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Karl Marx & Ludwig Feuerbach
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È in uscita “Il Transindividuale. Soggetti, relazioni,
mutazioni”, una raccolta di studi sulla questione del transindividuale curata
da Etienne Balibar e Vittorio Morfino. Anticipiamo questo saggio di Etienne Balibar, in
cui il filosofo francese conduce un’analisi particolareggiata del significato
filosofico della Sesta Tesi di Marx su Feuerbach.
Etienne Balibar |
Le Tesi su Feuerbach [1], un insieme di
11 aforismi a quanto pare non destinati alla pubblicazione in questa forma,
sono state scritte da Marx nel corso del 1845 mentre stava lavorando al
manoscritto dell’Ideologia tedesca, anch’esso non pubblicato. Sono state
scoperte più tardi da Engels e da lui pubblicate con alcune correzioni (non
tutte prive di significato), come appendice al suo pamphlet Feuerbach e il
punto d’approdo della filosofia classica tedesca (1886)[2]. Sono
considerate largamente una delle formulazioni emblematiche della filosofia
Occidentale, talvolta comparate con altri testi estremamente brevi ed
enigmatici che combinano una ricchezza apparentemente inesauribile con uno
stile enunciativo da manifesto, che annuncia un modo di pensare radicalmente
nuovo come il Poema di Parmenide o il Trattato di
Wittgenstein. Alcuni dei suoi celebri aforismi hanno guadagnato a
posteriori lo stesso valore di un punto di svolta in filosofia (o,
forse, nella nostra relazione con la filosofia) come, per esempio dei già
citati Parmenide e Wittgenstein rispettivamente:
«tauton gar esti noein te kai
einai»[3],
«Worüber man
nicht sprechen kann, darüber muss man schweigen» [4], ma anche lo
spinoziano
«ordo et connexio idearum idem est ac ordo et connexio rerum»[5] il kantiano
«Gedanken ohne Inhalt sind leer, Anschauungen ohne Begriffe sind blind»[6] etc.
In tali condizioni è ovviamente allo
stesso tempo estremamente allettante e imprudente avventurarsi in un nuovo
commento. Ma è anche inevitabile far ritorno alla lettera delle Tesi,
esaminando la nostra comprensione della loro terminologia e proposizioni, nel
momento in cui decidiamo di valutare il posto occupato da Marx (e di una
interpretazione di Marx) nei nostri dibattiti contemporanei. È ciò che vorrei
fare – almeno in parte – in questo testo, con riferimento ad una discussione
in corso sul significato e gli usi della categoria di ‘relation’ e
‘relationship’ (entrambi possibili equivalenti del tedesco Verhältnis),
le cui implicazioni vanno dalla logica all’etica, ma in particolare implicano
una sottile – forse decisiva – sfumatura che separa un’‘antropologia
filosofica’ da un’‘ontologia sociale’ (o, una ontologia dell’‘essere sociale’,
come Lukács, tra altri, direbbe). Questo scopo conduce in modo del tutto
naturale a sottolineare l’importanza della Tesi 6, che recita
(nella versione originale di Marx):
Feuerbach löst das
religiöse Wesen in das menschliche Wesen
auf. Aber das menschliche Wesen ist kein dem einzelnen Individuum inwohnendes
Abstraktum. In seiner Wirklichkeit ist es das ensemble der gesellschaftlichen
Verhältnisse.
Feuerbach, der auf die
Kritik dieses wirklichen Wesens nicht eingeht, ist daher gezwungen: 1. von dem
geschichtlichen Verlauf zu abstrahieren und das religiöse Gemüt für sich zu
fixieren, und ein abstrakt – isoliert –
menschliches Individuum vorauszusetzen. 2. Das Wesen kann daher nur als
‘Gattung’, als innere, stumme, die vielen Individuen natürlich verbindende
Allgemeinheit gefaßt werden.
Ed ecco una traduzione italiana
classica:
Feuerbach
risolve l’essenza religiosa nell’essenza umana. Ma l’essenza umana non è qualcosa di astratto che sia
immanente all’individuo singolo. Nella sua realtà essa è l’insieme dei rapporti
sociali.
Feuerbach, che non penetra nella
critica di questa essenza reale, è perciò costretto:
1. Ad astrarre dal corso della
storia, a fissare il sentimento religioso per sé, ed a presupporre un individuo
umano astratto – isolato.
2. L’essenza può dunque essere
concepita soltanto come ‘genere’, cioè come universalità interna, muta, che
leghi molti individui naturalmente.
Tra i molti commentari che sono stati
dedicati a queste proposizioni (e in particolare alle prime tre proposizioni),
selezionerei quelli di Ernst Bloch e Louis Althusser, che mettono in luce
posizioni esattamente antitetiche[7]. Per Bloch, il
cui commento dettagliato, parte del suo magnum opus Das Prinzip
Hoffnung, fu pubblicato in un primo tempo separatamete nel 1953[8], le Tesi includono
la piena costruzione del concetto di praxis rivoluzionaria,
presentata come la parola d’ordine (Losungswort), che oltrepassa
l’antitesi metafisica di ‘soggetto’ e ‘oggetto’, ‘pensiero filosofico’ e
‘azione politica’. Esse esprimo l’idea cruciale che la realtà (sociale)
in quanto tale è ‘mutabile’ (veränderbar) poiché la sua nozione completa
non indica solo situazioni date o relazioni derivanti
da un processo compiuto (cioè il presente e il passato), ma implica anche
sempre già l’oggettivapossibilità di un futuro o una novità (novum),
cosa che né il materialismo classico né l’idealismo hanno mai ammesso. Per
Althusser, che si sofferma sulleTesi come un sintomo di una
rivoluzione teorica (o ‘rottura epistemologica’) attraverso cui Marx avrebbe
lasciato cadere una lettura umanistica, fondamentalmente feuerbachiana, del
comunismo, per adottare una problematica scientifica (non-ideologica) delle
relazioni sociali e delle lotte di classe come motore della storia, esse
meritano una lettura (alquanto controintuitiva) che mostra le ‘nuove’ idee come
forzatura di un vecchio linguaggio per esprimere (o piuttosto annunciare,
anticipare) una teoria che, fondamentalmente, non ha precedenti, ma le cui
implicazioni sono ancora a venire (l’esempio principale di
questa ermeneutica di concetti forzati, internamente inadeguati, è
la lettura althusseriana della praxis come nome filosofico di
«un sistema articolato di pratiche sociali»). È interessante notare che sia il
commentario di Bloch che quello di Althusser implicano una forte sottolineatura
dello schema temporale di un ‘futuro’ oggettivamente incluso
nel presente come una possibilità dirompente – con la differenza che per Bloch
questo schema caratterizza la storia, mentre per Althusser
caratterizza la teoriao il discorso[9].
Ciò che è massimante interessante per
noi è il modo in cui essi risolvono i paradossi nella Tesi 6 che
sorgono da modi antitetici di definire l’‘essenza umana’ (das menschliche
Wesen), che riguarda direttamente la nozione di ‘antropologia’ (ereditata
da Kant, Hegel e Humboldt, ma soprattutto, naturalmente, da Feuerbach la cui
tesi principale nell’Essenza del cristianesimo afferma che «il
segreto del discorso teologico è l’esperienza antropologica», o che l’idea di
Dio e dei suoi attributi sono rappresentazioni dell’essenza umana
immaginariamente invertite): «Ma l’essenza umana – Marx bruscamente obietta –
non è una astrazione inerente ad ogni singolo individuo. Nella sua realtà è
l’insieme delle relazioni sociali». Questo sembra non lasciare altra
possibilità che ammettere che l’‘essenza umana’ è in verità una nozione
necessaria (ed una nozione fondamentale, che indica il primato della domanda
antropologica in filosofia), benché intesa in modi differenti: un modo
sbagliato (attribuito a Feuerbach: «l’essenza umana è un’astrazione (o un’idea)
inerente ad ogni individuo isolato») ed un modo corretto (affermato da Marx
stesso: «l’essenza umana è l’insieme delle relazioni sociali», qualsiasi valore
logico abbia quell’‘è’). Althusser, tuttavia, va in una direzione differente:
per lui proprio l’uso dell’espressione ‘essenza umana’ implica un’equivalenza
di due nozioni, ‘umanesimo teorico’ e ‘antropologia filosofica’, con cui una teoria
(cioè una ricerca materialista) dell’‘ensemble’ (o sistema, articolazione)
delle ‘relazioni sociali’ è incompatibile, perché fa riferimento a continue
trasformazioni storiche di ciò che significa essere ‘umano’ in relazione (di
cooperazione, divisione del lavoro, dominazione, lotta di classe) ad altri
umani, distruggendo così l’idea stessa di attributi ‘universali’ e ‘permanenti’
che apparterrebbero ad ‘ogni singolo individuo’ (o soggetto). In breve
storicizza e de-essenzializza radicalmente il nostro concetto di umano,
demolendo sia l’antropologia come teoria, sia l’umanesimo come ideologia. Ne
segue che l’espressione importante nell’aforisma marxiano sarebbe «in seiner
Wirklichkeit» (nella sua realtà), poiché segnala (come un’ingiunzione teorica o poteau
indicateur nella stessa teoria) che il discorso dell’«essenza
dell’uomo» non è più sostenibile e dovrebbe essere sostituito da un differente
discorso in cui è in questione l’analisi delle relazioni sociali. Il ‘sociale’
si oppone all’‘umano’ proprio come le ‘relazioni’ si oppongono all’‘essenza’.
Ma, se da qui ritorniamo al
commentario di Bloch, possiamo osservare due cose. Da una parte, cade
chiaramente sotto questa critica, poiché sostiene che vi sono due antropologie
successive (così come vi sono due varietà di materialismo e di fatto due tipi
di umanesimo, uno astratto che parla di attributi eterni dell’‘uomo’, e l’altro
che – con i termini stessi di Marx – è ‘reale’ e parla di trasformazioni
storiche della società che creano un ‘uomo nuovo’[10]). Dall’altra
parte riesce a connettere la Tesi 6 con altri scritti marxiani
che sono più o meno contemporanei, in particolare la celebre critica
della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino nella Questione
ebraica, che lo conduce a sottolineare con forza che l’antropologia
dell’‘essenza astratta’ è di fatto essa stessa prodotta storicamente:
esprime la visione del mondo politica (o ideologica) di una borghesia in ascesa
che riassume l’antica tradizione filosofica del ‘diritto naturale’(Naturrecht)
al fine di dare alla sua propria istituzione del cittadino nazionale una
fondazione universalistica. Perciò Bloch non indica solamente che ‘l’astratto
umanesimo’ ha una dimensione di classe, egli indica anche che è difficile
criticare radicalmente ogni umanesimo e discorso antropologico
pur mantenendo una prospettiva universalistica (inclusa una
prospettiva rivoluzionaria socialista o comunista).
Trovo questi argomenti incrociati di
particolare interesse in un momento in cui i dibattiti sull’universalismo (e
sui differenti tipi di universalismo: non solo borghese o proletario, ma anche
di genere, eurocentrico o planetario) tendono a prendere il posto della
‘disputa sull’umanesimo’, come è stata combattuta nella filosofia continentale
(dentro e fuori dalle sue cerchie marxiste) negli anni Sessanta e Settanta.
Forse dovremmo dire che la nuova ‘disputa’, egualmente intensa, che in parte
continua e in parte disloca la ‘disputa sull’umanesimo’, è precisamente la
disputa sull’universalismo[11]. La mia
posizione da questo angolo visuale sarebbe che ‘umanesimo’ e ‘antropologia’
sono di fatto due distinte nozioni o problemi, che bisognerebbe trattare
separatamente. Un’antropologia ‘non umanista’ o anche ‘anti-umanista’, per
quanto paradossale l’espressione possa suonare per i filosofi classici,
potrebbe rivelarsi non solo possibile, ma necessaria. Ma, per sbrogliare la
matassa, una nuova discussione di ciò che laTesi di Marx
esattamente significa si rivela illuminante[12]. La dividerò in
tre parti: 1) una nuova discussione della pars destruens nella Tesi
6 di Marx, in particolare la critica di un’‘essenza astratta’ inerente
agli individui isolati, cercando di chiarire quali dottrine (al di là di
Feuerbach) sono implicate in questa categorizzazione; 2) una nuova discussione
della pars construens, in particolare l’indicazione di un’equazione
dell’‘essenza umana’ con le ‘relazioni sociali’, facendo attenzione in
particolare ad alcune particolarità della formulazione della Tesi;
3) una discussione critica della ‘biforcazione’ offerta dalla tesi di Marx, in
altri termini un’esposizione di quali orientamenti sonoaperti e
quali sono chiusi (o persino proibiti) dalle sue proposizioni
in un dibattuto filosofico sull’antropologia che precede il suo intervento e
continua o viene rinnovato dopo di lui.
1. La proposizione negativa:
«l’essenza umana non è un’astrazione inerente a ogni singolo individuo»
Una discussione che
abbia realmente di mira la semantica e la grammatica della proposizione
marxiana deve necessariamente riportarsi all’originale formulazione tedesca.
Tradurre (in inglese, francese o italiano) è utile ma insufficiente, perché le
parole usate da Marx non hanno un perfetto equivalente, o hanno uno spettro di
significati che viene amputato in altre lingue. Come vedremo è altresì
importante il fatto che Marx usi un Fremdwort (o termine
straniero).
Iniziamo dalla categoria cruciale
di Wesen. La traduzione abituale, come abbiamo visto, è ‘essenza’ e
questo è naturalmente inevitabile perché Marx sta discutendo Feuerbach che,
come è noto, scrisse Das Wesen des Christentums(1841), ovvero L’essenza
del cristianesimo, dove, come ho ricordato, la tesi che è sostenuta è che
«l’essenza di Dio» è una proiezione immaginaria dell’essenza umana (cioè
natura). Ma una traduzione perfettamente accettabile potrebbe essere anche
‘essere’, e in effetti la comune comprensione dell’espressione «ein
menschliches Wesen» in tedesco sarebbe «un essere umano». La correlazione delle
due nozioni: essere e essenza (in greco: to on e ousia)
è al lavoro sin dall’inizio della metafisica Occidentale, in particolare in
Aristotele, la cui eredità fino ad oggi è divisa tra empiristi-nominalisti, per
i quali i soli ‘esseri reali’ sono gli individui (o ‘sostanze individuali’
nella formulazione di Aristotele) e le nozioni generali o essenze (chiamate
anche ‘universali’) rappresentano astrazioni intellettuali che vengono
applicate ad una molteplicità di individui recanti caratteri simili, ed
essenzialisti-realisti per cui l’individuo singolare ‘partecipa di’ (o persino
‘deriva da’) idee generali (che possono essere concepite come essenze, tipi o
specie) che sono esse stesse (iper)reali.
Un’indicazione ulteriore che le
tensioni concettuali soggiacenti ad ogni scelta di una parola o della forma di
una proposizione nel testo di Marx non sono da intendere senza un confronto
ravvicinato con Hegel risulta anche dal discutere l’antitesi fra ‘astrazione’ (Abstraktum)
e ‘realtà’ (Wirklichkeit, probabilmente meglio tradotta – gergo
permettendo – come ‘effettualità’ o ‘realtà effettuale’). Vi è una fonte
diretta di questa opposizione nella Fenomenologia: quando,
raggiungendo il livello dello ‘spirito’, che (anticipando sviluppi successivi
della sua filosofia politica) egli identifica con la «vita etica del popolo»,
Hegel spiega che gli enti singoli (figure) o i soggetti individuali
(coscienze) sono solo astrazioni o momenti astratti dello spirito ‘reale’.
Questo spiega perché, nella grande antitesi che forma il nucleo dell’argomento
critico della Tesi 6, Marx può allo stesso tempo rivendicare un
punto di vista nominalista alla Stirner, per cui una nozione generale o idea
(per es., quella di specie o genere, come Genere Umano, Umanità) è solo
un’astrazione, e rigettare come altrettanto ‘astratta’ la nozione di individui
isolati (come sono immaginati dalla teoria politica ed economica borghese, con
l’aiuto della metafisica): poiché sia l’essenza collettiva che l’individuo
singolo ‘egoistico’ sono astrazioni quando sono ‘isolati’ dallaWirklichkeit,
che è molto più che ‘realtà (cioè un’esistenza de facto, un
‘esserci’ sensibile), è un’operazione (Wirklichkeit viene da Werk, wirken,
l’equivalente tedesco di opus, operari), un processo di farsi
reale: ciò che Hegel ha definito come Spirito, e Marx stesso identificherà con
un insieme di processi storici di trasformazione che concernono relazioni
sociali. Perciò Marx mantiene il rifiuto simultaneo di Hegel delle ‘essenze’
antitetiche, che sono tutte le più astratte nella misura in cui pretendono di
rappresentare la negazione dell’astrazione, ma sta anche radicalmente
sovvertendo la ‘logica’ di questo rifiuto nei termini di un’operazione
‘spirituale’. Quanto radicalmente, questo è il problema. Ma prima di
considerare la sua definizione di un processo che è tanto ‘effettuale’ quanto
lo Spirito, pur non essendo lo Spirito, dobbiamo aggiungere una riflessione su
un altro termine usato da Marx che non è stato finora discusso.
Si tratta della formula (negativa): «…kein dem einzelnen Individuuminwohnendes Abstractum».
Fino ad ora, seguendo la più parte dei commentatori, abbiamo focalizzato
l’attenzione sui termini antitetici: Individuum o Abstractum,
l’individuo e l’astrazione (semplicemente identificato con un’idea, o una ‘idea
universale’). Ma abbiamo tralasciato di discutere il verbo (participio
presente) inwohnend, che le traduzioni invalse rendono con
‘inerente a’. è stato leggermente modificato da Engels, trasformato in innewohnend,
un termine moderno il cui uso principale fa riferimento all’idea di
‘possessione’, ‘essere posseduto’ (da qualche forza magica, un dio, un diavolo
ecc.), ma anche etimologicamente vicino al termine Einwohner, che
significa ‘abitante’ (o residente, abitatore) di un territorio, un luogo o una
casa ecc. A dire il vero l’originale inwohnend (con la stessa
etimologia) esiste in tedesco, ma è una forma arcaica che si può trovare in
contesti teologici (per esempio in Meister Eckart, da cui passa a Jacob Böhme)[13]: corrisponde al
latino (ecclesiastico) inhabitare, inhabitatio (che
Tommaso d’Aquino distingue dal semplice habitatio, habitare)[14]. Ritornare a
questo sfondo etimologico o teoretico (di cui Marx, in quanto ottimo discepolo
dell’idealismo tedesco, ha probabilmente avuto una diretta o indiretta
conoscenza) non è naturalmente sufficiente per sostenere un’interpretazione, ma
fornisce un sintomo della complessità delle articolazioni di un ‘individuo’ e
un ‘astratto’ (o un’essenza astratta) che possono essere state l’oggetto della
critica di Marx. Queste obbediscono largamente a due modelli molto differenti,
la cui convergenza alla fine incide nella costruzione del soggetto
trascendentale moderno (come definito da Kant e dai suoi seguaci): il modello
(post)aristotelico e (post)agostiniano di individuazione[15]. Il modello
‘metafisico’, post-aristotelico (che include un’oscillazione permanente tra una
interpretazione ‘nominalista’ ed una ‘platonica’ o ‘essenzialista’), è meglio
conosciuto e più frequentemente invocato nelle discussioni della Tesi 6.
Si riferisce ad un’interpretazione delle essenze come un ‘genere’ o una
‘specie’ (in questo caso il Genere umano o la Specie Umana) di cui gli esseri
individuali sono ‘istanze’ o ‘casi’, che partecipano degli
attributi della stessa essenza, o, in alternativa, i cui caratteri analoghi
conducono alla formazione di una singola idea del loro tipo comune (‘idea
generale’). Di qui l’importanza dell’uso feuerbachiano di Gattung (genere),
che, nei discorsi classici di storia naturale e antropologia, nomina il tipo
comune, e gli viene ora rivolto contro da Marx. Ogniindividuo è
rappresentativo di un tipo, o può essere concepito come ‘formato’ o
‘creato’ separatamente dopo il tipo: come conseguenza tutti
gli individui ‘condividono’ una relazione simile al tipo, ma rimangono isolati l’uno
dall’altro nella loro somiglianza, dato che ognuno di essi (più o meno
perfettamente) prende parte al tipo completo, che può essere un
tipo morale o sociale. È solo a posteriori, quando essi già
esistono come individui tipici, che essi possonorelazionarsi l’uno
all’altro in vari modi: questa relazione variabile è ‘accidentale’ ossia non
definisce la loro ‘essenza’. Tuttavia, da Kant a Feuerbach stesso è apportata
una correzione a ciò: nel caso della specie ‘umana’ – che non è una
specie qualsiasi – gli individui hanno un carattere essenziale
supplementare, si relazionano in modo cosciente alla specie
(comune) e dipendono da questa coscienza per costruire una comunità morale. In
questo senso il loro ‘essere in comune’, o l’‘essenza che dà forma ad una
comunità’ (Gemeinwesen), è già presente in potentia nella
loro ‘essenza generica’ (Gattungswesen)[16]. Ma con questa
interpretazione teleologica della natura dell’Uomo siamo già inclinati verso un
secondo modello, altrettanto tradizionale, che è sintomaticamente indicato
nella Tesi di Marx attraverso l’uso di inwohnend.
Chiunque abbia una qualche conoscenza
della teologia agostiniana conosce l’affermazione del De vera
religione (Sulla vera religione), 29, 72: Noli
foras ire, in te ipsum redi: in interiore homine habitat veritas («Non
andare all’esterno, ritorna in te stesso: nell’uomo interiore abita la
verità»), che fa eco a molte altre formulazioni nella sua opera (in particolare
nelle Confessioni e nel De trinitate), in cui è in
questione il fatto che ciò che sta al cuore (o il più intimo: interior
intimo meo) dell’anima umana, perciò esprimendo una ‘verità’ che non è solo
la verità della condizione dell’uomo, ma anche la verità per lui
(destinata per la sua redenzione), è anche ciò che infinitamente lo supera (superior
summo meo), cioè la sua relazione singolare con Dio o la ‘presenza’ di Dio.
Sosterrò che questo è ilsecondo modello che sottende la
formulazione di Marx nella Tesi 6, permettendoci di comprendere
meglio in che senso l’idea di ‘relazioni sociali’ sovverta rappresentazioni
classiche dell’‘essenza dell’Uomo’. All’interno di questa tradizione vi sono
molte variazioni che vanno dalle iterazioni alleinterpretazioni sino
alle trasformazioni (in particolar modo secolarizzazioni)[17]. Queste possono
essere ‘psicologistiche’, ma diventano più interessanti quando giungono ad un
punto di vista ‘trascendentale’, poiché questo è il modo più profondo per
mettere a confronto le tensioni della verticalità (o sovranità)
e dell’interiorità, o trascendenza e immanenza,
che sono implicate nella problematica del soggetto. In verità, è solo sullo
sfondo di questo secondo modello tradizionale che la dimensione ‘soggettiva’
della discussione di Marx può essere colta pienamente. Dal punto di vista
originariamente teologico l’idea guida è un’unità di opposti, dato che
la relazione verticale tra la figura sovrana (Dio, o il Verbo di Dio, o l’Idea
di Dio) e il ‘soggetto’ individuale (Uomo, o meglio, un Uomo singolare,
‘ognuno’) deve essere letta da entrambi i lati: come una creazione,
un’ingiunzione, un dono, una rivelazione derivante dal potere e dalla grazia di
Dio, ed anche come una chiamata, una richiesta, un riconoscimento o un atto di
fede che esprime la dipendenza individuale del soggetto[18]. Ma dal punto
di vista secolarizzato, antropologico, l’idea guida è spiazzata dal fatto che
non vi è più alcuna ‘verticalità’ o ‘sovranità’ che governa l’assoggettamento
dell’uomo (o la ‘soggettivazione’, come direbbero filosofi più recenti) ma soloeffetti
di autorità (che può essere anche letta, criticamente, come
dominazione) che sorgono dalle stesse rappresentazioni e attività umane. Un
buon esempio (in realtà, molto più di questo ) è la nozione kantiana di
imperativo categorico che è interpretato anche come una ‘voce interiore’ della
ragione che esprime la dipendenza del soggetto umano da una comunità morale di
esseri razionali che lo rende autonomo o produce la sua ‘emancipazione’ in
virtù della sua essenziale universalità.
Marx sembra scartare questa
genealogia quando obietta a Feuerbach che la sua concezione dell’essenza umana
come Gattung (genere) rimane ‘muta’ (stumme) è tenta di
‘relazionare’ o ‘unire’ (verbindende) la molteplicità di individui
(soggetti) solo attraverso un’universalità naturale. Perché allora, avrebbe
usato il termine ‘abitare’ al posto del semplice ‘informare’ o ‘modellare’(bildend,
formierend)? A parte le connotazioni teologiche suggerite da Feuerbach
stesso (a cui vengo sotto), potremmo pensare ad un’altra interpretazione
violentemente ironica (abbastanza vicina al discorso critico della Questione
ebraica), vale a dire all’idea che ciò che ‘possiede’ dall’interno
l’‘individuo astratto’ (o l’individuo individualizzato) non è altro che
l’‘idea della proprietà [privata]’, che nell’epoca del materialismo
[metafisico] borghese è stata sostituita a Dio come ‘interna verità dell’uomo[19].
2. La proposizione positiva:
«Nella sua realtà è l’insieme delle relazioni sociali»
Il momento decisivo è naturalmente il
prossimo, quando Marx, dall’indicare ciò che l’‘essenza umana’ non può
essere, giunge a definire ciò che realmente è, fornendo dunque
alla critica un contenuto ed un orientamento determinati. Tuttavia, come
sappiamo dai commentari e dalle parafrasi, è anche il luogo in cui la
formulazione di Marx risulta ambigua o si apre a interpretazioni
contraddittorie. Non dimenticando che queste sono note personali ‘improvvisate’
(ma anche che hanno il dono di una certa ‘genialità’, come suggerito da Engels,
o nei termini di Benjamin, hanno la qualità di un’‘illuminazione’)[20], possiamo
tentare di fare chiarezza sul punto in questione traendo il massimo beneficio
dalla scrittura stessa.
Un primo punto da esaminare è il
valore semantico dell’opposizione «In seiner Wirklichkeit», tradotto con «nella
sua realtà». Una interpretazione debole la legge semplicemente come se marcasse
un capovolgimento: lasciando da parte ciò che l’essenza umana era solo in una
rappresentazione speculativa-immaginaria-astratta proposta da filosofi come
Locke, Kant e Feuerbach, dunque erroneamente, indicheremo ora ciò che realmente è.
‘Realmente’ significa ‘veramente’ o ‘fedeli ai fatti’ [true to the facts],
come piace dire ai logici. Tuttavia, in un contesto post-hegeliano, sembra
consigliabile prendere in considerazione la differenza logica tra ‘realtà’ (Realität)
e ‘realtà effettuale’ (o ‘effettualità’) (Wirklichkeit), e ciò significa
non solo indicare ciò che l’essenza umanaeffettivamente è, o ciò
che diviene quando è ‘effettuale’ (cioè prodotta come
risultato di ‘operazioni’ materiali e storiche, che è il punto sui cui Marx
insiste continuamente nelle Tesi, ricorrendo a concetti come Tätigkeit e Praxis),
ma anche più di questo: ciò che identifica l’‘essenza’ con una effettualità o
un ‘processo attuale’. Il concetto di essere/essenza non è
nient’altro che il concetto di un’attività/processo, o di una praxis[21]. Questa è una
interpretazione ‘più forte’, ma credo che possa essere resa ancora più
convincente suggerendo che l’‘effettualità’ che riguarda allo stesso tempo
l’essenza umana e il concetto di essere/essenza (Wesen) deve essere
anche intesa come la sua Aufhebungdialettica o realizzazione-negazione.
Dunque ciò che ha di mira la critica non è solamente un’‘astratta’
rappresentazione dell’essenza umana, è invece la nozione di ‘essenza umana’
stessa come ‘astrazione’. Althusser ha ragione su questo punto, ma è Bloch che
ci fornisce la chiave rapportando in modo sistematico l’invenzione della
categoria di praxis nelle Tesi all’aforisma
contemporaneo secondo cui la «filosofia deve realizzarsi» (verwirklicht),
ma non può realizzarsi (o divenire ‘reale’) senza essere anche ‘negata’ (aufgehoben)
come ‘filosofia’ – e viceversa: la filosofia non può essere negata senza
essere realizzata[22]. Il mio
personale contributo a ciò è semplicemente il seguente: nel contesto
della Tesi 6, la forma tipica di ‘filosofia’ o di discorso
filosofico è precisamente l’antropologia. Il che ci conduce a questa
conclusione: l’antropologia come figura discorsiva (o, come Althusser direbbe,
‘problematica’) deve essere negata-realizzata (aufgehoben e verwirklicht),
e dato che ‘essenza/essere umano’ (das menschliche Wesen) è la categoria
da cui deriva la possibilità stessa di un’antropologia filosofica, deve essere
anch’essa negata-realizzata. Ma il concetto che cristallizza questa operazione
dialettica è «l’insieme delle relazioni sociali»: dobbiamo interpretarlo da
questo punto di vista, cominciando con ‘relazioni sociali’ (gesellschaftlichen
Verhältnisse).
È importante tenere a mente qui un
triplice fatto filologico: 1) che le formulazioni di Marx sono situate
storicamente sulla scia di un evento fondamentale della storia delle idee (che
riguarda tanto la filosofia quanto la politica), cioè l’‘invenzione’ delle
‘relazioni sociali’ (come concetto, originariamente in francese: les
rapports sociaux)[23]; 2) che
‘relazione’ dipende da un paradigma complesso, mai completamente traducibile
(il tedesco Verhältnis e il franceserapport hanno
in parte aree semantiche differenti), il cui uso filosofico suscita
immediatamente i problemi delle opposizioni di attivo versus passivo,
soggettivo versus oggettivo, interno versus esterno
(che Kant ha chiamato l’«anfibolia della riflessione»); 3) che ogni discussione
della formulazione marxiana implicante die gesellschaftlichen
Verhältnisse (che assegnano loro una funzione ‘essenziale’) è
inevitabilmente polarizzata dai successivi usi di Marx diProduktionsverhältnisse (‘
relazioni di produzione’, e le conseguenti ‘relazioni’ economiche e non
economiche derivate) e Klassenverhältnisse (‘relazioni di
classe’, con la conseguente descrizione del loro carattere ‘antagonistico’ ed
il loro comportare differenti forme di ‘dominazione’ sociale): tuttavia, ciò
che colpisce nelle Tesi è l’assenza di questa più
precisa determinazione, è il fatto che la categoria di ‘relazione’ rimane ad un
livello indeterminato, con la sola eccezione dell’attributo ‘sociale’. La
questione per i lettori marxisti era perciò inevitabilmente posta, se cioè essi
dovessero leggere le ‘relazioni sociali’ comeimplicitamente dirette
verso una nozione (materialista storica) della funzione determinante della
produzione e delle lotte di classe nella storia umana, o dovessero associare
le Tesi con una nozione (potenzialmente più generale ogenerica)
di ‘relazione’ che a sua volta tradirebbe una continuità con la tradizione
dell’antropologia filosofica (nella sua stessa ‘realizzazione’ o
‘secolarizzazione), o aprirebbe la possibilità di una più ampia ontologia
(sociale) basata sull’equivalenza categoriale delle due nozioni chiave (relazione e praxis,
otrasformazione). Tutte queste questioni sono naturalmente connesse e
posso chiarificarle qui solo parzialmente.
Per cominciare, una relation in
inglese tende ad indicare una situazione oggettiva laddove una relationship indica
specificamente una relazione tra persone che ha una dimensione soggettiva. Ma
‘relation’ ha anche un significato logico e ontologico (secondo cui le
relazioni sono opposte ai termini o sostanze). Il francese distingue tra relation (che
comunemente significa una persona a cui ci si relaziona) e rapport,
che significa sia una proporzione che una struttura oggettiva, ma può anche
essere usato per indicare un rapporto attivo fra persone, come in rapport
sexuel e anche in rapport social (in particolare nel
senso di un rapporto che ha luogo in un contesto ‘sociale’ o segue ‘regole
sociali’). Il tedesco Beziehung è riservato ai contesti logici
ma anche per qualificare l’attitudine di una persona nei confronti di un’altra,
laddoveVerhältnis essenzialmente significa una proporzione
quantitativa o una correlazione istituzionale di situazioni (la formula
hegeliana e marxiana:Herrschafts- und Knechtschaftsverhältnis, una
relazione di dominazione e servitù/sudditanza). Tutti questi termini si
sovrappongono in parte, ma ogni volta in un modo differente. Infine è
importante richiamare il fatto che ognuna delle tre lingue ha un altro termine
di applicazione molto ampia, specialmente nel primo periodo moderno, vale a
dire commerce in francese, intercourse in
inglese o Verkehr in tedesco.
All’inizio del XIX secolo sulla scia
della rivoluzione industriale e della rivoluzione francese, che hanno
totalmente trasformato la percezione e il discorso della politica, una
generazione di storici e sociologi (come diremmo oggi con uno sguardo
retrospettivo) – soprattutto francesi – ha inventato il concetto di ‘società’
in un senso nuovo, che andò al di là della classica nozione di
associazione/politica civile, o di regole normative per l’educazione e
l’interazione di individui con differenti status, per indicare un
sistema o una totalità, le cui trasformazioni e istituzioni conferiscono sì
ruoli agli individui (e danno forma o provocano i loro sentimenti e le loro
idee), ma seguendo determinate leggi oggettive o rivelando tendenze che non
sono riducibili alle intenzioni individuali. È in questo quadro generale che i
conflitti furono combattuti tra le neonate ‘ideologie’, tipiche dell’epoca
post-rivoluzionaria (come ‘conservatorismo’, ‘liberalismo’ e ‘socialismo’) e
che l’idea di una nuova ‘scienza’ chiamata sociologia è nata[24]. La nozione
chiave per le ideologie politiche e il discorso sociologico era precisamente
quella di rapporto sociale, cioè una distribuzione di ruoli e
schemi di interazione tra individui e gruppi marcati da reciprocità o
dominazione, che dipende dalla costruzione (o ‘fabbrica’)
della società in un modo ‘organico’ e che caratterizza la sua differenzacon
altre nella storia e nella geografia (quindi portando al centro le questioni
della trasformazione e della comparazione nelle scienze sociali)
Non c’è dubbio che questa svolta
espistemologica ha anche affinità con la nozione hegeliana di ‘spirito
oggettivo’ e di ‘società civile’ (bürgerliche Gesellschaft), al cui
interno il concetto fenomenologico hegeliano di ‘riconoscimento’ (Anerkennung)
viene integrato come un momento soggettivo (o meglio: inter-soggettivo) per dar
conto della tensione permanente di individualità e istituzione nella storia.
Tuttavia una differenza importante è che le nozioni hegeliane sono più
‘deduttive’ (o addirittura speculative, a dispetto del loro importante
contenuto empirico, come è testimoniato dalla lettura hegeliana della storia
sociale di Montesquieu o dell’economia politica di Adam Smith o della scuola
storica del diritto), poiché sono assegnate a priori per
giustificare una costruzione della monarchia costituzionale borghese come il
compimento storico della ‘razionalità’ in politica. E non c’è nemmeno dubbio
che – nelle Tesi su Feuerbach e nell’opera immediatamente
seguente (scritta con Engels e Moses Hess), l’Ideologia tedesca, in cui
il concetto ‘francese’ di rapport social, è tradotto e pluralizzato
come die gesellschaftlichen Verhältnisse, Marx sta cominciando a
offrire il suo proprio contributo a questo mutamento epistemico, combinando una
prospettiva ‘comunista’ di trasformazione radicale con un modo specificamente
‘dialettico’ di analizzare i conflitti come forze immanenti dello sviluppo e
del mutamento delle strutture sociali che storicamente ‘inquadrano’ il
carattere umano.
È la modalità specifica di questo
contributo nelle Tesi che ci interessa qui. È allo stesso
tempo esso stesso molto speculativo (anche quando viene attaccata ferocemente
la speculazione ‘filosofica’) e (come ho già notato) largamente indeterminato –
che significa anche che molti sviluppi potenziali rimangono
latenti nelle formulazioni. È stato certamente inevitabile che, provando a
superare la pura speculazione (o un’astratta critica dell’astrazione), Marx
abbia avuto bisogno di ridurre l’indeterminazione dei suoi concetti. Come
sappiamo (e la più parte dei commentatori concordano) ciò è già in fase
avanzata nell’Ideologia tedesca (a cui mi capiterà di fare
riferimento ancora). Ma per comprendere perché le Tesi hanno
prodotto una tale eco in filosofia e restano un testo chiave se vogliamo
‘problematizzare’ il pensiero e le scelte di Marx, dobbiamo fare attenzione a
ciò che è già lì, il ‘materialismo storico’ che sta arrivando, e a ciò
che ancora differisce dai suoi assiomi. Io credo che due
elementi hanno soprattutto importanza qui: uno è l’articolazione dei due
attributi ‘umano’ (menschlich) e ‘sociale’ (gesellschaftlich),
l’altro è l’uso enigmatico di un Fremdwort (francese) per
nominare la somma totale (o l’effetto combinato) delle relazioni sociali
equivalente ad una nuova definizione dell’essenza umana: das ensemble
der g.V., dal momento che così tante categorie sarebbero state
disponibili all’interno della tradizione filosofica tedesca.
Sarebbe una traccia utile discutere
ogni singolo uso delle parole ‘umano’ e ‘sociale’ nelle Tesi. Per
brevità mi concentrerò sulle implicazioni della Tesi 10nella sua
relazione con la questione antropologica:
Il punto di vista del vecchio
materialismo è la società borghese (die bürgerliche Gesellschaft); il
punto di vista del nuovo è la società umana (die menschliche Gesellschaft)
o l’umanità sociale (die gesellschaftliche Menschheit).
Di nuovo troviamo qui una di quelle
belle formulazioni simmetriche che Marx era capace di inventare, così difficili
da interpretare! Le ‘correzioni’ di Engels sono rivelatrici, perché portano in
primo piano un contenuto politico che è solo latente, ma con il rischio di
rendere confuse le implicazioni analitiche. A quanto pare, era preoccupato che l’equazione die
menschliche Gesellschaft = die gesellschaftliche
Menscheit equivalesse ad una tautologia. Perciò introdusse un
contenuto più esplicitamente ‘socialista’ trasformando il secondo in die
vergesellschaftete Menschheit, l’umanità socializzata – intendendo
una società (o un ‘mondo’) in cui gli individui non sono più separati dalle
loro proprie condizioni collettive di esistenza, dunque forzati in una forma
‘astratta’ di esistenza, che paradossalmente rende l’individualismo la forma
‘normale’ della vita sociale, ‘alienando’ gli esseri umani in quanto isolati
dalle relazioni con gli altri da cui dipende la loro vita ‘pratica’ (o dando a
quelle relazioni una forma coercitiva, inumana), una ‘separazione’ che conduce
ad una ‘lacerazione del Sé’ –Selbstzerrissenheit, proprio
quell’alienazione che i sentimenti comunitari e religiosi cercherebbero di
curare nell’immaginario (Tesi 4). Per completare questa chiarificazione,
Engels mette anche le virgolette all’aggettivo nell’espressione ‘bürgerliche’
Gesellschaft, modo per indicare che il termine ha conservato il
valore tecnico che aveva nella filosofia hegeliana (la più parte delle volte
tradotto oggi come ‘società civile’, come opposto di ‘Stato’ o ‘società
politica’), ma anche per suggerire che la società civile ha un carattere borghese,
in cui le relazioni sociali sono dominate dalla logica della proprietà privata,
generando individualismo ed una forma di società alienata. L’intero argomento
allora diviene esplicito: ‘il Materialismo antico’ (a cui Feuerbach ancora
appartiene) non sarà capace di superare l’alienazione che denuncia ad alta
voce, poiché è ancora una filosofia borghese che assume un individuo
‘naturalmente’ separato dagli altri (o riferito separatamente all’essenza
dell’‘umano’), laddove un ‘nuovo Materialismo’ – le cui categorie chiave sono
le ‘relazioni sociali’ costituenti l’umano e la praxis o una
trasformazione pratica già all’opera in ogni forma di società – è capace di
spiegare come l’umanità ritorni alla sua essenza (o al suo essere
autentico) riconoscendo (non negando, reprimendo,
contraddicendo) la propria determinazione ‘sociale’. In altri termini l’umano è
sempre stato ‘sociale’ dal punto di vista delle sue condizioni
materiali (o non è mai consistito in nient’altro che nelle ‘relazioni
sociali’ in sé), ma era per sélacerato e alienato,
contraddicendo questa essenza nella sua ideologia e nelle sue istituzioni, con
la moderna società ‘civile-borghese’ che spinge le contraddizione all’estremo.
Ed è ora necessario che la contraddizione sia risolta con la società
eliminando praticamente i suoi propri ‘prodotti’ alienati e
riconciliandosi con se stessa – in altri termini pienamente ‘umano’ e realmente
‘sociale’.
Questa è una lettura del tutto
compatibile con alcune delle più esplicite affermazioni di Marx a proposito dei
vari gradi dell’emancipazione umana come erano enunciati nei suoi
scritti dello stesso periodo, in cui è proposta una ‘dialettica’ del
rovesciamento dell’alienazione (la separazione degli esseri umani dalla loro
propria essenza)[25]. Ma risolve in
modo troppo semplice le tensioni filosofiche implicate nel permanente duplice
uso in Marx (quid pro quo) dei nomi ‘umano’ e ‘sociale’,
derivante dalla distribuzione dei loro usi morali (o etici) e del loro
significato storico (o descrittivo) in categorie differenti, trasformando
dunque la forte dimensione performativa degli scritti di Marx
(che è anche al centro del suo ‘umanesimo pratico’ o ‘umanesimo reale’) in
un sillogismo politico. Laddove Marx stava di fatto suggerendo che
una autentica relazione dei soggetti al proprio essere/essenza (Wesen)
avrebbe inevitabilmente trasformato la nostra interpretazione di ciò che
significa essere (un) ‘uomo’, perché rivelerebbe che l’umano è essenzialmente
‘sociale’, ed il ‘sociale’ è allo stesso tempo una condizione di possibilità per
ogni vita individuale (o ‘l’uomo è un’animale sociale’ come è stato ratificato
dalla tradizione post-aristotelica) ed una realizzazione ideale delle
aspirazione etiche dell’uomo (in altri termini una forma di vita ‘comunista’),
Engels suggerisce ora che un processo disocializzazione sta avendo
luogo nella storia in modo che emergano le condizioni in cui è possibile
trasformare la ‘natura umana’ in un modo rivoluzionario. Ma questa
ridistribuzione dei lati storico ed etico della due categorie tra i regni
complementari di ‘fini’ e ‘significati’ ha anche il risultato di immettere
nelle formulazioni marxiane una ‘ontologia sociale’ che non vi è
necessariamente (o non è letteralmente presente). E, come
conseguenza, nel ridurre l’indeterminazione delle affermazioni di Marx, riduce
le loro potenzialità[26]. Possiamo
trovare una conferma che questa riduzione abbia avuto luogo se esaminiamo
l’altro effetto stilistico enigmatico in questa parte di Tesi 6,
vale a dire l’uso della parola francese ensemble.
Sostengo che non possiamo
semplicemente spiegarlo in un modo ‘debole’, facendo riferimento a circostanze
e condizioni di scrittura: il fatto che Marx (che comunque scriveva e parlava
correntemente francese) stava vivendo a Parigi al tempo, e inserisse in modo
abbastanza naturale delle parole francesi nelle sue note personali quando gli
venivano in mente più rapidamente dei concetti tedeschi (ha fatto la stessa
cosa più tardi con l’inglese). Questo può essere vero, ma offusca il fatto che
certe opposizioni semantiche cruciali sono qui in gioco. In
effetti ensemble, un termine provocatoriamente ‘neutrale’ o
‘minimale’, ha senso se lo vediamo come un’alternativa a nozioni speculative ,
che sono centrali nella dialettica hegeliana (ma anche nel discorso
‘sociologico’ emergente, con la sua ossessione di ‘organicità), come das
Ganze, die Ganzheit (o Totalität), o die
gesamten (gesellschaftlichen Verhältnisse), cioè il tutto, la
totalità (organica delle relazioni sociali). Ciò che Marx sta qui evitando con
cura è una categoria che indichi completezza, proprio nel momento
in cui sembra seguire esattamente il movimento hegeliano che privilegia la
‘concreta universalità’ contro l’‘astrazione’ (dato che il concreto e
il completo in Hegel sono sinonimi)[27]. Dunque si
sta allontanando da Hegel nel momento in cui gli si avvicina
di più. Per mettere la cosa in modo più provocatorio, è come se Marx stesse
capovolgendo la scelta hegeliana per il «buon (o reale) infinito» (che
significa un infinito che è integrato nella forma di una totalità) in favore
del «cattivo infinito» (un infinito che è solo indefinito, identico con una
mera addizione o successione di termini, che rimane aperto). Questa ipotesi è
supportata da una singola sintomatica parola, ma ha il grande interesse di
rendere possibile combinare tutti gli elementi logici, ontologici e anche
onto-teologici in una singola operazione.
Io credo che possano essere
attribuite tre connotazioni positive all’apparentemente negativa preferenza
per das ensemble al posto di das Ganze, in altre
parole l’uso di un Fremdwort che performativamente
decostruisce l’effetto-totalizzazione o (per prendere a prestito per un momento
il linguaggio di Sartre) indica che la ‘nuova’ categoria di essere/essenza (Wesen)
funziona solo come una ‘totalità detotalizzata’ (o forse persino come una ‘totalità
auto-de-totalizzante’). La prima è una connotazione di orizzontalità:
le ‘relazioni sociali’ interagiscono o interferiscono l’una con l’altra, ma non
devono venire gerarchizzate verticalmente (con alcune relazioni che sono più
decisive, o più essenzialmente umane, ed un tipo di relazione che determina le
altre ‘in ultima istanza’)[28]. La seconda è
una connotazione di indefinitezza o serialità, che
significa che le relazioni sociali che sono costitutive dell’umano formano una
rete che rimane aperta, e che per esse non c’è né una chiusura concettuale
(dunque non una demarcazione a priori o empirica tra ciò che è
umano e ciò che non lo è), né una chiusura storica (dunque non ascrive limiti
allo sviluppo delle relazioni/attività sociali che aprono nuove possibilità per
l’umano, siano esse costruttive o anche distruttive). Infine possiamo evocare
una connotazione dimolteplicità nel senso forte, cioè di eterogeneità:
non solo vi sono di fatto molteplici ‘relazioni sociali’ che ‘formano’ l’umano,
ma dipendono da molti domini differenti, differenti generi (o
come direbbe Bloch, esse formano unmultiversum), e non da uno solo che
conferirebbe ad esse la qualità ‘umana’. Di conseguenza non è come nella polis aristotelica,
con cui la concezione marxiana sembra condividere così tanti assiomi
‘anti-individualistici’, in cui vi è una molteplicità di relazioni sociali,
simmetriche o dissimmetriche, ma sempre attribuite all’umano in virtù dell’uso
del linguaggio (o discorso: logos): è piuttosto come nella
metafisica di Aristotele, in cui differenti ed eterogeneigeneri di
essere cono chiamati così per analogia, distributivamente, ma non sono
emanazioni di un supremo genere univoco che sarebbe l’‘Essere
in quanto tale’.
Se assumiamo queste connotazioni
insieme (e evitando con cura di imporre ad un livello più generale qualcosa
come un ‘insieme di insiemi’), possiamo infine capire perché la critica interna
della stessa nozione di ‘essenza’, la dissoluzione di astratte rappresentazioni
dell’Umano (o nozioni ‘umaniste’ ereditate dalla tradizione metafisica e fatte
proprie da filosofi borghesi per riconciliare l’individualismo economico con
nozioni politiche e morali di comunità), e un uso contraddittorio del concetto
hegeliano di ‘realtà effettuale’ sono imbricati in questo modo complesso.
Scrivere che «nella sua realtà (Wirklichkeit) l’essere/essenza umana (Wesen) non è
un’astrazione che abita l’individuo singolo/singolare/isolato,
ma l’ensemble (aperto, indeterminato) delle relazioni sociali» è un
atto performativo che simultaneamente trasforma il significato di tutti i
termini chiave che usa. Nella misura in cui il termine ‘essenza’ viene
applicato in un modo ‘materialista’ al problema antropologico acquista anche un
paradossale significato (anti)ontologico per mezzo di cui i suoi effetti
riconosciuti sono capovolti: invece di ‘unificare’ e ‘totalizzare’ una
molteplicità di attributi, apre ora una indefinita gamma di metamorfosi (o
trasformazioni) nella misura in cui gli individui sono essenzialmente ‘modi’
(come direbbe Spinoza) delle relazioni sociali che essi producono attivamente,
o attraverso cui interagiscono collettivamente con altri e con le ‘condizioni’
naturali. Questa critica rivela che può esservi una singola alternativa alle
apparentemente antitetiche nozioni di individualità e soggettività ereditate
dalla metafisica Occidentale – una alternativa che si ripromette di non creare
nuove figure dell’‘essere supremo’
3. La biforcazione: ‘ontologie’ e
‘antropologie’ rivali
Traendo lezione da queste
considerazioni filologiche e semantiche e ritornando alla difficoltà centrale
che concerne una relazione ‘trasformativa’ o ‘performativa’ del pensiero di
Marx (e le scelte concettuali espresse attraverso le parole) al problema
dell’‘antropologia’, per cui testimoniano interpretazioni antitetiche nella storia
del marxismo, riassumerei le mie congetture nel modo seguente:
a) Non c’è modo per discutere le
tensioni nell’idea di un’antropologia filosofica, e le sue relazioni ad un
ideale di ‘umanesimo’, senza inserirla in una questioneontologica, che
di fatto ci forza, non solo a collocare il dibattito sull’antropologia nel suo
immediato contesto moderno, o ‘borghese’, ma anche a ritornare al più ampio
dominio della ‘storia della metafisica’, delle sue ‘rivoluzioni’ e problematica
‘fine’. Ho suggerito la stessa cosa nel passato proponendo che la ‘prima’
filosofia materialista di Marx sia da riferire ad un’‘ontologia della
relazione’, in cui la nozione fondamentale non è quella di ‘individualità’ ma
di ‘transindividualità’ (o un concetto dell’individuo che include sempre-già le
sue relazioni a – o dipendenza da – altri individui)[29].
Ma poi può sorgere una ambiguità
pericolosa. Potremmo credere che – proprio come, per Bloch ed altri, ciò che
distingue l’invenzione di Marx non è una rozza soppressione del problema
antropologico, ma il suo essere traferito dalle astrazioni borghesi/metafisiche
a determinazioni storico-sociali – tutto il problema abbia a che
fare con l’invenzione di una ontologia sociale. Possiamo vedere ora
che si tratta di una formulazione ambigua. Può significare che stiamo
‘ontologizzando il sociale’, che a sua volta significa o che la ‘società’ come
un tutto (un sistema, un organismo, una rete, uno sviluppo…) è istallata nel
posto dell’‘essere’, o che l’emergenza del sociale (come opposto del biologico,
dello psicologico etc.) è ‘essenzialmente’ attribuito a qualche istanza
quasi-trascendentale, che ha una qualità ‘socializzante’ (come linguaggio, o
lavoro, o sessualità, o anche ‘il comune’, ‘il politico’). O, forzando le
rappresentazioni anteriori, potrebbe significare che stiamo ‘socializzando
l’ontologia’: non nel senso di sottoporre l’ontologia a qualche preesistente
principio sociale più fondamentale (cosa non molto differente dall’installare
la ‘Società’ dove abitualmente stava ‘Dio’ nella metafisica classica), ma nel
senso di ‘tradurre’ ogni domanda ontologica (per es.
individuazione/individualizzazione, l’articolazione di ‘parti’ e ‘tutto’,
l’imbricazione di passato, presente e futuro etc.) in una domanda ‘sociale’ nel
senso più generale, quelle circa le condizioni o relazioni che impediscono
all’individuo umano la possibilità dell’isolamento, quali che siano la
‘materia’ o la ‘sostanza’ e le modalità o funzioni di queste relazioni.
‘Relazionarsi’ e ‘essere in relazione a’ sarebbe quindi considerata l’impronta
fondamentale dell’umano.
Questo era a dire il vero quello che
avevo in mente quando, alcuni anni fa, ho interpretato in questo senso
l’affermazione marxiana: «nella sua realtà, l’essenza/essere umano è l’insieme
delle relazioni sociali». Ma qualcosa di disturbante rimane da chiarire, vale a
dire il fatto che, ancora una volta, siamo stati forzati a far uso
dell’aggettivo ‘umano’ proprio nella formulazione che revoca l’‘umanesimo’ dai
nostri discorsi, cioè impedisce ogni possibilità di identificare/definire ‘l’umano’
prima della (sempre incompleta) scoperta della molteplicità degli altri
modi di ‘relazionare esseri umani’, o ‘relazionare un essere umano’.
Io vedo una sola possibilità di superare questa difficoltà: trarre le
conclusioni in modo radicale dal fatto che l’‘umano’ (o ‘uomini’ nella lingua
classica) esiste solo al plurale. Questo non solo per dire che una
pluralità fatta di singolarità irriducibili (o ‘persone’) è una condizione
originaria dell’essere umano (tesi della Arendt), forse nemmeno solo che la
‘moltitudine’ è la figura originaria dell’esistenza nella società e nella
storia (tesi di Negri), ma che le relazioni sociali in senso forte sono quelle
che, tenendo insieme gli esseri umani o impedendo il loro ‘isolamento’, fanno
anche la loro irriducibile differenza, in particolare distribuendoli tra
varie ‘classi’ – che non significa dire che queste distribuzioni sono stabili o
eterne o coerenti tra di loro[30]. In altri
termini le ‘relazioni sociali’ sono sempre internamente determinate come
differenze, trasformazioni, contraddizioni e conflitti, che sono
sufficientemente radicali per lasciare solo l’eterogeneità che
essi creano come ‘il comune’ (o in una terminologia filosofica più gergale:
l’essere-con o Mitsein) senza cui gli individui ‘relazionandosi’
l’un l’altro ritornerebbero all’isolamento essenziale, o all’‘individualismo’
ontologico[31]. Ma questo non
è veramente differente dall’affermare che le relazioni sociali sono ‘pratiche’
(o l’essenza della società èpraxis, come Marx ha potentemente enunciato
nelle Tesi), in altri termini le caratteristiche distintive delle
relazioni (ed anche la ragione per cui, ad un secondo grado, esse devono essere
articolate l’una all’altra o si influenzano l’un l’altra senza essere fuse in
un unico ‘tutto’) sono il modo in cui esse rendono possibile per alcuni ‘individui’,
‘gruppi’, ‘parti’ (o anche partiti) di trasformare altri,
essendo trasformati da altri, e forse alla fine di trasformare
la modalità della relazione stessa. Come Marx suggeriva, ‘relazione’ e ‘praxis’
divengono dei termini strettamente correlativi (ed il secondo non è meno
metamorfico overänderbar del primo…) non appena una nozione di
‘realtà effettuale’ è recisa dall’ideale (teologico, spirituale) di
‘completezza’, per essere associata con uno schema di ‘infinità aperta’[32].
b) Ma un’ancora più grande anfibolia
‘abita’ un tale tentativo di identificare come dobbiamo intendere l’operazione
filosoficamente sovversiva nella ri-definizione/de-costruzione di Marx
dell’‘essenza umana’: è l’anfibolia circa l’interpretare le relazioni e il loro
intrinseco processo di ‘trasformazione’ (omutamento: Veränderung nella
terminologia delle Tesi) come ‘esterno’ o ‘interno’, inscritto in
una distribuzione (mutevole) di condizioni e di forze, o in uno sforzo decisivo
(forse solo una deviazione) dei soggetti che li costituisce in
creatori delle loro proprie relazioni[33]. Questa a dire
il vero è una discussione molta antica in filosofia. Ciò che qui ci interessa
sono le ragioni per cui tali aporie che sembrano rinviarci alla ‘metafisica’
non cessano mai di ritornare all’interno di un discorso ‘dialettico’ che, in
principio, ha esposto il loro carattere puramente ‘astratto’ (prima, in Hegel,
ma anche in Marx). Molti brillanti discorsi ‘marxisti’ sono stati elaborati per
risolvere filosoficamente il dilemma dell’esternalità versus l’internalità,
per trasporre su un piano differente la nozione hegeliana di soggettivazione
come interiorizzazione dialettica delle relazioni interne. Basti pensare
semplicemente (in direzioni opposte) alla nozione ultra-hegeliana di Lukács del
Proletariato come un ‘soggetto-oggetto’ della storia, la cui coscienza di
classe implica la negazione della ‘totalità’ delle relazioni sociali già
trasformate dal capitalismo in relazioni mercantili, dunque un capovolgimento
attivo e immanente di queste stesse relazioni ‘reificate’.[34] O la
proposta ‘spinozista’ di Althusser (e radicalmente anti-hegeliana) che lo stesso
processo storico ‘surdeterminato’ potrebbe essere analizzato nei
termini delle sue condizioni ‘esterne’ oggettive e necessarie così come nei
termini delle sue azioni o capacità di agire intrinseci ‘aleatori’ e
transindividuali (che egli chiama ‘incontri’) [35]. In questa
notazione conclusiva voglio solo descrivere come l’anfibolia affiori nel
‘momento’ delle Tesi (e dell’Ideologia tedesca, in
breve nel 1845).
Io credo che le aporie nel testo di
Marx siano interessanti non solo come oggetto per i ‘marxologi’ ma perché
formano un episodio tutto nuovo della antica controversia sulla possibilità (o
impossibilità) delle ‘relazioni interne’, che in un certo senso (da Platone a
Russell…) raddoppia la controversia tra nominalisti e realisti a proprosito
degli ‘universali’. Hegel, a dire il vero, è un esempio privilegiato di un
filosofo che non solo difende l’idea che le ‘relazioni interne’ (cioè le
relazioni che non stanno solo legando in un modo contingente,
o dall’esterno, ‘termini’ come individui o sostanze che rimangono indipendenti
dalle loro relazioni, ma sono rispecchiate nella costituzione o
disposizione dei loro stessi supporti) esistono[36], ma della idea
assai più forte che le relazionisono ‘reali’ solo se sono,
precisamente, interne o internalizzate. Che, nel suo caso, può solo
significare che sono relazioni ‘spirituali’, o sono divenute momenti nello
sviluppo del Geist (oggettivo), cioè sono realizzate nella
forma di istituzioni storiche dotate della coscienza del loro valore culturale,
della loro funzione politica etc. Come criticare questa costruzione
‘spiritualistica’ (ed anche teleologica) dell’internalità delle
relazioni senza ritornare semplicemente a ciò che essa era intenzionata a
superare, vale a dire una rappresentazione meccanicistica e naturalistica
delle relazioni esterne (cioè essenzialmente relazioni non-soggettive)
per mezzo di cui i termini che fungono da supporto (siano essi ‘individui’,
‘nazioni’, ‘culture’, ‘classi’ etc.) sono passivi eautonomizzati dal
loro elemento ‘comune’? Ma anche: perché evitare il privilegio dell’esternalità
(spazio, materia, disseminazione, contingenza…) che precisamente ogni
spiritualismo aborre e ogni materialismo a contrariorivendica e
prova a costruire dentro la sua propria concezione di ‘capacità di agire [agency]’
o persino di ‘soggettività’? Perché ‘l’essere soggetto’ dovrebbe equivalere ad
‘interiorità’[37].
Se proiettiamo queste interrogazioni
sulla nostra lettura della Tesi di Marx dellaWirklichkeit dell’‘ensemble’
delle relazioni sociali, mi sembra che ciò che scopriamo è una permanente
oscillazione tra due possibilità di ‘interpretazione’, una più ‘esternalista’,
la seconda più ‘internalista’, benché mai interamente separate. Un modo di
leggere l’‘ensemble’ lo identifica con ciò che più tardi si intenderà con
una struttura, dunque insistendo sul fatto logico che i processi di
soggettivazione che accompagnano la passività o il divenire attivo (anche
rivoluzionario) degli agenti sociali sono interdipendenti, e formalmente
dipendenti dalle relazioni che formano le loro ‘condizioni’ (per
esempio, i movimenti anti-capitalistici sono dipendenti dalle trasformazioni
del capitalismo che influenzano le loro ideologie o coscienze, le loro forme di
organizzazione etc.). Ma un’altra via di lettura è quella di riprendere il
grande modello hegeliano dell’intersoggettività o ‘riconoscimento
conflittuale’ (come esposto fondamentalmente nella dialettica Servo-Signore
della Fenomenologia): questo modello sfugge ad ogni
rischio di ontologizzare la relazione nella forma di una struttura astratta e
formale che domina dall’alto le azioni di soggetti storici, perché suggerisce
che le dimensioni istituzionali delle relazioni sociali sono essenzialmente
cristallizzazioni o materializzazioni della dissimmetria che
influenza la percezione dell’altro per ogni soggetto (per esempio, la reciproca
incapacità del signore e del servo di ‘percepire’ ciò che rende la visione del
mondo dell’altro irriducibile alla propria: sacrificando la vita per il
‘prestigio’ o coltivando il lavoro come un valore progressivo), ma produce
anche l’illusione che, in un dato conflitto sociale, qualcosa che abbia luogo
all’insaputa dei soggetti coscienti (o che resti bewusstlos, come
la mette Hegel) può in ultima istanza venire reintegrato o ‘interiorizzato’
nella coscienza in modo tale che soggettività antagoniste (o semplicemente
differenti) siano immagini speculari di un solo ‘spirito’. In una terminologia
differente, potremmo dire che vi è un elemento di ‘transindividualità’ in
ognuna di queste possibilità.
È molto interessante vedere che,
nell’Ideologia tedesca, la cui scrittura accompagna la concezione
delle Tesi su Feuerbach o le segue immediatamente, Marx prova
a ‘mediare’ l’anfibolia dell’interpretazione interna o esterna della categoria
di ‘relazione sociale’ (o la sua fluttuazione in direzione di una struttura
oggettiva o in direzione di una pura intersoggettività) attraverso un pressoché
ubiquo uso del termine Verkehr (‘commercio’ o ‘rapporto’) che
può essere letto da entrambi gli angoli (o in entrambi i registri). Presto,
tuttavia, la dualità ritornerà con differenti modi di spiegare l’alienazione che
caratterizza le relazioni all’interno del capitalismo (e più in generale la
società borghese)[38]: come
un’estraneazione dei soggetti dal loro proprio ‘mondo’ collettivo, o come un
lacerarsi di quel mondo in mondi della vita antitetici, uno utilitaristico e
individualistico e uno immaginario e comunitario (la spiegazione che è
chiaramente privilegiata dagli aforismi nelle Tesi nel
descrive l’ideologico come ‘duplicazione’ del mondo sociale), o con un modello
maggiormente strategico di dominazione, conflitto e scontro politico tra
‘classi’ (che il Capitale chiamaHerrschafts- und
Knechtschaftsverhältnis come relazione politica che ‘direttamente’
sorge dall’‘immediato antagonismo’ nel processo di produzione tra lavoratori
sfruttati e proprietari dei mezzi di produzione)[39]. In entrambi i
casi, tuttavia, la molteplicità iniziale (ed eterogeneità) delle ‘relazioni
sociali’ è stata sussunta sotto (e di fatto ridotta a) l’assoluto privilegio
delle relazioni di lavoro, che riporta in auge un’‘ontologia
sociale’ poiché conferisce al solo ‘lavoro’ la capacità di ‘socializzare’
realmente i soggetti in una ‘divisione del lavoro’, e tende a rappresentare la
società come un ‘organismo produttivo’, per quanto complesso possa essere
concepito il sistema delle altre istanze (più tardi chiamate
‘sovrastrutture’, Überbau) che derivano dalla funzione materiale
del lavoro, o che lo ricoprono ideologicamente. L’alienazione sociale in tutte
le sue forme (psicologica, religiosa, artistica…) è essenzialmente uno sviluppo
dell’alienazione del lavoro. Ed il conflitto politico è essenzialmente
un antagonismo tra classi che sono classi lavoratrici o classi proprietarie che
vivono del lavoro di altri uomini, come il Manifesto afferma
senza indugio.
c) Marx dopo il momento fuggitivo
delle Tesi ha probabilmente avuto ragioni molto buone per
completare questa riduzione antropologica al lavoro alienato con
l’ontologizzazione dell’affermazione indeterminata nella Tesi 6 sull’‘essenza
umana’ (e ancora una volta ci si lasci ripetere che questo non è tanto un
‘tradimento’ della radicalità filosofica espressa dagli aforismi del 1845
quanto una continuazione, in una congiuntura data, della rischiosa speculazione
che queste avevano iniziato): c’era l’enorme estensione dei fenomeni sociali,
che vanno dalla vita di ogni giorno sino alle trasformazioni costituzionali
dello Stato e le nuove forme di politica di massa, prodotte dalla rivoluzione
industriale e dall’ascesa del capitalismo – che probabilmente erano persino più
decisive nella loro forma negativa, vale a dire l’imperativo
‘materialista’ di contrastare la soppressione borghese del ruolo sociale attivo
dei lavoratori e delle classi operaie, e la negazione intellettuale delle forze
e attività ‘produttive’. Senzaquesta equazione unilateralmente
asserita da Marx (relazioni sociali = relazioni di produzione, o loro
conseguenze) dovremmo forse ancora identificare una ‘società’ con uno spirito o
una cultura, o un regime politico… Tuttavia, dobbiamo misurare pienamente
le conseguenze antropologiche (sono tentato di dire ilprezzo
antropologico) implicato in questa riduzione (prima di tutto nel senso di
una ‘riduzione di complessità’).
Forse il modo migliore per misurarlo,
all’interno di una discussione sulle Tesi su Feuerbach, è indicare
quali conseguenze deformanti produce sulla lettura e sull’interpretazione di
Feuerbach stesso. La principale obiezione di Marx contro Feuerbach nelle Tesi e
che quella sua concezione di materialità/sensibilità (Sinnlichkeit)
resta ‘astratta’ o ‘inattiva’ (cosa che curiosamente significa allo stesso
tempo che manca allo stesso tempo una dimensione ‘soggettiva’ e ‘oggettiva’:
cfr. Tesi 1). Di conseguenza Feuerbach starebbe sussumendo singoli
esseri umani sotto un’essenza umana che è solo un’idea, per quanto fosse
proclamata ‘concreta’ o ‘empirica’. Al contrario, il materialismo proprio a
Marx identifica le relazioni sociali con l’attività (Tätigkeit), ma
questa attività diventerebbe omnicomprensiva quando (nel passo successivo)
fosse definita come un continuo processo collettivo che è sia poiesis che praxis,
che varia dalle attività produttive elementari alle insurrezioni rivoluzionarie
e fa del lavoratore collettivo qua lavoratore/produttore un
potenziale rivoluzionario (e per converso, il soggetto rivoluzionario un
conscio, organizzato e indomito lavoratore) Questa è la base della grande
narrazione comunista. Ma è una lettura corretta di Feuerbach? Nient’affatto e
per una buona ragione: non si potrebbe dire senza qualificazione che il
concetto di Feuerbach di essenza umana si riferisce solo ad una «astratta
nozione di genere» in cui la dimensione relazionale è assente (e
che per questa ragione immagina che il genereseparatamente ‘abiti’
ogni individuo, conferendogli una qualità ‘umana’ nellastessa maniera).
Il genere (Gattung) di Feuerbach è esso stesso profondamente
relazionale, perché è concepito nei termini di un ‘dialogo’ tra soggetti
distinti come ‘Io’ e ‘Tu’. Ciò che resta problematico naturalmente è se il tipo
di ‘relazionalità’ dialogica che, secondo Feuerbach, è inerente all’essenza
umana, possa essere chiamata ‘sociale’. Probabilmente è esistenziale più
che sociale. Ma, a sua volta, non vi è un rischio che la negazione
di Marx che ciò che Feuerbach chiama una ‘relazione’ (una Beziehung più
che una Verhältnis) abbia un carattere ‘sociale’ nasca dalla sua
arbitraria decisione di identificare certe relazioni e pratiche (connesse alla
produzione ed al lavoro) come relazioni sociali e pratiche socializzanti a
spese di tutte le altre?
Più in specifico. La Tesi 4 è
una buona guida qui: nell’Essenza del cristianesimoFeuerbach
‘demistifica’ i misteri della teologia riducendo le nozioni teologiche (per
cominciare, il concetto di Dio) a nozioni antropologiche e a «realtà umane». Ma
più precisamente è alle prese con una interpretazione del dogma cristiano della
Trinità nei termini di una duplice trasposizione: una trasposizione
dell’istituzione ‘terrena’ della famiglia nell’immagine ideale della ‘Sacra
Famiglia’, seguita da una trasposizione della Sacra Famiglia stessa (come una
comunità immaginaria) in una più speculativa comunicazione delle ‘persone’
divine (hypostases) che si ipotizza siano Una in Tre (cioè pienamente
‘riconciliate’) – il Padre, il Figlio (il Verbo incarnato) e lo Spirito, al
posto del Padre, del Figlio e della (vergine) Madre. Da qui non è lunga la via
per spiegare che il ‘segreto’ della teologia cristiana è una proiezione
delle relazioni sessuali tra gli uomini (segnata dal
desiderio, dall’amore imperfetto, dal piacere dei sensi) in un ideale amore
perfetto (che celebri passaggi della Bibbia identificano schiettamente
con ‘Dio’)[40]. Con questa
dottrina noi vediamo un’altra possibilità di interpretare un’affermazione quale
«L’essenza umana non è un’astrazione … nella sua realtà è l’insieme delle
relazioni (sociali)», che non sarebbe diretta contro Feuerbach, ma
piuttosto sosterrebbe la sua posizione: suggerirebbe che ciò che ‘abita’ gli
individui e li rende ‘umani’ è la relazione sessuale con le sue dimensioni
affettive (amore) e le sue realizzazioni istituzionali (famiglia). Perciò essi
sono costituiti nelle e dalle relazioni. Questo è anche un modo di
enfatizzare un Verkehr (nel senso di ‘commercio’) come
struttura produttiva-riproduttiva dell’umano[41].
Cosa potrebbe obiettare Marx a questa
possibile difesa feuerbachiana? Probabilmente ciò che è latente nella Tesi
4 e leggermente più sviluppato nell’Ideologia tedesca, vale a
dire che la visione di Feuerbach della ‘famiglia terrena’ non è essa stessa
molto ‘reale’, perché rimuove le contraddizioniattraverso la sua
enfasi (romantica) sull’‘amore’, anche se cerca ciò nondimeno di collocare la
fonte dell’‘alienazione’ nell’imperfezione o nella finitudine della sessualità
umana. Nell’Ideologia tedesca Marx (ed Engels) spiegherà che la
differenza sessuale (come una differenza di ‘tipi’ umani) risulta da «una
divisione sessuale del lavoro» (sic) tra uomini e donne. E nel Manifesto
del partito comunista (1847), prendendo l’argomento a prestito dal
criticismo ‘femminista’ saintsimoniano, spiegheranno che il matrimonio e la
famiglia borghese è una forma di «prostituzione legalizzata» (in perfetto
accordo con l’affermazione dellaTesi 4 che la «contraddizione»
inerente alla «base» terrena della religione può essere risolta solo attraverso
l’«annichilazione teoretica e pratica della famiglia»). Questo è un argomento
potente che vale a spiegare che le nozioni ‘metafisiche’ dell’essenza umana non
sono solo ereditate da un passato ideologico, ma sono permanentemente
ricostituite attraverso i processi che ‘sublimano’ le contraddizioni sociali di
tutti i tipi. Ma conferma anche la tendenza marxiana ad eliminare alcune
delle potenzialità della sua ‘tesi’, al fine di non ‘aprire’ l’‘ensemble’ delle
relazioni sociali nella direzione di una illimitata variazione di modi eterogenei di
socializzazione (dunque anche modi di soggettivazione), ma di reinstaurare
una quasi-trascendentale equivalenza del ‘sociale’ (e del
‘pratico’) con l’attributo specificamente (essenzialmente)
umano del ‘lavoro’ (e opera). È attraverso una rivoluzione nella divisione del
lavoro che gli agenti umani potrebbero trasformare le loro proprie relazioni
costitutive (che li rendono umani), non attraverso una ‘rivoluzione’ in una
qualsiasi delle relazioni subordinate e accidentali che formano così tanti
campi di applicazione per la stessa generale divisione del lavoro. E, in questo
modo, i poteri dell’Uno (unità, uniformità, totalità) sono imposti con ancora
maggior forza, poiché essi divengono i poteri stessi del novum,
dell’emancipazione a venire[42].
Note
[1] Keynote
address, One Day Conference «The Citizen-Subject Revisited», 24 ottobre 2011,
department of English, SUNY Albany, New York.
[2] Marx morì
nel 1883. Engels ha spiegato che Marx era così riservato sulle Tesiche
non le aveva condivise con lui, benché a quel tempo i due stessero già
lavorando insieme e scrivendo a quattro mani. Alcune delle sue correzioni,
pensate per migliorare una redazione ‘affrettata’ e chiarificare l’intenzione
delleTesi, sono lungi dall’essere innocenti. Questo è il caso, in
particolare, della famosa Tesi 11, che nella formulazione
originale marxiana recita: «Die Philosophen haben die Welt nur
verschieden interpretiert; es kömmt drauf an, sie zu verändern». Engels
l’ha corretta così: «Die Philosophen haben die Welt nur verschieden
interpretiert; es kommt aber darauf an, sie zu verändern», cambiando il modo
del verbo e aggiungendo ‘aber’ nella seconda proposizione, con ciò introducendo
a forza nel testo l’idea di una mutua esclusione tra ‘interpretare’ e
‘trasformare’, che non vi era necessariamente. Di conseguenza è stata letta
come un’opposizione generale tra praxis (rivoluzionaria) e (mera)teoria,
con l’aiuto di altre formulazioni delle Tesi. Allo stesso modo
vedremo che anche la Tesi 6 contiene una correzione che merita
una discussione.
[3] «Identico è
il pensare e l’essere» (Parmenide, Testimonianze e frammenti, tr.
it., leggermente mod. di M. Untersteiner, La Nuova Italia, Firenze 1958, p.
131; cfr. la nuova edizione con commento – in francese – di B. Cassin, Parménide, Sur
la nature ou sur l’étant – La langue de l’être?, Seuil, Paris 1998).
[4] «Su ciò di
cui non si può parlare, si deve tacere» (L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus,
tr. it. di A.G. Conte, Einaudi, Torino 1964, p. 82)
[5] «L’ordine e
la connessione delle idee è lo stesso che l’ordine e la connessione delle
cose»; B. Spinoza, Ethica II, pr. 7 (la tr. dell’Etica è
quela di E. Giancotti, Editori Riuniti, Roma 1988).
[6] «I pensieri
senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche»; I.
Kant, Kritik der reinen Vernunft, B 75/A 51, tr. it di
G. Colli, vol. 1, Bompiani, Milano 1987, p. 109.
[7] Per
Ernst Bloch, cfr. Das Prinzip Hoffnung, vol. I (Suhrkamp Edition,
Frankfurt a. M. 1959, tr. it. di T. Cavallo, Garzanti, Milano 1994), e anche:
«Keim und Grundlinie. Zu den Elf Thesen von Marx über Feuerbach», in Deutsche
Zeitschrift zur Philosophie, 1, 1953, 2, p. 237 e sgg. Per Althusser
cfr. Pour Marx, capitolo, «Marxisme et humanisme» (tr. it. a
cura di M. Turchetto, Mimesis, Milano 2008). Althusser è ritornato
sull’interpretazione delle Tesi su Feuerbach in un modo assai
più critico in un testo postumo (datato 1982) «Sur la pensée marxiste»,
pubblicato in Futur Antérieur, numero speciale «Sur Althusser. Passages»,
8, 1993, tr. it. a cura di V. Morfino e L. Pinzolo, in Sul materialismo
aleatorio, Mimesis, Milano 20062.
[8] Il
Principio speranza è stato scritto durante il periodo bellico quando
Bloch era in esilio in USA, ma fu pubblicato solo dopo il suo ritorno nella
Germania Occidentale tra il 1954 e il 1957.
[9] Questo
schema è molto differente dall’idea tradizionale che Hegel ereditò da Leibniz,
secondo cui il presente è ‘gravido’ dell’avvenire che ne nascerà. In realtà è
l’opposto. Sarebbe interessante porre in relazione ciò con il fatto che sia Bloch
che Althusser (indipendentemente) hanno insistito sulla ‘non-contemporaneità’
del presente come sua struttura tipica.
[10] La nozione
di ‘umanesimo reale ‘ è usata soprattutto nella sua opera immediatamente
precedente (scritta con Engels): La sacra famiglia (1844).
Cfr. l’inizio della prefazione: «L’umanismo reale non ha in
Germania un avversario più pericoloso dello spiritualismo o
dell’idealismo speculativo, che pone al posto dell’uomo reale
individuale l’‘autocoscienza’, o lo ‘spirito’ ed insegna
con l’evangelista: ‘è lo spirito che vivifica, la carne è inutile’. È chiaro
che questo spirito privo di carne ha spirito solo nella sua immaginazione. Ciò
che noi combattiamo nella critica baueriana è appunto la speculazione riproducentesi
come caricatura. Essa rappresenta per noi l’espressione più
completa del principio cristiano-germanico, il quale tenta il suo
ultimo esperimento trasformando ‘la critica’ stessa in una potenza
trascendente» (K. Marx, F. Engels,La sacra famiglia, in Marx
Engels Opere, vol. 4, tr. it. a cura di A. Scarponi, Editori
Riuniti, Roma 1972, p. 5).
[11] Prendo a
prestito l’espressione «disputa sull’umanesimo» (la querelle de l’humanisme)
da Althusser stesso, che ha progettato un libro (lasciato incompiuto) con
questo titolo. Conio l’espressione ‘disputa sull’universalismo’ sullo stesso
modello.
[12] Nel punto
seguente, che rettifica parzialmente la mia presentazione orale alla One Day
Conference «The Citizen-Subject Revisited», SUNY Albany, October 24, 2011, non
tento una lettura integrale delle Tesi (anche se traggo alcuni
chiarimenti dagli altri aforismi di Marx). Perciò lascio a lato la questione
dell’‘ordine’ o ‘struttura’ delle 11 Tesi, che ho toccato di passaggio. Sia
Bloch (nel suo saggio) che Althusser (nel suo insegnamento orale) avevano
suggestioni ‘tematiche’ molto specifiche circa il modo in cui le tesi avrebbero
dovuto essere ‘divise’ e ‘raggruppate’ al fine di gettar luce sulla costruzione
latente dei loro argomenti e concetti. Un’ulteriore interpretazione molto
interessante è stata offerta da Georges Labica: cfr. il suo Karl
Marx. Les Thèses
sur Feuerbach, Presses
Universitaires de France, Paris 1987.
[13] Jacob
Böhme, Von der Menschwerdung Jesu Christi (1620) (edizione
online a cura di Gerhard Wehr, Google ebook), 3-1.5 e 3-7.4.
[14] È comune
nella tradizione filosofica e teologica spiegare metaforicamente il fatto che
l’anima ‘abita’ (habitat) il corpo, o che il corpo forma una ‘casa’ per
l’anima. Inhabitare/inwohnen indicherebbe una relazione più
intima e più intensa, come quella della ‘presenza’ di Dio nell’anima del
fedele. Il suo uso è spesso associato con sviluppi della dottrina trinitaria
(cfr. K. Lehmkuhler,Inhabitatio: Die Einwohnung Goottes Im Menschen, Vandenhoek
& Ruprecht, Göttingen 2004).
[15] Questo
discorso è fortemente indebitato con il lavoro di Alain de Libera sulla
genealogia del ‘soggetto’ tra scolastica e modernità: cfr. il suo contributo
alla nostra voce comune «Soggetto» del Vocabulaire Européen des
Philosophies a cura di Barbara Cassin (2004), e i due volumi della
sua Archéologie du Sujet, Librairie Vrin, Paris 2007/2008.
[16] Una
connessione essenziale tra Kant e Feuerbach su questo punto è, in verità,
costituita da Hegel, nella sua Enciclopedia delle scienze filosofiche (1817
e 1830), in cui, tuttavia, il concetto di Gattung come
‘specie’ è limitato alla vitaanimale.
[17] La
formulazione agostiniana è citata, come è noto, da Husserl alla fine delle
sue Meditazioni cartesiane del 1929, in un modo che è stato
criticato da eminenti fenomenologici che pensano che abbia ritenuto solo un
lato dell’aforisma agostiniano (chiedendo al filosofo di astrarsi dal mondo al
fine di investigare una verità interiore, ma non riuscendo a capire che questa
verità interiore rappresenta anche il luogo ‘abitato’ dall’‘ospite’ dell’uomo
proveniente dal paradiso, cioè Cristo, che perciò priva l’uomo della
padronanza di sé o lo ‘espropria’ dall’interno). Cfr. J.-L.
Marion, Au lieu de soi? L’approche de Saint-Augustin, Presses
Universitaires de France, Paris 2008, p. 139 e sgg.
[18] Questa
tipica unità di opposti è ben preservata nella trasposizione di Descartes
dell’argomento agostinaniano nel linguaggio dell’ontologia: «Io esisto con una
tale natura per cui possiedo un’idea di Dio nella mia mente», perciò come
una sostanza finita (o ‘essenza’) che ospita una sostanza infinita (o
‘essenza’). Cfr. il mio commentario in «Ego sum, ego existo. Descartes
au point d’hérésie», in Id., Citoyen Sujet et autres essais d’anthropologie
philosophique,PUF, Paris 2011, pp. 87-120.
[19] Anziché
Kant, ciò suggerisce di sottolineare un’altra forma secolarizzata della verità
che ‘abita’ l’individuo: quella proposta da John Locke nella sua teoria dell’identità
personale: i soggetti che «own themselves» separatamente sono isolati
perché ciò che li rende esseri umani identici non è solo il potere di un’«idea
astratta» (proprietà privata), ma il potere dell’idea di ‘astrazione’stessa.
Questo è una lettura assai acuta della logica dell’‘ontologia’ che possiamo
chiamare, dopo C.B. MacPherson, ‘individualismo possessivo’. Cfr. il mio saggio «My Self, my Own. Variations sur
Locke», in Id., Citoyen Sujet, cit., pp. 121-154.
[20] È
naturalmente affascinante cercare degli echi tra le marxiane Tesi su
Feuerbach e le Tesi sul concetto di storia (1941) di
Benjamin, che consapevolmente cerca di seguirne la traccia (dunque propone
un’interpretazione che è una trasformazione!).
[21] È anche su
questo punto che i testi quasi-contemporanei, in particolare laSacra
famiglia, pagano un esplicito tributo a Hegel.
[22] Questo
aforisma è particolarmente insistente nel saggio di Marx del 1844 (pubblicato
nei Deutsch-Französische Jahrbücher), «Un’introduzione allaCritica
della filosofia del diritto hegeliana», in cui das Proletariat è
usato per la prima volta per nominare il ‘soggetto’ rivoluzionario (cfr. il mio
saggio: «Le moment messianique de Marx», in Id., Citoyen Sujet,
cit., pp. 243-264). è interessante notare che, prendendo a prestito nuovamente
dalla tradizione teologica che abita come uno spettro le Tesi, le
due nozioni di Verwirklichung(realizzazione) e Verweltlichung (secolarizzazione,
letteralmente divenire-mondo) sono usate da Marx come quasi-sinonimi.
[23] Questo è
un punto importante a cui sono state dedicate molte discussioni. Fornisco qui
una sola indicazione: P. Macherey, «Aux sources des rapports sociaux», in Genèse,
n° 9, octobre 1992. Macherey evidenzia l’importanza dell’opera di Louis de
Bonald (un conservatore), François Guizot (un liberale) e del conte Claude de
Saint-Simon (un socialista la cui influenza sulla formazione intellettuale di
Marx può difficilmente essere sottovalutata).
[24] Cfr. I.
Wallerstein, Unthinking Social Science. The Limits of Nineteenth
Century Paradigms, Second edition with a New preface, Temple University
Press, Philadelphia 2001. Una nozione chiave analitica – forse
la sola centrale – che nasce dalla costituzione della sociologia, era la
nozione di individualismo (introdotta per la prima volta in Francia da
Tocqueville) come distinto dall’egoismo morale, per descrivere un
comportamento di persone che sono separate dalla propria affiliazione sociale
(gruppi di status, famiglia, confessioni religiose), che
naturalmente le differenti ideologie hanno valutato in modo differente.
Nella Questione ebraica (1844) Marx osserva l’uso di
‘egoismo’, ma in un senso che è piuttosto simile a ‘individualismo’, cioè a
contraddizione tra le condizioni sociali e il loro proprio risultato.
[25] Di estrema
importanza sotto questo aspetto sono le elaborazioni nellaQuestione ebraica (1844),
un saggio che è celebre per la sua critica della distinzione ‘astratta’ di
‘diritti dell’uomo’ e diritti del cittadino come un’espressione della riduzione
borghese dell’‘uomo’ alla proprietà privata che possiede l’individuo (che
include la nozione lockiana del «proprietor in one’s person»). Così come
l’‘emancipazione religiosa’ che libera l’individuo dal suo assoggettamento ad
un immaginario potere trascendente non è ancora ‘emancipazione politica’ che
garantisce per l’eguaglianza giuridica e la libertà di ogni individuo
(all’interno dei limiti dello Stato-Nazione), l’emancipazione politica (benché
sia un progresso nella storia dell’umanità) non è ancora l’‘emancipazione
sociale’ che libera gli individui dal loro isolamento alienato e dalle leggi di
ferro della competizione che fanno di ciascuno un ‘lupo’ per l’altro. Ed è solo
un’emancipazione sociale che può essere considerata un’‘emancipazione umana’ in
senso pieno.
[26] Ciò che
permette a Engels (prima di molti marxisti) di fare questa rettifica è
naturalmente il fatto che è divenuto familiare con il più tardo ‘materialismo
storico’ e le analisi delle relazioni di produzione con le
loro contraddizioni interne, come spiegate nel Capitale: dato che è
lì che Marx descriverebbe la struttura della produzione materiale (incluso lo
sfruttamento e la dominazione di classe) come una matrice che genera
trasformazioni nel carattere storico della specie umana, e afferma che il
capitalismo fa assegnamento su un più alto grado di ‘socializzazione’ (Vergesellschaftung)
del processo lavorativo (cooperazione, industrializzazione, educazione
politecnica) che deve essere incompatibile con le norme della proprietà
privata. Un’interessante formulazione intermedia è offerta
nell’Ideologia tedesca dove Marx afferma con forza la funzione
determinante del lavoro nel ‘produrre’ la ‘natura’ umana, mettendo sullo stesso
piano lo sviluppo delle forze produttive con una successione di modalità nella
divisione del lavoro che genera prima la proprietà privata, poi il comunismo
(definito, come è noto, come «il movimento reale che abolisce/supera – aufhebt –
lo stato di cose esistente»), ma non usa il termine tecnico ‘relazioni di
produzione’ e ‘modi di produzione’. Invece fa un ampio uso dei termini: Verkehr e Verkehrsformen:
commercio e le sue forme.
[27] Si pensi
all’aforisma nella prefazione della Fenomenologia dello spirito:
«das Wahre ist das Ganze» (il vero è la stessa cosa del tutto, verità e
totalità sono sinonimi).
[28] Rinviamo
alle precisazioni di Michel Foucault nelle Parole e le cose (1966):
le definizioni antropologiche dell’essenza umana nel XIX secolo, dopo la
rivoluzione kantiana che ne recide la dipendenza teologica e conferisce loro
una ‘finitudine costitutiva’, sono in relazione con tre categorie
‘quasi-trascendentali’: ‘lavoro’, ‘linguaggio’ e ‘vita’. È largamente ammesso
(anche da Foucault stesso) che il paradigma marxiano sceglie la prima
possibilità quando giunge a formulare la domanda antropologica (che è
esattamente ciò che la Arendt è altri hanno rimproverato a Marx: di aver scelto
una definizione dell’uomo come animal laborans). Ma ciò che
affrontiamo qui sono le modalità, le esitazioni e le sospensioni di questa
‘scelta’.
[29] Cfr. la
mia Filosofia di Marx, Manifestolibri, Roma 1994, capitolo 2. Su
questa base ho proposto anche una discussione sulle affinità tra Marx e,
specificamente, Spinoza e Freud (con tutte le loro differenze). Altri nomi
possono essere naturalmente aggiunti, se è vero che è difficile trovare un
grande filosofo a cui la questione della transindividualità non si è
presentata, e che non considera, almeno ipoteticamente, la possibilità di
pensare le ‘relazioni’, e non i ‘termini’ o le ‘sostanze’, come le categorie
fondamentali della comprensione del reale. Nel suo estremamente istruttivo
commentario delle Tesi su Feurbach (Marx 1845, Editions
Amsterdam, Paris 2008, pp. 137-160), Pierre Macherey ha lavorato su questa idea
proponendo una tesi secondo cui Marx trasformerebbe un’‘essenza’ in una
‘non-essenza’, cosa che mi sembra del tutto compatibile con ciò che ho provato
a spiegare in questo articolo.
[30] Vi sono
alcune importanti affinità tra questa formulazione e ciò che Maurice Blanchot,
in un noto saggio molto sintetico, non senza relazione con la sua quasi
contemporanea meditazione sulle «parole di Marx», chiama le rapport du
troisième genre («il rapporto di terzo genere/tipo») (in L’entretien
infini, Gallimard, Paris 1969, pp. 94-105), in cui si trova l’equazione:
«L’homme, c’est-à-dire les hommes» (l’uomo, cioè gli uomini). Ritornerò altrove
su questa comparazione.
[31] Questo
spiega anche, a mio vedere, perché è insufficiente mettere in relazione il
primate delle ‘relazioni sociali’ con l’emergenza di un’antropologia storica (o,
per questa posta in gioco, culturale): perché una tale antropologia
(il cui praticamente insuperabile prototipo risiede nella descrizione hegeliana
delle ‘epoche’ della storia mondiale come costruzioni di successive idee
‘spirituali’ dell’umano) relativizza solo (cronologicamente,
geograficamente) la validità di qualsivoglia definizione dell’‘essenza umana’,
ma non rimuove assolutamente il fatto che una tale definizione deve
essere comune a ognuno nella società considerata, o
subordinare al suo interno tutte le opposizioni e le differenze.
[32] Nel
libello Eléments d’autocritique (Hachette Littérature, Paris
1974) Althusser attribuisce a Spinoza «l’aver inventato, pressoché solo nella
storia della filosofia, la nozione di totalità senza chiusura». Non sembrava
essere al corrente del fatto che una simile distinzione costituiva il nucleo
del capolavoro di Emmanuel Lévinas, Totalité et infini. Essai sur
l’extériorité (1961), che aveva anch’esso di mira l’eredità hegeliana
in filosofia.
[33] Prendo la
categoria di «anfibolia» nel senso stretto in cui è usata da Kant in quella che
è forse la più notevole elaborazione della Critica della ragion pura,
l’«Anfibolia dei concetti della riflessione», ma presuppongo che si possa
applicare non solo ai casi elencati da Kant (unità contro diversità,
adeguazione contro inadeguazione, materia contro forma), ma anche ad altri, che
contano in special modo in domini pratici: attività contro passività,
soggettivo contro oggettivo ecc.
[34] G.
Lukács, Storia e coscienza di classe (1923).
[35] Condenso
indicazioni dal ‘primo’ e dal ‘secondo’ Althusser, che certamente non sono
completamente incompatibili: cfr. E. de Ipola, Althusser, el infinito
adiós, Siglo XXI, Buenos Aires 2007, e W. Montag, Philosophy’s
Perpetual War.Althusser and His Contemporaries, Duke University Press,
Durham and London 2012.
[36] Un esempio
classico della discussione concerne la questione della paternità: la
‘paternità’ connota una relazione ‘esterna’ tra individui che viene poi
socialmente riconosciuta come ‘padre’ e ‘figlio’, o una qualità ‘interna’ di
ognuno (come risultato della loro storia personale, inclusa la nascita ecc.) e
a proposito della ‘madre’? o ‘figlio’ e ‘figlia’?
[37] Di sicuro
c’è una terza tradizionale possibilità per superare questo tipo di anfibolia:
invocando un concetto di ‘vita’ generalizzato (o organicità, sistema ecc.).
Noto solo qui che il concetto classico di ‘vita organica’ tende a preservare
l’interiorità a spese della psicologia, della coscienza, della soggettività.
[38] E ci si
lasci notare di passaggio che il termine francese o inglese ‘alienation’ rende
due concetti tedeschi usati da Hegel e da Marx: Entäusserung o
‘esternalizzazione’, proiezione ‘fuori di sé’, e Entfremdung o
‘estraneamento’, sudditanza ad un ‘potere alieno’, al potere dell’altro.
[39] K.
Marx, Il Capitale, libro III, capitol 47, sulla «Genesi della
rendita fondiaria capitalistica».
[40] La frase
dall’Epistola I di Giovanni: «Dio è amore» gioca un ruolo centrale nello
sviluppo mistico del Cristianesimo così come nelle interpretazioni
‘antropologiche’ della cristianità sino a Spinoza: le due influenze convergono
in Hegel che trasforma la frase in una equivalenza simmetrica (Gott ist
Liebe, die Liebe ist Gott) (cfr. il mio «Ich, das Wir, und Wir, das Ich
ist. Le mot de l’esprit», in Id., Citoyen Sujet, cit., pp.
209-241.
[41] Val la
pena ricordare la prossimità etimologica del termine tedesco per tipo o
genere: Gattung, con il termine ‘sposi’, ‘marito’ e ‘moglie’: Gatte/Gattin,
usato ampiamente da Hegel per ricacciare la sessulità nella dimensione
‘animale’ dell’uomo, e da Feuerbach per sottolineare la dimensione ‘tipicamente
umana’ della sessualità, che un discorso spiritualista esprime per mezzo di
eufemismi e sublima. Su tutto ciò cfr. Ph. Sabot, «L’anthropologie comme
philosophie. L’homme de la religion et la religion de l’Homme selon Ludwig
Feuerbach», cit.
[42] Il
riferimento a fonti saintsimoniane è cruciale dal punto di vista storico
(benché la critica del matrimonio borghese come «prostituzione legale» in
ultima istanza derivi dalle prime femministe come Mary Wollstonecraft) ma
soprattutto dal punto di vista politico e teorico. Come sappiamo non vi è nulla
di semplice nell’applicare un solo concetto di ‘relazione sociale’, ‘movimento
sociale’, ‘politica emancipativa’ tanto all’emancipazione delle donne dal
patriarcato quanto all’emancipazione degli operai dal capitalismo, cosa che
nondimeno ha formato il nucleo del socialismo ‘utopistico’ saintsimoniano e di
altre dottrine romantiche. È una difficoltà anche a proposito della storicità come
è chiaramente mostrato dalle frasi d’apertura del Manifesto del partito
comunista, dove Marx ed Engels prendono a prestito una lista di successive
‘dominazioni di classe’ direttamente dall’Exposition de la Doctrine
saint-simonienne (1929), ma eliminano «la dominazione degli uomini
sulle donne» dalla lista, forse a causa dei loro pregiudizi maschilisti, ma
anche perché non c’è alcun modo in cui questa altra forma di
sfruttamento-dominazione possa essere inserita nella successione cronologica
che conduce dalle ‘comunità primitive’ fino al capitalismo e al comunismo,
seguendo le trasformazioni del regime di proprietà; cfr. E. Balibar, F. Duroux,
R. Rossanda, Comunismo e femminismo, Einaudi, Torino (in corso di
pubblicazione).