripubblicati con
aggiunte, modifiche, riletture, sistemazioni. La seconda, invece, è inedita e
ha la forma di una laboriosa nota a margine, di un commento laterale alla prima
sezione orientato verso alcune possibili linee di approfondimento. Non a caso,
molti dei saggi pubblicati negli anni successivi – da Geopolitical
Aesthetic: Cinema and Space in the World System (1992) fino al più recente Archaeology
of the Future: the Desire Called Utopia and Other Science Fictions (2005)
– saranno effettivamente la sistemazione compiuta di quelle proposte
originarie. Nell’introduzione al volume Jameson descrive i quattro temi
fondamentali della sua ricerca, così come si è sviluppata dal saggio originario
del 1984: il problema dell’interpretazione dell’estetico, l’utopia come
categoria necessaria del pensiero politico, le tracce della sopravvivenza del moderno,
la «nostalgia» come ritorno del represso storico.
Le mosse teoriche di Jameson sono sostanzialmente due. La
prima: il postmoderno è l’età storica del compimento del processo di
modernizzazione («Il Postmoderno è quello che si ha quando il processo di
modernizzazione è terminato e la natura è sparita per sempre»[6]). Jameson è
subito molto chiaro: il suo studio ha un intento periodizzante, non vuole
proporre un nuovo paradigma epistemologico, come Lyotard (La condition
postmoderne); né descrivere un nuovo stile architettonico, come Jencks (The
Language of Post-modern Architecture, Rizzoli, New York 1977); né tantomeno
articolare un nuovo progetto filosofico, come Habermas (Modernity – an
Incomplete Project, in AA.VV., The Anti-Aestetic, cit., pp. 3-15). Il
postmoderno, per Jameson, è, molto più semplicemente, una categoria storica.
Descrive un’epoca caratterizzata, come chiaramente indica il prefisso «post»,
dall’esaurimento del movimento moderno, dall’estenuarsi del suo processo di trasformazione
sociale, economica e culturale. Il ragionamento che guida la sua
periodizzazione si origina, ed è profondamente suggestionato, dalla lettura di Late
Capitalism (Humanities Press, London 1975) di Ernest Mandel. Seguendo
l’interpretazione dell’economista trockijsta belga-tedesco, Jameson è persuaso
che ci siano tre fondamentali discontinuità nello sviluppo tecnologico moderno
a cui corrispondono, in modo più o meno coerente, tre diverse fasi dello
sviluppo economico, sociale, estetico.
La prima, situabile a partire dalla seconda metà del
Settecento in Inghilterra, ma operativa lungo tutto l’Ottocento nel resto
d’Europa, riguarda l’invenzione dei motori a vapore. A questo primo salto
tecnologico corrisponde un’intensa stagione di trasformazioni sociali,
politiche ed economiche: sono questi gli anni della prima rivoluzione
industriale e della rivoluzione politica americana e francese. Ma le
trasformazioni naturalmente agiscono in profondità, trasformano il pensiero: è
questa, infatti, l’età che pone, per la prima volta, il problema filosofico
dell’emancipazione e della libertà individuale in un sistema post-cetuale, non
comunitario; ma è anche l’età della catastrofe del sistema dei generi, se nel
giro di pochi anni l’intero corpus letterario tradizionale si sfalda
e il centro del campo estetico viene conquistato da due forme sostanzialmente
nuove: la lirica moderna e il novel. Questa, nella periodizzazione di
Jameson, ed è una lettura che corrobora le antiche intuizioni di Lukács, è
«l’età del realismo», l’età, fra gli altri, di Scott e di Balzac, di Hegel, di
Beethoven e di Smith.
Dalla seconda metà dell’Ottocento diventa visibile, perché
determinante, un nuovo poderoso salto tecnologico: l’invenzione dei motori
elettrici, dei motori a scoppio, quindi lo sviluppo dell’industria chimica.
Sono questi gli anni dell’invenzione del telegrafo e delle ferrovie.
Successivamente, delle automobili, del telefono, della radio e degli aeroplani.
Ognuna di queste invenzioni trasforma radicalmente l’uso e la percezione dello
spazio e del tempo. Del resto, questo mondo progressivamente rimpicciolito è
anche un mondo progressivamente conosciuto, conquistato, controllato e
spartito: il 1881 è la data del congresso di Berlino. Poi verranno le guerre
mondiali. Secondo Jameson, è solo a questo punto dello sviluppo del capitale
che diventa avvertibile e tragico il contrasto fra il nuovo universo sociale e
percettivo costruito e plasmato dalle macchine e tutto ciò che, pur
coabitandovi, tuttavia riesce ancora a preservarsi, rimanendone al di fuori,
segno antropomorfico millenario in un universo sempre più accelerato e
non-umano. Di questa precisa contraddizione il modernismo è la soluzione
simbolica. Che potenzi la forma come resistenza aristocratica ad un presente
minaccioso (come, per esempio, in Flaubert, Proust o Mahler) o che viceversa
esalti la modernità tecnologica attraverso strategie di luddismo estetico (e si
pensi anche solo a Rimbaud, Marinetti, a Duchamp o a Beckett), quello che è
comune alle due strategie è la percezione di essere in bilico fra due mondi, di
percepirli, nel bene e nel male, ancora come differenti e antagonisti: Freud e
Nietzsche, Einstein e Svevo, Keynes e Schönberg, Lenin e Le Corbusier, Ford e
Ejzenstejn. Non è un caso, secondo Jameson, che proprio in questi anni
diventino centrali due concetti estetici: il concetto di «stile» e il concetto
di «genio». Entrambi esprimono la possibilità della totalizzazione del
differenziato anticipata nella forma – ed è compensazione simbolica di
un’oggettiva dépossession du monde, che nessuna esperienza personale potrà
ormai più colmare – oppure pretesa, rischiata, combattuta nella politica – ed è
la storia tragica, quanto meno negli esiti, del movimento operaio e delle
rivoluzioni comuniste mondiali. Il modernismo esprime la sostanza di questa
tumultuosa età di lotta fra forze oppositive, tanto nella possibilità di un
nuovo equilibrio fra mondo umano e sistema delle macchine; quanto, viceversa,
nella possibilità oggettiva del suo annientamento: Auschwitz e Hiroshima.
Il terzo salto tecnologico è spinto dall’invenzione dei
motori nucleari e dalla cibernetica, a partite dagli anni Quaranta del secolo
scorso negli Stati Uniti; più o meno dall’inizio degli anni Sessanta
nell’Europa occidentale. Quello che è fondamentale capire di questa nuova
trasformazione è, secondo Jameson, l’inedita capacità meccanica di plasmare le
forme elementari della percezione umana, di invadere, in poche parole, il
dominio dell’estetica. Quindi, di elaborare, produrre ed esprimere cultura. Le nuove
macchine, infatti, non producono oggetti, ma ri-producono il mondo. Sono
depositi sconfinati e non-umani di linguaggio e di memoria. Della presenza, per
quanto residuale, di un universo ancora pre-moderno cancellano la percezione,
le tracce; e soprattutto la possibilità del ricordo. Si pensi anche solo a come
sono stati trasformati la Natura e l’Inconscio, elementi ancora simbolicamente
caricati e percepiti nelle età precedenti come irriducibili al processo di
modernizzazione. Secondo Jameson se lo sviluppo dell’industria culturale
colonizza il secondo, invadendo l’immaginazione, manipolando il desiderio,
estetizzando le pulsioni, l’industrializzazione dell’agricoltura, l’impiego
della chimica e delle biotecnologie genetiche per il suo sviluppo intensivo,
trasforma definitivamente la prima, il suo uso, il suo controllo, la sua
conoscenza. Di questo nuovo universo percettivo non antropomorfico il
postmodernismo è la traduzione simbolica: dall’architettura di Las Vegas agli
aeroporti internazionali, dalla pop art di Andy Warhol alla musica
elettronica, dal movimento punk a quello new age. E,
soprattutto, la video artche, insieme a design e architettura,
occupa il centro del sistema estetico postmoderno. Per quanto il nuovo universo
percettivo escluda a priori la possibilità dello stile, essendo l’età
nella quale le macchine hanno conquistato il dominio dell’espressività, si
possono ricordare almeno gli autori sui quali Jameson concentrerà il suo
implacabile sguardo diagnostico: fra gli altri, David Lynch, Claude Simon,
Frank Gehry, Robert Gober.
Come si vede, il ragionamento alla base di questa
periodizzazione, tanto affascinante quanto discutibile, è di natura
economico/tecnologica. Nella lettura di Jameson le trasformazioni tecnologiche
sono sintomi, vettori periodizzanti di mutazioni molto più vaste. Il suo
sguardo acrobatico si sofferma però solo sul loro impatto sociale e sensorio:
marxianamente, è uno sguardo che non supera mai la soglia della sfera della
circolazione. Lontanissima da quest’analisi l’idea che i salti tecnologici
siano anche momenti di conflitto interni alla storia dell’uso
capitalistico della scienza. E che quest’ultima, incorporata nello sviluppo
delle macchine, produca un’innovazione per lo più comandata contro il lavoro
vivo e quasi sempre trasformata in un’arma nella competizione
infra-capitalistica. Jameson preferisce adottare lo sguardo neutro e scettico
dell’osservatore partecipante; scelta decisamente eccentrica, per un
intellettuale che si autodefinisca marxista. La sua periodizzazione infatti
descrive solo la storia della progressiva espansione del dominio
delle macchine su tutte le dimensioni dell’esistenza umana fino a conquistare,
nel postmoderno, le forme elementari della percezione. Quello che rivela,
infatti, l’analisi dell’estetica contemporanea, non è altro che il formarsi di
una nuova e precisa antropologia: «il postmoderno deve essere visto come la
produzione di persone postmoderne capaci di adattarsi ad un preciso e peculiare
mondo socioeconomico»[7]. Ed è questa la tesi che sostanzia il secondo
movimento di fondo della sua impostazione. L’analisi dell’eterogeneo universo
estetico postmoderno, dal celebre confronto fra Van Gogh e Andy Warhol sulla
trasformazione e sul declino dello stile espressivo, all’analisi della «nostalgia»
come forma estetica dell’impossibilità della narrazione storica in Ragtime di
Doctorow o nel film Body Heat di Kasdan, fino all’interpretazione
dell’organizzazione dello spazio del Westin Bonaventura Hotel di
Portman in Downtown Los Angeles, serve a Jameson come verifica della tendenza.
Il suo è uno sguardo diagnostico, l’uso dell’estetico è sempre sintomatologico.
Per questa ragione l’analisi non è interessata ad esprimere giudizi di valore,
ma al reperimento delle tracce, al riconoscimento degli indizi significativi.
All’altezza di questo primo saggio, Jameson li raggruppa sotto tre costanti,
correlate e interdipendenti: il declino della soggettività espressiva,
l’implosione del tempo, l’equivalenza dello spazio. Sono tre lati di uno stesso
triangolo: la forma generica della nuova antropologia plasmata dal sistema
delle macchine.
I limiti del Capitale
Molto diversa rispetto a quella di Jameson – che resta,
nella solo apparente bulimia teorica, un marxista occidentalestandard –
l’impostazione teorica di David Harvey. A dire il vero, il suo percorso
intellettuale è così particolare da poter essere considerato quasi un unicum all’interno
delle vicende del marxismo internazionale di fine secolo. Non soltanto perché
il suo ambito disciplinare – la geografia – lo colloca in una posizione
strutturalmente eterodossa rispetto alla tradizione marxista, ma anche per il
relativo isolamento che caratterizzerà buona parte della sua vita
intellettuale, fino all’indubbio successo degli ultimi anni.
Harvey compie la sua formazione all’Università di Cambridge;
le sue prime ricerche di geografia storica riguardano la coltivazione del
luppolo nel Kent del xix Secolo. Anche il suo primo lavoro importante, Explanation
in Geography[8], pubblicato nel 1969, è relativamente tradizionale. Tuttavia
già in questi primi anni di apprendistato si nota un bisogno positivista di
dare respiro sistematico ad un disciplina, come la geografia, ancora chiusa in
quello che Harvey definisce «eccezionalismo», ovvero la tendenza a concepire i
propri oggetti di studio come una sequenza di casi particolari sprovvisti di
una qualsivoglia legge universale[9]. La svolta, allo stesso tempo politica e
accademica, avviene nel 1970 con il trasferimento negli Stati Uniti, alla John
Hopkins University di Baltimora. Qui Harvey inizia a lavorare in un
dipartimento interdisciplinare che amplia i suoi punti di riferimento teorici
ben oltre i confini della geografia; incontra unmilieu teorico già
orientato verso tematiche radicali, il movimento contro la guerra del Vietnam e
una città che può essere considerata un laboratorio di sviluppo urbano
contemporaneo per le vertiginose ineguaglianze sociali che produce. Il suo
lavoro del 1973, Social Justice and the City[10], rappresenta il suo
definitivo incontro con il marxismo. Tuttavia è solo a partire dalla seconda
metà degli anni Settanta, con The Limits to Capital[11], il suo lavoro
teorico più ambizioso e più sistematico, che la sua originale impostazione
teorica raggiunge piena maturità. Harvey ci lavora per quasi un decennio,
trascorrendo anche un anno di studi a Parigi (esperienza alla base di un
successivo studio – che è probabilmente il suo capolavoro saggistico – sulla
trasformazione urbanistica, sociale e politica della Parigi di Hausmann[12]).
Alla pubblicazione del libro, che avverrà solo nel 1982, le reazioni furono
tuttavia abbastanza fredde. Il lavoro venne sostanzialmente ignorato, perfino
nel dibattito economico marxista (unica eccezione, la recensione negativa di
Michael Lebowitz sulla Monthly Review). Harvey scontava senz’altro la poca
familiarità che molti studiosi marxisti avevano con la disciplina geografica.
Tuttavia, non è difficile riconoscere che la lenta penetrazione delle tesi di
Harvey nel dibattito teorico internazionale derivi soprattutto dalla novità del
suo approccio. Oggi, a distanza di oltre tre decenni dalla pubblicazione, The
Limits to Capital è universalmente riconosciuto come il punto di
riferimento imprescindibile di quanto, nella teoria internazionale, cade sotto
il nome di «materialismo storico-geografico».
Harvey costruisce la propria argomentazione attraverso un
confronto serrato con i tre volumi del Capitale, riducendo al minimo i
riferimenti alla letteratura secondaria. La caratterista principale di
quest’opera è infatti quella di essere un appassionato close reading del
testo marxiano. Del resto, i suoi seminari universitari di lettura del Capitale,
che vanno avanti ininterrottamente dal 1971 (e che hanno avuto negli ultimi
anni, grazie alla pubblicazione su web – www.davidharvey.org – un successo
planetario) oltre a provare il suo indubbio talento divulgativo, mostrano molto
bene il suo metodo di lavoro. L’idea di fondo di The Limits to Capital è
relativamente semplice: analizzare il processo di accumulazione capitalistico
attraverso la lente della sua articolazione spaziale. Diversamente da Jameson,
Harvey astrae «da un certo tipo di complessità (la complessità empirica della
vita di ogni giorno), in modo da rendere visibile un’altra complessità, la
complessità dei processi sottostanti che appaiono nella forme»[13]. Seguendo
Marx, Harvey legge il rapporto di capitale come un rapporto strutturalmente
fondato su una contraddizione: il processo di accumulazione, infatti, è per un
verso caratterizzato da spiccati tratti di omogeneizzazione (l’universalità del
valore divenuto denaro), ma per un altro tende ad esprimersi sempre in forme particolari
differenti. Alla coppia concettuale astratto/concreto, che Marx mutua da Hegel,
si sovrappone così la coppia omogeneo/differente. Secondo Harvey, la mobilità e
rapidità della ristrutturazione dei processi di accumulazione intrattiene
sempre un rapporto dialettico con la dimensione concreta dello spazio. Da un
lato infatti, la dimensione spaziale permette e fluidifica i processi di
accumulazione in un certo luogo, ma dall’altro lato può esserne un ostacolo nel
momento in cui, ad esempio, la rigidità del capitale fisso impedisce la
rapidità di un processo di ristrutturazione. In Harvey dunque, lo spazio non è
un’alterità inerte e immutabile che si oppone dall’esterno al processo di
accumulazione; semmai è un soggetto in continua trasformazione (o meglio, il
risultato di un rapporto sociale antagonistico) nel quale si sono sedimentati i
cicli precedenti e le crisi che l’hanno attraversato. È qui che vediamo
l’ambiguità della parola limit, essendo contemporaneamente un ostacolo che
frena il processo di accumulazione e insieme il limite del modo di produzione
capitalistico che deve essere superato ad ogni ciclo.
Per Harvey la circolazione di capitale è caratterizzata da
una fondamentale e ineliminabile instabilità: da un lato perché si producano
dei profitti è necessario impiegare lavoro vivo nel processo
produttivo; dall’altro, l’innovazione tecnologica tende ad espellere sempre di
più lavoro vivo – l’unica fonte del valore – dalla produzione. Il lavoro
vivo, pur necessario, tende paradossalmente ad essere sostituito
dall’innovazione tecnologica nella produzione. Il risultato è quella forma di
irrazionalità capitalistica che emerge nitidamente nei periodi di crisi, dove
coesistono enormi capacità produttive inutilizzate e disoccupazione di massa.
In questi casi, i surplus sia di capitale fisso che di forza-lavoro,
che non riescono a essere assorbiti, inducono un processo di svalutazione
(sotto forma o di merci invendute o di capacità produttive sottoutilizzate o di
disoccupazione). A rigor di logica sarebbe possibile avere, a seconda dei
rapporti di forza o a causa di squilibri nella composizione, solo surplus di
capitale fisso o solo di forza-lavoro. Tuttavia, Harvey è interessato
soprattutto a quei momenti storici nei quali il capitale incontra una crisi
strutturale, dove vi è un surplus che non riesce a essere assorbito
in entrambi i poli della relazione. Questa contraddizione fondamentale che non
può essere risolta una volta per tutte, può tuttavia generare dei temporanei
processi di ristrutturazione che si muoveranno lungo due direttrici: o
temporali o spaziali. Nelle direttrici temporali, attraverso la creazione di
capitale fittizio, viene dilazionato nel tempo l’impatto con lo squilibrio
fondamentale nella produzione (processi di finanziarizzazione). Ma è sulle
direttrici spaziali che Harvey concentra la sua attenzione, contribuendo ad uno
sviluppo innovativo delle teorie marxiane della crisi. La domanda fondamentale
di The Limits to Capital sarà dunque: in che modo il capitale riesce
a evitare momentaneamente la propria svalutazione tramite una ristrutturazione
spaziale?
Secondo Harvey, è indubbio che Marx abbia privilegiato la
dimensione temporale su quella spaziale: «il fine ultimo e l’obiettivo di chi è
impegnato nella circolazione del capitale deve essere, dopotutto, controllare
il surplus di tempo di lavoro e convertirlo in profitto all’interno
del tempo di rotazione socialmente necessario»[14]. Tuttavia, se si
osservano le dinamiche geografiche dello sviluppo capitalistico, è altresì
indubbio che storicamente il capitale esprima una continua tensione verso il
superamento delle barriere spaziali o, più precisamente, verso l’annientamento
dello spazio mediante il tempo. E tuttavia questa compressione spazio/temporale
può essere raggiunta soltanto tramite una continua riconfigurazione spaziale.
Si giunge così al paradosso di un’organizzazione dello spazio finalizzata,
capitalisticamente, al superamento dello spazio stesso. Harvey definisce spatial
fix il modo attraverso cui lo spazio organizza il superamento del proprio
stesso limite:
Nonostante questi diversi significati di fix possano
apparire contraddittori [ndr: «fissare» «inchiodare» e «aggiustare» «risolvere
un problema»], sono tutti internamente legati all’idea che qualcosa (una
questione, un problema) possa essere corretta e messa al sicuro. Nella mia
concezione del termine, questa contraddizione può essere usata per far vedere
qualcosa di importante delle dinamiche geografiche del capitalismo e delle sue
tendenze alla crisi. In particolare mi sono occupato del problema della
«fissità» (nel senso di essere posto al sicuro) opposta al movimento e alla
mobilità del capitale. Ho notato, per esempio, che il capitalismo ha bisogno di
fissare uno spazio (in strutture immobili di trasporto e reti di comunicazioni,
così come nella costruzione di fabbriche, strade, case, acquedotti, e altre
infrastrutture fisiche) per superare lo spazio (raggiungere la libertà di
movimento attraverso i bassi costi di trasporto e comunicazione). Questo porta
a una delle contraddizioni centrali del capitale: deve costruire uno spazio
fisso (fixed) necessario per il proprio funzionamento a un certo punto della
sua storia soltanto perché poi in un periodo successivo possa distruggerlo (e
svalutare di molto il capitale là investito) per fare spazio per un nuovo spatial
fix (e aprire nuove possibilità di accumulazione in altri luoghi e
territori)[15].
Dall’esportazione di capitali o di forza-lavoro attraverso
l’inclusione di nuovi territori nel modo di produzione capitalistico
(imperialismo) allo sviluppo di nuove tecnologie che accorciano tempi di
spostamento di merci o capitali; dal governo territoriale sulla forza-lavoro
(differenziali geografici nel mercato del lavoro) al mercato fondiario e così
via, compito di una teoria marxiana dello spazio è quello di descrivere la
modalità attraverso cui le contraddizioni fondamentali di un processo di accumulazione
si esprimono e si attestano temporaneamente in un dato
equilibrio spaziale.
A partire da The Condition of Postmodernity[16] fino
ai saggi pubblicati in questi ultimi anni (The New Imperialism[17]; A
Brief History of Neoliberalism[18]; The Enigma of Capital[19]), Harvey
applicherà le categorie elaborate in Limits to Capitalall’attuale fase di
accumulazione e alla sua crisi. In particolare, con il concetto di
«accumulazione per espropriazione» (accumulation by dispossession) Harvey
identifica la strategia con cui la classe dominante attuale sta cercando di
ri-configurare un nuovo spazio adeguato alla ripresa dell’accumulazione.
Esproprio e privatizzazione di beni comuni, erosione di quel che resta del welfare universalistico,
attacco alle conquiste sindacali di mezzo secolo, sono tutte azioni politiche
solo apparentemente diversificate, ma che in realtà hanno come scopo comune
l’appropriazione di una serie di «spazi» non del tutto messi a valore perché
ancora parzialmente governati da una logica pubblica.
Con [accumulazione per espropriazione] intendo la
continuazione e proliferazione di pratiche di accumulazione che Marx ha
descritto come «primitive» o «originarie» durante l’ascesa del capitalismo.
Queste includono la mercificazione e la privatizzazione della terra e
l’espulsione forzata di popolazioni di contadini […]; la conversione di varie
forme di proprietà intellettuale (comune, collettiva, statale, ecc.) in diritti
di proprietà privata esclusiva […]; la soppressione dei diritti ai beni comuni;
la mercificazione della forza lavoro e la soppressione di forme alternative
(indigene) di produzione e consumo; processi coloniali, neocoloniali, imperiali
di appropriazione di risorse (comprese le risorse naturali); monetizzazione
dello scambio e tassazione, in particolare della terra; la tratta di schiavi
(che continua in particolare nell’industria del sesso); usura, il debito
nazionale e, la più devastante di tutte, l’uso del sistema creditizio come
mezzo radicale di accumulazione per espropriazione[20].
Secondo Harvey, dunque, non si può separare il processo di
finanziarizzazione, generato dalla crisi strutturale degli anni Settanta,
dall’impressionante compressione spazio-temporale che l’ha accompagnato: nel
mondo che abitiamo iltempo di accumulazione del capitale (e la conseguente ristrutturazione
spaziale) si è infatti accelerato in questi ultimi quarant’anni in modo
vertiginoso, creando squilibri e instabilità che difficilmente potranno
assestarsi in un nuovo spatial fix capace di armonizzarli, seppur
transitoriamente, senza passare attraverso un lungo periodo di caos e di
distruzioni massicce di capitale; e, naturalmente, di vita.
Il lungo XX secolo
Anche il capolavoro saggistico di Giovanni Arrighi, Il
lungo xx secolo[21], è un lavoro teorico che parte dalla crisi capitalistica di
inizio anni Settanta. Come Jameson, Arrighi decifra le trasformazioni violente
che questa crisi ha generato, elaborando una periodizzazione di lungo periodo.
Nello stesso tempo, il suo lavoro segue anche la direzione di Harvey, almeno
per quanto riguarda l’attenzione con cui analizza le metamorfosi geografiche
dei cicli sistemici di accumulazione. E tuttavia, a differenza dei primi due,
il suo lavoro si muove su coordinate davvero molto vaste, coordinate che coincidono,
per quanto riguarda lo spazio, con il sistema-mondo; e per quanto riguarda il
tempo, con l’intero ciclo dell’era moderna, dall’emergere del capitalismo nel
sistema delle città-Stato italiane rinascimentali, fino alla crisi
dell’egemonia statunitense di questi ultimi decenni. Tre sono gli autori guida
alla base di quest’ambizioso progetto di ricerca: Marx, Gramsci e Braudel. Ma
fra i tre è sicuramente quest’ultimo l’autore decisivo, quello con cui rilegge,
riposizionandole sulla longue durée del sistema-mondo, tanto la
logica dell’accumulazione marxiana, quanto la riflessione di Gramsci su dominio
ed egemonia.
Può sembrare strano, ma Arrighi di formazione è un
economista neoclassico. Si laurea infatti all’Università Bocconi di Milano alla
fine degli anni Cinquanta, con l’intento di portare avanti l’azienda del padre,
che è morto pochi anni prima. Il nonno materno, un ricco industriale tessile,
gli sconsiglia però di mettersi a lavorare come imprenditore, perché, secondo
lui, non ne ha la stoffa. E infatti, dopo pochi anni, Arrighi capisce
chiaramente che la sua passione è la ricerca: nel 1963 vince una borsa
dell’Università di Londra per una cattedra di economia in Rhodesia (l’attuale
Zimbabwe). Il contatto con la realtà politica africana – sono gli anni della
decolonizzazione – e la conoscenza di antropologi come Clyde Mitchell e Jaap
Van Velsen, che lavorano nella sua stessa facoltà, metteranno definitivamente
in crisi i modelli matematici acquisiti nella formazione bocconiana. Inizia qui
il suo abbandono dell’economia neoclassica per la sociologia
storico-comparativa. Risultato di questa metamorfosi teorica è il suo primo
libro, Struttura di classe e sovrastrutture in Africa[22], tradotto in
italiano nel 1969 da Einaudi. Già in questo primo saggio emergono nitidamente
due temi centrali della sua interpretazione del capitalismo. Il primo: per
comprendere le forme dello sviluppo di una qualsiasi regione o Stato-nazione è
fondamentale conoscere la struttura del capitalismo, così come si è
organizzata a livello mondiale: quali potenze dominanti, quali polarità, quali
gerarchie. Il secondo: la trasformazione dei lavoratori in forza lavoro
salariata non sempre e non ovunque è condizione necessaria per lo
sviluppo del modo di produzione capitalistico.
Nel 1969 Arrighi torna in Italia, giusto in tempo per essere
parte di quei movimenti antisistemici su cui poi rifletterà a lungo, almeno
fino alla pubblicazione nel 1989 di Antisystemic Movements, insieme a
Wallerstein e Hopkins[23]. Il decennio italiano, prima come professore di
sociologia a Trento, poi ad Arcavacata, è segnato infatti, oltre che
dall’insegnamento, da un’intensa attività politica. Sono questi gli anni in cui
fonda a Milano, insieme a Romano Madera e Luisa Passerini, il Gruppo Gramsci,
con l’intento di elaborare una strategia politica orientata verso l’autonoma di
classe[24]. Da subito inizia ad interrogarsi sulla natura della crisi economica
che in quegli anni sta sconvolgendo l’Occidente. Leggerà l’inconvertibilità del
dollaro in oro, imposta da Nixon nel ’71, come un segnale non equivocabile: gli
Stati Uniti stanno modificando le regole e l’organizzazione del capitalismo
mondiale. Questo significa che l’ordine geopolitico costruito nell’immediato
dopoguerra sta per essere superato. Negli studi più importanti di questo
periodo – Verso una teoria della crisi capitalistica[25] e Geometria
dell’imperialismo[26] – Arrighi cerca costantemente di smarcarsi dalle
intepretazioni marxiste dominanti. Anzitutto, legge la crisi di inizio anni
Settanta come una crisi da caduta del saggio di profitto e non da
sovrapproduzione, come fu, invece, quella del 1929. Una lettura corretta e
tuttavia parziale che solo negli anni successivi approfondirà introducendo, nel
quadro generale, il fattore scatenante: l’esacerbarsi della competizione
inter-capitalistica. Nello stesso tempo proverà a mettere in crisi anche il
paradigma leninista e la sua interpretazione dell’imperialismo. Attraverso la
lettura di Hobson[27] Arrighi scompone le forme di dominio inter-statale
in età moderna in quattro modalità operative sempre coesistenti: colonialismo,
impero formale, impero informale, imperialismo. L’imperialismo dunque non
rappresenterebbe più, come invece in Lenin, l’ultima fase dello sviluppo dei rapporti
inter-statali, quanto una modalità operativa standard, coesistente insieme
ad altre. Senza entrare nel merito di questa lettura, va comunque almeno
segnalato che, adottando questa prospettiva, Arrighi di fatto elide il nodo
centrale dell’interpretazione leninista che vede nell’imperialismo la
proiezione geopolitica del potere finanziario, come unità di potere bancario e
potere industriale[28].
All’inizio di questo paragrafo abbiamo scritto che lo studio
di Braudel rappresenta per Arrighi l’incontro teorico fondamentale, ma, come
ora è evidente, è un incontro tardivo. È solo con il suo trasferimento nel 1979
al Fernard Braudel Center di Binghamton, nello Stato di New York, che la
lezione dello storico francese, mediata dalla scuola di sistemica di Hopkins,
Wallerstein e Frank, si trasforma nella chiave teorica capace di decifrare il
significato delle espansioni finanziarie come fenomeno storico ricorrente e non
come stadio ultimo e finale dell’accumulazione, come invece in Hilferding o,
ancora, in Lenin. Soprattutto nel Braudel di Civiltà materiale, economia e
capitalismo[29] Arrighi trova in un colpo solo l’interpretazione guida per
comprendere il nesso che lega crisi economica degli anni Settanta e successiva
espansione del potere finanziario statunitense. Per Braudel, infatti «ogni
evoluzione complessiva [dell’ordine capitalistico] sembra annunciare, con lo
stadio del rigoglio finanziario, una sorta di maturità: è il segnale
dell’autunno»[30]. Se si studia, infatti, la storia del capitalismo come la
storia di lunga durata di un meccanismo astratto di accumulazione di potere e
di ricchezza (e non esclusivamente come modo di produzione) è possibile
rilevare alcune costanti di fondo e almeno una ricorrenza precisa: ogni volta
che la potenza egemone di una determinata configurazione storica abbandona il
campo della produzione di beni per la speculazione finanziaria, la sua
sovranità sul sistema inizia a vacillare. La finanziarizzazione
rappresenterebbe dunque l’autunno di un potere, o più precisamente, il momento
conclusivo del ciclo sistemico di accumulazione. Quest’ultimo concetto è
particolarmente importante perché mostra come Arrighi riposizioni la struttura
logica del modo di produzione capitalistico, così come è stata descritta da
Marx nel Capitale, sulla longue durée dischiusa dalle analisi di
Fernard Braudel:
La formula generale del capitale di Marx (D-M-D¹) può essere
considerata descrittiva non solo della logica dei singoli investimenti
capitalistici, ma anche di un modello ricorrente del capitalismo storico come
sistema mondiale. L’aspetto principale di questo modello è costituito
dall’alternanza di epoche di espansione materiale (le fasi D-M
dell’accumulazione di capitale) e di epoche di rinascita e di espansione
finanziaria (le fasi M-D¹). Nelle fasi di espansione materiale il capitale
monetario «mette in movimento» una crescente massa di merci (inclusa la
forza-lavoro mercificata e le doti naturali); nelle fasi di espansione
finanziaria una crescente massa di capitale monetario «si libera» dalla sua forma
merce, e l’accumulazione procede attraverso transazioni finanziarie (come nella
formula marxiana abbreviata D-D¹). Insieme, le due epoche o fasi formano un
intero ciclo sistemico di accumulazione.
A questo punto, Arrighi inizia un’appassionante ricostruzione
storica, economica e politica. Retrocede, insieme a Braudel, alla fine del
Medioevo e prova a verificare la tenuta di questo modello interpretativo.
Costruisce così una periodizzazione di lunghissima durata, individuando quattro
cicli sistemici di accumulazione. Il primo coincide con «il lungo xvi secolo
italiano» (1350-1650), e si concentra in particolare sulla crisi del potere di
Venezia, Milano e Firenze fino allo stabilirsi dell’alleanza politica fra
Genova (potere finanziario) e corona castigliana (potere militare). Se
paragonate alle altre città-Stato italiane rivali, Genova è una piccola città
di modeste dimensioni e priva di difesa militare. Cionondimeno, ha una classe
capitalistica molto dinamica, organizzata in una diaspora cosmopolita, strutturata
in una rete internazionale gravitante su alcune piazze controllate. Per oltre
due secoli, questa struttura reticolare riuscirà a dominare la finanza
internazionale sfruttando la competizione europea per la conquista di capitale
mobile a proprio vantaggio. La «nazione» genovese ha però un problema serio,
essendo priva di protezione militare; di qui l’alleanza con gli spagnoli, a cui
finanzia le esplorazioni fuori dal Mediterraneo, anche per mettere sotto scacco
il monopolio veneziano delle rotte commerciali orientali. Il centro di questo
primo ciclo è per questa ragione anfibio: il potere militare e territoriale
gravita intorno alla corona spagnola che si serve del potere finanziario
genovese, in un primo tempo per consolidarsi, quindi per scoprire e costruire
un vero e proprio impero mondiale. Nel secondo ciclo sistemico, che va dalla
fine del xvi secolo fino alla metà del xviii, protagonista è invece l’Olanda.
Rispetto a Genova, le Province unite hanno una forma ibrida: conservano alcuni
elementi delle città-Stato italiane che vengono però combinati con prerogative
proprie dei nascenti Stati nazionali. L’Olanda esprime infatti
un’organizzazione interna capace di contenere potere sufficiente da
renderla indipendente dalla Spagna imperiale e da riuscire a costruire, nello
stesso tempo, una rete di avamposti esterni capaci di erodere, poco a
poco, la supremazia marittima e commerciale spagnola e, nell’area dell’Oceano
Indiano, portoghese. Tra il 1620 e il 1740 Amsterdam diventa il primo mercato
azionario internazionale in seduta permanente. Può essere considerata come la
prima borsa mondiale, nodo strategico centrale di una rete internazionale di
avamposti, costruita e controllata da «compagnie privilegiate», come la
potentissima voc. Con l’ascesa della Gran Bretagna, nella seconda metà del
Settecento, si struttura il terzo ciclo sistemico, che si protrae fino agli
inizi del xx secolo. Rispetto alle Province unite, l’Inghilterra è un vero e
proprio Stato. Essendo un’isola, non ha grandi problemi territoriali, a
differenza di Francia, Spagna, Germania e Olanda. La sua classe dirigente, non
dovendo finanziare guerre per proteggere o espandere confini, si specializza
subito nella competizione mercantile, riuscendo a costruire un impero marittimo
senza precedenti per estensione e per possibilità di controllo di risorse
naturali e umane. Se dunque rispetto al ciclo genovese le Province unite erano
state capaci di coordinare capacità militare, strutture mercantili e potere
finanziario, rispetto a quello olandese, l’Inghilterra riesce a incorporare al
suo interno anche lo sviluppo produttivo: il controllo mondiale di materie
prime e di forza lavoro si combina con la rivoluzione industriale, trasformando
Londra, contemporaneamente, in centro manifatturiero del mondo e in centro
finanziario. L’ultimo ciclo sistemico è quello dominato dagli Stati Uniti
d’America, dalla fine del xix secolo fino ad oggi. Con l’emergere degli usa
come potenza dominante si dilatano ulteriormente le dimensioni interne del
centro di accumulazione di potere – non più uno Stato-isola, ma un vero e
proprio Stato-continente; inoltre, la capacità di produzione industriale
raggiunge dimensioni tali da garantire protezione militare ed economica ad un
numero elevato di Stati satelliti, subordinati o alleati. Ma
nell’organizzazione complessiva del sistema mondiale, l’innovazione
statunitense riguarda soprattutto il controllo dei mezzi di transazione: per la
prima volta produzione e consumo vengono coordinati in un apparato produttivo
multinazionale integrato.
Ridotta ai minimi termini, l’analisi di Arrighi è dunque
abbastanza lineare: ogni ciclo sistemico conosce una prima fase di espansione
materiale, nella quale il soggetto egemone coordina a proprio
vantaggio il mercato mondiale; e una seconda fase di espansione finanziaria,
dove la potenza egemone declinante abbandona il campo della produzione diretta
per dominare il sistema attraverso la finanza, mentre nuove realtà si
scontrano per emergere come leader del ciclo sistemico successivo. Esattamente
come con l’accumulazione marxiana, Arrighi riformula i concetti gramsciani diegemonia e
di dominio spostandoli dal conflitto fra classi all’interno di uno
Stato, al conflitto fra Stati all’interno del sistema-mondo:
il concetto di «egemonia mondiale» si riferisce in
particolare al potere di uno Stato di esercitare le funzioni di leadership e di
governo su un sistema di Stati sovrani. In teoria, questo potere può implicare
solo la gestione ordinaria di tale sistema secondo le modalità proprie di
ciascuna epoca. Storicamente, tuttavia, il dominio su un sistema di Stati
sovrani ha sempre comportato qualche tipo di azione trasformatrice che ha
mutato in maniera fondamentale il modo di operare del sistema. Questo potere è
qualcosa di più e di diverso dal «dominio» puro e semplice. È il potere
associato al dominio, accresciuto dall’esercizio della «direzione intellettuale
e morale». […] [Per questa ragione] nel nostro schema, […] mentre concepiremo
il dominio come basato principalmente sulla coercizione, l’egemonia sarà intesa
come il potere aggiuntivo che deriva a un gruppo dominante dalla sua capacità
di porre su un piano «universale» tutte le questioni intorno alle quali ruota
il conflitto[31].
Sta qui la ragione per la quale il passaggio da un ciclo
sistemico all’altro avviene quando al dominio della potenza
declinante si sostituisce una nuova egemonia capace anzitutto di
mettere ordine al caos creato dai problemi del sistema precedente. La nuova
leadership dovrà infatti essere in grado di innovare tanto le regole del
mercato mondiale quanto l’esercizio della forza militare, assumendosi l’onore
della coordinazione politica e delle tecniche di protezione dell’intero
sistema. Non è dunque un caso se ad ogni salto sistemico le dimensioni
territoriali della potenza egemone si dilatano: tanto più grande lo spazio da
governare tanto più complessi i problemi organizzativi, produttivi, finanziari
e militari da risolvere e guidare. Nello stesso tempo, tuttavia, questa
progressione lineare conoscerebbe al proprio interno anche un movimento in
direzione contraria, di recupero di tecniche di governo sperimentate nel ciclo
precedente. Facciamo solo due esempi. L’Olanda rispetto a Genova è un piccolo
Stato-nazione capace di incorporare i costi della protezione militare che la
«nazione» genovese invece aveva appaltato all’esterno, alleandosi con la corona
spagnola. Nello stesso tempo, però, le Province unite recuperano strategie
militari e strutture di governo proprie del capitalismo monopolistico
veneziano, il modello sconfitto dall’egemonia genovese. Allo stesso modo, gli
Stati Uniti rispetto all’Inghilterra sono un continente capace di pianificare
verticalmente produzione e consumo, ma per far questo utilizzano avamposti
commerciali (le multinazionali) che recuperano modalità operative già
sperimentate dalle compagnie «privilegiate» olandesi. Questa oscillazione a
pendolo viene interpretata da Arrighi attraverso l’alternarsi, nella storia del
capitalismo mondiale, di due diverse tipologie di accumulazione: una
cosmopolita/imperiale e una aziendal-nazionale. La prima – genovese/iberica e
britannica – avrebbe avuto una funzione estensiva, essendo responsabile di
gran parte dell’espansione geografica del capitalismo moderno. Se infatti sotto
i genovesi il mondo fu scoperto, sotto gli inglesi fu conquistato. La seconda
tipologia – olandese e statunitense – invece avrebbe svolto una funzione intensiva,
di consolidamento di potere. Sotto il dominio olandese la «scoperta» del mondo,
operata dagli iberici, partner dei genovesi, fu consolidata in un sistema di
depositi commerciali e società per azioni privilegiate convergenti sulla borsa
di Amsterdam; sotto quello americano, la conquista britannica del mondo fu
stabilizzata in un sistema di mercati nazionali e corporazioni multinazionali
avente come suo centro di gravità il governo degli usa. Come si può evincere,
anche solo da questa breve esposizione, la formazione neoclassica in Arrighi
sicuramente scompare come lente teorica, ma sopravvive a tratti come forma
mentis orientata da una continua, e talora ossessiva, attitudine
modellizzante.
Il lungo xx secolo si chiude provando ad individuare
l’area continentale che potrebbe sostituire il dominio americano esercitando
una nuova egemonia. Arrighi scommette sull’Asia orientale, in particolare sul
Giappone (ma siamo solo nel 1994) e su tutta la rete manifatturiera e
finanziaria che si è sviluppata, a partire dalla Guerra di Corea, sotto la sua
orbita di influenza (Corea del Sud, Taiwan, Singapore, Honk Kong). L’evolversi
del quadro internazionale nei decenni successivi avrebbe confermato e, nello
stesso tempo, smentito questa previsione. Come indicava Arrighi, il centro
manifatturiero del mondo si è spostato in Asia orientale, ma è la Cina, e non
il Giappone, lo Stato che più di ogni altro ha le caratteristiche sistemiche
per sostituire la leadership mondiale degli Stati Uniti. Due anni prima di
morire, Arrighi pubblica Adam Smith a Pechino[32], volume interamente
dedicato alla Cina e alla «rivoluzione industriosa», oltre che industriale, di
cui sarebbe artefice. Va detto che il suo ultimo lavoro è un libro controverso,
sicuramente più per le analisi fantasiose sulla presunta qualità smithiana
dello sviluppo capitalistico cinese che per i ragionevoli interrogativi sui
modi della transizione della leadership mondiale. Ne riporto due. Il primo:
nonostante la Cina sia di fatto il centro manifatturiero del mondo, gli Stati
Uniti potenza economica declinante mantengono tuttavia il controllo mondiale
dell’esercizio della forza militare (Standing Army), un controllo che non
conosce, e per molto ancora non conoscerà, rivali credibili. Il secondo: per la
prima volta nella storia dei cicli sistemici la potenza declinante non è
prestatrice mondiale di liquidità, ma, esattamente all’opposto, è epicentro del
flusso di capitali mobili mondiali. Si apre così in realtà un plausibile
scenario di caos sistemico, dove, parafrasando Schumpeter «prima di soffocare
(o respirare) nella prigione (o nel paradiso) di un impero mondiale
postcapitalistico o di una società mondiale di mercato postcapitalistica,
l’umanità potrebbe bruciare negli orrori (o nelle glorie) della crescente
violenza che ha accompagnato la liquidazione dell’ordine mondiale della Guerra
fredda. Anche in questo caso la storia del capitalismo giungerebbe al termine,
ma questa volta attraverso un ritorno stabile al caos sistemico dal quale ebbe
origine seicento anni fa e che si è riprodotto su scala crescente a ogni
transizione. Se questo significherà la conclusione della storia del capitalismo
o la fine dell’intera storia dell’umanità, non è dato sapere»[33].
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Note
[1] L’articolo è stato pensato e discusso da entrambi
gli autori; in particolare, Daniele Balicco ha curato l’introduzione e i
capitoli su Jameson e su Arrighi; Pietro Bianchi è autore del capitolo su David
Harvey.
[2] Jean François Lyotard, La condition
postmoderne: rapport sur le savoir, Editions de Minuit, Paris 1979; tr. it.La
condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1981.
[3] I due scritti fondamentali di Jameson sul
postmodernismo sono: Fredric Jameson, Postmodernism or the Cultural Logic
of Late Capitalism, Duke University Press, Durham 1991 (tr. it Postmodernismo
ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Fazi, Roma 2007); Id., The
Cultural Turn. Selected Writing on the Postmodern 1983-1998, Verso,
London-New York 1998.
[4] Id., Political Unconscious. Narrative as a
Socially Simbolic Act, Cornell University Press, Ithaca 1981 (tr. it.L’inconscio
politico. La narrativa come atto socialmente simbolico, Garzanti, Milano 1990).
[5] F. Jameson, Postmodernism and Consumer Society,
in AA.VV., The Anti-Aestetic. Essay on Postmodern Culture, H.
Foster (a cura di), Bay Press, Port Townsend 1983, pp. 111-125.
[6] Id., Postmodernism, cit., p. ix.
[7] Ibid., p. xv.
[8] D. Harvey, Explanation in Geography, Edward
Arnold, London 1969.
[9] P. Anderson, D. Harvey, Reinventing Geography,
«New Left Review», iv, (2000), pp. 75-97.
[10] D. Harvey, Social Justice and the City, John
Hopkins University Press, Baltimore 1973.
[11] Id., Limits to Capital, Blackwell, Oxford
1982.
[12] Id., Paris. Capital of Modernity, Routledge,
London-New York 2003.
[13] Ibidem.
[14] D. Harvey, The geopolitics of capitalism, in
D. Gregory e J. Urry (a cura di), Social Relations and Spatial Structures,
Macmillan, Londra 1985, pp. 128-163, (tr. it. di M. Dal Lago, La
geopolitica del capitalismo, in G. Vertova (a cura di), Lo spazio del
capitale, Editori Riuniti, Roma 2009, p. 121).
[15] D. Harvey, Globalization and the «Spatial
Fix», «Geographische Revue», 2, (2001), p. 24 (tr. di Pietro Bianchi).
[16] Id., The Condition of Postmodernity: an
Enquiry into the Origins of Cultural Change, Blackwell, Oxford (uk) – Cambridge
(ma) 1989, (tr. it. La crisi della modernità, Il Saggiatore, Milano 1992).
[17] Id., The New Imperialism, Oxford University
Press, Oxford (uk)-New York 2003 (tr. it. La guerra perpetua, Il
Saggiatore, Milano 2004).
[18] Id., A Brief History of the Neoliberalism, Oxford
University Press, Oxford (uk)-New York 2005 (tr. it. Breve storia del
neoliberismo, Il Saggiatore, Milano 2005).
[19] Id., The Enigma of Capital and the Crises of
Capitalism, Oxford University Press, New York 2010 (tr. it.L’Enigma del
Capitale, Feltrinelli, Milano 2011).
[20] Id., A Brief History of Neoliberalism, cit.,
p. 159.
[21] G. Arrighi, The Long Twentieth Century, Verso
Book, London-New York 1994 (tr. it. Il lungo xx secolo, Il Saggiatore,
Milano 1996).
[22] Id., The Political Economy of Rhodesia, The
Hague, Mouton Press 1967 (tr. it Struttura di classe e sovrastrutture in Africa,
Einaudi, Torino 1969).
[23] G. Arrighi, T.K. Hopkins, I. Wallerstein, Antisystemic
Movements, Verso Book, London-New York 1989 (tr.itAntisystemic Movements,
Manifestolibri, Roma 1992).
[24] «Consideravamo che il nostro principale contributo
al movimento non fosse di fornire un sostituto di sindacati e partiti, ma un
aiuto offerto alle avanguardie dei lavoratori da parte di studenti e
intellettuali perché sviluppassero la loro autonomia – autonomia operaia –
attraverso la comprensione dei processi più ampi a livello nazionale e globale
all’interno dei quali si attuava la loro lotta. In termini gramsciani questo
significava formare gli intellettuali organici della classe operaia» in I
tortuosi sentieri del capitale. Intervista con David Harvey in G. Arrighi, Capitalismo
e (dis)ordine mondiale (a cura di G. Ceserale, M. Pianta), Manifestolibri,
Roma 2010, p. 34.
[25] G. Arrighi, Verso una teoria della crisi
capitalistica, «Rassegna Comunista», 2-3-4-5-7, 1972-3.
[26] Id., La geometria dell’imperialismo: i limiti
del paradigma hobsoniano, Feltrinelli, Milano 1978.
[27] J. Hobson, Imperialism, James Nisbet &
Co., London 1902.
[28] Su limiti dell’interpretazione di Arrighi del
paradigma leninista seguo: G. Ceserale, La lezione di Giovanni Arrighi in
G. Arrighi, Capitalismo e (dis)ordine mondiale, cit., p. 13.
[29] F. Braudel, Civilisation matérielle et
capitalisme, Colin, Paris1967, (tr. it. Civiltà materiale, economia e
capitalismo (secoli xv-xviii), Einaudi, Torino 1982).
[30] Ibid., vol. iii, p. 235.
[31] G. Arrighi, The Long Twentieth Century, cit.,
pp. 49-51.
[32] Id., Adam Smith in Beijing: Lineages of the
Twenty-First Century, Verso, London 2007 (tr. it. Adam Smith a Pechino.
Genealogie del Ventunesimo secolo, Feltrinelli, Milano 2008).
[33] Id., The Long Twentieth Century, cit. p. 466.