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Karl Marx ✆ Etsy |
Franco Soldani
4. Il valore e i
suoi modi d’espressione
“Think first, compute later” |
I. A. Stewart
Lo stretto legame della problematica più sofisticata di Marx
con la scienza del suo tempo, così come l’interno carattere complesso del suo
pensiero, vengono ancora meglio in luce nell’analisi del valore. D’altro canto,
il nocciolo scientifico di questa categoria dimostrerà anche, credo, la
completa incomprensione del suo interno e stratificato significato concettuale
da parte di quel pensiero economico, marxista e no, che si è occupato della sua
natura logica, pretendendo di confutarla. In realtà, come vedremo, la
razionalità economica ignora completamente l’effettivo status cognitivo della
conoscenza scientifica e della sua epistemologia, cosa che poi la porta del
tutto fuori strada quando deve prendere in considerazione teorie fondate su
queste ultime. Per Marx, come è noto, la quantità di lavoro astratto
rappresa nella merce rappresenta il suo valore. Il lavoro
sans phrase,
mera spesa fisiologica di energia mentale e fisica,
costituisce la “sostanza
sociale” del valore e le differenti merci non sono altro che “cristallizzazioni”
di questo “contenuto”
[85]. Il lavoro umano indistinto è dunque
l’elemento comune che nello scambio generalizzato dei beni permette
l’onnilaterale confronto dei differenti valori d’uso, altrimenti
incommensurabili a causa delle loro diverse proprietà merceologiche. Quando due
oggetti differenti che soddisfano bisogni umani vengono scambiati, il loro
commercio è regolato dal “rapporto quantitativo” o “proporzione” nella quale i
diversi valori d’uso vengono valutati. La quantità determinata in proporzione
della quale i diversi valori d’uso si scambiano reciprocamente è il loro “valore
di scambio” e questo non è altro che “il modo di espressione necessario” o la “forma
fenomenica” di quel lavoro incorporato. La grandezza di valore di ogni merce
sarà dunque misurata dalla quantità di tempo di lavoro socialmente necessario
per produrre quel determinato bene.
Il rapporto tra la sostanza e le sue forme o modi di
espressione sembre dunque, a prima vista, privo di difficoltà. Il valore è un
coagulo di lavoro umano indifferenziato e questo “cristallo” si rappresenta o
si manifesta
[86] nell’interscambio delle merci
attraverso dati rapporti numerici perfettamente misurabili dal loro valore di
scambio. Uguaglianza qualitativa e comparazione quantitativa
[87] sembrano andare così di pari passo.
Come mai, allora, Marx definisce la natura del valore un “arcano”
[88],
una forma “metafisica”, una “proprietà sovrannaturale”, un sostrato “nascosto”
[89],
una “proprietà occulta”
[90], “una qualità metafisica e insostanziale”
[91],
addirittura un “qualcosa di immateriale”
[92]? Se questo è il punto ”intorno
al quale ruota la comprensione dell’economia politica”
[93], in che cosa consiste il suo carattere
problematico e persino irriconoscibile?
Apparentemente non v’è nulla di cabalistico nel fatto che le
diverse attività lavorative, producenti valori d’uso distinti corrispondenti a
determinati lavori concreti, possano essere considerate pure e semplici forme
di realizzazione o incarnazioni di lavoro astrattamente umano. Eppure, spiega
ancora Marx, “nell’espressione di valore della merce la cosa è stravolta”
[94].
Di qui “il carattere mistico della merce”, il suo “carattere enigmatico” e “misterioso”,
la sua “forma fantasmagorica”. Tutti questi attributi finiscono col trasformare
dunque la merce stessa in una “cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza
metafisica e di capricci teologici”, in una “cosa sensibilmente sovrasensibile”,
che è allora indispensabile sottoporre ad una più fine analisi. Infatti, “il
valore non porta scritto in fronte quel che è. Anzi il valore
trasforma ogni prodotto di lavoro in un geroglifico sociale”
[95].
Per capire l’intrinseca natura complessa del valore è allora
indispensabile decifrare questo enigma. Il punto di partenza più appropriato a
questo fine è senz’altro l’osservazione e lo studio del rapporto semplice di
valore fra due merci, giacché “l’arcano di ogni forma di valore sta
in questa forma semplice di valore. La vera e propria difficoltà sta
dunque nell’analisi di essa”
[96], poiché non appena essa si svilupperà
attraverso le sue interne metamorfosi tutte le sue nuove forme superiori
dissolveranno quella semplicità iniziale
[97]. Cosa c’è da capire, sostanzialmente, in
questa relazione che possa dischiuderci la comprensione del problema? Due cose
soprattutto.
Innanzitutto, il fatto che nel rapporto di scambio tra una
merce A ed una merce B, tra forma relativa di valore e forma di
equivalente in altre parole, l’oggetto che svolge la funzione dell’equivalente
dà “una propria espressione autonoma” ed una presentazione “esterna”
[98] al
valore dell’altra merce. La “opposizone interna” tra valore d’uso e valore
racchiusa nella singola merce ha trovato modo di uscire dal corpo ospite
attraverso il rapporto tra due merci. Ed in effetti questo processo può
svilupparsi solo nell’ambito del rapporto tra grandezze di valore diverse
[99],
vale a dire solo all’interno del processo di scambio, del confronto
quantitativo tra merci distinte. La cosa importante, tuttavia, è che questo
svolgimento ha permesso al valore di trovare una sua via d’uscita dal regno
delle ipotesi, delle condizioni soltanto pensate
[100], e di rappresentarsi attraverso una
mediazione reale, come un’entità tangibile e misurabile.
In secondo luogo,
tuttavia, questo passaggio o “trapasso” all’esterno della sostanza della merce,
in una forma di valore (l’equivalente) differente e indipendente dalla sua
veste materiale
[101], dà luogo anche ad un altro eclatante
effetto, inseparabile del resto dal primo, mediante il quale si può spiegare
l’enigma del valore, cioè perché esso appaia all’intelletto degli individui in
guisa di mistero inesplicabile. La chiave di accesso alla comprensione di tutta
la faccenda è la forma di equivalente. La merce che nel rapporto di valore
rappresenta la “parte passiva” si presenta infatti di fronte a coloro che
scambiano come un oggetto che “così com’è, tale e quale, esprime valore, cioè
possiede per natura [von Natur] forma di valore”. Il bene che
all’interno della relazione di scambio funziona come equivalente “sembra
possedere per natura [von Natur] la sua forma di equivalente, la sua
proprietà di immediata scambiabilità”, così come ad esempio sono ad esso
connaturate le sue proprietà fisico-chimiche.
“Di qui – spiega Marx – viene il carattere enigmatico della
forma di equivalente”, e di conseguenza della merce in generale. Insomma, la
forma più elementare di espressione del valore (ad es. due m² di tela = un
abito) ci fa “risolvere l’enigma della forma di equivalente”
[102], nella misura in cui almeno ci fa
capire quale sia l’apparente caratteristica che sembra rendere i beni
universalmente scambiabili tra loro entro determinati rapporti quantitativi. La
merce, in altri termini, non deriva le sue proprietà intrinseche (forma e
grandezza di valore) da una determinata formazione sociale, bensì sembra
possedere le sue virtù in maniera naturale, in quanto bene utilizzabile per
dati bisogni umani. Già la forma semplice di valore realizza dunque la virtuale
cancellazione della specificità sociale dei prodotti del lavoro umano, la
derivazione della merce da una società storicamente determinata (con i suoi
rapporti sociali peculiari, le sue istituzioni, le sue forme di pensiero, e
così via). Ascoltiamo a questo proposito di nuovo Marx: “L’arcano della forma
di merce consiste dunque semplicemente nel fatto che tale forma, come uno
specchio, restituisce agli uomini l’immagine dei caratteri sociali del loro
proprio lavoro, facendoli apparire comecaratteri oggettivi dei prodotti di
quel lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose”
[103]. Che questo sia il primo significato
del concetto in causa e la via privilegiata d’accesso alla comprensione della
natura “occulta” del valore è provato dal fatto che Marx ripete senza sosta, in
contesti diversi e con formulazioni sempre più pregnanti, l’interpretazione
succitata. Nel processo di scambio infatti domina “la parvenza che il carattere
sociale del lavoro appartenga agli oggetti”, giacché i rapporti numerici entro
i quali essi vengono permutati “sembrano sgorgare dalla natura dei prodotti del
lavoro”
[104] e non da un circostanziato e
identificabile sistema di relazioni tra individui specifici, appartenenti ad
una società determinata
[105]. Tutto il contrario. Infatti, l’intera
razionalità dei soggetti dipende dal “feticismo inerente al mondo delle merci”:
“ossia – spiega in maniera inequivocabile Marx – dalla parvenza che le
determinazioni sociali del lavoro siano caratteri degli oggetti”
[106].
Il meccanismo di rappresentazione del valore mette in moto
dunque degli effetti sociali assai complessi e difficilmente intelligibili da
parte di coloro che li osservano, effetti tanto più sottili poi se si considera
il fatto che nel rapporto semplice di scambio tra due beni, paradossalmente,
l’aspetto enigmatico della merce “sembra ancora relativamente facile da
penetrare”, mentre “in forme più concrete scompare perfino questa parvenza di
semplicità”
[107]. Si può capire agilmente, penso, la
potenza di questa mediazione. Se infatti sin dall’inizio, nel comune
interscambio tra due merci, s’instaura la logica fattuale che si è vista, ci si
può facilmente immaginare cosa possa accadere non appena si passi a livelli
ulteriori di sviluppo della forma di valore. A che cosa dunque si riferisce
precisamente Marx quando parla delle sue “forme più concrete”? In primo luogo
ai prezzi e al denaro (anche se di certo non solo ad essi).
Se “la forma semplice di merce è il germe della forma di
denaro”
[108], la “forma germinale che matura fino
alla forma di prezzo solo passando attraverso una serie di metamorfosi”
[109], allora è ovvio che l’analisi dello
svolgimento dell’espressione di valore contenuta nel rapporto di valore delle
merci deve proseguire “dalla sua figura semplice e inappariscente, fino
all’abbagliante forma del denaro”, un’impresa questa “che non è neppure stata
tentata dall’economia politica borghese” (anzi, precisa Marx, “la duplice forma
del lavoro contenuto nella merce è stata dimostrata criticamente da me per la
prima volta”). Non appena questo passo sarà compiuto, “scomparirà anche
l’enigma del denaro”
[110], al quale spetta del resto una funzione
determinante nel velare materialmente
[111] il processo di realizzazione del
valore. In che modo il denaro adempie a questa sua funzione?
L’equivalente generale, consentendo la comunicazione
universale e senza limiti delle merci, funzionando come misura generale dei
valori e scala dei prezzi
[112], si presenta agli occhi degli attori
sociali come un mezzo in cui “scompare ogni traccia del rapporto di valore”
[113]. Poiché il denaro rappresenta soltanto
il massimo sviluppo della forma di valore, anch’esso, al pari del processo di
scambio delle merci da cui deriva, appare al raziocinio comune, intelletto
degli economisti compreso, come un puro e semplice artificio, a volte
intenzionale a volte strumentale, avente lo scopo di oliare la circolazione
mercantile
[114]. A causa del fatto che, per sua
essenza, il valore è “invisibile”
[115] nei corpi delle merci, esso deve
trovare il modo di manifestarsi in una forma adeguata al suo concetto
[116], e ci riesce precisamente nel denaro
che è perciò da considerarsi come “la prima forma fenomenica del capitale”
[117].
Si consideri a questo proposito l’esemplare spiegazione di
Marx: “Come soggetto predominante ed unificante [als übergreifende
Subjekt] di tale processo, nel quale ora assume ora dimette la forma di denaro
e la forma di merce, ma in questo variare si conserva e si espande, il valore
ha bisogno prima di tutto di una forma autonoma, per mezzo della quale venga
constatata la sua identità con se stesso. E possiede questa forma solo neldenaro”
[118]. Ecco perché “è necessario che il valore si
evolva, a differenza dei variopinti corpi del mondo delle merci, fino a
raggiungere tale forma non concettuale e di cosa, ma anche semplicemente
sociale”
[119].
A questo punto, è chiaro che il “potere trascendentale del
denaro”
[120] non è altro che l’originaria
identificazione del rapporto di valore delle merci con le loro proprietà
materiali, non differisce in nulla, per l’essenziale, dalla mediazione del
naturale in precedenza considerata: “l’enigma del feticcio denaro è
soltantol’enigma del feticcio merce divenuto visibile e che abbaglia
l’occhio”
[121]. Solo che nel denaro quella prima
mediazione ha trovato modo di raggiungere livelli di sviluppo enormemente
superiori, molto più complessi. Se, come si è visto, già nella più semplice
espressione di valore la merce B ”sembra possedere come qualità sociale di
natura la propria forma di equivalente, indipendentemente da tale rapporto”,
il denaro porta a compimento questa errata ma reale parvenza non “appena la
forma generale di equivalente finisce con il connaturarsi alla forma naturale
d’un particolare genere di merce, ossia è cristallizzata nella forma di denaro”.
Al culmine di questo processo di svolgimento, l’equivalente
generale ha ormai assunto il suo carattere definitivo e la sua specifica
connotazione sociale. Nel denaro, infatti, “il movimento mediatore scompare nel
proprio risultato senza lasciar traccia. Le merci trovano la loro propria
figura di valore davanti a sé, bell’e pronta, senza che esse c’entrino, come un
corpo di merce esistente fuori di esse e accanto a loro”
[122].
Valore di scambio, merci, prezzi e denaro sono allora da
considerarsi tutte forme di manifestazione locali per così dire
[123] del valore la cui funzione
sociale, mano a mano che le sue metamorfosi danno luogo alla nascita di nuove
determinazioni, diventa sempre più sottile e dal contenuto concettuale vieppiù
sofisticato. La complessità interna del loro significato logico evolve
praticamente in parallelo ai compiti di mediazione che esse devono svolgere in
ambito economico-sociale. D’altro canto, se già nel denaro, giacché esso nella
sua esistenza infondata e autoidentica o fattuale non reca alcuna traccia delle
sue origini, diventa praticamente impossibile per i soggetti comprendere da
dove esso nasca, nelle altre sue ancor più sviluppate forme economiche quel suo
profilo apparentemente già dato ed esistente come presupposto raggiunge il suo
apice parossistico.
Se già salario, profitto e rendita fondiaria rappresentano
delle categorie che “rendono invisibile il rapporto reale e mostrano
precisamente il loro opposto”
[124], con l’interesse si raggiungono livelli
inimmaginabili di sovvertimento dell’effettivo stato delle cose, il
culmine vero e proprio dell’intero e discontinuo processo di sviluppo del
valore. Cos’è che fa di questa rubrica economica un fattore così radicale? Il
fatto è che nell’interesse, nella formula D-D', tanto “è cancellata ogni
mediazione”, ogni e qualsivoglia relazione con la produzione, il plusvalore e
le classi sociali: esso è “la forma aconcettuale del capitale, la distorsione e
reificazione del rapporto di produzione alla massima potenza”
[125], quanto i tratti più tipici e specifici
del capitale, quelli che avrebbero dovuto connotarlo come un tipo storicamente
determinato di società, sono “rovesciati nel loro contrario”, in “una
inversione di causa ed effetto”
[126], vale a dire in un sistema di istanze e
di rapporti da cui tutto sembra dover cominciare visto che oltre ad essi
nient’altro apparentemente sussiste. Mentre all’inizio il denaro pareva avere
ancora qualche remoto legame con la circolazione delle merci e le persone in
carne ed ossa, nel capitale produttivo d’interesse sparisce anche questo
residuo riferimento ed esso diventa “il rapporto di D con se stesso e
misurato su se stesso”
[127]. Ecco perché, secondo Marx, in queste
circostanze “anche l’ossificazione dei rapporti, la loro rappresentazione come
un rapporto tra uomini e cose, dotato di un determinato carattere sociale, è
ben diversa che nella semplice mistificazione della merce e in quella, già più
complicata, del denaro. La transustanziazione, il feticismo è compiuto”
[128].
Mi sembra inutile commentare l’impressionante analogia di
questa spiegazione con l’interpretazione marxiana delle forme illustrata
precedentemente
[129]. Sta di fatto che Marx considera tutti
i più importanti concetti del pensiero economico e del mondo sociale – valore
di scambio, merci, prezzi, denaro, salario, rendita, profitto ed infine
interesse – come delle entità che, pur essendo derivate e dipendenti dal
processo di riproduzione del capitale, esistono ed agiscono come dei
presupposti, come delle figure autonome e a prima vista senza alcun altro
fondamento che il loro monolitico esserci. Sono effetti posti dalla
loro ragion d’essere (l’autovalorizzazione del valore-capitale)
[130], ma esistono nella realtà e le danno
una struttura d’insieme complessa e mutevole in guisa dicause. La dinamica
intrinseca del valore tiene insieme questi due aspetti della cosa: il mondo di
superficie delle “forme naturali” in cui e tramite le quali si mediano le leggi
riproduttive del capitale e il motore più interno che ne determina l’affiorare
attraverso la loro autoreferenza.
Dovrebbe essere più chiaro adesso, spero, perché secondo
Marx “nel concetto di valore si svela il segreto del capitale”
[131]. Nella complessa dimostrazione che ne
ha dato Marx, il tempo di lavoro socialmente necessario alla produzione dei
valori d’uso è infatti il fondamento causale che mette in moto tutto il
processo di rappresentazione che si è visto, processo che costituisce l’aspetto
più sofisticato di tutta l’interna evoluzione discontinua, per scatti di
significato e salti di livello, del valore. D’altra parte, si è visto anche che
tutti i soggetti che personificano quelle categorie agiscono intenzionalmente,
con volontà e coscienza, come rappresentanti e incarnazioni della suddetta
dinamica. Il loro intelletto decisionale non può che prendere le mosse dalla
loro razionalità preformata e funzionare unicamente nell’ambito della
fattualità in cui soltanto possono vivere ed esplicare il loro ruolo. Nella
circolazione e nella concorrenza intercapitalistica, dunque, vigono gli stessi
principi che si son visti all’opera nella metamorfosi delle merci
[132]. Se il valore rappresenta “la legge
naturaleregolatrice”
[133] di queste ultime, la stessa
funzione la svolgerà dunque entro la competizione e l’azione reciproca tra i
differenti capitali(sti), che del resto per Marx eseguono soltanto “le leggi
interne del capitale” (infatti “è nella concorrenza che le leggi immanenti al
capitale, le sue tendenze, giungono a realizzarsi”)
[134].
Dunque per Marx il valore sarebbe “la regola interna”
[135] dell’intero sistema
concorrenziale, delle oscillazioni dei prezzi di mercato, e naturalmente anche
dei prezzi di produzione intorno ai quali ruotano del resto i primi
[136]. Il problema principe ovviamente è qui
quello di capire come il valore possa essere identico, qualitativamente e
quantitativamente, a tali prezzi e come esso possa determinare il saggio del
profitto incamerato per così dire dai singoli capitali. Attraverso quali
meccanismi si attua questa regolazione? Vediamo la spiegazione che ne dà Marx.
Nell’ambito della concorrenza “la legge del valore agisce solo come legge
interna, come cieca legge di natura nei confronti dei singolo agenti e impone
l’equilibrio sociale della produzione in mezzo alla sue fluttuazioni
accidentali”
[137]. All’interno di questo meccanismo, in
cui si intrecciano e si scontrano le “azioni casuali” e molto spesso divergenti
- guidate da un fine comune ma non da un unica mente o strategia -
dei differenti “produttori”, il valore funziona come una sorta di anonima “centrale
di controllo” alla quale spetta il compito di smistare e coordinare tutto il
sovrastante traffico, dandogli una certa qual razionalità. Solo che esso non lo
fa in maniera diretta né imperativa. Al contrario: “In tutta la produzione
capitalistica la legge generale si afferma come tendenza predominante, sotto
forma d’una media, che non è mai possibile determinare, di oscillazioni
incessanti”
[138].
La realtà determinata dal valore, in quell’ambiente
altamente turbolento, dinamico e imprevedibile che è il mercato, si afferma
dunque in maniera specifica: “la sfera della concorrenza, considerata nei suoi
singoli avvenimenti, è dominata dal caso; in cui dunque la legge interna che si
attua in questi casi, e che li regola, è vsibile solo quando questi casi sono
riuniti in gran numero; in cui dunque questa legge rimane invisibile e
incomprensibile ai singoli agenti della produzione stessa”
[139].
La legge del valore, come si può evincere dalla descrizione
che ne ha fatto Marx, possiede dunque almeno tre caratteristiche fondamentali.
Innanzitutto, è una “cieca legge di natura”, regola in modo oggettivo e
impersonale i fenomeni economici così come la legge di gravità, ad esempio
attrae tutti i corpi verso il centro della Terra
[140]. In secondo luogo, la funzione
regolatrice del valore “rimane invisibile e incomprensibile” all’intelletto dei
soggetti, sia perché essa si esprime attraverso gli effetti che induce nel
mondo empirico, sia perché la razionalità autoreferente degli individui vieta
loro ogni possibilità di poter capire ciò che non risulta o è indipendente dal
loro agire intenzionale (l’unica cosa che per essi possa esistere)
[141]. Infine, essa si fa valere nei
confronti dei singoli attori sociali solo come una “tendenza predominante [beherrschende
Tendenz]” avente la “forma d’una media” statistica e approssimata, giacché la
concorrenza “è dominata dal caso” ed al suo interno non è possibile determinare
con precisione assoluta alcun calcolo numerico né tanto meno una perfetta
coincidenza, matematicamente certa, di valori e prezzi o plusvalore e profitti
complessivi.
La sinergia e la cooperazione di questi tre caratteri
spiegano dunque, secondo Marx, perché la legge del valore debba essere
considerata la causa “razionale e naturale” - “das Rationelle, das natürliche
Gesetz”, dice Marx
[142] - dello scambio delle merci sulla
base del tempo di lavoro socialmente necessario in esse incorporato. In
qualsiasi modo i prezzi delle merci vengano fissati o regolati, compresa
l’addizione di un profitto medio ai vari capitali impegnati nelle diverse sfere
della produzione sociale
[143], “il loro movimento è determinato dalla
legge del valore”
[144], che agisce come “il centro di gravità”
[145] attorno al quale fluttuano i
prezzi di mercato e quelli di produzione. In sintesi: “Quando si afferma che le
merci vengono vendute ai loro valori, si vuole naturalmente dire che il loro
valore costituisce il punto intorno al quale gravitano i prezzi di queste
merci, e verso il quale si ristabilisce l’equilibrio delle loro incessanti
oscillazioni sopra e sotto tale valore”
[146].
Ogni eventuale scarto quantitativo o differente ammontare
tra valori e prezzi, tra plusvalore complessivo e profitti
[147], deve allora essere spiegato sulla base
del fatto che la estrema complessità, l’infinità varietà e quantità di atti di
scambio che avvengono entro la circolazione complessiva rappresentano “una
serie senza inizio né fine”, un intrico di compere e vendite “frammischiate
alla cieca” in una “giustapposizione e successione infinitamente casuale”
[148]. Entro un simile ambiente caotico, “già
per la loro indeterminata numerosità, questi cicli si sottraggono ad ogni
controllo, ad ogni misura e ad ogni calcolo”
[149]. Non avrebbe dunque alcun senso
pretendere di poter riscontrare nell’”infinito frazionamento circolatorio”
[150] una corrispondenza matematica
esatta o biunivoca tra valori e prezzi.
Nello specifico modo capitalistico di regolare le variazioni
dei prezzi il suddetto processo di compensazione manifesta soltanto “la
tendenza al livellamento” delle periodiche sperequazioni nei livelli dei
prezzi, giacché l’effettivo raggiungimento di una “posizione media ideale non
trova riscontro nella realtà”
[151]. Se infatti “in teoria si postula che
le leggi del modo di produzione capitalistico si sviluppino senza interferenze”,
nel mondo concreto le cose vanno diversamente: “Nella vita reale c’è solo
approssimazione, e questa approssimazione è tanto maggiore quanto maggiore è il
grado di sviluppo del modo capitalistico di produzione”
[152].
Potrebbe sembrare a prima vista che l’argomentazione di Marx
abbia qui fatto ricorso ad una circostanza di fatto per spiegare la
maniera in cui il valore determina e regola la formazione dei prezzi di
produzione, e quindi anche il pari ammontare dei due. Potrebbe sembrare infatti
che la loro identità numerica, la concordanza della loro somma, sia stata solo
perturbata e per così dire solo temporaneamente squilibrata o alterata dai
fenomeni della concorrenza, dai movimenti irregolari e altalenanti delle merci.
E nondimeno niente sarebbe più errato. Il discostarsi quantitativo dei prezzi
dai valori è anzi una conseguenza della loro unità. Come dice Marx, anche in
questo caso “è su di essa che bisogna fondarsi per spiegare le eccezioni, e non
sulle eccezioni per spiegare la legge stessa”
[153].
Prima di tutto, logicamente, il presupposto secondo il quale
valori e prezzi coincidono
[154] deriva dal fatto che i secondi
sono una forma d’espressione del primo, sono i modi d’esistenza tramite i quali
il tempo di lavoro necessario si dà una sua realtà empirica e tangibilmente
comparabile. Da questo punto di vista tra i due elementi non può esservi alcuna
differenza di natura. Come spiega Marx, “un prezzo che differisca qualitativamente dal
valore è una contraddizione assurda”
[155]. D’altro canto, come si è visto sia il
prezzo sia il denaro sono forme autonome ed esterne del valore
[156], rappresentano le categorie mediante le
quali il valore viene ad esistenza uscendo fuori dal corpo della merce ed
incarnandosi in entità reali, additabili, divisibili in parti aliquote
determinate e misurabili. È insita dunque in questa loro funzione la
possibilità che esse possano distinguersi quantitativamentedai valori.
Poiché non sono più immediatamente uniti ad esso, ed anzi costituiscono delle
entità presupposte, prezzo e denaro vengono a dipendere da meccanismi
particolari propri e in genere da “un complicato processo sociale”
[157] tramite il quale possono dunque
assumere grandezze diverse dalla loro fonte
[158]. Poiché adesso tra il tempo di lavoro
necessario e i prezzi di produzione vi stanno le complesse metamorfosi della
merce nella circolazione, che innescano la redistribuzione del plusvalore
estratto dalla forza lavoro tra i singoli capitali impegnati nei diversi rami
della produzione, ecco che un certo divario quantitativo tra le due istanze può
prendere forma senza annullare tuttavia la loro identità di genere, la loro
sostanziale uguaglianza.
Da questo punto di vista, spiega Marx, è la stessa “forma di
prezzo” a generare lo scarto numerico tra prezzi di mercato e valori: “La possibilità
di un’incogruenza quantitativa tra prezzo e grandezza di valore, ossia la
possibilità che il prezzo diverga dalla grandezza di valore, sta dunque nella forma stessa di
prezzo”
[159]. Oltretutto, questo divario potenziale
non rappresenta affatto “un difetto di tale forma, anzi, al contrario, ne fa la
forma adeguata d’un modo di produzione nel quale la regola si può far valere
soltanto come legge della sregolatezza, operante alla cieca”
[160] .
Il differente ammontare di prezzi e valore, se “i prezzi
sono un’espressione quantitativamente incongruentedel valore della merce”
[161], non deriva tuttavia soltanto dal fatto
che nella concorrenza, come si sa, a causa della ripartizione del plusvalore
complessivo tra i vari capitali in conseguenza della loro differente
composizione organica, i prezzi ora stanno sotto ora stanno sopra il valore
delle merci prodotte nei vari rami della produzione sociale. In effetti, “si
deve soltanto al caso se il plusvalore, e quindi il profitto, effettivamente
prodotto in una particolare sfera di produzione, coincide col profitto
contenuto nel prezzo di vendita della merce”
[162]. Il fondamento primo di tale divario
discende invece prima di tutto dal fatto che una precisa, matematica,
concordanza di cifre tra valori e prezzi (di produzione e di mercato), nel
pensiero di Marx, non è possibile per ragioni di principio. Non esiste alcuna
aporia logica, a differenza di quanto il dibattito ormai centenario sul valore
ha sempre affermato (o per confermarla o per tentare di risolverla),
nell’impostazione marxiana della trasformazione dei valori in prezzi. Al
contrario, essa è estremamente coerente con tutti i più importanti
principi epistemologici di Marx e da questi ultimi in definitiva
dipende. Se la si volesse confutare, o se si volesse dimostrare il suo presunto
fallimento, si dovrebbe prima di tutto dimostrare l’infondatezza di quei
presupposti, cosa che gli economisti (ed in genere tutti quanti) nemmeno si
sono sognati di pensare naturalmente. Poiché ignorano completamente la
complessa natura interna del pensiero scientifico e dei suoi paradigmi
epistemologici, neanche potevano immaginarsi di dover prima riferire il
problema in oggetto alla sua fonte concettuale per poterlo capire.
Nella spiegazione che Marx ci ha presentato, infatti, i
prezzi e il denaro rappresentano le uniche istituzioni mediante le
quali effettuare il calcolo dei profitti e della ripartizione del plusvalore
tra i vari segmenti del capitale complessivo sociale. Se queste forme
costituiscono degli effetti tangibili del valore, è ovvio, discende in linea
retta da questa premessa, che il loro ammontare possa essere determinato
soltanto tramite grafici ed algoritmi matematici in cui il tempo di lavoro
sociale direttamente non può figurare. Poiché nella realtà di
superficie, quella visibile ed additabile determinata dal processo di sviluppo
del valore, esistono soltanto denaro e prezzi, ecco che ogni quantificazione e
computazione non potrà che essere fatta mediante queste due unità di misura,
giacché nel mondo della concorrenza non v’è alcun’altra entità (se non quantità
fisiche di merci) mediante cui poter affettuare dei calcoli. Pretendere di
poter mettere in parallelo valori e prezzi per controllare la loro concordanza
quantitativa sarebbe come voler rendere direttamente commensurabili lo stato
termico di un sistema e la sua temperatura. Vale a dire, diventerebbe del tutto
inutile misurarne la temperatura. L’operazione, anzi, verrebbe resa
impossibile. L’illogicità del problema, come si vede, sta nella sua stessa
formulazione
[163].
In realtà, dunque, come Marx ha sempre precisato prendendo
come punto di partenza del suo discorso lo scambio di equivalenti, i suoi
calcoli basati sull’identità di valori e prezzi “valgono solo come
illustrazione”
[164], giacché neanche i “prezzi medi
coincidono direttamente con le grandezze di valore delle merci”
[165]. Inutile dire che questo divieto deriva
dalla natura stessa del valore. Se dalla sua dinamica intrinseca discendono i
fenomeni della concorrenza, se questi ultimi sono le sue mediate forme
d’espressione, in pari tempo tali suoi modi d’esistenza empirici rendono
impossibile poter vedere la loro causa, il meccanismo interno da cui pure sono
prodotti. Se nella concorrenza “tutto appare invertito”
[166], è ovvio, è insito in questo stesso
carattere della realtà, che sia impossibile poter toccare con mano, o computare
attraverso formule matematiche, la funzione regolativa del valore nel
determinare i movimenti dei prezzi. Se i valori rappresentano la causa genetica
dei prezzi che rende possibile il calcolo delle loro grandezze relative, essi
possono tuttavia determinarli solo “in ultima analisi”
[167], giacché “la trasformazione dei valori
in prezzi di produzione impedisce di vedere la base su cui si fonda la
determinazione del valore”
[168].
In sintesi, nella misura in cui Marx spiega la nascita dei
prezzi e del denaro dal valore, egli può considerarli o supporli identici.
D’altro canto, nella misura in cui il valore si distingue dai prezzi e dal
denaro, ecco che essi tanto possono quantitativamente divergere in conseguenza
della ridistribuzione del plusvalore tra i diversi capitali operata dalla
concorrenza, quanto il valore può svolgere la sua funzione di “centro di
gravità” di tutto il meccanismo senza alcun bisogno di dover comparire sul
davanti della scena. Anzi, proprio perché, come dice Marx, è scomparso nei suoi
risultati “senza lasciar traccia”, esso può funzionare come una sorta
d’attrattore invisibile dei prezzi. Da questo punto di vista, la discrepanza
numerica tra valori e prezzi, in altre parole, non può avere alcuna rilevanza
concettuale nel pensiero di Marx, giacché mentre i valori sono una categoria
della mente - “un schema symbolique”, come l’ha definito Duhem -, i prezzi
rappresentano delle entità e dei criteri di calcolo appartenenti ad un diverso
livello di realtà. Si può correlare tramite grandezze matematiche, che so, il
volume di un’idea a priori e quello del suo oggetto d’esperienza? D’altro
canto, come dice Marx, o potete spiegare la cosa su quella base, o non potete
spiegarvela affatto
[169]. La trasformazione quantitativa dei
valori in prezzi, così com’è stata impostata dalla ferrea logica positivistica
degli economisti, marxisti e no, secondo la quale è razionale solo ciò che si
può misurare
[170], non ha senso alcuno nel pensiero di
Marx, semplicemente perché, dovendo correlare su base numerica un concetto e
delle forme empiriche, risulterebbe assurda
[171].
Oltretutto, come bene ha chiarito Feyerabend, “an agreement of numbers does
not tell us anything about the entities to which the numbers belong”[172].
L’interpretazione del valore come “cieca legge di natura”
determinante le oscillazioni e le fluttuazioni tanto dei prezzi di produzione
quanto dei cicli economici nel loro complesso trova invece una sua
legittimazione concettuale ed una più sofisticata spiegazione nel pensiero
scientifico del suo tempo. Se la legge del valore ha le complesse
caratteristiche teoriche che ha – sostanzialmente: identità/distinzione
contestuali coi prezzi e il denaro (con tutti i corollari insiti in questa
coppia: dall’autoreferenza delle forme alla natura della concorrenza) + punto
d’attrazione intorno a cui gravitano i prezzi – ciò è dovuto in primo luogo
alla maniera in cui la scienza dell’epoca si rappresentava il rapporto tra le
cause dei fenomeni naturali e i loro effetti visibili e quantificabili. Che
interpretazione davano di questa relazione gli scienziati, primo tra tutti
ovviamente Laplace, sicuramente letti da Marx? Secondo il celebre astronomo e
matematico francese “tous les événements, ceux même qui par leur petitesse,
semblent ne pas tenir aux grandes lois de la nature, en sont une suite aussi
nécessaire que les révolutions du soleil”. Da questo punto di vista, le “causes
finales”, lo “hasard” e in genere tutte le “causes imaginaires” dei fenomeni
non sono altro che “l’expression de l’ignorance où nous sommes des véritable causes”
[173].
Nel mondo fisico e nell’intero sistema dell’universo
agiscono soltanto le “lois immuables de la nature”
[174] che però vengono da noi conosciute
in modo probabilistico in ragione prima di tutto del nostro intelletto finito e
limitato. Benché la nostra comprensione degli eventi non possa essere che
relativa e sempre meglio approssimata, essa può però tendere alla certezza in
conseguenza del fatto che, dato “l’ordre de la nature”, una certa
regolarità costante finisce sempre per imporsi tra i fenomeni
osservati e “au milieu des oscillations du hasard”
[175]. Se “les rapports des effets de la
nature, sont à peu près constans, quand ces effets sont considérés en grand
nombre”, allora è evidente, sostiene Laplace, che “dans une série d’événemens,
indéfiniment prolongée, l’action des causes régulières et constantes doit
l’emporter à la longue, sur celle des causes irrégulières”
[176].
Anche se talvolta si è tentati di attribuire a delle “circostances
accidentelles” variabili e imprevedibili lo sviluppo apparentemente erratico e
aleatorio degli avvenimenti empirici e dei fatti osservabili, in realtà
esistono sempre delle costanti in tale divenire, per quanto complesso e
intricato esso possa apparire a prima vista.
Infatti, in “toutes les combinaisons de la nature, dans lequelles les
forces constantes qui animent les êtres dont elles sont formées, établissent
des modes réguliers d’action et de changement”. Questo spiega dunque anche
perché “les phénomènes qui semblent le plus dépendre du hasard, présentent donc
en se multipliant, une tendance à se rapprocher sans cesse, de rapport fixes”. In
conclusione, al di là del corso apparentemente casuale delle cose, in cui una
serie infinita di variabili sembra rendere impossibile ogni ricerca di leggi,
un certo ordine costante finisce comunque con lo stabilirsi in mezzo alle
fluttuazioni irregolari dei fenomeni. Se “les phénomènes de la nature sont les
plus souvent enveloppés de tant de circostances étrangères” e se “un grand
nombre de causes perturbatrices y mêlent leur influence”
[177], tuttavia attraverso la moltiplicazione
delle osservazioni e l’analisi di un numero indefinito di casi sarebbe
possibile riconoscere l’esistenza nel reale di un principio legisimile.
Chiaramente si tratta di un ideale di ragione, giacché ci è impossibile
prendere in considerazione un numero infinito di eventi. D’altro canto, quanto
più grande è il numero dei fenomeni osservati, tanto più alta è la probabilità
che essi, mediamente, si comportino seguendo un certo ordine: “Au milieu des
causes variables et inconnues que nous comprenons sous le nom de hasard,
et qui rendent incertaine et irrégulière, la marche des événements, on voit
naître à mesure qu’ils se multiplient, une regularité frappante qui semble
tenir à un dessin”
[178]. Essa non è altro invece che uno
sviluppo delle possibilità inerenti agli avvenimenti stessi. In un certo senso,
essa è intrinseca al mondo reale, affiora dall’interno stesso dell’apparente
susseguirsi disordinato e senza regole dei fenomeni: “la régularité finit par
s’établir dans les choses même, les plus subordonnées à ce que nous nommons hasard”
[179].
La spiegazione di Laplace si estende naturalmente ad ogni
caso osservabile ed è perciò finalizzata all’interpretazione anche dei fenomeni
sociali. Che si tratti di fenomeni demografici, delle lotterie, dell’economia
politica, della storia o dell’astronomia
[180], la concezione in causa ritiene che sia
sempre possibile rinvenire nell’apparente distribuzione caotica degli eventi e
nelle loro anomalie un ordinamento razionale di forma causale, responsabile del
loro sviluppo secondo leggi
[181].
L’argomentazione di Laplace non rappresentava certo un
modello a sé stante nella comunità scientifica del tempo né esso è rimasto
confinato, come si sa
[182], nel Settecento. Condorcet, D’Alembert,
Jacques e Nicolas Bernouilli, Borda, de Moivre, persino Fermat
[183], ed insieme ad essi Hume, Locke, Smith
[184], in genere tutta l’economia politica
classica, con scopi differenti ovviamente, avevano cercato di applicare la
logica delle scienze naturali allo studio della società. Lo stesso John Stuart
Mill, “the Victorian philosopher of induction” come è stato definito
[185], nel suo monumentale System of
logic
[186] aveva largamente attinto alla
letteratura scientifica del periodo per argomentare e difendere la sua
interpretazione della conoscenza e perorare così l’uso dello “Scientific Method”
anche nell’interpretazione delle “Moral Sciences” cioè della società
[187]. D’altro canto, è nota l’ammirazione e
l’ampio utilizzo fatto da Marx delle opere di William Petty, il “fondatore
dell’economia politica moderna”, ed in particolare della sua Political
Arithmetick del 1691, un’opera che come è stato detto “founded the modern
science of statistics”
[188]. Inoltre, spiegando come i prezzi di
mercato aumentino o cadano rispetto ai “prezzi di produzione regolatori” e come
le loro fluttuazioni siano soggette alla “regolarità della loro reciproca compensazione”,
Marx cita espressamente un altro importante autore dell’epoca: “Troveremo qui
dominanti le medie regolatrici di cui Quételet ha dimostrato l’esistenza nei
fenomeni sociali”
[189]. Cosa sosteneva il famoso sociologo e
matematico belga? Cose in sostanza non molto diverse da quelle di Laplace.
Secondo Quételet, infatti, v’è uno stretto rapporto tra le leggi dominanti nel
mondo fisico e certe costanti riscontrabili nei fenomeni sociali. Infatti a suo
avviso “l’homme se trouve sous l’influence de causes dont la plupart sont
régulières et périodiques; et ont des effets également réguliers et périodiques”
[190], di modo che è possibile stabilire un
parallelo significativo tra ciò che accade in natura e le dinamiche che
prendono forma in società. Così, “l’analogie porterait à croire que, dans
l’état social, on peut s’attendre à retrouver, en général, tous les principes
de conservation qu’on observe dans les phénomènes naturels”
[191].
Se per studiare e comprendere questa legiformità risulta
indispensabile, quando si considerano grandi masse di dati, usare “le calcul
des probabilités afin d’éliminer des observations tout ce qui n’est que fortuit
et individuel”
[192], questo accorgimento è a sua volta
basato su un’altra convinzione di Quételet: “L’homme que je considère ici est,
dans la societé, l’analogue du centre de gravité dans le corps; il est la
moyenne autour de laquelle oscillent les élémens sociaux”
[193]. In società esisterebbe dunque un “centre
de gravité du système”, che tra l’altro “demeure invariablement en
équilibre”, al quale tutti i comportamenti individuali si rapporterebbero come
ad una sorta di meccanismo impersonale in grado di regolare il loro agire
razionale. Oltretutto, l’esistenza di questo “attrattore” può essere
controllata solo in modo indiretto e mediato, giacché per Quételet “il est des
élémens relatifs à l’homme qui ne peuvent être mesurés directment, et qui ne
sont appréciables que par leurs effets”
[194], cioè per le conseguenze che l’agire
volontario e cosciente dei soggetti induce nel sistema complessivo dei rapporti
sociali
[195].
Il nesso strettissimo tra teoria del valore e pensiero
scientifico del tempo risalta ancor più, oltre che attraverso i concetti
considerati finora e persino tramite il linguaggio usato
[196], se si considera il fatto che le tesi
di Quételet, che aveva del resto frequenti contatti e scambi con l’élite
intellettuale inglese di allora, venivano discusse anche nelle riviste
scientifiche dell’epoca, sicuramente conosciute da Marx.
John Herschel, in particolare, nella Edinburgh Review del
1850 dedica un lungo saggio al commento dell’interpretazione di Quételet che
costituisce un altro prezioso documento a riprova dell’origine scientifica dei
significati attribuiti da Marx alla teoria del valore. Cosa sostiene Herschel
in questo scritto?
Secondo lo
scienziato inglese la scienza ha come suo principale scopo quello di analizzare
“the complicated web of phenomena and superimposed uniformities, to which we
assign the name of inductive theorems, or laws of nature “[197]. Il corso degli eventi
naturali, per quanto rispondente al principio di causalità
[198], presenta dunque irregolarità e casi
fortuiti, la presenza di una miriade di concause accidentali e persino
secondarie che danno allo sviluppo legiforme dei fenomeni osservabili un
aspetto estremamente complicato e soggetto all’influenza di fattori
contingenti. Poiché, d’altra parte, il caso e l’aleatorio sono riconducubili ad
una nostra limitata conoscenza delle cause
[199], la nostra comprensione delle cose deve
per forza di cose fare affidamento sulla “law of probability”, il cui fine è
proprio quello di mettere in evidenza le regolarità emergenti all’interno di
avvenimenti apparentemente casuali e caotici.
Così,
spiega Herschel, “all experience tell us, that where efficient causes are
known, but from the complication of circumstances cannot be followed out into
their results, we may yet often discern plainly enough their tendencies,
and that these tendencies do result, in the long run, in roducing a
preponderance of events in their favour”[200]. In mezzo alle irregolarità,
casualità e anomalie dei fenomeni è dunque possibile discernere quanto meno
certe loro direzioni emergenti di cui è poi possibile calcolare le probabilità
di realizzazione.
La cosa
importante da sottolineare è che questo tipo di ricerca “discloses not causes,
but tendencies, working through opportunities”[201].
Se la
dinamica intricata e a prima vista irrazionale degli eventi, anche in società,
viene studiata prendendo in considerazione un numero molto elevato di casi, su
larga scala, allora si può osservare, afferma Herschel, la “mutual destruction
of accidental deviations from the regular results of permanent causes which
always take place when very numerous instances are brought into comparison”[202]. Date quelle condizioni, “the
irregularities disappear by mutual destruction, and the result exhibits the
tendency in question in its full prominence”. Questa è la migliore
dimostrazione, conclude Herschel, “that we have here arrived at a proof of a
tendency which must be taken as a law of human nature under the circumstances
in which it exists”[203].
Il comportamento apparentemente casuale e
contingente dei fenomeni naturali evidenzia dunque per Herschel delle tendenze
e delle medie legisimili che sono precisamente la maniera in cui le leggi più
intime del mondo reale (fisico e sociale) vengono da noi conosciute. Le cause
interne e spesso “concealed” della natura (materiale o umana), insomma, quelle
che correlano i fenomeni “in that invariable manner which is one of the
characters of efficient causation”
[204], si impogono - tramite l’eliminazione
delle irregolarità, delle fluttuazioni, delle deviazioni accidentali e
transitorie - attraverso i loro effetti
[205], che le fanno venire alla luce, o “to
emerge to view”
[206], in maniera percepibile e calcolabile,
assoggettabile alla computazione e quantificabile.
Può essere ritenuto un caso il fatto che un simile modello
teorico fosse tematizzato anche da William Whewell, cioè da uno studioso che lo
stesso Herschel indicava come il più eminente esponente di quella scuola
filosofica “almost diametrically opposite”
[207] al metodo induttivo? Evidentemente
no. Il problema è che tutti questi diversi orientamenti in merito alla natura
della conoscenza, a volte pensati e presentati come contrapposti, in realtà
condividono uno stesso paradigma epistemologico, rinvenibile proprio in una più
attenta analisi degli oggetti e dei concetti che essi tematizzano. La questione
in causa – l’esistenza nella “machinery” dell’Universo di “an invariable
average of most variable quantities”
[208], di una “regular recurrence
accompanying constant change”
[209] - è proprio una delle migliori
dimostrazioni di questa implicita e sottile (non meno che sotterranea e poco
visibile) complementarità.
Ovviamente sarebbe possibile addurre altre prove della
intima parentela concettuale della legge del valore con il pensiero scientifico
dei tempi di Marx. Mi sembra tuttavia superfluo insistere oltre su tale
evidente concordanza. È un fatto che Marx ha elaborato la sua interpretazione
del valore e del suo modus operandi pensando sicuramente alla contemporanea
rappresentazione che la scienza dell’epoca dava delle leggi di natura e della
maniera in cui queste potevano da noi essere riconosciute e comprese in mezzo
all’apparente caoticità e irregolarità di eventi a prima vista occasionali,
intricati e contingenti. Questa concezione scientifica, insieme alla sua
applicazione, a fini di conoscenza, anche ai fenomeni sociali da parte degli
stessi scienziati, è il nocciolo concettuale che probabilmente corroborava per
Marx la sua spiegazione delle cose, che conferiva alla sua dimostrazione tutta
l'autorità di un sistema di pensiero oggettivo allora in grande sviluppo e
pressoché indiscusso sul piano della interpretazione razionale dei fenomeni.
D’altro canto, il prestigio cognitivo della scienza è di certo apparso a Marx
pari al carattere sofisticato delle complesse categorie che essa aveva formato
nel corso della sua millenaria storia per rendersi intelligibili gli eventi
naturali, e che egli riteneva di poter finalizzare anche alla spiegazione delle
leggi riproduttive del modo di produzione capitalistico.
È comunque chiaro che la teoria del valore di Marx, così
come le altre idee scientifiche che ha usato nel corso della sua analisi, e
alle quali dà spesso un nuovo significato specificamente sociale, non è né
confutabile né tanto meno comprensibile al di fuori del contesto in cui è nata
e all’interno del quale ha fatto fiorire tutti i suoi complessi significati
concettuali. Se la si volesse invalidare definitivamente si dovrebbe essere
capaci anche di confutare quella razionalità scientifica dalla quale essa
sostanzialmente deriva il suo contenuto esplicativo
[210]. Inutile dire che la logica economica
nemmeno è capace di concepire una simile impresa (e anche i filosofi marxisti
hanno qualche difficoltà a capire la cosa)
[211]. Caso mai essa, come ci è noto, ha
sempre cercato nelle scienze naturali una legittimazione del suo discorso. La
cosa diventa tuttavia paradossale quando si pensa alla mole dell’apparato
matematico a volte usato nel corso della disputa, soprattutto dagli economisti,
per dimostrare l’incorenza formale del valore. Una particolare disciplina
scientifica viene così usata, tra l’altro da non matematici, per confutare
un’interpretazione inferita in sostanza dalla scienza moderna. Detta in altri
temini, gli economisti usano un singolo dipartimento del pensiero scientifico
di cui ignorano la complessità interna per refutare una concezione inferita in
ultima istanza proprio da tale pensiero. Non è surreale? Non è comico che chi
imputa una mortale aporia logica ad un dato discorso prenda le mosse proprio da
un presupposto contraddittorio? Non è incredibile che nelle centinaia di volumi
– di taglio filosofico, più strettamente economico, politico-ideologico,
persino epistemologico (Sohn-Rethel ad esempio)
[212] – dedicati in un modo o nell’altro
alla teoria del valore, o per refutarla o per convalidarla, nemmeno uno abbia
studiato o preso in considerazione le radici scientifiche dell’idea di Marx?
[213] È proprio vero quello che diceva
Bachelard (che pensasse dentro di sé a certi economisti?): “Quand on commence à
calculer l’incalculable, on ne sait pas ou l’on s’arrêtera”
[214]. La mia impressione, a parte ogni altra
considerazione sui reali obiettivi della controversia, è che a queste
interpretazioni ben si attagli un vecchio aforisma scientifico dell’Ottocento: “Ce
qui veut trop prouver ne prouve rien”
[215].
5. Engels: Die plumpe englische Methode
“Les premiers aperçus trompent
souvent et le vrai n’est pas
toujours vraisemblable” | P.-S. Laplace
Come è noto, uno dei difetti del volume di Darwin, la cui
importanza fu del resto subito rilevata da Engels ben prima di Marx
[216], sarebbe stato un certo empirismo
insito nel suo modo di trattare la materia d’indagine, empirismo che d’altra
parte Marx ed Engels ritenevano tipico, anche se non esclusivo, dell’intera
cultura anglosassone ed in specie degli economisti cosiddetti “volgari”
[217]. Ovviamente, lo studio della
natura juxta sua principia rappresentava uno dei capisaldi della
concezione materialista e dialettica del mondo sin dai suoi esordi. Insieme a
questa fondamentale premessa pari importanza veniva però data all’attività
concettuale avente il fine di scoprire le leggi di movimento e di
trasformazione della materia organizzata. Se la conoscenza scientifica si
occupava esclusivamente del mondo oggettivo fuori di noi, in pari tempo essa
sviluppava l’analisi di tale contesto attraverso il processo di pensiero a cui
veniva affidata una funzione attiva, tramite la formulazione di ipotesi e
congetture, nella comprensione dei dati d’esperienza. Grosso modo questo era il
modello epistemologico prevalente nelle scienze della natura secondo Marx ed
Engels
[218]. La natura ontologica, primordiale e a
tutto anteriore, della materia rappresentava l’oggetto per eccellenza della
razionalità scientifica, mentre questa ne rendeva intelligibile (sempre meglio
e più in profondità) la forma dinamica e legisimile attraverso l’attività
riflessiva, emendabile e modificabile, del pensiero sistematico e formale.
L’avversione per l’empirismo, induttivo o no, derivava dunque sostanzialmente
da questa interpretazione attiva del processo di conoscenza.
Ammettiamo che tale impostazione, secondo Marx ed Engels,
rappresentasse il vero approccio induttivo allo studio della natura, che il
sapere scientifico non fosse riducibile ad una mera generalizzazione di dati
empirici. Bene. Un problema cruciale sorge immediatamente. Era davvero quello
il metodo per eccellenza della scienza dell’epoca? Dominava davvero “l’induzione
baconiana-newtoniana” all’interno della comunità scientifica del tempo? In
altre parole, è mai esistito nella cultura scientifica europea un paradigma
cognitivo saldamente basato su quei due presupposti? La risposta, come ora
vedremo, non può che essere negativa. Caso mai è vero l’opposto.
Per dimostrare quanto sia errata e fuorviante la tesi in
questione, quanto poco essa corrisponda alla realtà, non c’è bisogno di
risalire a Newton e neppure a Francis Bacon. È sufficiente considerare con la
dovuta attenzione gli stessi scienziati conosciuti, letti e studiati da Marx ed
Engels. Il panorama delle tendenze epistemologiche allora presenti in campo
scientifico, esplicite oppure latenti, apparirà subito differente.
Innanzitutto, però, è bene precisare che lo stesso Darwin non professava
affatto alcun metodo induttivo poi applicato alle sue ricerche naturalistiche,
né tanto meno può definirsi un convinto assertore dell’empirismo (hard o soft
che dir si voglia). Come hanno dimostrato gli studi più recenti
[219], i supposti “Baconian principles”
[220] del pensiero darwiniano hanno poco
a che vedere con l’induzione o con mere generalizzazioni di fatti d’esperienza.
Benché lo stesso Darwin abbia cercato di accreditare l’idea di se stesso quale
scrupoloso “collector of facts”
[221], la realtà risulta essere diversa. Come
bene ha chiarito Ospovat, “the formation and trasformation of Darwin’s theory
represent not so much the results of an interaction between the creative
scientist and nature as between the scientist and socially costructed
conceptions of nature”. Persino quando Darwin era a più stretto contatto con la
materia di studio, come durante il suo viaggio intorno al mondo sul famoso
brigantino “Beagle”, “his interaction with nature was mediated by assumptions
and ways of perceiving nature that he derived from other naturalists, both his
predecessors and his contemporaries”
[222]. Da questo punto di vista, più che con
il mondo naturale l’intera attività di Darwin era in rapporto soprattutto con
le idee e le concezioni biologiche, evoluzionistiche e no, del suo milieu
culturale
[223].
Tutto si può dunque dire di Darwin meno che egli fosse un
empirista o che il suo metodo fosse “rozzo” e “goffo” come credevano,
nonostante la loro ammirazione per il grande naturalista, Marx ed Engels.
Secondo Ospovat, perfino quando parla di “facts” Darwin ha in mente
soprattutto “the product of considerable effort and creative thought of his
contemporaries”
[224].
Del resto, l’ambiente intellettuale frequentato da Darwin,
con il quale egli era in contatto epistolare, personale o per il tramite dei
volumi letti, pullulava di orientamenti teorici innovativi avversi in larga
parte all’induttivismo fino ad allora dominante nelle scienze naturali
[225]. Se per tutto il Settecento la “natural
theology”, con intenti descrittivi e catalogatori nonché di apologia del
Creatore, aveva rappresentato l’unica fonte per lo studio della storia
naturale, con l’inizio dell’Ottocento la fioritura e la diversificazione degli
indirizzi di ricerca nei più vari campi del sapere ad opera di scienziati come
Charles Lyell, Richard Owen, William B. Carpenter, Edward Forbes, Robert Knox,
Peter Mark Roget, John Goodsir – in larga parte conosciuti da Marx ed Engels -,
determineranno l’affiorare d’interpretazioni non strettamente empiriche della
natura. Sia che fossero intenzionate a riformulare su nuove basi la vecchia
impostazione teologica
[226], sia che volessero opporsi ad essa in
nome di un differente modello di conoscenza
[227], tutte le nuove tendenze scientifiche
mettevano comunque l’accento sull’attività congetturale della mente – gli “ideal
patterns” dell’osservatore e le sue assunzioni teoriche, dette anche “regulative
principles”
[228] - per la spiegazione dei fenomeni
naturali. Una nuova funzione esplicativa veniva dunque assegnata al
ragionamento ipotetico-deduttivo e al ruolo della ragione nel produrre
convincenti spiegazioni della complessità della natura. Tutti quei diversi
scienziati, si noti, avevano legami molto stretti sia tra di loro sia con lo
stesso Darwin, e ne influenzeranno profondamente il pensiero, William Whewell
compreso
[229].
È possibile tuttavia vedere all’opera le nuove tendenze
anche in altri ambiti scientifici e altri noti studiosi dell’epoca di Marx, ad
esempio in John Herschel, sulla carta uno dei rappresentanti più autorevoli ed
in vista dell’induttivismo inglese. Cosa sostiene in campo epistemologico il
celebre astronomo? Herschel è convinto che nella spiegazione dei fenomeni
fisici e più in generale naturali un ruolo fondamentale spetti alla ragione
soggettiva, che rende intelligibile le illusioni dell’apparenza (consentendoci
di evitare “the grossest errors”
[230] che possono derivarne) e ci
permette di organizzare in un sistema razionale l’ambiguità e
l’ambivalenza dell’esperienza empirica
[231]. Se da una parte i sensi sono “the only
inlets by which we receive impressions of facts”
[232] e prendiamo coscienza
dell’esistenza del mondo esterno, dall’altra tuttavia, giacché le nostre
percezioni sensoriali non sono completamente affidabili a causa dei loro
ineliminabili limiti, la funzione dell’attività cognitiva del soggetto diventa
decisiva per inquadrare in un ordine concettuale esplicativo le regolarità
naturali, l’ordinamento legisimile delle cose
[233].
La sola induzione non è in grado di poter produrre la
conoscenza delle leggi fisiche e la connessione regolare dei fenomeni. Da
questo punto di vista, anzi, gli “axioms of nature” debbono
piuttosto essere considerati come delle nostre “mental conventions”, nostri “statements”
[234] aventi lo scopo di esprimere la
continuità dell’intero “frame of nature”
[235] nella “form of a general
proposition”
[236]. Nonostante l’impegno profuso da
Herschel per argomentare una sostanziale differenza tra vera causa dei
fenomeni e il carattere arbitrario del ragionamento ipotetico
[237], è evidente la tendenza convenzionale
del suo pensiero. Anche se i nostri sistemi d’interpretazione devono essere
confermati e convalidati dal loro “agreement with facts” e dalla loro verifica
empirica
[238], resta il fatto che la comprensione
della natura dipende dall’attività razionale della mente attiva che escogita
congetture e avanza spiegazioni ipotetiche del suo oggetto. Il controllo delle
nostre teorie è solo a posteriori, e avviene attraverso l’uso della natura
quale cartina di tornasole dei nostri processi di pensiero, delle “rational
speculations”
[239] da noi formulate per renderci
intelligibile il mondo fisico
[240].
D’altro canto, l’enfasi induttiva affiorante talvolta dal
discorso di Herschel
[241] è solo in realtà la foglia di fico
sotto la quale egli tenta di nascondere, coscientemente o meno poca importa, le
propensioni costruttiviste implicite nella sua argomentazione. Infatti, se “the
principle of discovery”
[242] si basa sulla rigorosa connessione
e concatenazione di singoli ed individuali fatti d’esperienza dai quali possono
esser dedotte, tramite la nostra “active mind”, delle leggi generali
[243], si è anche visto che l’ordine
oggettivo della natura, sul quale si fonda l’intera procedura concettuale
succitata, rappresenta un postulato di ragione, un’idea regolativa
dell’osservatore. Da questo punto di vista, l’intero ideale induttivo si rivela
essere anch’esso soltanto un enunciato del soggetto scientifico e dei processi
di conoscenza attivati da quest’ultimo per spiegare il proprio contesto
sensibile. La concezione di Herschel, che con le sue parole “refers all our
knowledge to experience”
[244], non è affatto alternativa ad, né
diversa in sostanza da, un’impostazione convenzionale del sapere, giacché come
questa ha a suo presupposto epistemologico un assunto stipulativo del tutto
arbitrario che le fa da sostrato e rende possibile tutte le sue più tipiche
inferenze.
Al contrario di quanto credeva Herschel, la teoria della
conoscenza di William Whewell, il cui pensiero avrà del resto grande influenza
sull’intero ambiente dei naturalisti inglesi dell’età vittoriana
[245], tanto si rivelerà alla lunga vincente
rispetto all’induttivismo empirista quanto possiede una sua intrinseca
complessità epistemologica del tutto superiore a quella rivale. Avendone già
descritto il modello epistemologico
[246], faccio a meno di ripetermi e posso
nello stesso tempo rinviare il lettore a quel mio lavoro. La cosa paradossale,
tuttavia, è il fatto che una concezione parallela a quella di Whewell sia stata
sviluppata da Thomas Huxley, che forse per il suo dichiarato realismo
scientifico
[247], parimente avverso tanto al
materialismo di Cabanis quanto all’idealismo di Berkeley, avrebbe potuto essere
considerato caso mai un avversario del grande Master del Trinity College
[248]. In ogni modo, la concezione di Huxley
è altamente interessante sia per il suo privilegiato legame con Darwin, sia
perché è molto probabile che egli sia stato per Marx uno degli scienziati più
importanti tramite cui ha avuto accesso alla comprensione della razionalità
scientifica dell’epoca. Huxley, insomma, si configura come un vero e proprio
case-study mediante il quale illustrare il rapporto di Marx col processo di
formazione del nuovo paradigma allora in corso di definizione.
Cosa sostiene, in sostanza, Huxley in merito al carattere
distintivo del processo di conoscenza rispetto ad ogni forma di empirismo
(induttivo o meno)? Secondo il grande naturalista il metodo scientifico è
fondamentalmente basato sulla procedura che egli chiama “the “anticipation of
nature”“
[249]. Essa consiste in una “invention of
hypotehsis” - una “invention of verifiable hypothesis” - mediante la
quale “to go beyond fact”
[250]. A causa del carattere finito,
imperfetto, limitato e persino ingannevole delle nostre osservazioni, che non
potranno mai essere esatte e rigorose, il ricorso alla natura razionale e alle
congetture della nostra ragione sembra a Huxley l’unica via percorribile per
poter arrivare ad una spiegazione dei fenomeni naturali in qualche modo
intelligibile al nostro intelletto. Infatti, spiega Huxley, “all human inquiry
must stop somewhere; all our knowledge and all our investigation cannot take us
beyond the limits set by the finite and restricted character of our faculties,
or destroy the endless unknown, which accompanies, like its shadow, the endless
procession of phenomena”
[251].
Anticipando un’impostazione che sarebbe poi divenuta
celebre, grazie a Feyerabend, in pieno Novecento, Huxley sostiene che il
progresso della conoscenza scientifica si è avuto proprio grazie a congetture
che, benché controllabili, avevano “very little foundation to start with”.
Anzi, paradossalmente i passi in avanti fatti dalla scienza almeno dai tempi di
Keplero si sono realizzati “by the help of scientific errors”
[252], nella misura in cui questi ultimi
hanno comunque permesso l’acquisizione di date conoscenze e hanno preparato il
campo per nuove scoperte. Da questo punto di vista, “to guide observation and
experiment by verifiable hypothesis” non è “only permissible, but is one of the
conditions of progress” del sapere scientifico
[253].
Si capisce meglio adesso perché Huxley polemizzasse
apertamente con la cosiddetta “Baconian philosophy” e ritenesse opposto ai suoi
“pseudoscientific canons” il vero metodo della ricerca scientifica
[254]. Se certamente per Huxley “the prime
sources of knowledge” sono “the facts of Nature”
[255], in pari tempo egli si ritiene “incapable
of conceiving the existence of matter if there is no mind in which to picture
that existence”
[256]. Mondo reale e pensiero sono due
termini coesistenti e in coevoluzione entro un rapporto però in cui una
funzione dominante è svolta dalla nostra attività razionale e dalle congetture
da noi volta a volta formulate per interpretare il mondo empirico
[257]. Come spiega lo stesso Huxley in un
sintetico enunciato: “the supremacy of reason, is Science”
[258].
Le conseguenze epistemologiche di queste sottili
considerazioni controcorrente, in largo anticipo sui tempi del resto, sono
davvero notevoli. Dalla loro enunciazione infatti ne consegue che persino “the
dominant idea of modern thought”, quella che “underlies every process of
reasoning” ed è “the foundation of every act of the will” – vale a dire: “the
constancy of the order of Nature”
[259] e la “universality of the law of
causation”
[260] -, non rappresenta altro che un
assunto concettuale dell’osservatore (per la precisione: “a symbolic conception
of the universe”) funzionante “as a chart for the guidance of his practical
affairs”
[261]. Se le cose stanno così, secondo
Huxley, allora si può persino dire che tutti i principi più importanti della
scienza fisica – dalla causalità all’esistenza di un mondo oggettivo esterno –
rappresentano nostre “assumptions” o “axioms” senza alcun fondamento reale in
fenomeni materiali: “The validity of these postulates is a problem of
metaphysics; they are neither self-evident nor are, strictlly speaking,
demonstrable”
[262].
La natura convenzionale di tutte queste assunzioni - Huxley
lo ripete a più riprese: esse sono “mere unverified or unverifiable
speculations”
[263] -, non pone tuttavia nessun
insormontabile ostacolo alla nostra conoscenza degli oggetti e degli eventi
tangibili, constatabili e misurabili, giacché tramite esse siamo comunque in
grado di formulare previsioni interpretative che possiamo poi sottoporre ad
accertamento sperimentale (che, ci ricorda Huxley prefigurando la concezione di
Bachelard, è in ogni caso “observation under artificial conditions”)
[264].
In fin dei conti, sostiene Huxley, “the reconciliation of
physics and metaphysics”
[265] è possibile sotto il segno della
ragione scientifica e della sua impalcatura ipotetico-simbolica. Dopo tutto, “their
differences are complementary, not antagonistic”, ed è dunque possibile che
esse possano sin da adesso fondersi in un’unica forma di razionalità. Anzi,
secondo Huxley, “thought will never be completely fruitful until the one unites
with the other”
[266]. È in ogni modo evidente che il modello
epistemologico di Huxley non ha niente di materialistico
[267], se con questo ultimo termine si vuol
designare una concezione non idealista della realtà. Certamente, Huxley è
convinto, “with the Materialist, that the human body, like all living bodies,
is a machine, all the opetaions of which will, sooner or later, be explained on
physical principles”
[268]. Tuttavia, quando i materialisti e la
loro scuola
[269]“begin to talk about there being nothing
else in the universe but Matter and Force”, allora egli non può più concordare
con tale posizione: “I decline – spiega Huxley – to follow them”
[270].
Al contrario, afferma Huxley esplicitando fino in fondo il
suo pensiero, tutto quello che di sensato possiamo dire intorno alla
costituzione del mondo fisico, ai suoi fenomeni e alle regolarità che ne
governano la proliferazione e lo sviluppo complesso ha natura esclusivamente
congetturale e discende dall’attività concettuale della nostra mente. Ecco come
Huxley sintetizza la sua concezione: “It is an indisputable truth that what we
call the material world is only known to us under the forms of the ideal world”
(idea che in fisica verrà ripresa in pieno Novecento anche da Arthur S.
Eddington).
Se ciò è
vero, allora un’altra fondamentale proposizione segue da questo primo asserto: “by
physics all the phænomena of Nature are, in their ultimate analysis, known to
us only as facts of consciousness”. Da questo punto di vista, chiarisce
in conclusione ed in maniera inequivoca Huxley, si può persino sostenere una
tesi più generale, che tra l’altro precorre il Novecento e la scuola
epistemologica dell’autopoiesi: “all our knowledge is a knowledge of states of
consciousness”
[271].
Il costruttivismo radicale di Huxley, oltre a rappresentare
per i suoi tempi una tendenza eterodossa altamente originale, è stato da lui
stesso definito “a sort of shorthand Idealism”
[272] per l’enfasi portata sul processo
di pensiero quale essenziale e predominante componente del conoscere razionale,
di fatto quale l’unica fonte di tutto il nostro sapere. Se Descartes e Kant
sono per Huxley i precursori storici di questa impostazione epistemologica
[273], la sua interpretazione tende tuttavia
a ibridare i due modelli cognitivi per i motivi già spiegati. Se infatti il suo
“Idealism declare the ultimate fact of all knowledge to be consciousness, or,
in other words, a mental phenomenon”, contestualmente non va dimenticato che
esso si riferisce anche “to that correlation of all the phænomena of the
universe with matter and motion, which lies at the heart of modern physical
thought, and which most people call Materialism”
[274].
Così, se ad
avviso di Huxley “matter may be regarded as a form of thought, thought may be
regarded as a property of matter”, in quanto “each statement has a certain
relative truth”, quando si studia “the progress of science, the materialistic
terminology is in every way to be preferred”. Il perché è molto
semplice: “For it connects thought with the other phænomena of the universe,
and suggests inquiry into the nature of those physical conditions”
[275].
Huxley non rappresentava certo un punto di vista isolato e
solitario nel panorama della cultura scientifica del tempo. William Whewell era
forse stato l’antesignano di questa impostazione e probabilmente,
a dispetto di tutte le apparenze contrarie, perfino il maestro di
Huxley
[276], e comunque è indubbio il fatto che il
convenzionalismo teorico rappresentava una tendenza epistemologica diffusa a
livello europeo. Darwin stesso, come si è visto, la condivideva. Del resto,
alcuni altri scienziati famosi in tutta Europa per i loro innovativi lavori
scientifici e ben conosciuti anche da Marx avevano sostenuto, prima e dopo
Huxley, idee simili a quelle descritte in precedenza.
Johannes Peter Müller, ad esempio, il famoso fisiologo
tedesco alla cui scuola avevano studiato Theodore Schwann e Rudolf Virchov,
difendeva un’interpretazione biologica della conoscenza estremamente moderna,
in cui la percezione del mondo esterno è sempre un processo che avviene
all’interno del nostro corpo o nella nostra coscienza, nell’ambito della
riflessione mentale dell’osservatore. Anche se il mondo fisico rappresenta un
presupposto del pensare, l’attività intellettuale mediante la quale ne
costruiamo l’interpretazione rimane “une activité tout-à-fait indépendante de
la matière”
[277]. Da questo punto di vista, i concetti
tramite i quali spieghiamo il contesto sensibile che ci contorna non
rappresentano affatto un rapporto tra il soggetto senziente e la natura, bensì
sempre e soltanto un sistema teorico, una data conoscenza delle cose: “les
idées expriment les relations qui existent entre eux”
[278]. Come si vede, in merito alle questioni
di fondo non c’è una gran differenza rispetto alla scienza odierna
[279].
Questo orientamento epistemologico, già attivo nella scienza
ottocentesca, anche se rimarrà ancora a lungo latente, è tuttavia provato anche
dalle tesi sostenute da Jakob Schleiden, il botanico che insieme a Th. Schwann
costituisce una figura chiave della moderna “cell theory”
[280], e di cui Marx ed Engels, inutile
persino dirlo, avevano una conoscenza di prima mano
[281]. Cosa sostiene Schleiden? Una
interpretazione scientifica molto semplice: “Toute pensée qui se rapporte au
monde extérieur a dans le cerveau sa correlation”. In effetti, secondo lo
scienziato tedesco, i nostri organi di senso svolgono una funzione
intermediaria fondamentale tra la razionalità formale del soggetto e il mondo
dell’esperienza in cui viviamo. Solo che essi non ci mettono in relazione con
un oggetto distinto dal nostro raziocinio individuale, dai processi di pensiero
che attiviamo per renderci intelligibile l’esistenza. Al contrario: “Nous avons
une preuve décisive que nos perceptions sont de pures créations de notre
esprit, que nous ne saisissont point le monde extérieur tel qu’il est, mais que
l’action qu’il nous fait subir est une simple occasion d’exercer notre esprit,
dont les produits sont tantôt en rapport avec le monde extériur, et en
sont tantôt entièrement indépendants”
[282].
Considerazioni
non molto dissimili, anche se magari più caute o non apertamente costruttiviste
come le precedenti, venivano avanzate anche da William Boyd Carpenter, altro
scienziato studiato e apprezzato da Marx, il quale nella sua opera più nota
giungerà ad affermare che il pensiero, proprio perché riceve “trough the
sensory ganglia that consciousness of external objects and events, which is the
spring of its intellectual or emotional operations”, non ha in effetti alcuna “communication
with the external world”[283]. Tutta la conoscenza
elaborata dall’attività concettuale dell’osservatore, anzi, dipende interamente
dai processi che si svolgono all’interno della nostra logica razionale o
ragione selettiva: “It is upon the ideas aroused in the Mind by Sensorial
changes […] taht all acts of Reasoning are based”
[284].
Se vi fossero ancora dei dubbi sull’importanza e il peso
teorici di queste interpretazioni scientifiche, si può allora citare un altro
esempio eclatante della nuova epistemologia allora era in fase di costituzione,
e si tratta ovviamente anche in questo caso di uno scienziato che Marx aveva
letto e riversato poi persino in Das Kapital
[285]: Adolphe Wurtz. Il celebre chimico
francese, uno dei pionieri della sintesi organica, sostiene che “l’hypothèse”
degli atomi si trova in effetti “à la base des idées modernes sur la
constitution de la matière”
[286]. La forma congetturale di questo
principio rappresenta forse una deduzione da fatti d’esperienza o un’inferenza
da dati empirici previamente osservati? Come probabilmente ci direbbe Wurtz: Il
n’en est rien. Con l’assunzione in oggetto, all’inverso, “nous pénétrons dans
un monde invisible, inabordable par l’expérimentation directe”, anche se poi “les
hypothèses qui y donnent accès peuvent être vérifiées dans quelques-une de
leurs conséquences et acquérir par là quelque degré de possibilité”
[287]. Il principio teorico di partenza,
dunque, è un postulato della nostra mente razionale, un enunciato convenzionale
attraverso il quale ci rendiamo possibile l’analisi scientifica della materia e
le “ordonnances immuables de la nature”
[288]. In ogni caso, se gli atomi sono “une
cause première et profonde” dei corpi naturali, se essi determinano la stessa
loro “forme physique” in termini che non sempre “sont saisissables” nella loro
completezza
[289], resta il fatto che essi posseggono
natura stipulativa ed arbitraria, rappresentano comunque un’idea regolativa
posta in essere dal soggetto scientifico per spiegare determinati fenomeni.
Come afferma Wurtz stesso in una formulazione di sintesi, “tout cela est
logique”. Infatti, “en admettant l’existence des atomes, nou
faisons une hypothèse: il faut la concevoir aussi large que
possible, de façons à en faire découler tous les faits et rendre
inutiles la création et l’emploi d’hypothèses secondaires”
[290]. Si potrebbe continuare a lungo a
documentare la presenza del costruttivismo convenzionalista nella scienza
dell’Ottocento, soprattutto nell’opera di scienziati sicuramente studiati da
Marx ed Engels
[291]. In ogni modo dovrebbe essere
abbastanza evidente il fatto che la tendenza ipotetico-deduttiva nel pensiero
scientifico del tempo non rappresentava una tendenza minoritaria o limitata ad
alcuni scienziati per così dire “relativisti”
[292]. Al contrario, la concezione allora
emergente conferiva un nuovo significato epistemologico persino allo stesso
realismo scientifico, attribuendogli adesso un contenuto razionale e arbitrario
che prima non possedeva. Mentre questo “paradigma shift”, come è stato definito
da Kuhn, è a mio avviso largamente dimostrato dalle prove addotte, molto più
problematico è comprendere perché esso non sia stato minimamente avvertito da
Marx ed Engels, né per criticarlo né per condividerlo. Penso che possano essere
almeno quattro le probabili ragioni del loro silenzio.
Una possibile spiegazione di questa omissione ci è forse
data dal fatto che quelle tendenze, benché esplicite e apertamente argomentate,
fossero allora poco visibili e non ancora ufficialmente accreditate nell’ambito
della comunità scientifica. In fin dei conti, esse sembravano convivere col vecchio
ideale della conoscenza oggettiva per l’accento che veniva comunque portato
sulla scoperta delle leggi di natura e sulla comprensione dell’ordine
immutabile dell’universo
[293] da parte dell’attività razionale
della mente. L’incipiente convenzionalismo, entro il quale sarebbe poi divenuto
chiaro che la natura svolge solo la funzione di convalida o meno delle nostre
teorie e che noi conosciamo sempre meglio soltanto la nostra conoscenza, poteva
sembrare infatti ancora perseguire l’antico fine di rappresentare o
rispecchiare nei nostri sistemi d’idee il mondo esterno, giacché l’attività
congetturale della ragione veniva apparentemente finalizzata alla
interpretazione della materia e delle sue leggi causali.
In secondo luogo, e questa è una circostanza che può aver
avuto il suo peso, bisogna ricordare il fatto che la nuova epistemologia si
presentava allora, per così dire, “scattered” in numerosi testi apparsi in
diversi periodi entro le varie discipline, senza che in nessuno studio
scientifico essa fosse stata presentata in forma organica e chiara. L’assenza
di una sua formulazione inequivoca e di sintesi può forse aver ostacolato la
sua comprensione da parte di Marx ed Engels, di solito così attenti
all’affiorare di nuovi stili di pensiero.
Una terza ragione, a mio avviso più convincente delle altre,
risiede nel fatto che Marx sembra più interessato a trovare nella scienza di
allora una conferma o una convalida della sua interpretazione piuttosto che
analizzare la sua intima e complessa, internamente differenziata, logica
epistemologica o teoria della conoscenza. La mia netta impressione è che Marx
abbia soprattutto cercato nell’autorità indiscussa del pensiero scientifico
dell’Ottocento, oltre ad una serie di categorie atte a spiegare la specifica
natura sociale del capitale e la sua dinamica, la legittimazione teorica della
sua concezione, come se la scienza confermasse in pieno la sua analisi del modo
di produzione capitalistico
[294]. Infine, sicuramente una decisiva
funzione di schermo e un potente ostacolo ad una più precisa comprensione delle
cose l‘ha svolta l’avversione per Hegel e per l’idealismo più in generale, cosa
che del resto fa parte dell’intera formazione culturale e filosofico-politica,
vero e proprio patrimonio genetico, di Marx ed Engels. Ciò che giustamente
Michael Rosen ha chiamato “the banal Marxist criticism” di Hegel, secondo la
quale il grande filosofo di Stoccarda prenderebbe “for mind what is
really matter”
[295], ha con molta probabilità rappresentato
un esiziale, tenace e duraturo, pregiudizio che ha sbarrato la strada ad ogni
messa in discussione di quel principio ontologico ritenuto specifico del
materialismo che invece proprio la scienza stava in quegli anni abbandonando.
Mentre il mondo fisico veniva sempre più chiaramente interpretato dal pensiero scientifico
come uno sfondo sensorio dell’attività conoscitiva, che per il resto veniva
costruita dai processi concettuali attivati dalla mente e controllati poi
tramite l’esperienza (esse stessa, d’altra parte, artificiale), fino all’ultimo
Marx ed Engels continueranno a ritenerla un fondamento oggettivo preesistente
ed indipendente dall’osservatore e a cui la razionalità umana doveva comunque
riferirsi per poter dare un reale significato empirico alla sue teorie. D’altro
canto, come vedremo nel prossimo paragrafo, se questo presunto presupposto
materialistico – l’autosufficienza della Materia – aveva lo scopo di confutare
tutte le tendenze spiritualistiche o metafisiche (vitalismo, deismo, Soul,
Spirit, teologia, sovrannaturale, misticismo, cause occulte, animismo,
apriorismo, ecc.) presenti nella ricerca scientifica del tempo (dalla geologia
alla biologia), esso diventa un non sense in rapporto alla società. Anzi.
Nella misura in cui infatti pretende di poter trattare la
realtà sociale come un contesto empirico esterno e indipendente dagli
individui, come il marxismo storico ha del resto sempre fatto, quel principio,
dal punto di vista teorico, diventa persino controproducente e fuorviante. I
soggetti sociali infatti, attraverso il loro agire in genere razionale, guidato
da determinati intenti e da date istituzioni (Stato, diritto, politica, denaro,
ecc.), finiscono sempre col costituire la loro cornice societaria,
che allora mai e poi mai potrà essere considerata esterna, preesistente e già data
- in una parola: differente -, rispetto alle loro pratiche intenzionali. Al
contrario, il sistema sociale consta di quello che i singoli fanno e
pensano, dell’intera loro prassi costruttiva (pensiero e attività politica in
senso lato). Presupporre una distinzione di natura tra le due istanze significa
in questo caso enunciare soltanto una contradictio in adjecto, che come tutte
le contraddizioni logiche si dissolve da sola.
D’altro canto, la tesi in oggetto è insostenibile anche per
un altro fondamentale problema. Si è visto infatti che nella sottile analisi di
Marx le diverse forme della società – istituzioni, razionalità regionali,
soggetti, ecc. – appaiono all’intelletto degli individui come una premessa
perché sono state intrinsecamente mediate dai processi riproduttivi del
capitale. È questo ultimo a porle nella loro funzione apparentemente fattuale,
da cui tutto sembra cominciare. Di fatto, però, esse rappresentano entità
preformate e dipendenti dalla loro causa istitutiva. Considerare un presupposto
dette istanze o anche la loro storia, come necessariamente deve fare il
postulato in questione
[296], vorrebbe dire sposare in pieno la
logica del capitale, l’identificazione di realtà sociale e datità delle forme,
che Marx ha invece radicalmente criticato. In altri termini, la concezione più
sofisticata e complessa di Marx, corroborata come si è visto dalla scienza
della sua epoca, confuta dalle fondamenta la sostenibilità o la coerenza logica
di quell’assunto concettuale, giacché essa, tramite le categorie mutuate dal
pensiero scientifico moderno, dimostra che esso costituisce il risultato o
l’effetto specifico di un processo di formazione determinato che ne condiziona
natura e struttura, forma e contenuto. L’idea in discussione si confuta dunque
da sé due volte. Innanzitutto, perché entra in contrapposizione con quello
stesso pensiero dal quale si pretendeva di derivarla, che asserisce il
contrario di quanto da essa sostenuto. Secondariamente, perché in società essa
rappresenta una contraddizione in termini, un asserto illogico che non può
stare in piedi né possedere alcun significato effettivo.
Anche questi fraintendimenti, tipici secondo me di tutto il
marxismo storicamente costituito, dipendono in ultima istanza dal fatto che
Marx ed Engels, paradossalmente, non hanno messo a fuoco le profonde
trasformazioni epistemologiche che nel corso di quegli anni prendevano piede
all’interno della scienza ottocentesca. Anche i loro travisamenti, almeno in
parte, sono riassumibili nel celebre aforisma di Diderot: On voit tout à
travers la lunette de son système, e sono precisamente questi “occhiali” ad
aver prodotto i silenzi di cui si è detto. Il loro antihegelismo, la feroce e
accecante polemica contro lo speculativo – un costume filosofico che coincide
d’altra parte con la loro formazione teorica -, hanno reso impossibile ad
entrambi capire fino in fondo quali effettivi mutamenti epistemologici stesse
attraversando allora la scienza da essi così intensamente studiata. Benché
questo sia solo uno dei motivi che può spiegare il loro atteggiamento
unilaterale nei confronti dell’epistemologia contemporanea, la sua importanza
mi sembra difficilmente contestabile.
Note
[85] Cfr. K. Marx, Il Capitale, cit.,
vol.1°, pp.43-48 (Werke, 23, pp.49-54).
[86] Tutti i passi citati ibid.
[87] Cfr. ibid., pp.75-76 (ibid.,
pp.75-76).
[88] ibid., p.59 (ibid., p.63).
[89] Tutti i passi citati ibid., p86, p.70,
p.58 (ibid., p.85, p.71, p.62).
[90] ibid., p.186 (ibid., p.169).
[91] id., Il Capitale: Libro I,
capitolo VI inedito. Risultati del processo di produzione immediato, La Nuova
Italia, Firenze,1974, p.32 (Resultate des unmittelbaren Produktionsprozesses,
Verlag Neue Kritik, Frankfurt, 1969, p.28).
[92] id., Lineamenti, cit., I, p.297
(Grundrisse, cit., p.216).
[93] id., Il Capitale, cit., vol. 1°,
p.51 (Werke, 23, p.56).
[94] ibid., p.71; corsivo mio (ibid.,
p.72).
[95] Tutti i passi citati ibid., pp.86-88
(ibid., pp.85-87).
[96] Ibid., p.59 (ibid. p.63).
[97] Cfr. ibid., p.100 (ibid., p.97). Cfr.
anche Per la critica dell’economia politica, Einaudi, Torino, 1975,
pp.969-970 (Werke, 13, pp.21-22).
[98] ibid., pp.60-64 (ibid., pp.64-67).
[99] Cfr. ibid., p.69 (ibid., p.71). Si
consideri ancora il seguente passo ibid., p.74 (ibid., p.75): “Quel che s’è
detto, parlando alla spiccia, all’inizio di questo capitolo, che la merce è
valore d’uso e valore di scambio, è erroneo, a volersi esprimere con
precisione. La merce è valore d’uso, ossia oggetto d’uso, e “valore”. Essa si
presenta come quella duplicità che è, appena il suo valore possiede una forma
fenomenica propria differente dalla sua forma naturale, quella del valore di
scambio; e non possiede mai questa forma se considerata isolatamente, ma sempre
e soltanto nel rapporto di valore o di scambio con una seconda merce, di genere
differente”.
[100] Cfr. ibid., pp.62-64 (ibid.,
pp.65-67). Cfr. anche Lineamenti, I, pp.77-81 (ibid., pp.60-63). Sul
valore come astrazione della mente e concetto euristico per l’analisi
razionale della realtà capitalistica cfr. ancoraManoscritti del 1861-1863,
Editori Riuniti, Roma, 1980, p.241 (Mega², II, 3.1, p.210): “Abbiamo
visto, il valore riposa su questo, che gli uomini si rapportano
reciprocamente ai loro lavori come a lavoro uguale e generale e, in questa
forma, sociale. Questa è un’astrazione, come ogni pensiero umano, e tra gli
uomini si danno rapporti sociali solo nella misura in cui gli uomini pensano e
possiedono questa capacità di astrazione dalla particolarità e accidentalità
sensibile”. Da questo punto di vista, spiega Marx, ne consegue che “naturalmente
i rapporti possono essere espressi soltanto sotto forma di idee”, in Lineamenti,
cit., I, p.107 (Grundrisse, cit., p.82). L’antiempirismo di Marx era noto,
forse il suo convenzionalismo un po’ meno.
[101] Cfr. ibid., p.74 (ibid., pp.74-75): “il
valore di una merce è espresso in maniera indipendente mediante la sua
rappresentazione come “valore di scambio”“.
[102] Tutti i passi citati ibid., pp.70-71;
corsivi miei (ibid., pp.71-72).
[103] Ibid., p.88; cosrivo mio (ibid.,
p.86). Cfr. ancora questo passo dei Lineamenti, cit., II, p.382
(Grundrisse, cit., p.579): “Il rozzo materialismo degli economisti, che li
porta a considerare i rapporti sociali di produzione degli uomini e le
determinazioni che le cose ricevono, in qunto sussunte sotto questi rapporti,
come proprietà naturali delle cose, è un idealismo altrettanto rozzo,
anzi un feticismo, che alle cose attribuisce relazioni sociali come loro
determinazioni immanenti, e così le mistifica”. Il concetto di feticismo qui
definito da Marx, come si vede, non ha niente a che vedere con nozioni come
alienazione, umanesimo, et similia, che sono tutte da dimenticare, da
mandare al macero. Non fanno altro infatti che portare fuori strada e
accrescere la confusione. L’idea di Marx ha una complessità logica interna che
queste categorie neanche sfiorano.
[104] I due passi citati ibid., pp.90-91;
corsivo mio (ibid., pp.88-89).
[105] Cfr. ibid., p.75 (ibid., p.76).
[106] I due passi citati ibid., p.99
(ibid., p.97)
[107] ibid., p.100 (ibid., p.97).
[108] ibid., p.86 (ibid., p.85).
[109] ibid., p.75 (ibid., p.76).
[110] Tutti i passi citati ibid., pp.58-59
(ibid., pp.62-63).
[111] Cfr. ibid., p.92 (ibid., p.90): “Ma
proprio questa forma già data, bella e pronta [fertige Form] – la forma di
denaro – del mondo delle merci vela materialmente, invece di svelarlo, il
carattere sociale dei lavori privati, e quindi i rapporti sociali dei
lavoratori privati”.
[112] Cfr. ibid., pp.115-126, p.161 (ibid.,
pp.109-118, p.147).
[113] ibid., p.123 (ibid., p.115).
[114] ibid., p.157 (ibid., p.144).
[115] ibid., p.116 (ibid., p.110).
[116] Cfr. ibid., pp.171-172 (ibid.,
p.156).
[117] ibid., p.177 (ibid., p.161).
[118] ibid., p.186 (ibid., p.169).
[119] ibid., p.123 (ibid., p.115).
[120] id., Lineamenti, cit., I, p.83
(Grundrisse, cit., p.65).
[121] id., Il Capitale, cit., vol. 1°,
p.113 (Werke, 23, p.108).
[122] Tutti i passi citati ibid.,
pp.112-113; corsivo mio (ibid., p.107). Cfr. ancora ibid., p.133, pp.159-160
(ibid., pp.123-124, pp.145-146).
[123] Cfr. id., Per la critica, cit.,
p.1097 (Werke, 13, p.125).
[124] Cfr. id., Il Capitale, cit.,
vol. 1°, pp.657-664 (Werke, 23, pp.559-564).
[125] Tutti i passi citati in id., Teorie
sul plusvalore, cit., vol. 3°, p.496; corsivo mio (Werke, 26.3,
pp.453-454). Cfr. anche pp.500-501 (ibid., pp.457-458).
[126] I due passi citati ibid., p.529
(ibid., p.484).
[127] ibid., p.521 (ibid., p.477).
[128] ibid., p.529 (ibid., p.484). Cfr.
inoltre Il Capitale, cit. vol. 3°, pp.540-542, p.1099, p.1114 (Werke, 25,
pp.405-406, p.825, p.837): “È proprio nella formula capitale-interesse che scompare
ogni mediazione e che il capitale è ridotto alla sua formula più generale,
ma proprio per questo di per sé incomprensibile e assurda” (corsivo mio); “La
forma: “capitale-interesse” posta come terza dopo “terra-rendita” e
“lavoro-salario” è molto più conseguente che “capitale-profitto”, in quanto nel
profitto rimane sempre un ricordo della sua origine, mentre nell’interesse non
soltanto è scomparso questo ricordo, ma vi è una forma saldamente contrapposta
a questa origine”.
[129] Cfr. gli argomenti esposti nel 3°
Paragrafo.
[130] Cfr. Il Capitale, cit., vol. 1°,
p.186 (Werke, 23, pp.168-169). È interessante leggere anche questo passo
delle Teorie sul plusvalore, cit., vol. 3°, p.175 (Werke, 26.3,
p.163): Le diverse categorie economiche, spiega Marx, “si rispecchiano in modo
molto distorto nella coscienza” dei soggetti sociali: “Essi si trovano posti
entro rapporti che determinano la loro mind senza che essi debbano
saperlo”.
[131] Id., Lineamenti, cit., II, p.498
(Grundrisse, cit., p.662).
[132] Cfr. id., Il Capitale, cit.,
vol. 3°, pp.1163-1164 (Werke, 25, pp.874-875).
[133] ibid., vol. 1°, p.91 (Werke, 23,
p.89).
[134] I due passi citati in Lineamenti,
cit., II, p.464 (Grundrisse, cit., pp.637-638). Come ci ricorda Marx, “la
concorrenza in generale, questo essenziale locomotore dell’economia borghese,
non ne stabilisce le leggi, ma ne è l’esecutivo. La concorrenza illimitata non
è perciò la premessa della verità delle leggi economiche, ma la conseguenza –
la forma fenomenica in cui si realizza la loro necessità” (ibid., p.198; ibid.,
p.450). Cfr. inoltre Il Capitale, cit., vol. 3°, pp.316-317 (Werke, 25,
p.235). Cosa pensare di quegli economisti e sociologi marxisti, Sweezy in testa
insieme a Gorz, che ritengono la concorrenza il tratto distintivo del
capitalismo?
[135] id., Il Capitale, cit., vol. 1°,
p.200 (Werke, 23, p.180).
[136] Cfr. ibid., vol. 3°, pp.1154-1167
(ibid., pp.867-877).
[137] ibid., p.1181 (ibid., p.887).
[138] ibid., p.232 (ibid., p.171).
[139] ibid., p.1112 (ibid., p.836).
[140] La metafora è dello stesso Marx: cfr.
ibid., vol. 1°, p.91 (ibid., p.89).
[141] Cfr. ad es. id., Lineamenti,
cit., I, pp.97-108 (Grundrisse, cit., pp.75-82).
[142] id., Il Capitale, cit., vol. 3°,
p.266 (Werke, 25, p.197).
[143] Cfr. ibid., p.257 (ibid., p.190).
[144] ibid., p.252 (ibid., p.186). Marx usa
l’espressione: “das Wertgestz beherrscht ihre Bewegung”.
[145] Ibid., p.255 (ibid., p.188).
[146] ibid., p.254 (ìbid., p.187).
[147] Cfr. ibid., pp.236-297 (ibid.,
pp.174-220).
[148] Tutti i passi citati in Per la
critica, cit., pp.1031-1036 (Werke, 13, pp.72-76).
[149] ibid., p.1044 (ibid., p.82).
[150] ibid., p.1043 (ibid., p.82)
[151] id., Il Capitale, cit., vol. 3°,
p.248 (Werke, 25, pp.182-183).
[152] Tutti i passi citati ibid., p.250
(ibid., p.184). Cfr. ancora ibid., pp.277-281 (ibid., pp.205-209).
[153] Ibid., p.266 (ibid., p.197).
[154] Cfr. ibid., vol. 1°, p.265 (Werke, 23,
p.234). Cfr. anche ibid., vol. 3°, p.273 (ibid., p.203).
[155] ibid., vol. 3°, p.490; corsivo mio
(Werke, 25, p.367). Del resto, in questa stessa pagina Marx sostiene che”il
prezzo di mercato si distingue dal valore non qualittativamente, ma solo
quantitativamente, solo per quanto riguarda la grandezza di valore”.
[156] ibid., p.273 (ibid. p.203).
[157] ibid., pp.1113-1114 (ibid.,
pp.836-837).
[158] Cfr. ibid., pp.239-240 (ibid.,
pp.176-178).
[159] Ibid., vol. 1°, p.124 (ibid., p.117).
Così prosegue il passo citato: “La forma di prezzo, tuttavia non ammette
soltanto la possibilità d’una incongruenza quantitativa fra grandezza
di valore e prezzo, cioè fra la grandezza di valore e la sua espressione di
denaro, ma può accogliere una contraddizione qualitativa, cosicché il
prezzo, in genere, cessi d’essere espressione di valore, benché il denaro
sia soltanto la forma di valore delle merci”.
[161] id., Per la critica, cit.,
p.1338; corsivo mio.
[162] Id., Il Capitale, cit., vol. 3°,
p.240 (ibid., p.177).
[163] Un’ulteriore ed interessantissima
riprova, per quanto indiretta, delle radici scientifiche del ragionamento di
Marx ci è data da un famoso fisico ed epistemologo francese, che certo delle
cose qui in discussione era completamente all’oscuro. Pierre Duhem, nel suo Prémices
philosophiques già citato, spiega infatti in maniera esemplare, e proprio
rifacendosi alla misurazione di una grandezza fisica, che tra le due idee -
tra il calore di un corpo e la sua temperatura - “il n y a aucune espèce de
relation de nature”, semplicemente perché la temperatura rappresenta o
esprime le proprietà del calore: “l’une devient le symbole de l’autre”.
Le due nozioni, per quanto siano correlabili attraverso l’interpretazione
dell’osservatore, non possono tuttavia ricalcarsi totalmente dal punto di vista
numerico né ammettere la loro addizione. Mentre il calore “n’est pas réductible
à une grandeur”, la temperatura, che è una quantità algebrica, ammette al
contrario una sua computazione matematica: “la température peut être ajoutée à
une autre température, être multipliée ou divisée par un nombre”. Ciò significa
che nella scienza non di dà alcun “décalque fidèle et scrupuleusement exact des
phénomènes”. Al contrario, la razionalità scientifica “substitue” o “remplace”
la molteplicità e la complicazione, lo “inextricable chaos” dei fatti
d’esperienza con “une sorte de représentation symbolique, de schéma”
concettuale che opera la “transformation” dei dati empirici e la “transposition”
dei fatti osservati “dans le monde abstrait et schématique crée par les
théories physiques”. Ecco perché sarebbe inutile e persino logicamente
contraddittorio andare alla ricerca di una equivalenza esatta tra la “traduction
symbolique” e i dati d’esperienza. Nelle teorie scientifiche non può esservi
alcun “récit des faits constatés”. Per due ragioni di fondo, una
epistemologica, l’altra fisica. Prima di tutto, perché queste interpretazioni costituiscono
“un ensemble de conventions” derivanti “du choix des hypothèses” deciso
dall’osservatore. Da questo punto di vista, ne consegue persino che non sono le
nostre spiegazioni delle cose ad essere verificate dai dati empirici, bensì è
il mondo fisico che serve da convalida o meno delle nostre teorie. Le
proposizioni di una teoria fisica “ne sont nullement le récit de certains
faits; ce sont des énoncés abstraits auxquels vous ne pourrez attacher aucun
sens, si vous ne connaissez pas les thépries physiques admises par l’auter”. In
una data interpretazione scientifica dei fenomeni “les théories seules fixent
le sens et la correspondance avec le faits”: “c’est seulement après que [le
physicien] aura constitué un corps étendue de doctrine, après qu’il aura
constitué une théorie complète, qu’il pourra comparer à l’expérience les
conséquences de cette théorie”. In secondo luogo, se “le symbole abstrait ne
peut être la répresentation adéquate du fait concret, le fait concret ne peut
être la réalisation du symbole abstrait”, se dunque lo “schéma abstrait” che
spiega i dati d’esperienza “ne peut être l’exact équivalent, la relation fidèle”
del suo oggetto, tutto questo deriva a sua volta dal fatto che le cause degli
eventi fisici sono comprensibili soltanto tramite le conseguenze che esse
inducono nei fenomeni osservabili e quantificabili del mondo dell’esperienza
(Tutti i passi citati ibid., pp.4-8, pp.150-175). In natura, ed è questa la
parte del discorso di Duhem che qui più interessa, si possono misurare solo gli
effetti delle reali cause attive, che molto spesso, se non sempre, rimangono
invisibili. Se io misuro la magnitudo di un sisma, devo comunque assumere
sempre che esista una differenza logica sostanziale tra il movimento e la
frizione delle diverse placche continentali – non osservabili – e
l’energia – misurabile - che si libera nella loro collisione e che
viene poi apprezzata e stimata quantitativamente dalla magnitudo. La stessa
cosa avviene con le maree. Non si vede affatto la curvatura dello spazio
indotta dalla massa della luna, ma solo i suoi effetti, ed è poi la scala di
grandezza di questi ultimi che può essere accertata. Stanti queste condizioni,
per lo “schéma symbolique” o sistema di concetti con cui ci rendiamo
intelligibile il mondo reale (fisico o sociale) semplicemente non ha alcun
senso razionale – in linea di principio - postulare qualsivoglia
coincidenza numerica tra le due nozioni. Se si vuol conoscere i meccanismi con
cui opera la Natura, nella scienza bisogna insomma presupporre il fatto che è
impossibile far coincidere la causa di un fenomeno con la sua misura. Per
essa persino pensarlo è un nonsenso. Si noti, poi, che la spiegazione di Duhem
era già stata avanzata, benché in forma diversa e riferita allora al “calorico”,
all’elettricità e alla forza di gravità, da J. Herschel nel 1831: cfr. a questo
proposito il suo A preliminary discourse, cit., pp.191-196. In conclusione
allora, per tornare a Marx, i valori sono il calore e i prezzi-denaro la sua
temperatura. In quest’ambito, l’esasperata ricerca della loro concordanza
quantitativa si basa dunque su un travisamento ed una sostanziale ignoranza
dell’effettivo status cognitivo interno del pensiero scientifico.
[164] Cfr. id., Il Capitale, cit.,
vol. 1°, p.265 (Werke, 23, p.234).
[165] ibid., p.200 (ibid., pp.180-181).
[166] ibid., vol. 3°, p.296 (Werke, 25,
p.219).
[168] ibid., p.240 (ibid., pp.177-178). Si
veda ancora questo passo ibid., p.239 (ibid., p.177): “il plusvalore, una volta
assunta la sua nuova forma di profitto, rinnega la sua origine, perde il suo
carattere e diviene irriconoscibile”.
[169] Cfr. id., Salario, prezzo e
profitto, Editori Riuniti, Roma, 1977, p.67 (Werke, 16, p.129).
[170] Questa logica risale, sembra, ad
un’affermazione di Lord Kelvin: “Si sa ben poco di qualcosa se non la si può
misurare”, asserto che d’altro canto ha come suo necessario corollario un altro
principio: le cose che non si possono osservare non esistono, ergo ciò che non
si può misurare non esiste. Cfr. I. Hacking, Il caso domato, il
Saggiatore, Milano, 1994, p.90; P. Feyerabend, Come essere un buon
empirista, Borla, Roma, 1982.
[171] Si ha proprio la netta impressione
che tutto il dibattito storico sul valore - a cominciare dalla Prefazione di
Engels al 3° Libro del Capitale e dal saggio di Conrad Schmidt del 1889: Durchnittsprofitrate
auf Grundlage des Marx’schen Wertgesetzes – sia stato una discussione sul
sesso degli angeli, una fiera lotta contro i mulini a vento, che ha preso le
mosse da un eclatante fraintendimento della logica di Marx da parte dell’intelletto
positivistico degli economisti, che hanno bellamente ignorato i paradigmi
scientifici dell’epoca e ciò che essi implicavano per la conoscenza razionale
del mondo sociale. Gli equivoci e i travisamenti iniziali si sono poi avvitati
– in apparenza senza fine, giacché il bavardage continua ancora oggi
– su se stessi, come nel più classico dei dibattiti accademici.
[172] Cfr. P. Feyerabend, Farewell to
reason, Verso, London, 1987, p.215.
[173] Tutti i passi citati in P.-S.
Laplace, Essai philosophique sur les probabilités, Paris, 1814, p.2.
[175] I due passi citati ibid., pp.1-3.
[176] I due passi citati ibid., pp.42-43.
[177] Tutti i passi citati ibid., pp.48-49.
[180] Cfr. ibid., rispettivamente,
pp.44-47, pp.73 e sgg., pp.58-59.
[182] Cfr. ad es. I. Hacking, Il caso
domato, già citato.
[183] Cfr. il Commentaire di R.
Rashed al volume di Condorcet, Mathématique et societé, Hermann, Paris,
1974, pp.13-86.
[184] Cfr. di Varii Auctores, The
ferment of knowledge. Studies in the historiograhy of eighteenth-century
science, Cambridge U. P., 1980; R. Holson, Scottish philosphy and British
physics 1750-1880, già citato.
[185] Cfr. R. E. Butts, Whewell’s
logic of induction, in Varii Auctores, Foundations of scientific
method. The nineteenth century, Indiana U. P., 1973, p.53.
[186] New York, 1874 (La prima edizione
inglese del volume è del 1843).
[187] Cfr. ibid., p.579.
D’altro canto, come ha spiegato Butts, “Hume
was his progenitor” (cfr. il suo Whewell logic of induction, cit.,
pp.53-54).
[188] Cfr. P. Wiener, Dictionary of
the history of ideas, Scribner, New York, 1973, vol. II, p.45. Aveva torto Marx
quando definiva Petty ”il padre dell’economia politica, che in un
certo senso è anche l’inventore della statistica>? Cfr. Il Capitale,
cit., vol. 1°, p.330. Si veda anche Per la critica, cit., pp.989-992
(Werke, 13, pp.37-41). Il volume di Petty figura nella Biblioteca di Marx
nell’edizione del 1687: cfr Mega², Die Bibliotheken von Karl Marx und
Friedrich Engels, cit., p.512.
[189] Tutti i passi citati ibid., p.1155
(Werke, 25, p.868).
[190] A Quételet, Sur l’homme et le
dévelopmente de ses facultés. Essai de Physique sociale, Fayard, Paris, 1991,
p.38 (L’edizione originale dell’opera è del 1831).
[191] Ibid., p.41. Cfr. ancora ibid., pp.250-251:
“Cette extension d’une loi de la physique, qui se confirme de la manière la
plus hereuse quand on l’applique aux documens que fournit la societé, offre un
exemple nouveau des analogies qu’on trouve, dans bien de cas, entre les lois
qui règlent les phénomènes matériels et ceux qui sont relatifs à l’homme”.
[193] ibid., p.44. Cfr. ancora ibid., p.46:
“mais nous n’avons que des conjectures plus ou moin probable sur la marche du
centre de gravité du système, et sur la direction du mouvement: il peut se
faire que pendant que toutes les parties se meuvent d’une manière progressive
ou rétrograde, le centre demeure invariablement en équilibre”. È indispensabile
vedere l’argomentazione di Quételet anche nel suo Théorie des
probabilités, Bruxelles, 1853, in particolare a p.47 e pp.101-102.
[195] Cfr. ad es. ibid., p.381: “On ne peut
aprécier les facultés [de l’homme] que par leurs effets, c’est-à-dire par les
actions ou les ouvrages qu’elles produisent”. Su questa questione cfr. in
generale le pp.371-381.
[196] È una cosa degna di nota il fatto che
l’espressione “centre de gravité” - impiegata anche da Marx in nozioni come Gravitationspunkt e Zentrum:
cfr Il Capitale, cit., vol. 1°, pp.254-255 (Werke, 23, pp.187-188) -,
oltre che da Quételet fosse usata anche da Laplace e John Herschel, e prima di
loro ovviamente da Newton. Cfr. i loro volumi: Exposition du système du
monde, cit., pp.214-217; Essays, cit., pp.25-27.
[197] J. Herschel, Essays, cit.,
p.366; corsivo mio.
[198] Cfr. ibid., pp.415-416.
[199] Cfr. ibid., pp.368 e sgg.
[201] ibid., p.420.
Si consideri inoltre il seguente passo ibid.,
pp.439-440: “For it must never be forgotten that tendencies only, not causes,
emerge as the first product of statistical inquiry”.
[203] I due passi citati ibid., pp.422-424.
[204] I due passi citati ibid., p.421.
[205] Cfr. ibid., p.436. È oltremodo
interessante leggere la spiegazione che Herschel dà di questo concetto. Cosa
sostiene dunque Herschel?
Vediamo:
“Into the philosophy of the abstract sciences the notion of cause does not
explicity enter; relations, not events, being the subject of inquiry in these
sciences. But in those where phenomena come to be explained, the reference of
these to their causes, and the development of the processes by which the
action of such causes is carried out through a chain of intermediate effects,
till tehy result in the phenomena observed, is our sole, at least our ultimate,
object of inquiry” (ibid., p.206; corsivo mio). Poco oltre lo scienziato
inglese afferma ancora: “There are, no doubt, other lines of experience in
which we also receive, but more obscurely, and as it were conversely, through
the medium of effect, the idea of cause” (ibid., p.209; corsivo mio).
[208] W. Whewell, Natural theology,
cit., p.75.
[210] È davvero significativo il fatto che
la moderna teoria del caos, insieme ad altri paradigmi scientifici del resto
come la fuzzy logic, corroborino ancor oggi l’interpretazione della
scienza dell’Ottocento e indirettamente di Marx, ritenendo l’aleatorio e il
casuale dei caratteri interni specifici della natura o del modo di manifestarsi
dei fenomeni naturali e dei sistemi osservati. Cfr. ad es. I. Prigogine, Entre
le temps et l’éternité, Fayard, Paris, 1988; D. Ruelle, Hasard et chaos,
Jacob, Paris, 1991; I. Ekeland, Au hasard, Seuil, Paris, 1991; Varii
Auctores, Le hasard aujourd’hui, Seuil, Paris, 1991; I. Prigogine, Le
leggi del caos, Laterza, Bari, 1993; B. Kosko,Fuzzy thinking, Flamingo,
London,1994; J. Cohen – I. Stewart, The collapse of chaos. Discovering
simplicity in a complex world, Viking, New York, 1994. Persino Karl Popper
difende questa interpretazione delle cose, cioè la conoscenza approssimativa,
probabilistica, statistica e stocastica della natura complessa, instabile e
aleatoria degli eventi naturali: cfr. il suo Conjectures and refutations,
Routledge, London, 1969.
[211] Jacques Bidet, ad esempio, ritiene
che la teoria del valore sia ormai divenuta “inutilisable” a la si debba “abandonner”
in favore della “notion de “valeur-travail-utilit锓 intesa “comme catégorie
anthropologique”: cfr. il suo Théorie de la modernité, PUF, Paris, 1990,
pp.196-232. Inutile dire, naturalmente, che non si prende in considerazione qui
nessuno degli scienziati studiati da Marx. Bidet ovviamente non è il solo. La
tendenza è diffusissima in tutto il marxismo storico. Persino volumi di 556
fitte pagine come quello, paradossale fin dal titolo, di Jon Elster, Making
sense of Marx, Cambridge U. P., 1987, ignorano completamente il retroterra
scientifico del pensiero marxiano. Ho sviluppato una critica di questo marxismo
nel mio Sistemi di conoscenza e Potere nella società capitalistica, già
citato.
[212] Cfr. A. Sohn-Rethel, Lavoro
intellettuale e lavoro manuale. Per la teoria della sintesi sociale,
Feltrinelli, Milano, 1979; Il denaro. L’apriori in contanti, Editori
Riuniti, Roma, 1991.
[213] Cfr. a mero titolo d’esempio, ché la
letteratura sull’argomento è vastissima, Varii Auctores, The value
controversy, Verso, London, 1981, che è una disputa tra filosofi, economisti e
sociologi; oppure Aa. Vv., Valori e prezzi nella teoria di Marx, Einaudi,
Torino, 1981, un altro dibattito tra economisti di scuole di pensiero europee
diverse. In ultimo, cfr. anche G. Dostaler, Un échiquier centenaire.
Théorie de la valeur et formation des prix, La Découverte, Paris, 1985; G.
Lunghini (a cura di), Valori e prezzi, UTET, Torino, 1993; G. Jorland, Les
paradoxes du capital, Odile Jacob, Paris, 1995. Persino Gérard Dumenil, nel
libro che impiega ben 398 pagine per spiegare proprio Le concept de loi
économique dans “Le Capital”, Maspero, Paris, 1978, non menziona mai un solo
lavoro scientifico letto da Marx e riversato poi nel suo magnus opus. La stessa
cosa va detta per i seguenti saggi di John Roemer, Value, exploitation and
class, Harwood, London, 1986; Analytical foundations of Marxian economic
theory, Cambridge U. P., 1988, e per quello di Michael Heinrich,
paradossalmente intitolato Die Wissenschaft vom Wert, VSA Verlag, Hamburg,
1991. C’è bisogno di altri esempi? E pensare che se avessero dato un’occhiata
più attenta ai sistemi di conoscenza odierni avrebbero potuto trovare non pochi
casi di epistemologie scientifiche che corroborano ancor oggi l’impostazione di
Marx. Si prenda ad es. il volume di Varii Auctores, Chaos et déterminisme,
Seuil, Paris, 1992, i cui autori sono tutti matematici, fisici, storici della
scienza, astronomi e biologi. Cosa sostengono questi scienziati? Una tesi molto
semplice, di cui tuttavia gli economisti non hanno mai avuto (né attualmente
hanno, marxisti e no poco importa) nozione. Per la scienza e per la meccanica
statistica in particolare di Boltzmann “il y a deux niveau de realité qui ne se
réduisent pas les uns aux autres et ne sont pas susceptible d’être décrits par
les mêmes modèles” (ibid., p.393). Ciò è logico se si pensa al fatto che,
secondo Planck, persino i quanti, per quanto misurabili, non sono visibili
(id., La conoscenza del mondo fisico, Bollati Boringhieri, Torino, 1993,
pp.75 e sgg.). Cfr. ancora, in ultimo, E. Laszlo, Alle radici
dell’universo, Sperling & Kupfer, Milano, 1993, pp.65-67: “Vi sono due
livelli di realtà, uno che si rivela nei fenomeni e un altro che vi sta sotto”,
tesi che riprende l’analisi di S Hawking, A brief history of time, Bantam,
New York, 1988.
[214] G. Bachelard, L’activité
rationaliste de la physique contemporaine, PUF, Paris, 1951, p.217.
[215] Al. Donné, Cours de microscopie,
Paris, 1844, p.302.
[216] Cfr. Werke, 29, p.524.
[217] Cfr. F. Vidoni, Natura e storia.
Marx ed Engels interpreti del darwinismo, Dedalo, Bari, 1985, pp.29-31. Conosco
solo due altri studi dedicati al rapporto di Marx ed Engels con Darwin: B
Naccache, Marx critique de Darwin, Vrin Paris, 1980; Y Christen, Le
Grand Affrontement. Marx et Darwin, Albin Michel, Paris, 1981.
[218] Cfr. ad es. i lavori di Engels: Ludwig
Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca; Antidühring; Dialettica
della natura.
[219] Cfr. D. Ospovat, The development
of Darwin’s theory. Natural history, natural theology, and natural selection,
1838-1859, Cambridge U. P., 1995
[220] ibid., p.252.
Per una illustrazione delle correnti
scientifiche inglesi avverse alle “inductuve generalizations” cfr. anche R.
Yeo, Defining science, cit., pp.12-13, pp.93-96, pp. 140-165, pp.180-193.
[222] I due passi citati ibid., pp.229-230.
[223] Cfr. ibid., pp.113-114.
Cfr. del resto cosa Darwin stesso
scriveva a Wallace il 22 dicembre 1857: “I am a firm believer that without
speculation there is no good and original observation”, in Life and
letters of Charles Darwin, vol. I, New York, 1887, p.465.
[225] Cfr. P. Rehbock, The
philosophical naturalists. Themes in early nineteenth-century British biology,
The University of Wisconsin Press, 1983.
[226] Cfr. D. Ospovat, The development
of Darwin’s theory, cit., p.20.
[227] Cfr. P. Rehbock, The
philosophical naturalists, cit., pp.7-12.
[228] I passi citati in D. Ospovat, The
development of Darwin’s theory, cit., p.238. Cfr. anche P. Rehbock, The
philosophical naturalists, cit., pp.68-69, pp.192-196. Sulla interna
differenziazione del mondo intellettuale inglese del tempo ed i suoi fermenti
culturali cfr. anche A. Desmond, The politics of evolution. Morphology,
medicine, and reform in radical London, The University of Chicago Press, 1992;
S. J. Gould, Ontogeny and phylogeny, Harvard University Press, 1977; C. C.
Gillispie, Genesis and geology. A study in the relations of scientific
thought, natural theology, and social opinion in Great Britain, 1790-1850,
Harvard University Press, 1996; J. D. Barrow - F. J. Tipler, The anthropic
cosmological principle, Oxford U. P., 1996.
[229] Cfr. P. Rehbock, The
philosophical naturalists, cit., pp.68-80; J. D. Barrow – F. J. Tipler, The
anthropic cosmological principle, cit., pp.83-87, pp.116-117, p.166; E. Mayr, Un
lungo ragionamento, Bollati Boringhieri, Torino, 1994, praticamente in tutto il
volume.
[230] J. Herschel, A preliminary
discourse, cit., p.122.
[231] Cfr. ibid., pp.29-34, pp.79-92,
pp.96-99, pp.118-119.
[232] ibid., pp.120-121, p.79.
[234] I due passi ibid., pp.98-99.
[237] Cfr. ibid., pp.144-145, pp.300-309.
[238] Cfr. ibid., p.171, pp.212-215.
[239] id., Outlines of astronomy,
London, 1858, p.406.
[240] Cfr. T. Huxley, Method and
results, London, 1893, p.176.
[241] Cfr. la sua polemica con Whewell in Essays,
cit., pp.142-256.
[242] ibid., p.629, p.85.
[245] Cfr. P. Rehbock, The
philosophical naturalists, cit., pp.65-90, pp.107-108, pp.221-222.
[246] Cfr. il mio Marx and the
scientific thought of his time, già citato.
[247] Cfr. ad es. Life and letters of
Thomas H. Huxley, vol. I, New York, 1900, pp.261-262.
[248] Sulla concezione generale di William
Whewell è da leggere S. Marcucci, L’”idealismo” scientifico di William
Whewell, Le Monnier, Firenze, 1963.
[249] T. Huxley, Method and results,
cit., p.47.
[250] I passi citati ibid., pp.62-64.
[251] id., Darwiniana, London, 1893,
p.449.
[252] I due passi citati in id., Method
and results, cit., pp.62-63.
[254] Cfr. ibid., pp.46-51; Darwiniana,
cit., pp.360-363.
[255] ibid., p.250. Cfr. anche id., Lay
sermons, London, 1870, pp.72-73.
[257] Cfr. id., Darwiniana,
cit., p.363: “The method of scientific investigation is nothing but the
expression of the necessary mode of working of the human mind”. Si vedano anche
le pp.72-74, in cui Huxley difende “Darwin’s method” dalle accuse di
essere “not inductive enough, not Baconian enough”.
[258] id., Science and hebrew
tradition, London, 1893, p.193. Non sorprende il fatto che Charles Lyell, cito
dall’edizione francese del suo volume, definisse la “tendance matérialiste” di
Darwin come “la tendance toujours croissante de l’esprit sur la matière”:cfr.
il suo L’ancienneté de l’homme prouvé par la géologie, Paris, 1870,
pp.558-559. Il libro era uscito a Londra nel 1863 con il titolo The
geological evidences of antiquity of man. Engels, in una sua lettera a Marx
dell’aprile dello stesso anno, lo aveva subito definito “sehr interessant und
recht gut”: cfr. Werke, 30, p.338.
[259] Tutti i passi citati ibid., pp.46-49.
[260] id., Method and results, cit.,
p.61.
[261] Gli ultimi due passi citati in id., Science
and hebrew tradition, cit., pp.46-47.
Cfr. anche Method and results, cit., p.65: “The progress of
physical science, since the revival of learning, is largerly due to the fact
that men have gradually learned to lay aside the consideration of inverifiable
hypotheses; to guide observation and experiment by verifiable hypotheses; and
to consider the latter, not as ideal truths, the real entities of an
intelligible world behind phænomena, but as a symbolical language, by the aid
of which Nature can be interpreted in terms apprehensible by our intellects”.
[262] id., Method and results, cit.,
p.61.
[264] ibid., p.60.
Cfr. ancora ibid., p.164: “Thus there can be
little doubt, that the further science advances, the more extensively and
consistently will all the phænomena of Nature be represented by materialistic
formulæ and symbols”.
[266] I due passi citati ibid., p.191.
[267] Cfr. la sua opinione ibid.,
p.155: “I, individually, am no materialist, but, on the contrary, believe
materialism to involve grave philosophical error”. Marx credeva
viceversa, e lo dice in una sua lettera a Engels del dicembre 1868, che Huxley
in questo ultimo periodo si fosse rivelato “wieder materialistischer
als in den letzten Jahren”: cfr. Werke, 32, p.229.
[269] È probabile che qui Huxley si
riferisca a Büchner e compagni: cfr. F. Gregory, Scientific materialism in
nineteenth century Germany, Reidel, Dordrecht, 1977.
[270] I due passi citati in T. Huxley, Method
and results, cit., p.193.
[271] Tutti i passi citati ibid.,
pp.193-194. L’opera di Eddington a cui si è fatto riferimento è New
pathways in science, Cambridge U. P., 1935. Si veda comunque anche il suo Science
and the unseen world, Allen & Unwin, London, 1929.
[273] Cfr. ibid., p.178, pp.205-211.
[274] I due passi citati ibid., pp.178-179.
[275] I due passi citati ibid., p.164. Le
formulazioni du Huxley relative al rapporto thought-matter sono
riprese tali e quali da Engels nel suo Ludwig Feuerbach e in Dialektik
der Natur: cfr. Werke, 21 e 20, senza tuttavia il significato
loro attribuito dall’evoluzionista inglese.
[276] Cfr. ad es. il mio Marx and the
scientific thought of his time, cit., pp.92-98. Del resto, si possono vedere
anche le Lessons in elementary physiology, London, 1868, pp.263-283, in
cui Huxley ripete la principale tesi di Whewell secondo la quale ogni
sensazione implica sempre il pensiero dell’osservatore: cfr. W. Whewell, Theory
of scientific method, Hackett, Indianapolisi, 1989. Non è sintomatico che il “conservative
Cambridge divine”, come lo ha definito Adrian Desmond (The politics of
evolution, cit., pp.218-219), sostenga lo stesso paradigma epistemologico del progressista,
evoluzionista e ateo Huxley? La posizione sociale e politica
dell’osservatore, non sembra né decisiva né determinante per spiegare la natura
preformata e condizionata della razionalità scientifica. Per poterlo fare,
occorrono altri criteri.
[277] Cito dall’edizione francese del suo Handbuch
der Physiologie, l’unica in mio possesso: J. P. Müller, Manuel de
physiologie, vol. II, Paris, 1845, p.493.
[279] Cfr. ad es. G. Edelman, Bright
air, brilliant fire.
On the
matter of the mind, Penguin, London, 1994, pp.18-19: “The brain might be said
to be in touch more with itself than with anything else”.
[280] Cfr. G. Buchdal, Leading
principles and induction: the methodology of Matthias Schleiden, in Varii
Auctores, Foundations of scientific method, cit., pp.23-32.
[281] Cfr. Werke, 30, p.418.
[282] Cito dalla traduzione francese a mia
disposizione del volume Die Pflanze und ihr Leben del 1849: M.
Schleiden, La plante et sa vie, Paris, 1859, p.8; corsivo mio.
[283] W. B. Carpenter, Principles of
physiology, London, 1851, p.1022 per i due passi citati.
[284] Ibid., p.1044. Cfr. anche pp.171-176,
pp.997-999.
[285] Cfr. Werke, 32, p.306 e 23,
pp.326-327.
[286] A. Wurtz, La théorie atomique,
Paris, 1879, p.1.
[287] ibid., p.228. È interessante notare
il fatto che la nozione di “invisible world” - come definiva l’oggetto in causa
William Carpenter, o secondo Jean Baptiste Biot “principes invisibles” - era
operante anche nella medicina e nella biologia del tempo, e come si è visto con
Herschel aveva corso corrente anche nella fisica e nell’astronomia di allora.
Cfr. a questo proposito J. B, Biot, Traité de physique expérimentale et
mathématique, 4 Tomes, Paris, 1816; W. B. Carpenter, The microscope and
its revelations, London, 1862; A. M. Ampère, Essai sur la philosophie des
sciences, Paris, 1834; L. Mandl, Traité pratique du microscope, Paris,
1839.
[289] Tutti i passi citati ibid., p.43.
[290] I due passi citati ibid., p.181;
corsivo mio. Nella storia della chimica, spiega Wurtz, diversi fatti “qui ont
été révélés par l’observation ne présentaient qu’un caractère empirique”,
mentre adesso con la nuova concezione “les voilà expliqués et subordonnés à un
principe dont ils découlent comme des conséquences naturelles” (ibid., p.158;
corsivo mio).
[291] Alcuni autori certi, perché
ripetutamente citati, sono i seguenti : Geoffroy Saint-Hilaire,
Jakob Moleschott, William Grove e persino James Clerk Maxwell. Come si vede,
qui v’è tanto una progressione nel tempo quanto un ventaglio di scuole di
pensiero: dalla paleontologia, via la biologia, alla fisica.
[292] Cfr. ad es. T. Huxely, Method
and results, cit., p.210, ed ancora più esplicitamente J. C. Maxwell, Matter
and motion, Sheldon Press, London, 1925 (La prima edizione è del 1877), p.12.
[293] Cfr. J-B. Lamarck, Système
analytique des connaissance positive de l’homme, Paris, 1820, pp.20 e sgg.; L
Büchner, Forza e materia, Milano, 1867, p.51.
[294] Marx sembra infatti concepire la
scienza come sapere generale sociale, quintessenza della ragione, sapere
oggettivo patrimonio di tutta la società, tendenza questa che d’altra parte era
comune a tutte le scienze sociali dell’epoca, economia politica classica in
testa ovviamente: cfr. C. M. Clark, Economic theory and natural
philosophy. The search for natural laws of economy, Edward Elgar Publishing,
London, 1992. Questo non vuol dire che Marx l’interpretasse solo nel senso
suddetto. La questione, come al solito, è molto più complessa ma non mi è
possibile affrontarla qui.
[295] Cfr. il suo Hegel’s dialectic
and its criticism, Cambridge U. P., 1984, p.155.
[296] Cfr. l’esemplare formulazione di tale
principio, rappresentativa di tutto il marxismo storico del resto, da parte di
Althusser: Réponse à John Lewis, Maspero, Paris, 1973, pp.35-39.