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Karl Marx ✆ Etsy
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Franco Soldani
6. Marx: Die
Teleologie ist kaputt gemacht worden
“The apparently
obvious can often be deceptive” |
S. J. Gould
Il giudizio di Engels sull’importanza dell’opera darwiniana
[297], giudizio formulato del resto con
grande acume nemmeno venti giorni dopo l’uscita del volume, verrà condiviso in
toto anche da Marx un anno dopo, non appena anch'egli avrà avuto modo di
leggere The origin of species by means of natural selection e di definirlo
“il libro che contiene i fondamenti storico-naturali del nostro modo di vedere”
[298]. Un mese dopo circa, scrivendo a
Lassalle, Marx ritornerà sul significato del volume per la sua interpretazione
della società, esprimendo in sostanza una duplice valutazione sul lavoro del
grande naturalista inglese. In primo luogo, lo studio di Darwin è importante “als
naturwissenschatliche Unterlage des geschchtlichen Klassenkampfes”. In secondo
luogo, a parte “die grob englische Manner der Entwicklung” presente a suo
avviso nel testo darwiniano, “ist hier zuerst der “Teleologie” in der
Naturwissenschaft nicht
nur der Todestoß gegeben, sondern der rationelle Sinn
derselben empirisch auseinandergelegt”
[299].
L’opinione di Marx, per quanto riguarda il metodo darwiniano
e la teleologia, coincide dunque completamente con quella di Engels. Di suo
Marx aggiunge la particolare sottolineatura del presunto “fondamento
scientifico” dato da Darwin alla lotta di classe
[300].
Tuttavia, anche questa specificazione non differisce in
sostanza dalla spiegazione engelsiana. Qual è infatti l’apporto decisivo di
Darwin ad una interpretazione della natura juxta sua principia? In che
modo l’opera di Dawin fornisce alla concezione materialistica della società un
fondamento scientifico? In effetti, come ora vedremo, le due domande sollevano
questioni diverse che finiscono tuttavia per confluire in un’unica
interpretazione.
Intanto è noto che il contributo teorico decisivo del volume
di Darwin riguarda la nuova visione della natura che vi viene delineata. Il suo
primo merito consiste infatti nell’aver realizzato “un tentativo grandioso per
dimostrare uno sviluppo storico nella natura”
[301]. In diversi scritti posteriori Engels
preciserà ulteriormente questa sua interpretazione dell’opera darwiniana,
puntualizzando meglio cosa si debba intendere in realtà con “sviluppo storico
della natura”. Essenzialmente tre cose. Prima di tutto, la vecchia concezione
fissista del mondo materiale, secondo la quale la natura si sarebbe mossa “nell’eterna
uniformità di un circolo che di continuo si ripete”, ha ricevuto da Darwin “il
colpo più vigoroso”
[302]. Con lo studioso inglese è infatti
divenuto evidente che tutto il regno naturale “è il prodotto di un lungo
processo di evoluzione”
[303] che si è sviluppato nel corso del
tempo e al cui interno si sono formate molteplicità e differenziazione,
mutamenti e proliferazione degli organismi viventi. Con Darwin, dunque, “l’idea
dell’assoluta immutabilità della natura”
[304] entra in crisi e viene sostituita
da una rappresentazione in cui adesso sono le proprietà intrinseche della
materia, e non un “impulso esterno”, di norma teologico
[305], a produrre la sua storia e le sue
trasformazioni periodiche dal più semplice al complesso, dagli organismi
monocellulari al cervello pensante
[306].
In secondo luogo, come conseguenza di questa nuova
impostazione scientifica tutte le categorie immaginarie della
vecchia Naturphilosophie
[307] – le “forze occulte”, l’”assoluto”,
le cosiddette causæ finalis
[308], le “cause soprannaturali”
[309] (“übernatürliche Ursachen”, dice
Engels), un intero “modo di pensare metafisico” insomma
[310] – sono da considerarsi ormai
definitivamente confutate da un sistema di conoscenze positive che le ha
relegate nell’ambito delle “folli speculazioni aprioristiche” senza riscontro
alcuno nella realtà empirica. A questa vecchia scuola filosofica si contrappone
ormai un nuovo modo di pensare che, invece di dedurre dalla logica soggettiva
le leggi di natura
[311], tende piuttosto ad inferirle
direttamente dal divenire della materia, dall’incessante movimento immanente
del mondo fisico. Entro questo sistema di pensiero “i processi naturali
fondamentali”, anziché dipendere da agenti ignoti, misteriosi e inesplicati, e
in sostanza non afferenti al corso delle cose e degli eventi, “sono spiegati,
sono ricondotti a cause naturali”
[312] aventi la loro origine all’interno
della materia stessa. Da questo punto di vista, la scienza offre dunque ben
altre basi all’interpretazione razionale del contesto sensibile entro il quale
viviamo, tanto che senza di essa, precisa Engels, la nostra conoscenza della
realtà “non avanza di un passo”
[313]: “concezione materialistica della
natura non significa altro se non, semplicemente, concezione della natura quale
essa è, senza apporti estranei”
[314]. Da queste due premesse segue infine,
secondo Engels, la terza caratteristica del nuovo paradigma scientifico
inaugurato da Darwin e divenuto poi uno dei capisaldi del pensiero scientifico
contemporaneo. Entro questo nuovo modo di concepire le cose, la natura
rappresenta ormai, sia per il materialismo moderno sia per la scienza, “la sola
realtà” conoscibile da parte dei soggetti sociali. Questo perché “la natura
esiste indipendentemente”
[315] da ogni osservatore e al di fuori
della sua mente
[316], e ci fronteggia dall’alto del suo
status oggettivo ed anteriore ad ogni forma di pensiero. Infatti essa “ci sta
di fronte come un qualcosa di dato”
[317] retto soltanto dalle proprie
intrinseche leggi interne. Tale contesto materiale costituisce una “realtà
ultima”
[318] in cui dominano incontrastate le “diverse
forme oggettive e di movimento della materia”
[319], l’eterno flusso delle differenti
espressioni particolari dell’energia che pervade l’universo: “tutto il
movimento della natura si riduce a questo processo ininterrotto di
trasformazione di una forma nell’altra”
[320].
Questo perenne divenire delle cose è ovviamente “connaturato”
al mondo reale, rappresenta “un attributo inerente alla materia”
[321], in cui una funzione di regolazione
fondamentale la svolge una legalità causale necessaria - una “ferrea necessità”,
dice Engels
[322] - che rappresenta in effetti
l’anima razionale per eccellenza del mondo fisico, la sua intrinseca struttura
normativa (oggettiva ed immutabile)
[323]. L’ordine legisimile della natura, di
cui anche il caso è un effetto, attribuibile del resto ad una nostra temporanea
ignoranza delle cause
[324], è da noi tuttavia conosciuto solo
tramite l’interdipendenza onnilaterale delle cose e dei fenomeni - tale
interdipendenza è infatti “la prima cosa che ci si presenta” - derivante dal “principio
della conservazione dell’energia”
[325]. L’osservazione, l’analisi e lo studio
della generale interazione e retroazione delle differenti e molteplici forme di
movimento della natura sono ciò che ci consente di comprendere l’intima
regolarità e le leggi dinamiche, l’intero processo di sviluppo del mondo fisico
e organico che ci circonda. Infatti, “solo partendo da questa azione mutua
universale noi perveniamo al reale nesso causale”, giacché con la comprensione
delle diverse “forme di movimento” della materia “abbiamo così conosciuto la
materia stessa, e con ciò la [nostra] conoscenza è completa”. Ecco perché,
spiega conclusivamente Engels in un enunciato di sintesi, “l’azione mutua è la
vera causa finalis delle cose”: “Più indietro della conoscenza di
questa azione mutua non possiamo risalire proprio perché dietro ad essa non c’è
nulla da conoscere”
[326]. Il sapere scientifico moderno, spiega
ancora Engels, si basa sulla “origine sperimentale di tutto il contenuto di
pensiero”
[327], giacché se “l’intero mondo naturale è
governato da leggi” che escludono l’intervento di qualsiasi azione esterna o di
qualsivoglia Creatore (infatti “il mondo materiale è governato da leggi
immutabili”
[328]: “noi sappiamo dalla teoria e dalla
esperienza che la materia così come il suo modo di essere, il movimento, sono
increabili, e sono quindi causa finale di se stessi”)
[329] per il materialista conseguente i
nessi e le regolarità tipiche riscontrabili in natura possono essere “scoperti”
[330] soltanto attraverso la nostra
attività congetturale e verificati poi tramite i dati e i fatti d’esperienza.
Detta in breve: The proof of the pudding is in the eating
[331].
Da questo punto di vista, si capisce meglio, credo, perché
la nuova impostazione di Darwin sembrasse dare a Marx un “fondamento
scientifico” al materialismo storico. A parte l’enfasi sull’evoluzione nel
tempo delle specie e dell’intero mondo fisico e organico, concetto che metteva
l’accento sulla differenziazione delle “epoche storiche” in natura
[332], è molto probabile che l’entusiasmo di
Marx sia da spiegare soprattutto col fatto che l’opera di Darwin rappresentava
la formazione e la trasformazione degli organismi viventi, la nascita, lo
sviluppo e l’estinzione d’intere specie animali e vegetali attraverso l’azione
di un meccanismo - la “natural selection” - avente tutte le caratteristiche di
una tendenza legiforme, e dunque oggettiva, insita nella stessa costituzione
della materia. Darwin, in altre parole, avrebbe dato “una forma razionale”
[333] alle cause operanti nel regno
organico, spiegando in maniera convincente “i loro effetti” nell’ambito della
variabilità delle specie. Se si tiene conto di quanto già dimostrato nel 3°
paragrafo, dovrebbe risultare più chiaro perché Marx trovasse nel pensiero di
Darwin un’ulteriore conferma alla sua interpretazione della logica scientifica.
Il grande naturalista inglese aveva infatti dimostrato che una regolarità
empirica – la stretta interdipendenza necessaria e conforme a legge di tutti i
fenomeni fisici – dominava anche all’interno di quel mondo organico in cui
invece sembrava imperare il finalismo tipico degli esseri viventi. Anche questa
parte della natura poteva dunque essere interpretata sulla base degli stessi
principi epistemologici tramite cui si studiavano in genere gli eventi
astronomici, geologici, chimici o fisici, in una parola gli accadimenti
complessi e le forme di manifestazione della materia inorganica. Caso mai il
punto debole della concezione di Darwin, credeva Marx, come ora vedremo, stava
nel non aver dato un adeguato rilievo prominente alla legiformità stretta.
L’importanza di questa impostazione per la concezione di
Marx è del resto provata anche dal cosiddetto “affaire Trémaux”
[334]. Uno dei punti della concezione di
Darwin che Marx riteneva poco soddisfacente riguardava in particolare il fatto
che il caso giocasse un ruolo troppo rilevante nel determinare la variabilità
delle specie
[335]. Come dirà anni dopo Engels, Darwin “astrae
dalle cause” che si sono rese responsabili delle variazioni individuali
all’interno di una specie: le assume infatti come “del tutto sconosciute”
[336] per concentrarsi invece sulle
conseguenze che esse inducono nell’ambito dei viventi. Ad avviso di Marx questo
limite è superato dall’”opera importantissima” di Pierre Trémaux
[337] che “costituisce
un notevolissimo progresso su Darwin”. Mentre in quest’ultimo il
processo della selezione naturale “è puramente casuale”, nel volume di Trémaux
risulta invece essere “necessario sulla base dei periodi di sviluppo
del corpo terrestre”
[338].
Nonostante l’errata supervalutazione dello scritto di
Trémaux, demolito del resto da Engels qualche mese dopo
[339], e nonostante la rappresentazione contraddittoria
del lavoro di Darwin rispetto alla sua anteriore valutazione, il giudizio di
Marx sul volume in questione (in una lettera a Kugelmann dello stesso periodo
lo definirà nuovamente “ein Fortschritt über Darwin”)
[340] è particolarmente interessante per
l’enfasi portata ancora una volta sulla esigenza d’individuare la “legge
necessaria [notwendige Gesetz]” e il “fondamento naturale [Naturbasis]” dei
fenomeni osservabili nel mondo empirico, nei fatti e dati d’esperienza.
Tuttavia è bene precisare che Marx ha torto anche nei confronti di Darwin.
L’interpretazione del mondo vivente data da questi non ha infatti le
caratteristiche attribuitele nella lettera citata. Al contrario. Se Darwin
avversava l’ipotesi di “an innate and ncessary law of development”
[341] operante in maniera uniforme e
simultanea per tutti gli individui in direzione della perfezione
[342], egli tuttavia partiva comunque dal
presupposto che esistesse in natura un “underlying system of laws”
[343] dal quale dipendeva l’ordine e la
regolarità dei fenomeni naturali, compresi ovviamente quelli riguardanti
l’evoluzione delle specie viventi. La stessa “natural selection”, d’altra
parte, non era altro che un “power” inerente al mondo organico e in sostanza “the
work of Nature”
[344], la realizzazione di “one general law
leading to the advancement of all organic beings”
[345], migliorando la loro organizzazione e
consentendo alle singole specie uno specifico e più vantaggioso accomodamento
entro il loro ambiente tipico
[346]. A questo proposito, è significativo il
fatto che Darwin paragoni il suo concetto alla legge di gravità
[347] allo scopo evidente di renderlo
equivalente al suo significato, di assimilare la “natural selection” all’azione
di una potenza della natura
[348].
Se il caso sembra giocare una parte preponderante nella
concezione di Darwin, come egli stesso ammette
[349], ciò non dipende dunque per nulla da
sue propensioni personali per l’occasionale e il contingente o l’accidentale.
Il riferimento alla casualità nella spiegazione delle variazioni entro le
specie, è anzi a suo dire una “wholly incorrect expression” proprio
perché presuppone sempre, a monte, l’attività legiforme intrinseca al mondo
della vita. Il suo fine concettuale è dunque un altro: “it serves to
acknowledge plainly our ignorance of the cause of each particular variation”
[350]. Il fatto è che la forma specifica di
ciascun essere vivente “depends on an infinitude of complex relations”, cioè da
variazioni “due to causes far too intricate to be followed out”
[351]. In fin dei conti, puntualizza Darwin, “we
should not forget that only a small portion of the world is known with accuracy”
[352] . Poiché grande è ancora ciò che
non sappiamo rispetto ai meccanismi della selezione, la nostra spiegazione
delle cose deve essere per forza di cose limitata. Se la natura, conclude
Darwin, “may be said to have taken pains to reveal her scheme of modification”
al nostro intelletto, tuttavia “we are too blind to understand her meaning”
[353].
Marx su questo punto ha dunque sicuramente frainteso Darwin,
al quale è invece speculare, come si è visto, il pensiero di Engels. Del resto,
nonostante l’aperta e personalmente dichiarata ammirazione per il grande naturalista
[354], Marx ed Engels, anche se si tennero
sempre al corrente riguardo alla sue pubblicazioni, lessero attentamente ben
poco di Darwin: due volumi al massimo
[355]. Paradossalmente tuttavia è proprio
quel travisamento che prova ancora un volta l’importanza attribuita da Marx al
concetto scientifico di causalità o alla struttura legisimile dell’ordine della
natura. Il perché è presto detto. Il modo di produzione del capitale o lo
sviluppo della formazione economica della società si sono infatti affermati in
epoca contemporanea come un “processo di storia naturale [eine
naturgeschichtliche Prozeß]” e lo stesso sistema sociale che ne è derivato
appare dominato “dalle leggi naturali della produzione capitalistica [die
Naturgesetze der kapitalistische Produktion]”, che del resto “si fanno valere
con bronzea necessità [eherner Notwendigkeit]”
[356] per tutti i singoli individui
facenti parte di questa organizzazione specifica, storicamente determinata.
È stupefacente pensare a tutte le cantonate prese dai
marxisti (indifferentemente: eretici e ortodossi) ogni volta che si son trovati
di fronte a queste, o anche a consimili, formulazioni di Marx. Le accuse di
determinismo, filosofia della storia, e chi più ne ha più ne metta, si sono
sprecate
[357]. A nulla è valsa la precisazione di
Marx proprio in merito a quei passaggi, in particolare del “Capitale”, in cui
sembrava enunciare una sorta di fatale ed ineluttabile transizione dal
capitalismo ad una nuova formazione sociale
[358]. Il fatto che Marx, su questa questione
così delicata, abbia chiarito il suo pensiero in modo inequivoco non ha scosso
più di tanto i suoi superficiali critici
[359]. Del resto, non ha forse chiarito, in
contrasto con Hegel, che “la necessità non implica la possibilità”?
[360]
Dunque, se è vero che egli non aveva alcuna intenzione di
spiegare quei processi sociali “col grimaldello di una teoria
storico-filosofica generale, la cui suprema virtù consiste nell’essere
sopra-storica”
[361], qual è allora il differente
significato teorico, più pregnante e più corrispondente al vero, dell’analogia
tra modo di produzione capitalistico e legiformità naturali? Come si è visto
nell’analisi del rapporto cause-effetti e del nesso intimo tra il valore e i
suoi modi d’espressione, dal punto di vista sociale il contenuto
concettualmente più sofisticato e complesso dell’idea di Marx sta tutto nella
distinzione che essa permette di fare tra nucleo interno, più profondo, della
realtà capitalistica e quel mondo esterno, di superficie, in cui sembra
accadere ogni cosa ed in cui le più diverse istituzioni societarie, in primis i
soggetti, sembrano costituire a prima vista delle istanze decisionali
autoreferenti. Questa distinzione di livelli è ciò che precisamente consente a
Marx di spiegare l’inganno della fatticità e di mostrare il carattere derivato
e dipendente di quei presupposti. Senza il supporto del pensiero scientifico e
della sua autorità indiscussa in quanto conoscenza oggettiva ben difficilmente
Marx avrebbe potuto argomentare la sua originale interpretazione di questo
essenziale processo di mediazione, istituito dal capitale per riprodursi in
maniera impersonale attraverso le sue forme di rappresentazione.
Che la categoria in oggetto abbia questo significato
fondamentale è provato anche dal fatto che essa è alla base di un’altra
importantissima precisazione. Se il modo di produzione capitalistico non avesse
avuto quale suo essenziale carattere storico quel dislivello tra le leggi
interne e i loro effetti naturali ma tangibili, Marx non avrebbe mai potuto
tematizzare alcuna differenza tra il capitale in quanto tale e i singoli
individui, quelli che sembrano occupare tutta la scena reale degli accadimenti.
I soggetti, invece, possono essere descritti come “creature”, ”personificazioni”,
“incarnazioni” e “funzionari” del capitale proprio perché ne rappresentano i
vettori consapevoli, gli agenti intenzionali o gli attori politici aventi il compito
di dare uno sviluppo discontinuo e una storia specifica alla sua dinamica più
intrinseca, gettandola così nel tempo e nel divenire empirico, concretamente
osservabile. La cosa è del resto spiegata in maniera esemplare direttamente da
Marx: “I principali agenti di questo modo di produzione stesso, il capitalista
e il lavoratore salariato, sono in quanto tali, semplicemente incarnazioni,
personificazioni del capitale e del lavoro salariato; sono caratteri
sociali determinati che il processo di produzione sociale imprime agli
individui”
[362]. Le “specifiche funzioni sociali”
[363] svolte da ciascun soggetto
razionale ai differenti livelli e nei diversi sottosistemi della struttura
sociale complessiva non sono altro dunque che rappresentazioni intenzionali di
un distinto fondamento da cui in definitiva derivano. La società del capitale è
infatti determinata e regolata da “un processo di storia naturale retto da
leggi che non solo non dipendono dalla volontà, dalla coscienza e dalle
intenzioni degli uomini, ma anzi, determinano la loro volontà, la loro
coscienza e le loro intenzioni”
[364]. La confutazione del soggettivismo,
imperante nell’ambito del pensiero politico-economico, socialista e no, ai
tempi di Marx, non avrebbe potuto essere più radicale, così come nelle sue
intenzioni c’era probabilmente il proposito di farla finita con ogni tendenza
di tipo speculativo e metafisico, mistico o teologico, del resto imperanti
dappertutto nella sua epoca
[365].
Penso che adesso possa essere più facile capire quale
stretto rapporto la concezione di Marx intrattenga con la logica scientifica
del suo tempo e come l’utilizzo a fini di analisi sociale di quest’ultima metta
comunque capo a concetti dai significati oltremodo peculiari. D’altro canto,
un’ultima e conclusiva dimostrazione del fatto che Marx non aveva in mente
nessuna interpretazione destinalistica del capitalismo (come se esso fosse
condannato ad una fine inevitabile) ci è data dal confronto della sua visione
teorica con la contestuale elaborazione delle scienza sociale per eccellenza
della sua epoca: l’ecomomia politica classica. Non si contano i luoghi in cui
Marx confuta a ogni piè sospinto la tendenza di quest’ultima a presentare il
modo di produzione capitalistico come un sistema di produzione esistente sin
dall’eternità, come la forma finalmente scoperta ed oggettiva della produzione
sociale
[366]. Sarebbe davvero paradossale pensare
che Marx abbia voluto presentare il modo di produzione capitalistico e la sua
formazione sociale come un tipo di sistema parallelo a quello della scuola di
pensiero rivale, come se la sua genesi e al sua struttura d’insieme coincidessero
puramente e semplicemente con leggi di natura, con processi e tendenze
afferenti al mondo fisico e biologico. Se per demolire un’ipotesi, come dice
Diderot, “il ne faut quelquefois que la pousser aussi loin qu’elle peut aller”
[367], niente meglio della congettura in
questione sembra prestarsi allo scopo. Enunciandola, infatti, l’intero processo
di formazione del capitale si vedrebbe conficcato in eventi materiali che tenderebbero
a presentarlo come un’organizzazione corrispondente alla natura, ed in questo
modo a trasformarlo in un tipo di società legittimato e corroborato dallo
stesso ordine delle cose. Se si considerasse il modo di produzione del capitale
un calco sociale di processi naturali si avrebbe lo stesso risultato,
involontariamente apologetico in questo caso, di quei trattati di economia
politica così aspramente criticati da Marx per le loro interpretazioni
“eterniste” del capitalismo. Il che ovviamente non può essere,
altrimenti dovremmo ammettere che Marx enuncia un’interpretazione del capitale,
allo stesso tempo e dal medesimo punto di vista, sia storica che senza epoca,
sia socialmente determinata che naturalmente priva di ogni connotazione
societaria. Inutile insistere oltre sulla illogicità di un simile discorso. Se
anche si volesse, prescindendo dalla sua intima natura contraddittoria,
ammettere la sua liceità, come si potrebbe infatti distinguere Marx
dagli economisti classici e più in generale dal pensiero grande-borghese?
[368]
Si può a questo punto dire con sicurezza che l’eliminazione
della metafisica dal discorso scientifico ha per Engels e per Marx un
significato complesso. In effetti, implica la definizione di un vero e proprio
modello epistemologico di ragione che non comprende solo la liquidazione
dell’arbitrio soggettivo e delle categorie immaginarie della scienza
premoderna. Infatti, nonostante l’apparente carattere ontologico del
materialismo in questione – primato della Natura (esterna ed oggettiva,
preesistente e indipendente) rispetto alla mente -, esistono anche delle
implicite tendenze convenzionaliste nell’interpretazione delineata in
precedenza. La raffigurazione ontologica della materia entra infatti in crisi,
o vede incrinarsi quella sua forma monolitica, non appena Engels è costretto ad
ammettere che le nostre conoscenze delle distinzioni presenti in natura hanno “una
validità solo relativa”. In un duplice senso. In una prima accezione perché
esse sono ovviamente transitorie, rettificabili e continuamente nuove, mai
definitive né immutabili
[369]. In una seconda e più importante accezione
tuttavia i “nessi razionali” che possono essere stabiliti tra i fenomeni e le
loro cause sono relativi perché sono introdotti nella materia “solo dalla
nostra riflessione”
[370], dall’attività concettuale
dell’osservatore, che formula ipotesi, spiega e costruisce in definitiva
un’interpretazione teorica dell’oggetto. Non appena Engels presuppone una
costitutiva correlazione tra mente e mondo e la definisce “materialismo puro”
[371], egli in realtà mette in discussione,
apparentemente senza saperlo, il suo principio ontologico primario, giacché la
codipendenza dei due termini implica la pari compartecipazione di pensiero e
natura alla formazione della conoscenza, cosa che revoca in dubbio il supposto
carattere indipendente e a tutto anteriore del mondo fisico. Se questa
antinomia non determina ancora il crollo di tale premessa, giacché la natura
viene ancora pensata come un sistema esterno all’intelletto umano, tuttavia
rappresenta sicuramente una crux logica o una spina nel fianco dell’intera
argomentazione engelsiana difficlmente risolvibile.
Oltretutto la polemica di questa interpretazione con il cosiddetto
materialismo volgare solleva nuovi problemi teorici che rendono ulteriormente
problematica l’intera sua ricostruzione del “materialismo moderno” e dei suoi
caratteri più specifici, aggiungendo nuove perplessità in merito alla sua
effettiva attendibilità concettuale. È realistica la critica di quella corrente
di pensiero? E soprattutto: rappresentava davvero quella concezione un modello
alternativo di conoscenza rispetto al materialismo storico, con categorie
diverse da questo e in un certo senso inferiori per efficacia esplicativa?
Dubito molto.
Come è noto, Engels e Marx imputavano ai maggiori esponenti
di quel materialismo, quasi tutti scienziati del resto, una sostanziale “incapacità
di concepire il mondo come un processo, come una sostanza soggetta a una
evoluzione storica”
[372] e soprattutto confutavano la loro
pretesa di poter pedissequamente “applicare la teoria della natura alla società”
[373], magari usando Darwin a tale scopo
[374] e dimenticando, secondo Engels,
che la “evoluzione della società si rivela essenzialmente differente da quella
della natura”
[375].
Lasciamo perdere il fatto che Engels contraddice subito
questo suo enunciato, a prima vista chiaro e netto, sostenendo il contrario in
una sorta di illogico “qui lo dico, qui lo nego”
[376]. Il problema maggiore riguarda infatti
la validità dei suoi giudizi su quella scuola filosofico-scientifica. Se si
guarda più da vicino e con più attenzione l’elaborazione teorica di
quest’ultima, le cose cambiano aspetto in più punti, soprattutto in merito alle
tre caratteristiche fondamentali del modello espistemologico delineato da
Engels e da lui ritenute tipiche e tipizzanti il materialismo moderno.
Ad un’analisi più approfondita degli scritti fondamentali di
questi naturalisti e fisiologi risulta infatti che essi – da Haeckel, via
Büchner, a Moleschott e Vogt – tematizzavano, mutatis mutandis, la stessa
rappresentazione epistemologica descritta da Engels. In primo luogo, per tutti
loro la natura rappresenta un sostrato di processi fisici e chimici del tutto
indipendente dall’osservatore, anteriore all’esistenza della mente ed esterno
all’osservatore. La natura è un universo in movimento incessante, in divenire
perenne, al cui interno fioriscono senza sosta forme viventi completamente
nuove e trasformazioni continue della materia. La natura combacia con
l’autoorganizzazione della materia
[377]. In secondo luogo, il mondo reale è
regolato da inflessibili leggi necessarie ed universali, di cui le diverse
forme di energia sono manifestazioni ed espressioni sensibili, additabili e
misurabili. Nell’ambito di questo determinismo cosmico
[378] il caso e gli eventi
apparentemente accidentali, a prima vista occasionali, chiaramente, derivano
soltanto dalla nostra ignoranza delle cause determinanti da cui in sostanza
nascono. Infine, l’attività concettuale ipotetica del pensiero deve tendere
alla scoperta sperimentale delle legiformità naturali attraverso sistemi di
conoscenza rivedibili e rettificabili, in un processo di avvicinamento
asintotico alla realtà praticamente senza fine ed in sostanza irraggiungibile,
in cui comunque alla ragione umana spetta un’insostituibile funzione
congetturale attiva
[379].
Non solo, dunque, le categorie base dei due tipi di
materialismo – quello definito meccanicista e quello moderno – coincidono, ma
persino le loro implicazioni e i loro obiettivi polemici sono in definitiva gli
stessi. L’avversione per ogni spiegazione metafisica della natura in termini di
cause finali, di mistiche tendenze teleologiche, di vitalismo, di creazionismo
e quant’altro, la difesa ad oltranza dell’interpretazione razionale del mondo
naturale, la confutazione dell’idealismo, persino una certa enfasi
costruttivista e convenzionale implicita nell’argomentazione di tutti quanti,
costituiscono delle concordanze concettuali che rendono i due punti di vista
estremamente simili, in ogni caso, contrariamente a come Engels aveva cercato
di presentarli, non così dissimili come si credeva. Oltretutto, analoghe
tendenze epistemologiche, anche se in via di trasformazione come si è visto,
erano largamente diffuse in tutta la cultura europea ed erano divenute
esplicite anche in ambienti scientifici diversi da quelli del materialismo in
senso stretto
[380]. Comunque, tra i due orientamenti delle
differenze certo vi sono, ma riguardano sostanzialmente altri aspetti della
loro elaborazione (l’idea di progresso necessario, il pregiudizio razziale, ad
esempio). Sulle questioni di fondo il loro accordo è sostanziale, tanto che i
loro discorsi finiscono col tematizzare perfino le stesse identiche impasse, o
a dare lo stesso sviluppo doppio ed ambiguo alle loro argomentazioni.
Insieme alla tesi ontologica, ad esempio, come Engels, anche
essi sostengono che esiste un rapporto complementare tra la mente e il mondo, i
quali rappresentano in fin dei conti istanze codipendenti e in coevoluzione,
cosa che così finisce col confutare l’assunto di partenza. In secondo luogo, se
i fatti e l’esperienza costituiscono le sole fonti del nostro sapere e il
sostrato empirico prioritario dell’intelletto, il pensiero risulta però essere
indispensabile per costruire un’interpretazione razionale delle cose, ed esso
diventa poi così l’elemento logico primario del rapporto, senza il quale la
conoscenza non potrebbe mai prendere forma. Infine, come se non bastasse, la
tesi secondo la quale il pensiero è il prodotto di “un organo materiale,
corporeo: il cervello” e questo non sarebbe altro a sua volta ”che
il più alto prodotto della materia”
[381] - enunciazione che secondo Engels,
come si è visto, sarebbe “materialismo puro”
[382] -, mette capo ad un paradosso
insostenibile e ad un duplice controsenso talmente evidente da sembrare
inverosimile. Se difatti si sostiene, contemporaneamente a quelle tesi, che il
mondo reale è un nostro postulato e che la nostra attività conoscitiva discende
dalla materia organizzata, come si può poi affermare che il “mondo materiale
[…] non è un prodotto dello spirito”? Se il pensiero deriva dalla materia, è
però vero anche il contrario, giacché tra i due termini non è stata posta
alcuna demarcazione, se non concettuale. Il che non fa altro che corroborare la
non differenziazione dei due. In altre parole, il discorso in oggetto si infila
da solo in una contraddizione logica senza alcuna via d’uscita, e questo nel
vano tentativo di distinguere pensiero ed essere dopo averli resi identici
[383]. Il principio di materialità si scontra
qui con l’idea opposta: cioè con la convinzione, mutuata dall’Illuminismo
francese e dalla scienza tedesca dell’epoca (avversa o no
alla Naturphilosophie)
[384], che la conoscenza derivasse tutta dai
nostri organi di senso, giacché tali organi, in ultima analisi, dipendono
comunque da processi naturali, chimico-fisici, svolgentisi nel sistema nervoso
centrale
[385].
Questi irrisolti rompicapo teorici, micidiali per la
coerenza teorica della concezione in questione, illuminano in effetti l’estremo
aspetto problematico di tutta la controversia antimetafisica tra
Sette-Ottocento e gli inizi del Novecento. Il tentativo di eliminare dallo
studio della Natura, in nome della conoscenza oggettiva indipendente dai
valori, qualsivoglia arbitrio soggettivo (nel senso della formulazione di
ipotesi) o categorie “speculative” non suscettibili di accertamento
sperimentale né controllabili da parte dell’esperienza
[386], reintroduce paradossalmente
l’osservatore dalla finestra dopo averlo cacciato dalla porta. A causa delle contraddizioni
logiche che la sua concezione implica, il positivismo delle due epoche non può
riuscire in alcun modo ad “esorcizzare”, per riprendere un’efficace formula di
Popper, la funzione determinante della mente individuale e dell’intera cultura
del singolo nella definizione del sapere scientifico. Come vedremo tra poco,
non v’è modo di espungere dall’ambito della conoscenza razionale del mondo
fisico e organico la costitutiva funzione dell’attività congetturale del
soggetto, precisamente perché concrescono insieme, una dentro l’altro. Tra
comprensione della natura e processi di pensiero, in altri termini, non v’è
differenza alcuna, il che vuol dire che per la scienza la materia non esiste
all’esterno della mente.
Tutto ciò ovviamente ha un effetto scioccante e dirompente
sul materialismo tradizionale, moderno alla Engels o meccanicistico alla
Hæckel, e nemmeno poteva essere immaginato da questi pensatori, troppo presi
dalla polemica contro l’idealismo per poter scorgere le implicazioni prospettiche
della loro impostazione. In ogni caso, come ho già detto, la cecità teorica nei
confronti, o l’impossibilità di poter prendere coscienza, delle tesi implicite
nella loro stessa tematizzazione, è inscritta nel codice genetico della loro
formazione filosofico-politica. Sta di fatto comunque che il convenzionalismo
costruttivista - caratterizzato da una triplice tesi epistemologica: 1. Non
esiste alcuna indipendenza né primato della materia rispetto al pensiero; 2.
L’attività cognitiva coevolve con il nostro contesto sensorio e non è affatto
esterna a tale presunto sistema di cose; 3. Conosciamo soltanto la nostra
conoscenza, che nelle varianti per così dire deboli del paradigma in questione
tutt’al più può venir controllata sul mondo fisico – discende in linea retta,
almeno potenzialmente e come tendenza che in seguito troverà modo di
esplicitarsi apertamente, da quella stessa concezione positivista che avrebbe
voluto negarne persino la più remota possibilità. Ancora una volta,
l’avversione per ogni misticismo, finzione, teologia, e così via, in nome di
un’interpretazione spinoziana della Natura
[387], ha finito col generare il proprio
opposto: un modello di ragione centrato sull’attività cognitiva autoreferente
(avente forma di spirale) del soggetto.
A maggior riprova di quanto sostenuto, e cioè della
sostanziale concordanza tra l’impostazione di Engels e il realismo scientifico
[388] tedesco, soprattutto
paradossalmente in quei punti in cui essi avrebbero dovuto maggiormente
divergere e distinguersi, mi sembra opportuno chiamare in causa anche la questione
del rapporto natura-storia. Questa relazione possiede in effetti un valore
simbolico e concettuale di primo rango, giacché Engels ne fa la linea di
demarcazione fondamentale tra il materialismo storico e la concezione
avversa(ta), la discriminante che avrebbe dovuto sancire la definitiva
confutazione dell’altra scuola. Come stanno, allora, le cose?
Secondo Moleschott “le leggi universali della storia sono
emanazioni necessarie della natura”
[389]giacché dappertutto nel mondo empirico
impera il determinismo più rigoroso e consequenziale, di cui anche la volonta
individuale è in definitiva un effetto. D’altro canto, se l’intero corpo umano
non è altro che una sintesi organica di forze chimico-fisiche
[390], ne deriva di conseguenza
l’impossibilità di distinguere l’agire razionale (politico-ideologico,
economico, etico, ecc.) dei soggetti dalla loro conformazione biologica. Ergo,
gli avvenimenti storici che prendono forma all’interno delle società non sono
altro che emanazioni e conseguenze di regolarità legisimili insite nella Natura
stessa. Il libero arbitrio non esiste. Se nel mondo sensibile, organico e inorganico,
domina soltanto una “cieca causalità” senza scopi né intenzioni, così del pari
la storia sociale ha a suo fondamento un ordinamento legiforme dei fenomeni
assolutamente impersonale e oggettivo, cosa che poi permette di trattare i
problemi della società in maniera rigorosamente scientifica, alla stregua di
oggetti naturali, e dunque di fare predizioni verificabili intorno alla loro
possibile evoluzione e alla loro realizzazione di fatto o meno.
Che argomentazione contrappone Engels a questa interpretazione
rigidamente determinista del sistemi sociali? La sua analisi è molto semplice e
si sviluppa a partire da una contrapposizione. In natura infatti, asserisce
Engels, tutto viene causato e regolato da “fattori ciechi e incoscienti”: “Nulla
di ciò che accade si produce come fine consapevole, voluto”
[391]. Al contrario in società. Qui la storia
è l’effetto di una moltitudine di azioni, riflessioni e persino passioni
attribuibili esclusivamente agli uomini: “Nulla accade, in questo campo, senza
intenzione cosciente, senza uno scopo voluto”. Tale sarebbe dunque, ad avviso
di Engels, la “differenza” tra i due contesti. Solo che questa distinzione, ci
viene spiegato, “non può cambiare nulla al fatto che il corso della storia è
retto da determinate leggi interiori”. Nonostante quella demarcazione, dunque,
storia e natura sono equiparabili perché in ambito sociale, “malgrado gli scopi
coscientemente voluti dai singoli, regna alla superficie, in apparenza e
all’ingrosso, il caso. Solo di rado ciò che si vuole riesce”.
Gli scontri dei soggetti, i risultati divergenti delle molte
individualità in interazione, gli effetti inattesi e imprevedibili, l’incrocio
e il contrasto delle diverse azioni, la sproporzione tra mezzi e fini, e via
dicendo, “creano sul terreno storico una situazione che è assolutamente analoga
a quella che regna nella natura incosciente”. Anche se la storia consta delle
configurazioni non volute a cui mettono capo “le numerose volontà operanti in
diverse direzioni”, nonché dei “risultati delle loro svariate ripercussioni sul
mondo esteriore”, resta il fatto, ad avviso di Engels, che “gli avvenimenti
storici sembrano, nel loro complesso, dominati essi pure dal caso. Ma laddove
alla superficie regna il caso, ivi il caso stesso è retto sempre da intime
leggi nascoste, e non si tratta che di scoprire queste leggi”
[392].
Questa dunque, in breve, la spiegazione engelsiana. E
francamente si tratta di una spiegazione estremamente debole. Per almeno due
problemi di fondo. Innanzitutto, se fosse vero che in società il caso connota
una circostanza “assolutamente analoga” a quella esistente in natura, allora
verrebbe meno ogni possibilità di potersi differenziare dall’altra
interpretazione, giacché per la scienza dell’epoca il caso è solo il nome che
diamo alla nostra imperfetta, inevitabilmente imperfetta, conoscenza del
principio di causalità. Se la materia non può essere governata dall’accidentale
e dall’erratico, ne consegue, stante il parallelismo tra i due ambiti, che
anche in società deve vigere una qualche forma di determinismo, cosa che
confuta dunque il primo argomento engelsiano.
In secondo luogo, poiché concepisce le classi sociali ed il
loro conflitto in termini sostanzialmente politici, come uno scontro complesso
e multiverso di soggetti intenzionali guidati da progetti e fini
[393], non è più possibile ad Engels
tracciare una qualche distinzione di principio tra il presunto sistema sociale
complessivo e quelle variegate azioni “che costituiscono la storia”
degli uomini associati
[394]. Se sono i soggetti sociali ad
istituire, come ci vien detto, la loro cornice d’insieme, ecco che da questa
premessa segue in linea retta il divieto di poter trattare o considerare le
configurazioni di fatto che nascono dalla loro plurivoca e temporalmente
differenziata interazione e retroazione multipla come degli oggetti sottoposti
a leggi di qualsivoglia tipo. La totalità sociale a cui mette capo l’agire
razionale dei singoli rappresenta soltanto un contorno fattuale emerso alla
fine di un lungo processo di formazione attraverso l’attività cosciente degli
individuali. Questo contesto apparentemente già dato, a prima vista esistente
in guisa di saldo suolo preesistente, non può presupporre l’esistenza di alcuna
legalità, tantomeno “dominante” o in grado addirittura di “reggere la storia in
generale”
[395], differente per natura dai soggetti che
lo hanno fatto nascere, semplicemente perché le due istanze coincidono, sono
fondamentalmente la stessa cosa.
Se all’inizio Engels aveva formulato una demarcazione avente
una sua apparente plausibilità, l’esigenza di non spiegare tutto con la ratio
politica, o di distinguersi da ogni interpretazione della realtà sociale in
termini intersoggettivi, tramite il principio-volontà, lo ha costretto subito
tanto a negarla in sostanza quanto ad assumere la presenza di leggi sociali che
si sono rivelate poi, stante la maniera contraddittoria in cui le ha
teorizzate, del tutto chimeriche e in definitiva inesistenti. Se esistono solo
rapporti, relazioni tra istanze, e solo queste possiamo conoscere, allora
questo enunciato rende impossibile - nell’equivalenza tra natura e
società, nella loro “assoluta analogia” - supporre qualsivoglia distinzione tra
rapporti interindividuali e qualsiasi supposto “mondo esterno”. Se lo si fa, si
viola il primo presupposto. Se non lo si segue, del pari s’infrange il secondo
assunto, cioè l’equivalenza tra storia e mondo materiale. Così, da qualunque
prospettiva si guardi la cosa, il discorso di Engels si confuta da solo.
Anche l’ultimo caposaldo engelsiano non è stato dunque in
grado, per suoi intrinseci limiti concettuali, di far fronte ai modelli teorici
rivali. Il che a mio avviso prova per l’ennesima volta la sostanziale
contiguità e complementarità delle due forme di materialismo. Alla prova dei
fatti, né esiste tra i due alcuna demarcazione essenziale capace di renderli
effettivamente alternativi né le loro categorie epistemologiche di fondo
differiscono in maniera significativa quanto al loro contenuto logico.
A parte le incogruenze del suo discorso, come si spiega la
clamorosa incompresione da parte di Engels dell’efettivo significato teorico
della concezione del “materialismo scientifico” tedesco? Che cosa può aver
vietato ad Engels la messa a fuoco del reale status teorico dei concetti base
di tale pensiero? La risposta più probabile a questi interrogativi mi sembra ci
venga data da un’altra domanda: se Engels non aveva chiaro quello che accadeva
entro l’epistemologia scientifica del suo tempo
[396], è realistico pensare che potesse veder
chiaro entro un’impostazione basata in ultima analisi sugli stessi principi di
quell’epistemologia? Se a tutte le antinomie discusse si aggiunge poi il
fraintedimento di Kant ed Hegel, la banale critica di entrambi e la
semplicistica interpretazione della dialettica
[397], credo che tutto possa diventare meglio
comprensibile. Come mi è già capitato di dire, l’originaria formazione
culturale di Engels e di Marx, con tutte le idiosincrasie e i pregiudizi che ha
depositato nel loro sistema d’idee, ha creato sin dall’inizio un ostacolo
insormontabile alla loro comprensione dei mutamenti epistemologici che andavano
prendendo forma all’interno della comunità scientifica della loro epoca. Non mi
sorprende che questo condizionamento, insieme agli altri fattori prima
considerati, abbia potuto rendere difficile e persino bloccare la loro
percezione delle novità teoriche allora emergenti dall’interno stesso del
pensiero scientifico col quale pure avevano una grande confidenza.
Piuttosto l’obiezione rivolta da Marx al “materialismo
astrattamente modellato sulle scienze naturali” si spiega meglio con le
caratteristiche specifiche delle forme sociali illustrate in precedenza. I
limiti di questo sistema infatti consistono nel fatto che esso, nell’analisi
delle istituzioni umane e in particolare di quelle della società contemporanea,
“esclude il processo storico”
[398] che ha portato alla formazione di
questo sistema sociale. Il principio fatttuale da cui questo tipo di
materialismo sembra prendere le mosse - la sua teoria della conoscenza, spiega
Büchner, ha a suo fondamento “ciò che è dato” come unico punto di partenza del
pensare
[399] -, è senz’altro apparso a Marx
come un’assunzione concettuale in cui era insito il divieto di poter mai
spiegare la logica del presupposto dominante nella realtà empirica del
capitalismo contemporaneo. Se quel postulato realista poteva avere un senso
nella disputa contro le varie tendenze idealistiche allora imperanti anche nel
campo della razionalità scientifica, nell’ambito della società esso diventava
del tutto inutile e perfino fuorviante, giacché finiva col cancellare la
caratteristica altamente specifica dei processi sociali istituiti dal capitale
al momento della sua nascita. In particolare, esso avrebbe vietato qualsiasi
comprensione della doppia (duplice-ambigua) natura del suo tipico ordinamento
sociale, rappresentato in questo caso dalle “leggi naturali esclusivamente
storiche della produzione capitalistica”
[400]. E’ questa duplice e a prima vista
inconcepibile simultaneità, tipica come si ricorderà del modo di produzione
attuale, a inficiare dalle radici l’idea regolativa del “realismo materialista”
- o come lo ha definito Gregory “rationalistic realism”
[401] - quando questo pretende di
poterla usare nell’interpretazione degli eventi sociali. Come ci ricorda Marx, “l’unico
metodo materialistico e quindi scientifico” di spiegare l’intrinseca natura complessa
delle forme d’espressione del capitale, invece di assumerle come un dato,
consiste piuttosto nel problematizzare e sottoporre ad analisi la loro
apparente fatticità, in maniera tale da rendere possibilmente intelligibile il
loro processo di formazione e la loro interna struttura derivata. In
conclusione, sempre secondo Marx, “è molto più facile trovare mediante
l’analisi il nocciolo terreno [delle categorie sociali] che,
viceversa, dedurre dai rapporti reali di vita, che di volta in volta
si presentano, le loro forme” presupposte
[402].
Anche a voler prescindere da questa ultima questione e dai
fraintendimenti sopra esposti, resta il fatto è che tutta la concezione qui
riassunta non prende minimamente in considerazione l’altra fondamentale scuola
metafisica europea della natura: l’inglese Natural Theology. Forse perché
ritenuta, a torto, un caso particolare della più generale impostazione
speculativa
[403], questa interpretazione teologica del
mondo possiede in realtà dei tratti caratteristici e specifici che la
distinguono in parte dalla Naturphilosophie tedesca in ragione prima
di tutto del più accentuato profilo scientifico della sua argomentazione
[404]. Quali sono dunque, in sintesi, i
tratti salienti del suo discorso?
A differenza della gemella concezione continentale, la Natural
Theology non rifiuta affatto, in toto, l’interpretazione meccanicista del
mondo né si oppone in alcun modo ad uno studio della natura sulla base di
principi puramente fisico-causali. Anzi. Come già si è visto in precedenza,
negli ambienti scientifici dell’Inghilterra Vittoriana l’opposizione di molti
naturalisti al dominio incontrastato dello “argument from Design” - che
interpretava la natura tramite l’azione e la volontà del Creatore, da cui poi
derivava la circolarità del tempo, l’immutabilità del mondo e ad un tempo il
finalismo degli organismi - aveva a suo fondamento comunque “an a priori belief
in the existence of ideal, or “trascendental”, patterns in nature”
[405]. Anche se questi scholar non
condividevano la spiegazione della materia data dalla “mechanical philosophy”
[406], essi tuttavia presumevano che
esistessero in natura degli “ideal patterns” che potevano essere scoperti da
una specifica attività di ricerca degli scienziati “interested in discovering
the laws of the living world”
[407]. In questo periodo, dunque, la
tradizionale divisione tra “natural philosophy” e “natural history” comincia “to
break down”: “Naturalists began to view their endeavors as nomothetic –
oriented toward the establishment of general laws”
[408].
Lo studio del mondo delle forme biologiche, così come quello
dei fenomeni fisici, tende a diventare adesso uno studio tanto positivo ed
empirico quanto organizzato intorno a “regulative principles” la cui prima funzione
è quella di guidare lo scienziato nella spiegazione dei fatti osservati e dei
dati d’esperienza. Anche se il regno vivente sembrava mostrare dappertutto dei
comportamenti finalizzati da parte delle diverse specie, essi potevano e
dovevano essere ricondotti tuttavia a delle regolarità insite nella natura
stessa. I “purposes” impliciti nel mondo biologico potevano così essere
attribuiti a caratteri propri del vivente senza aver bisogno di rincondurli a
nessuna altra fonte. Da questo punto di vista, i naturalisti potevano trattare “the
phenomena of the origin and diversity of life
as law-governed phenomena, and thus as phenomena amenable to
scientific investigation”
[409].
Non solo dunque l’analisi empirica del mondo vivente non
implicava la rinuncia ad ogni tipo di congettura in grado di esplicare e
collegare i diversi fenomeni osservati in un sistema interpretativo coerente.
In ogni caso, a monte di questo atteggiamento v’era la ricerca di regolarità
nell’ambito del mondo biologico e la presupposizione comunque che la natura
possedesse un intrinseco ordine legiforme. Anche in quest’epoca, dunque, una
parte di primo piano la svolgeva un postulato che uno scienziato contemporaneo
ha definito “the most sacred cow of natural science’s sacred cows”
[410]. D’altro canto, se il principio di
causalità, con il suo sistema di eventi causalmente interrelati e impersonali,
era sicuramente alternativo ed opposto alla teleologia e alle “final causes”,
era esso del pari avverso ad, ed inconciliabile con, ogni forma di teologia?
Per nulla, come la storia del pensiero scientifico dimostra.
Tutta una generazione di naturalisti, paleontologi e
anatomisti inglesi, da Richard Owen a William Boyd Carpenter, da Edward Forbes
a Peter Mark Roget, la maggior parte dei quali studiati di prima mano da Marx
ed Engels, era infatti convinta che compito di uno scienziato “was to discover
and explain patterns in nature”
[411]attraverso l’uso di concetti
a priori elaborati dalla mente mediante i quali poi spiegare i fatti
considerati
[412]. La “search for laws”
[413] e l’interpretazione della natura
attraverso una sua supposta “underlying unity of structure”
[414] non fanno divieto alcuno ad un
approccio non induttivista alla conoscenza del mondo reale. I costrutti mentali
dell’osservatore diventano anzi funzionali ad una migliore comprensione
dell’oggetto, nella misura in cui almeno essi danno corenza formale e
razionalità d’insieme alla nostra conoscenza della materia.
L’interpretazione della natura tramite l’agire legismile di
un “underlying system of laws” di forma biofisica e chimica non discende
tuttavia solo dal fatto che i maggiori naturalisti e fisiologi del tempo “were
dissatisfied with the method of final causes”
[415] adottato dalla visione
tradizionale né dalla loro intenzione di offrire “a new and better foundation
for natural theology”
[416]. Sicuramente, come ha ben spiegato
Ospovat, questo intento ha guidato il loro tentativo di riformare la scienza
naturale inglese d’impronta creazionista dell’età vittoriana, al fine
soprattutto, come è stato detto, di accomodare la “scientific knowledge within
the intellectual framework of Christian theology”
[417]. A tutti questi studiosi in effetti -
da Theodor Schwann ad Louis Agassiz, da Henry Milne Edward a Karl Ernst von
Baer, e praticamente a “most of the leading naturalists of the middle third of
the century” dell’intera Europa - i fatti e i dati acquisiti “of their science
were incompatible with a strictly teleological interpretation of organisms”
[418]. La trasformazione del paradigma è
stato così probabilmente dettato dalle nuove circostanze in cui la loro scienza
si è venuta a trovare, ma che cosa ne ha reso possibile la realizzazione? La
risposta a questa domanda non può essere semplice, così come del resto non è
stata per niente semplice né lineare la formazione delle precondizioni che
hanno poi consentito a quel mutamento epistemologico di prendere piede ed
affermarsi. Prima di tutto, bisogna tener conto del fatto che nella scienza
sperimentale moderna, sin dai suoi inizi, e particolarmente con Descates prima
e Newton poi, è sempre stato possibile sostenere un’interpretazione
meccanicistica della Natura e in pari tempo farla andare di pari passo con la
presupposizione di Dio
[419]. L’interpretazione del mondo fisico in
termini di meccanica collisione di corpi, d’interazione multifattoriale di
particelle materiali (vortici, ecc.)
[420] aveva anzi necesariamente bisogno
di assumere l’esistenza di un Divine Architect per una serie di ragioni
fondamentali per la sua coerenza interna e la sua sostenibilità. Intanto, in
tutta la cultura scientifica del tempo “the Deity’s role was axiomatic”
[421] e difficilmente contestabile di
fronte all’autorità della Chiesa, e non solo ovviamente per motivi dottrinari
(Galileo docet). In secondo luogo, sia che lo facesse per non incorrere
nell’arduo problema delle origini (“Physics do not meddle with the first
formation of things”, dichiarava Gravesande)
[422], sia che volesse evitare rompicapo
logici con la regressio ad infinitum, la scienza dell’epoca doveva per
forza di cose limitarsi allo studio esclusivo dei fenomeni e delle relazioni
tra fatti d’esperienza, i soli in fondo di cui noi si potesse avere cognizione
diretta. Per gli scienziati di allora – per Descartes, Newton, e prima ancora
per Copernico, Keplero, Harvey, Boyle e persino per Lord of Verulam – le leggi
di Natura, come ha spiegato Gillispie, “are discoverable only by applying our
senses to the study of facts, and our only appropriate tools are observation,
experiment, measurement, mathematical calculation, and induction”
[423].
Rendere intelligibili i fenomeni, chiarire gli effetti
riscontrabili e le loro cause prossime, insieme alla invariabilità delle
legalità naturali e al postulato dell’ordine razionale del mondo, sono dunque
tutti concetti e “regulative Ideas” che hanno permesso al pensiero
scientifico, in un certo senso, sia di prendere le distanze da ogni “divine
intervention” nell’analisi della materia sensibile, sia di presupporre comunque
l’esistenza di un “Divine Purpose”
[424] nell’ordinamento del cosmo. Da
questo punto di vista, il meccanicismo si è sempre ibridato con la
teologia e l’ha sempre tenuta sullo sfondo delle sue argomentazioni, usandola
all’occorrenza quando mediante i “miracoli” si poteva persino dare una
spiegazione delle eventuali accezioni a quelle leggi universali e necessarie
[425].
L’intrinseca simbiosi e la cooperativa coesistenza delle due
tendenze, oltre a rendere possibile uno studio razionale della natura, aveva
probabilmente anche altri scopi più complessi e meno evidenti. Oltre a
confutare l’idea che meccanicismo e teologia rappresentassero paradigmi rivali
e alternativi tra loro
[426], la solidale combinazione di quei due
indirizzi permetteva infatti alla nuova scienza allora in via di gestazione di
conseguire almeno tre importanti obiettivi polemici, uno politico-culturale,
due sicuramente concettuali, di non inferiore rilevanza sociale del resto. In
primo luogo, infatti, rendeva possibile la difesa della funzione morale e delle
posizioni di potere della “Oxbridge élite” e in generale dell’intera classe
dominanate del tempo
[427]. Nella misura in cui si poteva dire che
per comprendere la natura, anche quando apparentemente la si studiava
attraverso le sue proprietà sensibili, v’era comunque bisogno di Dio offriva
difatti un formidabile schermo protettivo contro ogni immanenza panteistica e/o
ateismo, scetticismo, stoicismo, e così via. In secondo luogo, in quel
paradigma la natura poteva esere considerata un universo di “passive Matter” in
cui vigevano soltanto urti e pressioni tra corpi materiali inerti
(esclusivamente “motions of the atoms and molecules”)
[428] e privi di ogni “active power”
[429], in maniera tale da poter considerare
l’intero mondo reale come un sistema di cose sottoposto a leggi universali e
immutabili, ad uno “static order, created once and for all time”
[430]. Con l’idea di “dead Matter” questa
impostazione poteva così contrapporsi ad ogni scuola di pensiero alternativa,
in particolare all’empirismo inglese capeggiato da Hume e al sensismo
illuminista francese
[431], negando in radice qualsiasi
indipendenza e autonomia alla materia tangibile, che in quanto “inherently
inert stuff”
[432] non poteva vantare nessuna interna
“self-organizing structure”
[433]. Infine, il meccanicismo
professato da questa concezione la metteva in grado di confutare in maniera
difficilmente fronteggiabile anche qualsiasi forma di spiritualismo o
metafisica rivale che avesse a suo fondamento una qualunque “mystical force of
nature” (Soul, Spirit, e via dicendo)
[434]. Se la natura veniva concepita come un
contesto regolato esclusivamente da urti ed interazioni tra atomi e molecole,
come un mondo che constava soltanto di forze, pressioni e contatti meccanici
tra corpi impenetrabili e palpabili
[435], non era più possibile rappresentarsela
o pensarla attraverso alcun agente immateriale, alcuna misteriosa “Substance”
non fisico-chimica.
D’altro canto questa spiegazione razionale della natura non
possedeva soltanto una sua intrinseca complessità epistemologica. Essa aveva in
pari grado anche una sua interna flessibilità concettuale che la rendeva
particolarmente adattiva al variare dei tempi e delle circostanze. Se da
principio infatti si supponeva che Dio avesse impresso “divine purposes” a
tutto l’universo, se si riteneva che l’intera Natura mostrasse dappertutto un “finalistic
design” ad essa imposto da un “Supreme Designer”
[436], in seguito questa impostazione basata
sulle “final causes” fu largamente abbandonata proprio da coloro che l’avevano
difesa - William Paley in testa, il maggiore esponente del Design Argument nel
corso dell’Ottocento, nonché da William Whewell e altri - per adottare un punto
di vista strettamente meccanicistico, che meglio dell’altro permetteva
un’efficace difesa dell’egemonia culturale dell’establishment tradizionale.
Paradossalmente, tutta la cosiddetta “trascendental school”,
continentale e inglese, dei primi decenni dell’Ottocento - da
Geoffroy Saint-Hilaire a William Carpenter e Richard Owen, per non citare che i
suoi rappresentanti più influenti – darà un nuovo impulso al Design Argument,
in parte intenzionalmente in parte senza volerlo, applicando i due principi
metodologici di cui si è discusso anche allo studio del mondo organico e delle
forme viventi, modificandone però nello stesso tempo, in parte almeno, il contenuto
concettuale per renderlo meglio rispondente ai suoi intenti. La cosa
sorprendente, che come vedremo l’accomuna alla Naturphilosophie e
allo “scientific realism” europeo (fisiologico o fisico)
[437], è che questa corrente di
pensiero presume di non poter accettare un’interpretazione rigidamente
meccanicista dell’universo, e gli è anzi avversa per l’enfasi portata da
quest’ultima sulla “inertness of matter”. Ovviamente la sua formulazione non è
lineare. Fa anzi convivere al suo interno enunciati contrastanti, come in ogni
argomentazione di transizione
[438]. Oltretutto, il paradigma in questione
viene persino tematizzato da naturalisti e scienziati di opposte
tendenze - ad es. Saint-Hilaire contro Cuvier, Carpenter contro il
Design Argument oppure Knox contro Owen -, a ulteriore riprova di quanto
complessa e ingarbugliata fosse allora la disputa scientifica nel momento di
trapasso a nuovi modelli epistemologici.
Comunque sia, qual è il nocciolo concettuale di queste nuove
interpretazioni intermedie o “vie di mezzo” teoriche? In che cosa esse
presumevano di potersi differenziare dalla Natural Theology, o al contrario
perfezionarla, evitando la loro assimilazione al materialismo? Come
si è visto sopra, a qualunque tendenza epistemologica appartenessero, fossero
essi oppositori del Design Argument come Robert Knox o Geoffroy Saint-Hilaire
oppure suoi espliciti supporter come Richard Owen ed Edward Forbes, per non
citare che i nomi più noti, tutti questi studiosi pensavano che il mondo
organico possedesse delle sue intrinseche proprietà - dette anche “powers or
forces” - che si manifestavano come “some form of matter”, tramite entità da
noi dunque visibili, osservabili, misurabili e controllabili. La “Vital
Activity” e le “Vital forces”
[439] riscontrabili nel mondo vivente
sono così per essi tanto delle caratteristiche intrinseche della natura quanto
delle “additional forces”
[440] rispetto ai sistemi fisici e
avrebbero rappresentato la peculiarità del regno organico. Una sorta di “vital
principle”
[441] avrebbe dunque disseminato
all’interno della “living matter” “some general purpose”
[442] che avrebbe poi conferito al mondo
della vita tutta la sua intrinseca complessità e forma dinamica.
Un’interpretazione di questo tipo, a parte il rigetto della “dead
Matter” e l’insistenza sulla specificità delle forme biologiche, ricalca
tuttavia in pieno il modello epistemologico della teoria fisica. Se le
proprietà interne della materia, come sostiene Carpenter, “give rise to powers
or forces”
[443] che danno una sua storia allo
sviluppo e alla differenziazione degli organismi
[444], a loro volta quelle proprietà
presuppongono delle leggi generali, un ordine dell’universo, una razionalità
legiforme della natura avente lo scopo di conferire una sua stabile regolarità
ai fenomeni reali. Il fatto che Carpenter, oltre a difendere l’impostazione “trascendentale”
di Saint-Hilaire (che si opponeva, lo ricordo, al teleologismo di Cuvier)
[445], identificasse la “fundamental unity of
structure”
[446] del mondo naturale con una “Designing
Mind”
[447] ci dà un’ulteriore e aperta
dimostrazione della intrinseca flessibilità teorica del Design Argument, che
riesce a bilanciare in questo caso una rettifica del troppo rigido fissismo
della Natural Theology con la difesa e l’utilizzo comunque dell’idea di un “Great
Principle”
[448] posto alla base del governo
del mondo (che poi questo sia per lui un “omniscient Creator”
[449]cambia poco al problema)
[450] .
Da questo punto di vista, la Naturphilosophie tematizzava
forse una diversa interpretazione delle cose? Non sembra proprio
[451]. Anzi. Benché l’influenza di questa
scuola filosofica sul “development of the Life Sciences in Germany” sia stata
praticamente nulla
[452], l’accento portato su una visione
dinamica, processuale, in continua trasformazione della vita
[453] sembrava a prima vista
contrapporsi alla circolarità senza tempo degli eventi tipica della Natural
Theology. Gli organismi viventi venivano visti evolvere attraverso l’azione di
una Lebenskraft o di unBildungstrieb che, benché attivi “in
addition”
[454] alle leggi della fisica, venivano
pur sempre visti sovrapporsi alla “inorganic matter” come forze distinte ed
esistenti indipendentemente dal loro “material substrate”
[455]. Anche se le tendenze connotate dai due
concetti, elaborati da studiosi come Johann Blumenbach e Johann Reil,erano
cosiderate insite nel mondo vivente, tuttavia esse non erano
riconducibili ai suoi materiali costituenti. Anche se queste interpretazioni
sembravano prendere le mosse, secondo Lenoir, da una “materialist
assumption” - infatti, secondo Reil, negli organismi viventi “structure and
organisation [are] the appearance and effect of matter itself”
[456], tanto che a parere di von Baer “the
organism is a mechanical apparatus, a machine, which build itself”
[457] -, tuttavia esse sostenevano in
pari tempo che la Lebenskraft o il Bildungstrieb dovessero
intendersi come “an occult quality” non dissimile da quelle operanti in altri
domini del mondo naturale
[458]. In pratica, le due “bildenden Kräfte”
[459] sono concepite come le cause da
cui dipendono i fenomeni e i loro effetti osservabili nella vita organica e nei
fatti d’esperienza
[460]. L’analogia con lo stesso rapporto
stabilito dalla teoria fisica tra le cause e i loro effetti sensibili non
potrebbe essere più lampante
[461]. La cosa più importante, tuttavia, è il
fatto che la natura occulta di quelle entità non le equipara affatto, come
invece ha fatto ad es. Engels semplificando troppo drasticamente il problema
[462], a categorie mistiche,
magiche, arbitrarie o trascendenti. Piuttosto, esse sono da
intendersi come legalità non ancora conosciute, non ancora comprese in maniera
chiara e razionale, ma in ogni caso da ritenersi interne al vivente, afferenti
comunque all’organizzazione biologica degli organismi. I concetti in causa, in
altre parole, rispecchiano la parallela distinzione che sin dal Seicento veniva
fatta in merito alla “knowledge of the occult” nell’abito della stesso
paradigma meccanicistico
[463], che veicolava due differenti contenuti
concettuali: con esso si poteva infatti intendere “what is hidden or latent” da
una parte, “what is suprarational” dall’altra
[464]. Nel caso delle categorie in
discussione, è evidente che si trattava del primo significato, giacché la Lebenskraft,
per quanto ignota benché conoscibile tramite i suoi effetti, afferiva pur
sempre alla natura, ne rappresentava comunque una parte integrante
[465].
D’altro canto, le idee in questione conosceranno una loro
ulteriore specificazione concettuale con la precisazione che verrà loro
apportata da Jacob Berzelius e Justus Liebig, ad aggiuntiva riprova, anche qui,
del carattere versatile delle categorie della Naturphilosophie. Mentre
nella versione di Blumenbach e Reil laLebenskraft, benché avesse le sue radici
in una base materiale, veniva allo stesso tempo concepita come una “super-imposition
upon inorganic matter”
[466], nell’elaborazione degli altri due
scienziati la “catalytic force” osservata nell’analisi delle reazioni chimiche
diventava una “special sort of expression” delle relazioni elettrochimiche
della materia, senza aver più alcun bisogno di andare a ricercarne le origini
[467]. In questa visione delle cose, la Lebenskraft doveva
essere concepita “solely in terms of the order and arrangement of natural
forces”, giacché il suo solo “mode of appearance was trhough the material
interconnections of those forces”
[468].
In questa concezione, dunque, “the Lebenskraft is
a special effect of the relationship of natural forces andnot a
hyperphysical directive agent superimposed on them”
[469]. Qui essa diventa un effetto delle
forze naturali inerenti al vivente, una “form of expression” di queste ultime.
Liebig interpreta dunque la categoria in oggetto in maniera completamente
diversa dai “vital materialist”, giacché la Lebenskraft in pratica
rappresenta ora un effetto della interna costituzione della materia, una sua
forma di manifestazione, che può persino essere misurata. Mentre prima spiegava
la “purposive nature” degli organismi, adesso essa è stata
trasformata in un modo di espressione, di apparire e rendersi
visibile delle interne proprietà della natura, in definitiva del mondo vivente.
Invece del “previous mystical scheme”
[470] si ha qui un presupposto
fisico-chimico inferito dallo stesso modo di agire del mondo naturale, un
assunto dogmatico (nel senso di non più spiegabile)
[471] derivato però o visto nascere
dall’interno stesso delle cose, da complesse interrelazioni di forze
fisiche. Rispetto alla precedente impostazione il progresso teorico è evidente,
giacché ora tutto inerisce alla materia, sembra provenire dal suo interno,
appare determinato dalla sua intrinseca dinamica. Adesso non v’è più bisogno di
alcuna Gestaltungkraft per render conto della peculiarità delle forme
biologiche, giacché i fenomeni afferenti al mondo organico sia provengono dall’organizzazione
del vivente, sia sono essi stessi delle manifestazioni della materiale
interconnessione delle sue forze
[472].
L’evoluzione concettuale di queste categorie, nate in ambito
scientifico e sviluppatesi nella disputa tra i diversi punti di vista degli
scienziati tedeschi del tempo
[473], ci dà forse un’idea più precisa del
reale e complesso status della questione ed in particolare del variegato
retroterra scientifico della Naturphilosophie. È davvero significativo il
fatto che Engels non abbia minimamente preso in considerazione questa
genealogia culturale, puntando tutta la sua attenzione praticamente soltanto
sul suo ramo più direttamente filosofico (il più debole). Il tentativo di
conciliare meccanicismo e vitalismo, modelli newtoniani di spiegazione del
mondo biologico
[474], nella Germania dell’epoca non
corrisponde affatto al riduttivo e in ultima analisi fuorviante quadro che ce
ne ha dato Engels. Le differenti e ramificate interpretazioni di cui si è
parlato, al contrario, sono persino in grado di reggere il confronto con
l’impostazione, all’apparenza radicale all’estremo, del cosiddetto “scientific
materialism”, del resto né la prima né l’unica scuola materialistica d’impronta
scientifica presente in Europa in quegli anni
[475]. Come ora vedremo, infatti, tanto i
presupposti epistemologici di entrambi gli indirizzi si riveleranno essere gli
stessi, quanto gli eclatanti fraintendimenti degli “scientific materialists”
intorno al reale stato delle cose deriveranno, paradossalmente, dalla loro
stessa enfasi antimetafisica, proprio da quei concetti cioè che avrebbero
dovuto differenziarli dal paradigma avverso.
Innanzitutto il meccanicismo con il quale avrebbero voluto
contrapporsi ad ogni dottrina teologica, a tutta la tradizione biblica e ad
ogni firma di spiritualismo, in nome della natura autonoma della Natura e
dell’indipendenza del mondo oggettivo esterno, era paradossalmente una
caratteristica persino della Naturphilosophie e sicuramente anche
della Natural Theology. Se per l’indirizzo in questione, allo scopo di
confutare ogni soprannaturale e tutte le volontà immateriali o gli agenti “soprasensibili”,
nella materia vigevano solo immutabili leggi naturali e l’altrettanto eterno
ordine razionale dell’universo, la stessa cosa pensavano gli esponenti delle
altre scuole. Il postulato in oggetto, che nelle intenzioni di Büchner, Vogt e
compagni, avrebbe dovuto differenziarli definitivamente da ogni concezione
creazionista e spiritualista del mondo fisico - il dominio incontrastato, in
ogni dove, di tendenze legisimili e rigorosamente determinate -, non è affatto
in grado né di demarcarli dai paradigmi rivali né di contrastarli, giacché
questi ultimi presupponevano esattamente lo stesso meccanismo di regolazione
dei fenomeni naturali
[476].
D’altro canto, nonostante il loro dichiarato empirismo, la
supposta derivazione di tutta la nostra conoscenza dai dati di senso e dai
fatti d’esperienza - concetto che si presumeva costituisse un’altra
fondamentale distinzione rispetto ad ogni tipo di logicismo, ed in specie
rispetto a Kant
[477] -, la loro enfasi sulla funzione
primaria dell’attività cognitiva dell’osservatore nell’interpretazione
dell’oggetto reale
[478] li accomuna invece ulteriormente
ai modelli che si presumeva di poter criticare. Nella misura infatti in cui
l’intelletto, il processo di pensiero e l’attività razionale della mente
risultano essere indispensabili per la spiegazione dei fatti, per la loro
decifrazione e per renderli intelligibili alla nostra ragione, ecco che le
teorie del soggetto scientifico diventano necessarie per poter procedere ad una
delucidazione del reale significato fisico dei fatti di natura. Significativo,
a questo proposito, il riferimento esplicito di Büchner alla concezione di Whewell,
uno dei più grandi epistemologi dell’Ottocento di orientamento convenzionalista
[479]. D’altra parte, non è che il “rationalistic
realism”
[480] di tale impostazione fosse solo
una combinazione eclettica di induzione e deduzione
[481], in precario equilibrio (in bilico su
una “tightrope”, dice Gregory) tra “primacy of facts” e “the laws of logic and
reason”
[482]. Il fatto è che il suo stesso
sensismo implica una concezione costruttivista e convenzionale della
conoscenza che contraddice la basilare premessa iniziale, il fondamento ultimo
in pratica, del suo intero discorso. Una prima prova di ciò, come già detto, ci
è data dall’idea di codipendenza tra mente e mondo. Se è vero, come sostiene
Moleschott, che “ogni nozione suppone un soggetto e quindi un rapporto tra
l’oggetto e l’osservatore”
[483], allora è ovvio che non è più possibile
postulare alcuna priorità ontologica della materia rispetto alla nostra
intelligenza concettuale. Questa convinzione, l’esistenza di un paritario e
stretto rapporto necessario tra realtà e razionalità, entra dunque in
collisione, dissolvendola, con la presunzione che fosse possibile assumere la
Natura come un dato incontrovertibile, preesistente a tutto e da tutto
indipendente, semplicemente da spiegare attraverso la riflessione. Pensiero e
mondo, al contrario, coesistono e si implicano a vicenda.
Questo enunciato introduce la seconda prova, la più
eclatante, dell’implicita tendenza convenzionalista insita nel presunto
realismo, invero “naive realism” secondo Gregory
[484], della concezione sotto esame. Se è
vero che agli “organi dei nostri sensi dobbiamo tutte le nostre idee”
[485], ne consegue, visto che i nostri
apparati percettivi rappresentano una struttura interna dell’organismo
in stretta simbiosi tra l’altro col cervello, che il prender forma della nostra
conoscenza può avvenire esclusivamente nell’ambito dei processi di pensiero
sviluppati dalla mente. La struttura (le percezioni sensorie) e l’organizzazione
dell’esperienza (l’attività cognitiva) sono infatti due livelli intercooperanti
della nostra identità vivente. Nessuno dei due appartiene a domini differenti o
esterni rispetto a quelli dell’individuo. La latente ascendenza di Berkeley
[486] diventerà infine molto più
esplicita non appena Moleschott affermerà che “noi non sappiamo né potremmo
cogliere e conoscere nelle cose [del mondo esterno] altri rapporti all’infuori
di quelli che riguardano noi medesimi”
[487]. Alla luce di questa implicita teoria
biologica della conoscenza, molto diffusa del resto nella cultura scientifica
europea dell’epoca, come si è visto, lo stesso enfatico positivismo di Büchner
e la sua avversione apparentemente radicale per ogni forma di pensiero
congetturale assumono ben altro aspetto, rivelandosi per quello che vermente
erano: un sistema teorico dalle pronunciate tendenze convenzionali, del tutto
analogo a quello di Moleschott
[488].
La stretta parentela concettuale tra il presunto empirismo
realista di questa concezione (realismo che Büchner teneva a distinguere dal
materialismo)
[489] e le altre impostazioni
dell’epoca, opposte e no al positivismo, è tuttavia ulteriormente dimostrata
dal paradossale teleologismo apertamente professato da questi intellettuali,
Czolbe in testa
[490]. Conficcando nel processo di sviluppo
della Natura stessa le tendenze evolutive verso il perfezionamento della storia
e degli esseri viventi riscontrate nei fatti d’esperienza
[491], essi credevano di potersi
differenziare dalle causæ finalis di metafisica memoria e trasformare
in tal modo quel finalismo speculativo in un progresso afferente al mondo
fisico, insito nella stessa dinamica della materia ed in tal senso oggettivo ed
impersonale, rispondente unicamente alle immodificabili e necessarie legalità
intrinseche della Natura
[492]. Questa convinzione era talmente
radicata nella mente degli “scientific realist” che persino il catastrofismo
dominante allora in campo geologico, in specie ad opera di Cuvier, era visto come
un’idea in cui “a supernatural process was at work”
[493], giacché il concetto di improvvise
rivoluzioni geologiche sembrava violare l’uniformità della natura ed introdurvi
surrettiziamente un arbitrario elemento aleatorio
[494].
Tutto l’aspetto paradossale e contraddittorio della tesi in
oggetto, come è facile intuire, sta per intero nel fatto che la suddetta
teleologia laica o presunta ontologica – secondo la quale la Natura “è causa e
fine di se stessa”
[495], e la sua unica tendenza è quella di
riprodurre incessantemente se stessa e nient’altro – attraverso la quale il
“realismo scientifico” avrebbe voluto demarcarsi dalla metafisica biblica o
comunque speculativa rappresenta in realtà un concetto che, oltre ad essere
identico a quello delle altre scuole, in particolare nella versione datane da
Berzelius, Liebig e Schwann
[496], i sistemi di pensiero rivali avevano
già da tempo formulato, precorrendo quindi l’interpretazione positivista e
inficiandone nel contempo tutta l’originalità argomentativa. In sostanza, il
cosiddetto “rationalistic realism” ha combattuto una energica battaglia contro
i mulini a vento sia perché in questo caso la sua idea era stata previamente
incorporata nelle concezioni avverse, sia perché conseguentemente essa non è in
grado di confutare alcunché, essendo al contrario la categoria che caso mai lo
apparenta alle altre impostazioni. Se grande era la confusione sotto il cielo
filosofico-scientifico del tempo, la situazione, coerentemente, non poteva
certo dirsi eccellente se si considerano gli approdi successivi di questa
concezione
[497].
L’intera questione raggiunge però il suo apice parossistico,
fino a diventare surreale, non appena diventa chiaro che l’intero paradigma
teorico di questo positivismo e tutte le sue categorie più importanti – la
critica della tradizione speculativa, l’idea di progresso, la concezione
sensista della conoscenza, il fondamento ontologico del pensiero, il sapere
scientifico obiettivo, lo stesso finalismo della Natura, e via discorrendo, ché
l’elenco completo sarebbe troppo lungo – derivano sostanzialmente dal principio
di causalità, dalla presupposizione cioè che il mondo materiale possedesse
un’intrinseco carattere razionale, legisimile e necessario: deterministico in
altre parole, intelligibile da parte della mente umana
[498]. Questa basilare assunzione
concettuale, tipica del resto di tutti i sistemi di conoscenza analizzati e
messi a confronto finora, svolge praticamente una funzione cruciale all’interno
del discorso in oggetto, giacché senza di essa diventerebbe impossibile all’impostazione
in discussione poter sviluppare la sua argomentazione complessiva,
contraddizioni logiche comprese.
Il suo aspetto altamente problematico, ed in definitiva
mortale per lo “scientific materialism” così come per le altre varianti, risiede
tuttavia nel fatto che tale fondamento epistemologico rappresenta una
congettura della mente, un presupposto soggettivo, un postulato di ragione, un
assunto del pensiero, una “regulative Idea” e una convenzione dell’osservatore.
In questa guisa, tale principio costituisce un postulato inverificabile, non
assoggettabile ad alcun controllo dei fatti né accertabile attraverso alcun
dato d’esperienza. In questo senso, il radicale positivismo del materialismo
scientifico tedesco si rivela essere nient’altro che una premessa
indimostrabile e metaempirica senza alcuna possibilità né di corroborazione né
di confutazione da parte di quella realtà sensibile dalla quale tutto sembrava
invece dovesse discendere. In sostanza, dunque, l’intero e apparentemente incondizionato
empirismo realista dipende in toto da un asserto metafisico posto dal pensiero.
Davvero un bel risultato per una concezione che aveva fatto della assoluta
autonomia della materia la propria distintiva bandiera teorica!
Come dovrebbe esser chiaro, Natural Theology, Naturphilosophie, Trascendental
School, Vitalism,Scientific Materialism, Mechanism, e financo il Determinismus professato
da Helmholtz, Du Bois-Reymond, Karl Ludwig e dal loro “reductionist program”
[499], rappresentano tutte differenti
varianti di un unico modello epistemologico basato sull’esplicita o latente
assunzione di una interna legiformità della Natura non suscettibile di alcun
riscontro reale, completamente privo di fondamento fisico in quanto nemmeno
sottoponibile a conferma o smentita sperimentale. Concetti quali quelli di “purposeful
Design”, “additional forces”, “ideal patterns”, “Lebenskraft” o “Bildungstrieb”,
e persino “der natürliche Weltordnung” del materialismo realista sono tutti
indistintamente “regulative Ideas”, a loro volta basate sulla fede (vale a
dire, su un atto di ragione) nella intrinseca corrispondenza dei fenomeni
naturali a regolarità legiformi insite nella materia. Tanto le singole
categorie quanto quest’ultimo ordine invariante sono così semplici congetture
dell’osservatore che si ritrovano in tutti i modelli teorici discussi. Da
questo punto di vista, non esiste alcuna alternativa tra i diversi paradigmi:
essi sono tutti, all’opposto, complementari e dipendono dagli stessi postulati.
Anche quando sembra poggiare su saldi presupposti empirici, sulla “mechanical
view” dell’organismo, su premesse apparentemente ontologiche e sui soli fatti e
dati d’esperienza, la concezione in questione ha a sua radice
un dogma della mente, una ipotesiconvenzionale non dimostrabile
né refutabile, e in quanto tale metafisica, del tutto non dissimile da
quella delle altre impostazioni
[500].
Forse adesso si capisce meglio perché l’analisi
scientifica - juxta sua principia - del mondo materiale,
contrariamente a quello che pensavano Engels e Marx, non ha portato né poteva
portare alla fine della te(le)ologia, alla “eliminazione”
[501] di ogni rappresentazione
speculativa (=soggettivo-arbitraria, stipulativo-congetturale) della natura.
Engels e Marx, già a partire dalla loro valutazione del pensiero darwiniano,
non si sono resi conto del fatto che l’ideale della conoscenza oggettiva – la
comprensione teorica di una materia indipendente dall’osservatore, alla quale i
nostri concetti dovevano corrispondere – contrapposta alla funzione cognitiva e
all’attività concettuale della mente costituiva all’epoca in cui essi
scrivevano un principio che la scienza stava ormai abbandonando in favore di
una più sottile rappresentazione dei processi di pensiero ed in direzione di
una più aperta interpretazione convenzionalista della natura.
Oltretutto, la presupposizione di un principio ordinatore –
da Dio alla stessa causalità, per ragionare in termini di estremi – svolgeva
una funzione concettuale importantissima nei sistemi d’idee scientifici
dell’epoca moderna (oltreché, ovviamente, nel sistema di potere della Chiesa
anglicana e luterana del tempo). Intanto, una fondazione di questo tipo
permetteva all’attività di pensiero di evitare la regressio ad infinitum,
confinando in tal modo il problema delle origini dell’universo nel limbo delle
cose impossibili da pensare o inconoscibili. Poiché appartenevano al novero
dell’indicibile e dell’irrappresentabile, le cause prime del mondo potevano
tranquillamente essere assunte come esistenti dall’eternità
[502]. In secondo luogo, presumere l’azione
di un Supernatural Power
[503] nell’ordinamento del cosmo
consentiva alla scienza del tempo di conferire uno status cultuale e sacrale al
suo assioma, in modo da potersi dedicare esclusivamente allo studio delle cose
e dei dati fisici, dei fenomeni percepiti dai sensi, senza per questo dover
tutto ridurre alla sola materia. Attraverso Dio (o qualsiasi altro Great Being:
World Soul, Spirit, ecc.), il ragionamento induttivo conferisce alla ricerca
fisica delle cause un fondamento adeguato ed estremamente versatile, giacché
gli è ora possibile contrapporsi tanto ad ogni finzione o fantasia dell’immaginazione
nell’analisi della natura, quanto ad ogni forma d’empirismo, giacché tutto il
suo discorso razionale ha a sua premessa l’attività legislativa di un
Governatore immateriale del mondo. In terzo luogo, inoltre, quel postulato gli
rendeva possibile non rinunciare alla funzione attiva e costruttiva della mente
nell’interpretazione delle cose e degli eventi tangibili, giacché si poteva
supporre che il sistema materiale osservato, soprattutto nella predominante
concezione meccanicista del 600-700, possedesse delle regolarità legisimili che
dovevano essere scoperte e portate alla luce, rese intelligibili all’umana
ragione dal nostro intelletto
[504] tramite l’osservazione, l’uso di
strumenti formali (le matematiche, la logica) ed artificiali (il microscopio,
gli strumenti in genere)
[505]. I fatti e i dati d’esperienza, al
contrario, potevano diventare affidabili e sicuri, generalmente credibili o
socialmente condivisi nella misura in cui venivano organizzati, disciplinati e
resi razionali dalla nostra conoscenza
[506]. Infine, esso permetteva agli
scienziati di non fermarsi ai dati di fatto, all’empiria certa ed indubitabile,
all’esperienza dei sensi, salvaguardando così l’idea di mediazione, la
convinzione cioè che la realtà osservabile non si riducesse ad un unico oggetto
monolitico privo di livelli interni e di meccanismi più profondi di quelli
immediatamente visibili e accessibili alla percezione sensoria
[507].
A parte l’incomprensione, non di dettaglio, di
queste tendenze, in ogni caso è evidente che il materialismo ottocentesco,
moderno alla Engels o realista alla Büchner, sia non riesce a demarcarsi in
nulla dalle impostazioni rivali sia non è in grado di competere con i
sofisticati paradigmi epistemologici della razionalità scientifica emergente,
tanto di allora quanto a maggior ragione di oggi. A dir la verità, anzi, nella
misura in cui non conosce o non comprende le trasformazioni concettuali
avvenute entro il pensiero scientifico moderno, il materialismo marxista,
dialettico alla Plechanov o meno
[508], continua a rimanere ancorato a
presupposti teorici che non hanno ormai più alcun rapporto con i paradigmi
scientifici odierni né tanto meno sono in grado di fronteggiarne l’interna
complessità epistemologica. In genere, detto materialismo o interpreta la
scienza in maniera tradizionale, come se essa fosse solo un sistema avalutativo
di pensiero
[509] al quale al massimo si possono
imporre, alla fonte, delle finalità di parte
[510], magari sotto forma di un’invasione
dell’ideologia nei verdi campi della razionalità formale
[511], oppure si fa un’idea completamente
sbagliata della logica della scienza, interpretandola tramite idee –
l’intenzione di dominio, la sua derivazione dal mercato - che nascono confutate
dalla loro stessa natura contraddittoria
[512]. Inutile dire quanto sia necessario
oggi andare oltre queste visioni datate della razionalità
scientifica.
Note
[297] Cfr. Werke, 29, p.524.
[299] I due passi citati ibid., p.578.
[300] Cfr. ibid., p.249. Per la verità, i
giudizi di Marx su Darwin non sono sempre identici, o almeno implicano
conseguenze diverse. Si mettano a confronto, per esempio, le due valutazioni
succitate (ordinate in senso anche cronologico, la prima è del gennaio 1861,
l’altra del giugno 1862). Innanzitutto: In Darwin “der Rationelle Sinn [der
Naturwissenschaft] empirisch auseinandergelegt” (Werke, 30, p.578). In
secondo luogo: “Bei Darwin das Tierreich als bürgerliche Gesellschaft figuriert”:
“Es ist merkwürdig, wie Darwin unter Bestien und Pflanzen seine englische
Gesellschaft mit ihrer Teilung der Arbeit, Konkurrenz, Aufschluß neuer Märkte,
“Erfindungen” und Malthusschem “Kampf ums Dasein” wiedererkennt” (ibid.,
p.249). Questa opinione di Marx verrà inoltre ripetuta tale e quale anche da
Engels nella sua Dialektik der Natur (Werke, 20, pp.564-565).
Quali sono le differenze tra le due considerazioni? Nella prima si afferma che
Darwin ha dimostrato l’esistenza di un meccanismo evolutivo di tipo storico
nella Natura, ha spiegato la sua tendenza dinamica, in trasformazione, in
divenire perenne. Ha reso razionale, in altre parole, l’interpretazione del
mondo naturale come un sistema d’enorme complessità retto da proprie interne
leggi di sviluppo e mutamento. La seconda ha tutt’altro significato. Da essa
infatti si inferisce il fatto che Darwin, in un certo senso, riflette nella sua
concezione il funzionamento della società capitalistica, come se Darwin nelle
categorie tramite cui spiega la Natura rispecchiasse i rapporti e le
istituzioni tipiche del modo di produzione capitalistico. In tal caso, Marx
sembra voler dire che il pensiero di Darwin è condizionato dal suo contesto
sociale, dipende dall’ambiente culturale circostante e non rappresenta affatto
uno studio avalutativo e disinteressato del suo oggetto. D’altro canto, Marx
potrebbe anche voler dire che Darwin ha raffigurato in maniera obiettiva,
precisa e fedele, col rigore e l’autorità tipici del procedimento scientifico,
la società del capitale e le sue forme più specifiche di manifestazione e
funzionamento. Non è da escludersi che possa aver interpretato la cosa in tal
maniera. Ora, chiaramente, queste due tendenze non sono facilmente
conciliabili. Se veramente Darwin avesse riversato nei concetti elaborati il
proprio sistema sociale, come potrebbe poi rappresentare la sua interpretazione
quella teoria materialistica esemplare che ci è stata presentata da Marx ed
Engels? Nell’altra accezione le cose stanno diversamente. Qui si interpreta la
concezione darwiniana come se questa avesse delineato una spiegazione oggettiva,
o comunque utilizzabile anche per l’analisi delle istituzioni sociali
capitalistiche, del modo di funzionamento della Natura. Benché le due varianti
coesistano e si alternino nel pensiero di Marx, con un’oscillazione e un
andirivieni tra le due sponde, quest’ultima ipotesi sembra la più probabile. In
diverse pagine del Capitale (Werke, 23, pp.361-362, pp.392-393)
Marx mutua infatti da Darwin l’idea d’interpretare la tecnologia e in genere
gli strumenti di produzione attraverso un parallelo con la formazione degli
organi naturali degli animali e delle piante (la “tecnologia naturale” degli
organismi viventi). Ovviamente, per Marx il fine è quello di svelare, tramite
la tecnologia = “der materielle Basis jeder besondre Gesellschaftsorganisation”,
lo specifico processo riproduttivo dei rapporti sociali capitalistici. Se
infatti v’è un’analogia tra comportamento delle specie e attività lavorativa
umana, v’è pure tra le due una differenza peculiare, sia in virtù del “Vico’s
principle”, sia in ragione delle preventive finalità razionali che gli uomini
imprimono al loro lavoro (cfr. ibid. pp.192-193). D’altra parte, non vi è chi
non veda l’insidia concettuale insita in quel parallelo. Se infatti
l’evoluzione storica della tecnologia venisse equiparata ai processi materiali
svolgentisi nell’ambito del mondo naturale (organico e inorganico), come
sarebbe poi possibile metterne in discussione o dimostrarne la logica interna,
la natura preformata? Ci si renderebbe impossibile persino impostare
qualsiasi analisi critica del pensiero scientifico. Poiché la tecnologia, come
era già chiaro ai tempi di Marx, deriva dalla scienza e ne è un effetto
strumentale - cfr. ad es. M. Hachette, Traité élémentaire des machines,
Paris, 1811, pp.VIII-IX, pp.144-157, p.216; A Guenyveau, Essai sur la
science des machines, Paris, 1810, pp.2-45; J. B. Biot, Traité de physique
expérimentale et mathématique, cit., Tome Quatrième, p.731; J. Herschel, A
preliminary discourse, cit., pp.63-72 -, considerarla alla stregua di un
prodotto storico dell’evoluzione umana o di un apparato naturale vorrebbe dire
automaticamente vietarsi da soli la possibilità di questionare il pensiero al
quale essa deve la sua origine. A questo proposito conviene ricordarsi di una
cosa. Una volta che il genio è uscito dalla lampada – come bene dice Barrow –
non è facile convincerlo a rientrare.
[301] Marx - Engels, Carteggio,
Editori Riuniti, Roma, 1974, vol. 3°, p.372; corsivo mio (Werke, 29,
p.524).
[302] F. Engels, Antidühring, Editori
Riuniti, Roma, p.25 (Werke, 19, p.205).
[303] id., Ludovico Feuerbach e il
punto di approdo della filosofia classica tedesca, in Marx – Engels, Opere
scelte, Editori Riuniti, Roma, 1973, p.1135 (Werke, 21, p.295)..
[304] id., Dialettica della natura,
Editori Riuniti, Roma, 1978, pp.41-42, pp.207 e sgg. (Werke, 20,
pp.314-316, pp.464 e sgg.).
[306] ibid., p.211 (ibid., p.468).
[307] ibid., p.132 (ibid., p.395).
[308] ibid., p.220 (ibid., pp.478-479).
[309] Ibid., p.229 (ibid., p.487).
[310] id., Antidühring, cit.,
pp.10-12, pp.22-25 (ibid, pp.10-12, pp.19-22).
[311] Id., Dialettica della natura,
coit., p.61, pp.77-78 (ibid., p.334, pp.348-349).
[312] I due passi citati ibid., p.211
(ibid., p.468).
[313] ibid., p.52 (ibid., p.325).
[314] ibid., p.212 (ibid., p.469).
[315] I due passi citati in id., Ludovico
Feuerbach, cit., p.1112 (Werke, 21, p.272).
[316] Cfr. id., L’evoluzione del
socialismo dall’utopia alla scienza, Editori Riuniti, Roma, 1973, pp.43-44
(Werke, 19, pp.530-531).
[317] id., Dialettica della natura,
cit., p.86 (Werke, 20, p.355).
[318] ibid., p.45 (ibid., p.318).
[319] ibid., p.61 (ibid., p.334).
[320] id., Ludovico Feuerbach, cit.,
p.1135 (Werke, 21, p.295).
[321] id., Dialettica della natura,
cit., p.85 (Werke, 20, p.354).
[322] ibid., p.54 (ibid., 327).
[323] Cfr. ibid., pp.243-247 (ibid.,
pp.501-506). Cfr. ancora ibid., p.235 (ibid., p.493).
[324] Cfr. ibid., pp.53-54, pp.228-240
(ibid., pp.326-327, pp.486-499).
[325] I due passi ibid., p.240, p.58
(ibid., p.499, p.331). Ricordo che Engels aveva definito “die Satz von der
Erhaltung der Energie” una “absolute Naturgesetz”: cfr. ibid., p.235 (ibid.,
p.493).
[326] Tutti i passi citati ibid.,
pp.240-241 (ibid., p.499). La spiegazione di Engels, tuttavia, non è del tutto
esatta neanche dal suo punto di vista. Le diverse forme dell’energia presuppongono infatti
la legiformità della Natura, di cui sono un’espressione. Tali forme hanno così
a loro fondamento la legge di causalità – la supposizione, cioè, che la materia
possegga un suo ordine invariabile interno - senza la quale non potrebbero
costituire quel tutto unitario che sono. Con questa omissione, Engels commette
tre errori in uno. Innanzitutto, dà un’interpretazione incredibilmente naive,
contraddittoria in definitiva e dunque invalida, della maniera in cui si
può confutare il “dubbio scettico” di Hume sulla regolarità degli eventi in
natura: cfr. ibid., pp.239-241 (ibid., pp.497-499). In secondo luogo, non
prende minimamente in considerazione la natura problematica di quel postulato.
Il fatto che esso sia un assunto indimostrabile sperimentalmente, impossibile
da controllare tramite l’esperienza, non rappresenta per lui un dato da mettere
in discussione. Ciò è logico se si pensa al fatto che l’ha equiparato ad una “legge
assoluta” della materia, senza rendersi conto dell’intrinseca forma antitetica
di questo enunciato. Nella misura infatti in cui è una statuizione
dell’osservatore non può rappresentare una caratteristica della natura. Nella
misura viceversa in cui lo si ritiene insito nelle cose diventa inverificabile,
non assoggettabile ad alcun controllo empirico e si riduce di nuovo ad una
congettura della mente. Infine, cosa ancor più grave, Engels
cancella letteralmente qualsiasi distinzione di livello, apertamente e
diffusamente tematizzata invece dalla scienza del suo tempo come si è visto,
tra l’agire più profondo delle cause e quello degli effetti e delle forme di
manifestazione di quel sostrato, identificando la realtà sensibile con l’azione
reciproca e il condizionamento a vicenda dei fenomeni. Engels, in questo caso,
è la fonte teorica più importante del marxismo storico e persino di Althusser.
[327] ibid., p.275 (ibid., p.529). Cfr.
ancora id., L’evoluzione del socialismo, cit., p.38 Werke, 19,
p.527): “La scienza è scienza dell’esperienza e consiste nell’applicare un
metodo razionale al dato sensibile. Induzione, analisi, comparazione,
osservazione, sperimentazione, sono le condizioni principali di un metodo
razionale”
[328] Tutti i passi citati in id., L’evoluzione
del socialismo, cit., pp.42-46 (Werke, 19, pp.530-532). Si veda ancora
questo passo del Ludovico Feuerbach, cit., p.1136 (Werke, 21, p.296):
“Nella natura agiscono gli uni sugli altri dei fattori assolutamente ciechi e
incoscienti e la legge generale si realizza nella loro azione reciproca”.
[329] Id., Dialettica della natura,
cit., p.261 (Werke, 20, p.519).
[330] ibid., p.61 (ibid., p.334).
[331] id., L’evoluzione del
socialismo, cit., p.43 (werke, 19, p.530).
[332] Cfr. Marx - Engels, Carteggio,
cit., vol.5°, pp.164-167 (Werke, 32, pp.51-53). Sono le famose pagine Marx
in cui Marx definisce il botanico Carl Fraas “darwinista prima di Darwin” sia
perché egli avrebbe dimostrato “che in epoca storica clima e flora
cambiano”, sia perché avrebbe fatto “sorgere le specie stesse in
epoca storica”. Addirittura, sempre secondo Marx, vi sarebbe nella sua opera – Klima
und Pfllanzenwelt in der Zeit, eine Geschichte beider - “una inconsapevole
tendenza socialista”, giacchè egli avrebbe dimostrato che la coltivazione del
suolo lascia dietro di sé dei deserti “wenn naturwüchsig vorschreitend und
nicht bewußt beherrscht”. V’è un’eco di questa interpretazione anche in
Engels: cfr. Dialettica della natura, cit., p.51 (Werke, 20, p.324).
[333] id., Antidühring, cit., pp.72-77
(ibid., pp.61-64).
[334] Sul quale vedi Y. Christen, Le
Grand Affrontement, cit., pp.41-52; B. Naccache, Marx critique de Darwin,
cit., pp.98-105; F. Vidoni, Natura e storia, cit., pp.48-55.
[335] Forse le perplessità di Marx non
erano del tutto infondate se alcuni scienziati ancora oggi ritengono la
spiegazione darwiniana del caso “difficile da accettare”: cfr. ad es. E.
Boncinelli, Le forme della vita. L’evoluzione e l’origine dell’uomo,
Enaudi, Torino, 2000, pp.11-13. D’altro canto, vi sono paleontologi e studiosi
seri ed importanti come Stephen Jay Gould i quali ritengono che l’evoluzione
sia “a mixture of chance and necessity” (Ever since Darwin, Penguin, London,
1991, p.18), senza che nessuna stonatura epistemologica venga notata in tale
enunciato. Come invece ha fatto notare Paul Davies, La mente di Dio,
Mondadori, Milano, 1993, p.227, molto spesso “questo miscuglio di contingenza e
necessità corrisponde a Dio”. Le tesi succitate riecheggiano i
problemi concettuali che affliggono anche la teoria del caos, sui quali mi
permetto di rinviare al mioSistemi di conoscenza, già citato, in particolare al
Capitolo settimo, paragrafo 6°. Le ambiguità della teoria del caos, pp.613
e sgg.
[336] I due passi citati in F. Engels, Antidühring,
cit., p.76 (Werke, 20, p.65).
[337] Cfr. il volume: Origines et
transformations de l’homme et des autres êtres, Paris, 1865.
[338] K. Marx – F. Engels, Carteggio,
cit., vol. 4°, p.440 (Werke, 31, p.248).
[339] Cfr. ibid., pp.446-450 (ibid.,
pp.256-261).
[340] Cfr. Werke, 31, p.530.
[341] C. Darwin, The origin of
species, The Modern Library, New York,1993, pp.265-275, p.446.
[342] Cfr. ibid., pp.6-7, p.162.
[343] Cfr. D. Ospovat, The development
of Darwin’s theory, cit., pp.18-24.
[344] Tutti i passi citati in C. Darwin, The
origin of species, cit., p.89, p.624.
[345] ibid., p.360. È interessante vedere
cosa intenda Darwin per natura. Cfr. ibid., p.109: “I mean by Nature, only the
aggregate action and product of many natural laws, and by laws the sequence of
events ascertained by us”. Il fatto è che i due concetti non si equivalgono.
Una cosa è la regolarità legisimile del mondo fisico, che è un nostro postulato
per definizione impossibile da controllare empiricamente. Un’altra è l’analisi
e lo studio di quella “sequence of events” di cui possiamo fare esperienza
e della quale possiamo verificare sperimentalmente la nostra comprensione o
meno.
[346] Cfr. ibid., pp.160 e sgg.,
pp.263-275, pp.469-474.
[347] Cfr. ibid., p.109, pp.637-638.
[348] Cfr. ibid., p.624, p.141. Il
parallelo con la teoria del valore di Marx è palmare.
[350] Tutti i passi citati ibid.
[351] I due passi citati ibid., p.165. Cfr.
anche pp.209-211, p.621, p.628
[353] I due passi citati ibid., p.636.
[354] S. J. Gould, nel suo Ever since
Darwin, sostiene di aver visto egli stesso “Darwin’s copy of Das Kapital in
his library at Down House. It is inscribed by Marx who calls himself a “sincere
admirer” of Darwin”. Naturalmente, Darwin non lesse mai l’opera di Marx: il
grande naturalista inglese “was not devotee of the German Language” (ibid.,
p.26).
[355] Oltre al classico The origin of
species sembra che abbiano letto soltanto The descent of man del
1871. Cfr. a questo proposito B. Naccache, Marx critique de Darwin, cit.,
p.151
[356] K. Marx, Il Capitale, cit., vol.
1°, pp4-7 (Werke, 23, pp.12-16).
[357] Cfr. ad es. D. Noble, La
questione tecnologica, Bollati Boringhieri, Torino, 1993; G. La Grassa – C.
Preve, Oltre la gabbia d’acciaio, Vangelista, Milano, 1996; N. Rosemberg, Exploring
the black-box, Cambridge U. P., 1994; M. R. Smith – L. Marx (eds.), Does
technology drive history? The dilemma of technological determinism, M.I.T.,
Cambridge (Mass.), 1994; B. Naccache, Marx critique de Darwin, già citato.
Persino un libro che, con le stesse parole del suo autore, “a été conçu comme
une introduction à la théorie du capitalisme de Marx, comme un prélude à sa
lecture directe”, sostiene che Marx darebbe “à sa théorie une orientation
finaliste ou téléologique marquée”. Cfr. B. Chavance, Marx et le
capitalisme. La dialectique d’un système, Nathan, Paris, 1996, pp.7-19.
[358] Cfr. Il Capitale, cit., vol. 1°,
pp.934-938 (Werke, 23, pp.789-791); ibid., vol. 3°, pp.606-613 (Werke, 25,
pp.452-457).
[359] Cfr. id., Lettere sul Capitale,
Bari, Laterza, pp.156-158.
[360] id., Carteggio, cit., vol. VI°,
p.176 (Werke, 33, p.83).
[361] id., Lettere sul Capitale, cit.,
p.158 (Werke, 19, pp.107-112).
[362] id., Il Capitale, cit., vol. 3°,
p.1180; corsivo mio (Werke, 25, p.887). Cfr. ancora ibid., pp.1107-1109
(ibid., pp.832-833).
[364] ibid., vol. 1°, p.26 (Werke, 23,
pp.25-27). Il passo è tratto da una recensione del volume di Marx da parte di
uno studioso russo, ma è definito da Marx stesso una descrizione “esatta” del
suo pensiero.
[365] Cfr. S. J. Gould, Ontogeny and
phylogeny, cit., pp.130 e sgg.; F. Gregory, Scientific materialism in
nineteenth century Germany, cit., pp.2-66, pp.149-188.
[366] Cfr. ad es. id., Capitolo VI
inedito, cit., p.19, pp.29-30 (Resultate des unmittelbaren Produktionsprozesses,
cit., p.10, pp.16-17).
[367] Id., L’interprétation de la
nature, Paris, Garnier, s.d., Édition critique établie par J. Assézat, p.45.
[368] Cfr. del resto Carteggio,
vol.V°, p.431 (Werke, 32, p.396): “gli economisti, Ricardo compreso, sono
antistorici in tutta la loro concezione”.
[369] Cfr. Antidühring, cit., pp.93-95
(Werke, 20, pp.81-83); Ludovico Feuerbach, cit., pp.1133-1135 (Werke, 21,
pp.293-295).
[370] ibid., p.13 (ibid., p.14).
[371] id., Ludovico Feuerbach, cit.,
pp.1117-1118 (Werke, 21, pp.277-278). Cfr. ancora ibid., p.1122 (ibid., p.282):
“Le ripercussioni del mondo esterno sull’uomo si esprimono nel suo cervello, si
riflettono in esso come sensazioni, pensieri, impulsi, volizioni, in breve,
come “correnti ideali”, e in questa forma diventano “forze ideali”“.
[372] Cfr. ibid., pp.1118-1120 (ibid.,
pp.278-279): Si vedano anche Il Capitale, cit., vol. 1°, p.455 (Werke, 23,
p.392-393); Carteggio, cit., vol. V, pp.281-282 (Werke, 32,
pp.202-203).
[373] id., Dialettica della natura,
cit., pp.215-219 (Werke, 20, pp.472-476); Ludovico Feuerbach, cit.,
p.1121 (Werke, 21, pp.280-281).
[374] Cfr. F. Gregory, Scientific
materialism, cit., pp.186 e sgg.
[375] F. Engels, Ludovico Feuerbach,
cit., p.1136 (Werke, 21, p.296).
[376] Cfr. ibid., pp.1136-1146 (ibid.,
pp.296-306). In questa pagine, infatti, Engels sostiene che lo stesso agire
cosciente guidato da scopi, in società, è soggetto a leggi, in “una
situazione che è assolutamente analoga a quella che regna nella
natura incosciente” (corsivo mio).
[377] Cfr. E. Hæckel, Antropogenia.
Storia dell’evoluzione umana, UTET, Torino, 1895, pp.47-99, pp.201-247.
[378] Cfr. J. Moleschott, Sulla vita
umana. Prolusioni e discorsi, Loescher, Torino, 1861-1867: 2ª Prolusione,
pp.1-5; id., La circolazione della vita, Milano, 1849, pp.338-352.
[379] Cfr. L. Büchner, Forza e materia,
Milano, 1867, pp.27-39, pp.76-78, pp.224-238, pp.246-252, pp.318-336.
[380] Cfr. ad es. A. von Humboldt, Il
cosmo. Saggio di una descrizione fisica del mondo, Napoli, 1850, vol. 1°,
pp.11-12, p.188; vol. 3°, pp.1-24. Marx conosceva bene l’opera di Humboldt, sin
dalle Lettres a Varnagen von Ense, Genève, 1860.
[381] F. Engels, Ludovico Feuerbach, cit.,
pp.1117-1118, p.1122 (Werke, 21, pp.277-282); Dialettica della
natura, cit., p.221 (Werke, 20, p.479). Cfr. cosa sosteneva Moleschott in
merito: La circolazione della vita, cit., p.328: “Il pensiero è dunque un
movimento della materia”. Si veda anche L. Büchner, Forza e materia, cit.,
p.28, pp.76-78.
[382] Cfr. la definizione di materialismo
da parte di E. Hæckel, Storia della creazione naturale, UTET, Torino,
1892, pp.18-28; id., I problemi dell’universo, UTET, Torino, 1904, p.617.
[383] Sull’identità delle leggi di natura e
della ragione cfr. L. Büchner, Forza e materia, cit., pp.100-102, p.246.
[384] Cfr. F. Mondella, Il sorgere
della nuova filosofia ottocentesca, in L. Geymonat, Storia del pensiero
filosofico e scientifico, cit., vol. IV, pp.592 e sgg.
[385] Cfr. a questo proposito L. Büchner, Forza
e materia, cit., pp.301-303; J. Moleschott, Sulla vita umana, cit.: 2ª
Prolusione, pp.13-31; E. Hæckel, Antropogenia, cit., p.27, pp.49-52, p.91,
pp.458-460.
[386] Cfr. L. Büchner, L’uomo
considerato secondo i risultati della scienza, Milano, 1870, Parte seconda,
p.7; Parte terza, pp.6-8, pp.117-120.
[387] id., Scienza e natura, Milano,
1870, p.89, p.97, p.178, p.206, pp.222-229, p.269.
[388] Cfr. id., Forza e materia, cit.,
pp.32-33.
[389] J. Moleschott, Sulla vita umana,
cit., 6ª Prolusione, pp.10-12. Si veda anche L. Büchner, Scienza e natura,
cit., pp.224 e sgg.
[390] Cfr. J. Moleschott, La
circolazione della vita, cit., p.253; L. Büchner, Forza e materia, cit.,
pp.296-299; E. Hæckel, Antropogenia, cit., pp.47 e sgg.
[391] Questa idea engelsiana era già stata
formulata da L. Büchner, Forza e materia, cit., pp.156-166, p.198, p.254,
pp.290-291.
[392] Tutti i passi citati in F. Engels, Ludovico
Feuerbach, cit., pp.1136-1137 (Werke, 21, pp.296-298).
[393] Cfr. ibid., p.1140, p.1146 (ibid.,
p.300, pp.305-306).
[394] ibid., p.1137; corsivo mio (ibid.,
p.298).
[395] ibid., p.1139 (ibid., p.298)
[396] Basti dire che tratta William Whewell
come un induttivista! Cfr. Dialettica della natura, cit., p.237 (Werke, 20,
p.495). Non è oltremodo paradossale che ancora oggi C. Mangione, Logica e
fondamenti della matematica nella prima metà dell’Ottocento, in L. Geymonat, Storia
del pensiero filosofico e scientifico, cit., pp.193-196, possa considerare le
opere di John Herschel e William Whewell delle “immediate e importanti
anticipazioni della tematica induttiva di John Stuart Mill”? È
proprio il caso di dire, con Bachelard, che “on déclare bien souvent clairs les
problèmes qu’on n’étudie pas”.
[397] Su questi due problemi mi permetto di
rinviare al mio Sistemi di conoscenza e Potere nella società
capitalistica, più volte citato. In particolare si vedano il Capitolo secondo: La
mediazione nel pensiero di hegel, e il Capitolo quarto: Kant: critica
dell’ontologia e pensiero infondato, filosofia ed epistemologia.
[398] I due passi citati in Il
Capitale, cit., vol. 1°, p.455 (Werke, 23, p.393). Questa omissione non
può ovviamente riguardare l’idea che Hæckel e compagni avevano dell’intrinseca
processualità evolutiva della Natura, il loro concetto eracliteo del divenire
della materia (cfr. ad es. L. Büchner, Scienza e natura, cit., pp.2-6,
pp.54 e sgg.). Marx doveva senz’altro conoscere questo aspetto della loro
elaborazione. Sin dall’inizio, non appena uscì Kraft und Stoff nel
1855. Se non può riferirsi a ciò, dunque, l’obiezione di Marx deve avere per forza
di cose un altro bersaglio: quello sociale, ovviamente, la loro concezione
della società e delle leggi che ne governano nascita, sviluppo, tendenze ed
eventuale trasformazione.
[399] L. Büchner, Scienza e natura,
cit., pp.311-312, pp.249-253, pp.290-295.
[400] K. Marx, Il Capitale, cit., vol.
1°, p.647 (Werke, 23, p.551). Ricordo che sono decine le pagine in cui
Marx illustra questa bilaterale forma di manifestazione della natura del
capitale, un ossimoro teorico che solo lui ha saputo spiegare.
[401] F. Gregory, Scientific
materialism, cit., p.156.
[402] I due passi citati in Il
Capitale, cit., vol. 1°, p.455 (Werke, 23, p.393). Probabilmente
l’avversione di Marx per la concezione in causa derivava anche
dall’interpretazione della società capitalistica e di categorie come
“capitale”, “lavoro salariato” e simili ad es. da parte di Büchner: cfr. a
questo proposito L’uomo considerato secondo i risultati della scienza,
cit., Parte terza, pp.52-63
[403] Cfr. F. Engels, L’evoluzione del
socialismo, cit., p.41 (Werke, 19, p.529).
[404] Come spiega T. Lenoir, The
strategy of life. Teleology and mechanics in nineteenth-century German biology,
The University of Chicago press, 1989, accanto alla teleologia religiosa basata
sul “purposeful Divine Architect” v’era un “more sophisticated type of
teleology” fondato “on strictly scientific grounds” (ibid., pp.4-6, p.9-12,
270-275). Sull’interna complessità della scienza della natura tedesca e
sull’interazione tra scienza e filosofia nel passaggio dal Settecento
all’Ottocento cfr. l’ampio studio di S. Poggi, Il genio e l’unità della
natura. La scienza della Germania romantica (1790-1830), Il Mulino, Bologna,
2000. Sul mondo scientifico europeo, con particolare riferimento agli studi
biologici tra Seicento e Ottocento, cfr. P. Duris - G. Gohau, Histoire des
sciences de la vie, Nathan, Paris, 1997.
[405] Tutti i passi citati in P. Rehbock, The
philosophical naturalists, cit., pp.4-24.
[406] Cfr. ibid., pp.24-30, pp.98-114,
pp.192 e sgg.
[408] Tutti i passi citati ibid., p.7. Su
queste questioni cfr. anche Varii Auctores, The ferment of knowledge,
cit., pp.250-271; C. C. Gillispie, Genesis and geology, cit., pp.13-40.
[409] Cfr. ibid., p.111, p.56, p.63.
[410] Cfr. D. Layzer, Cosmogenesis.
The growth of order in the universe, Oxford U. P., 1990, pp.297-298.
[411] P. Rehbock, The philosphical
naturalists, cit., p.113.
[412] Cfr. ibid., pp.18-39.
[414] D. Ospovat, The development of
Darwin’s theory, cit., pp.10-12.
[417] R. Yeo, Defining science, cit.,
p.31
[418] Tutti i passi citati in D. Ospovat, The
development od Darwin’s theory, cit., p.22.
[419] Cfr. J. D. Barrow - F. J. Tipler, The
anthropic cosmological principle, cit., pp.51-62. I nomi di coloro che
propendevano per introdurre “some finalistic design principle into physics”
sono quelli classici di Copernico, Keplero, William Harvey, Robert Boyle, John
Ray e persino Newton. D’altro canto, tanto Descartes quanto Bacon, che si
opponevano a queste tendenze, presupponevano comunque un Dio come regolatore
dell’universo. Cfr. ancora C. C. Gillispie, Genesis and geology, cit.,
pp.10-11, pp.112-119. Fondamentali per capire lo stato della questione sono gli
studi di Koyré: Studi newtoniani, Einadi, Torino, 1983; Du monde clos
à l’univers infini, Gallimard, Paris, 1973.
[420] Cfr. G. N. Cantor – M. J. Hodge
(eds.), Conceptions of Ether. Studies in the history of ether theories
1740- 1900, Cambridge U. P. 1981, pp.7-78.
[421] C. C. Gillispie, Genesis and
geology, cit., p.12.
[422] ibid. D’altro canto, gli
scienziati del 700 erano tutti “scientists who considered the world as the work
of God, and studied it precisely in order to demonstrate the wisdom of God”, in
Varii Auctores, The ferment of knowledge, cit., pp.263-264.
[424] Cfr. ibid., pp.13-20, pp.30-40.
[426] Cfr. S. Shapin, The scientific
revolution, The University of Chicago Press, 1996, pp.142-155.
[427] Cfr. C. C. Gillispie, Genesis
and geology, cit., pp.150-170, pp.174-181; A Desmond, The politics of
evolution, cit., pp.42-59,, pp.53-56, pp.63-64, pp.92-94, pp.197-199.
[428] S. J. Gould, Ontogeny and
phylogeny, cit., pp.74-78.
[429] Cfr. J. D. Barrow – F. J. Tipler, The
anthropic cosmological principle, cit., pp.71-79.
[430] S. J. Gould, Ontogeny and
phylogeny, cit., p.415.
[431] Cfr. J. D. Barrow – F. J. Tipler, The
anthropic cosmological principle, cit., pp.49-72; Varii Auctores, The
ferment of knowledge, cit., pp.19-25, pp.47-54.
[432] G. N. Canto – M. J. Hodge (eds.), Conceptions
of ether, cit., pp.6-7.
[433] A. Desmond, The politics of
evolution, cit., pp.42-47.
[434] Cfr. S. J. Gould, Ontogeny and
phylogeny, cit., pp.78-79.
[435] Cfr. per esempio il Manuale, famoso
ai suoi tempi, di E. Fischer, Physique mécanique, Paris, 1819, pp.1-6.
[436] Tutti i passi citati in J. D. Barrow
– F. J. Tipler, The anthropic cosmological principle, cit., pp.59-92,
pp.126-128.
[437] Cfr. P. Rehbock, The
philosophical naturalists, cit., pp.24-30, per gli stretti contatti degli
studiosi inglesi con gli ambienti scientifici tedeschi.
[438] Cfr. D. Ospovat, The development
of Darwin’s theory, cit., pp.12-17, pp.33-34, pp.53-55, pp.58-59, p.222, p.239.
Qui Ospovat mostra come nelle opere di studiosi quali Carpenter, Buckland,
Lyell e altri, fossero presenti spiegazioni teleologiche ma anche principi
legisimili, “regulative principles” ed insieme ipotesi causali e
deterministiche, in una compresenza di postulati contraddittori tipica di ogni
fase in cui sta emergendo un diverso paradigma scientifico.
[439] Tutti i passi citati in W. B.
Carpenter, Principles of physiology, cit., pp.34-37.
[444] Cfr. ibid., pp.935-949, pp.1017-1018.
[445] Cfr. P. Rehbock, The
philosophical naturalists, cit., p.65.
[447] W. B. Carpenter, Principles of
physiology, cit., p.341.
[448] Perché il “Carpenter’s scientific
calvinism” si opponesse a Cuvier lo ha spiegato benissimo A. Desmond nel suo The
politics of evolution, cit., pp.199-222, pp.367-368. Per tre motivi
essenzialmente: 1. Perché la classificazione alla Cuvier si limitava alla “sterile
observation of facts”; 2. Perché essa “does not penetrate beneath the surface”;
3. Infine perché ignorava ogni “lawful process of change in nature” (ideologia
della “inert matter or Cuverian teleology”).
[449] P. Rehbock, The philosophical
naturalists, cit., p.64.
[450] Tutti questi fisiologi, anatomisti,
ecc., - Robert Grant, Richard Grainger, Robert Knox, insomma tutta l’élite
intellettuale inglese contraria al predominio della “natural theology” - oltre
ad essere avversi al finalismo della vecchia scuola, “were also atheists or
deists. They accepted God on rational grounds but rejected biblical revelation.
Hence they tended to favor more lawful, deterministic explanation of nature”,
in A. Desmond, The politics of evolution, cit., pp.5-6.
[451] Cfr. ibid., pp.13-32, p.46, p.56,
pp.63-64, pp.110-117, pp.236-275..
[452] T. Lenoir, The stategy of life,
cit., pp.5-6
[453] Cfr. S. J. Gould, Ontogeny and
phylogeny, cit., pp.33-47, pp.415-417.
[454] T. Lenoir, The strategy of life,
cit., p.7. La tesi veniva sostenuta anche per opporsi al riduzionismo
chimico-fisico di Boltzmann, Du Bois Reymond, Magendie e altri.
[457] Citato ibid., pp.272-273. Carpenter
sostiene la stessa cosa: cfr. i suoi Principles of physiology, cit.,
p.111: una “organised structure”, un organismo individuale “can mantain its
life by itself, and perform all the actions proper to its species”. Sull’uso
ambiguo da parte di von Baer della Lebesnkraft cfr. ancora Lenoir,
ibid., pp.158 e sgg.
[458] Cfr. ibid., pp.21-24.
[459] S. J. Gould, Ontogeny and
phylogeny, cit., p.221.
[460] Cfr. T. Lenoir, The strategy of
life, cit., p.21.
[461] Cfr. ibid., pp.20-22, pp.24-29,
p.112, per l’esplicito paragone con Newton. D’altro canto, Carpenter in
Inghilterra perseguiva il medesimo fine: cfr. i suoi Principles of
physiology, cit., pp.2-6, p.517. Qui Carpenter sostiene che la biologia, come
le scienze fisiche, tende a spiegare il mondo organico con le stesse leggi “which
regulate the movements of the heavenly bodies”.
[462] È anche vero, tuttavia, che si è
limitato a prendere in consderazione la filosofia – Hegel, Schelling, Feuerbach
– ignorando la messe di studi scientifici dedicati all’argomento.
[463] Cfr. C. Wilson, The invisible
world. Early modern philosophy and the invention of the microscope, Princeton
University Press, 1995, p.7, pp.40-58, pp.61-62, p.103.
[464] Cfr. ibid. Su questa questione cfr.
anche S. Shapin, The scientific revolution, cit., pp.19-24, pp.50-102,
pp.142-155.
[465] Cfr. T. Lenoir, The strategy of
life, cit., p.20.
[467] Cfr. ibid., p.161, 171.
[468] I due passi citati ibid., p.164.
[470] Cfr. ibid., pp.158-168. Per quanto
riguarda “the prior imposition of ideas upon the world of observations” da
parte dei Naturphilosophen si veda anche S. J. Gould, Ontogeny
and phylogeny, cit., p.59, p.417.
[472] Cfr. complessivamente ibid.,
pp.158-168, pp.173-175, pp.187-189, p.200, pp.218-219, p.232.
[473] Si veda ad esempio la critica di
Helmholtz alla Lebenskraft: cfr. ibid., pp196-274.
[474] Queste interpretazioni si ritrovano
in fisica, in geologia, in biologia, in astronomia, insomma dappertutto: oltre
al volume di Lenoir cfr. J. D. Barrow – F. J. Tipler, The anthropic
cosmological principle, cit., pp74-76, p.90; S. J. Gould, Time’s arrow,
time’s cycle, Penguin, London, 1987, pp.73-97.
[475] In Inghilterra ad esempio, sin dai
primi decenni dell’Ottocento, nel campo degli studi medici esisteva persino un “physiological
materialism” codificato nelle opere di George Dermott e John Elliotson: cfr. A.
Desmond, The politics of evolution, cit., pp.180-183. D’altro canto, come
ha chiarito Gregory, nella stessa Germania di quegli anni esistevano molte “variants
of materialism”: cfr. il suo Scientific materialism, cit., pp.XI-XIV.
[476] Cfr. l’illustre testimonianza di
George Cuvier, Tableaux élémentaire de l’historie naturelle des animaux,
Paris, 1798, pp.2-3: “Toute connoissance est double. De toutes les propriétés
ou le événemens sensibles. Celle de l’explication de ces événemens, la
dèmonstration de leur conformité avec les lois générales des sciences physiques
et mathématiques”.
[477] Cfr. F. Gregory, Scientific
materialism, cit., p.147, p.246.
[478] Cfr. ibid., p.146-163.
[479] Cfr. ibid., p.249. Si ricorderà che
Engels aveva invece collocato Whewell nella scuola induttivista
inglese. Paradossalmente Büchner è in questo caso più corretto.
[481] Cfr. ibid., pp.150-159.
[482] I due passi citati ibid., p.152,
p.155. Secondo Büchner nel suo “sistema realista” v’era una specie di sintesi
tra idealismo e materialismo: cfr. il suo Scienza e natura, cit., pp.133 e
sgg.
[483] J. Moleschott, La circolazione
della vita, cit., pp.26-28, pp.318-333. Cfr. anche cosa dice in proposito
Büchner, Forza e materia, cit., pp.77-80, pp.187-189, p.199: realtà e
razionalità “necessariamente si suppongono [a vicenda]”. Si veda in ultimo E.
Hæckel, Antropogenia, cit., pp.49-52, p.91, pp.458-460: esperienza e
teoria, fatti e pensiero “si completano necessariamente”.
[484] F. Gregory, Scientific
materialism, cit., p.147.
[485] J. Moleschott, Sulla vita umana,
cit., p.13.
[486] Cfr. id., La circolazione della
vita, cit., pp.26-28.
[488] Cfr. in particolare L. Büchner, Scienza
e natura, cit., pp.320-325. La “reciproca alleanza” proposta in queste pagine
tra empirismo e speculazione (=formulazione di ipotesi, di congetture) sotto il
primato dell’intelletto discende sin dall’inizio dalla supposta codipendenza di
mente e mondo.
[489] Cfr. id., Forza e materia, cit.,
pp.27-35.
[490] Cfr. F. Gregory, Scientific
materialism, cit., pp.136-137.
[491] Cfr. L. Büchner, L’uomo
considerato secondo i risultati della scienza, cit., Prima parte, pp.105-116;
Seconda parte, pp.6-7, pp.10-26; id., Forza e materia, cit., pp.150-168,
pp.290-297.
[492] Cfr. F. Gregory, Scientific
materialism, cit., pp.181-187. Come ha spiegato Richards, tuttavia, “the idea
of progress in Nature […] almost always led to assumptions about divine
meddling in the natural world”, in R. J. Richards, The meaning of
evolution, The University of Chicago Press, 1992, p.148. Paradossalmente, con
la sua enfasi sullo sviluppo umano in termini di “lenta ma costante evoluzione
verso la perfezione”, Büchner introduceva nel suo discorso un elemento
teologico. La stessa cosa fa del resto Hæckel.
[494] Cfr. ibid., p.181, p.187. Cfr. anche
L. Büchner, Forza e materia, cit., pp.290-291. La stessa avversione per le
“improvvise rivoluzioni” geologiche che avrebbero colpito la terra nel passato
l’aveva Engels, il quale pensava che Cuvier le imputasse ai ”capricci
del creatore”: cfr. Dialettica della natura, cit., p.44 (Werke, 20,
p.317).
[495] L. Büchner, Scienza e natura,
cit., p.206.
[496] Cfr. F. Gregory, Scientific
materialism, cit., p.164-169, pp.186-188.
[497] Sugli esiti infausti ad esempio delle
teorie di Ernst Hæckel cfr. S. J. Gould, Ontogeny and phylogeny, cit.,
pp.76-85. Secondo Gould, Engels è stato “one of Haeckel’s more illustrious
followers”: cfr. ibid.,136. Sulla evoluzione novecentesca del “monismo” di
Hæckel cfr. D. Gasman, The scientific origin or national socialism. Social
Darwinism in Ernst Haeckel and the German League, MacDonald, London, 1971;
id., Haeckel’s Monism and the birth of fascist ideology, Peter Lang
Publishing, New York, 1998. Aveva torto Schrödinger a definire il retroterra
filosofico di queste concezioni “piuttosto oscuro”? Cfr. il suo L’immagine
del mondo, Boringhieri, Torino, 1987, p.104 (Il giudizio si riferisce a Kraft
und Stoffe, ma è estensibile a tutta la scuola di pensiero in oggetto).
[498] Cfr. F. Gregory, Scientific
materialism, cit., pp.154-159.
[499] Cfr. T. Lenoir, The stategy of
life, cit., pp.215 e sgg.
[500] La migliore esemplificazione della
natura convenzionale della causalità e del “physical-law determinism” - come lo
ha chiamato Hacking, Probability and determinism, 1650-1900, in Varii
Auctores, Companion to the history of modern science, cit., p.691 - tipico
della scienza moderna è quella datane da Henri Poincaré in Dernières
pensées Flammarion, Paris, 1913, p.45: “La science est déterministe; elle
l’est a priori; elle postule le déterminisme parce que sans lui elle
ne pourrait être”. D’altro canto, soprattutto nell’analisi del mondo fisico, da
qualche presupposto bisogna pur partire. Come dice l’astrofisico Paul Davies: “Prima
o poi tutti dobbiamo accettare qualcosa come dato, sia esso Dio, oppure la
logica, o un insieme di leggi”, in La mente di Dio, cit., p.5.
[501] F. Engels, Ludovico Feuerbach,
cit., p.1136 (Werke, 21, p.295).
[502] Cfr. ad es. W. Whewell, Astronomy
and general physics, cit., pp.206-208.
[504] Cfr. S. Shapin, The scientific
revolution, cit., pp.90-130.
[505] Cfr. C. Wilson, The invisible
world, cit., pp.7 e sgg., p.50, pp.215-220; R. Olson, Scottish philosophy
and British physics 1750-1880, cit., pp.29-65, pp.141-146; S. Shapin, The
scientific revolution, cit., pp.50-52, pp.96-102, pp.144-148.
[506] Davvero paradigmatico è a questo
proposito il ragionamento di Lamarck. Cosa sostiene il famoso naturalista
francese? Nella Introduction alla sua grande Histoire naturelle
des animaux - che cito nella traduzione italiana delle Opere, UTET,
Torino, 1969, pp.243-274, pp.302-325 - Lamarck considera Dio la “potenza
intelligente e illimitata” da cui tutti gli esseri viventi e la Natura stessa
sono nati. Allo stesso tempo, però, egli afferma che noi possiamo conoscere
solo i fatti suscettibili di constatazione empirica, giacché di altre entità
non ci è concesso sapere niente. Così, “un discorso scientifico è lecito solo
su ciò che è alla portata delle nostre osservazioni” e “al di fuori della
Natura, al di fuori dei corpi e delle materie che possono palesarsi ai nostri
sensi, noi non possiamo osservar nulla e nulla conoscere in modo positivo”.
L’unico oggetto di cui possiamo occuparci è un “ordine di cose”, del resto “soggetto
a leggi”, in cui tutto avviene “solo per necessità”. Nel consegnare il suo “esprit
de système” al posteriore Système analytique des connoissances positive de
l’homme, cit., pp.7-14, Lamarck diventerà persino più esplicito. Qui Dio, e
sembra di sentir parlare Kant!, viene apertamente ricondotto ad un nostro
postulato, giacché “ce n’est que par le moyen d’une oppos0ition à ce qui est
matériel que nous nous sommes formé l’idée d’un esprit”. D’altra parte, “comme
cet être supposé n’est nullement dans la catégorie des objets qu’il nous soit
possible d’observer, nous ne saurions rien connaitre à son égard. L’idée que
nous en avons est donc absolument sans base”. Dal che, secondo Lamarck, ne
consegue un altro principio epistemologico: “Ne pouvant observer que des actes
de la nature, que les lois qui régissent ces actes, que le produits de ces
derniers, en un mot, que des corps et ce qui les concerne, tout ce qui provient
immédiatement de la puissance suprême est incompréhensible pour nous, comme
elle-même l’est à notre égard”. Com’è evidente, presupporre Dio, poterne e
doverne fare a meno, studiare solo la Natura e le sue leggi necessarie,
rappresentano in Lamarck un unico blocco di concetti solidali ed univocamente
finalizzati. Anche dando per scontata la volontà ordinatrice de “l’Auter
suprême”, ed anzi proprio in virtù di tale assunzione, è possibile lo studio
positivo del mondo naturale nonché una sorta di ibridazione tra creazionismo e
autonomia relativa del regno organico, tra una visione subordinata e passiva
della Natura e una sua rappresentazione invece in quanto ambiente dinamico e
animato da “cause perennemente attive” (anche se a loro volta “governate da
leggi di ordine superiore”).
[507] Cfr. D. Yeo, Defining science,
cit., 12-15; Varii Auctores, Foundations of scientific method, cit.,
pp.7-17, p.43; Varii Auctores, Theories of scientific method, cit.,
pp.15-17, pp.67-72, pp.80-103, pp.137-138, pp.183 e sgg. È importante notare il
fatto che, di contro a quello che si credeva fosse il metodo del “trenchant
inductivism” inaugurato da Newton, “during the period from 1745 to 1770, many
emerging theories within the sciencesmoved well beyond the inductivem
observatoional bounds imposed by erstwhile newtonians”. Da David Hartley a
Georges LeSage la formulazione di “speculative hypotheses about unseen agents”,
ovvero “hidden or unobservable entities”, continuò a contrapporsi alla tendenza
“to exclude any entity or process not strictly obeservable” dal ragionamento
scientifico. Questi modelli epistemologici, prolungatisi poi in epoca
successiva, erano tutti “well-reasoned attempts to articulate and defend a
hypotethico-deductive methodology in the face of inductivist criticism”. Tutti
i passi citati in L. Laudan, The medium and its message, in Varii
Auctores,Conceptions of ether, cit., pp.158-183; corsivo mio. Cfr. anche R.
Harré, Knowledge, in The ferment of knowldege, cit., pp.19-23,
pp.42-43. L’aspirazione ad andare “beyond the bounds of sense” diventa ancora
più significativa se si pensa al fatto che essa - oltre a svilupparsi
all’interno del pensiero scientifico, a sottolineare la funzione attiva della
mente nell’interpretazione delle cose e a rendere possibile la spiegazione
degli eventi fisici attraverso le distinzioni già viste tra fenomeni apparenti
e reali, tra cause legisimili ed effetti misurabili, e così via – rappresenta
una forma di conoscenza sin dalle origini diametralmente opposta agli
orientamenti teorici apparentemente empiristi che nasceranno nel Novecento,
classicamente esemplati dal Manifesto filosofico del “Wiener Kreis”: cfr. La
concezione scientifica del mondo, Bari, Laterza, 1979. Qui è tuttavia
necessario fare una distinzione. Una cosa è sostenere che, di contro ad ogni
metafisica, la scienza conosce soltanto i fenomeni o che v’è un unico oggetto
di studio. Un’altra, del tutto diversa, è assserire come ha fatto la “wissenschaftliche
Weltauffassung” che “nella scienza non si dà “profondità” alcuna; tutto è superficie”.
La prima tesi, difesa da Bachelard, Cassirer, Nagel, Geymonat, Layzer e altri,
apertamente o implicitamente, presuppone comunque sia una realtà strutturata e
a più livelli sia una concezione costruttivista della conoscenza. La seconda,
invece, se presa alla lettera nasce confutata in primo luogo dallo stesso
sviluppo interno di quel pensiero scientifico che avrebbe voluto descrivere, e
soprattutto se riferita all’analisi della società, come era nelle intenzioni
dei viennesi e come fa ad es. Jacques Bidet (cfr. Théorie de la modernité,
PUF, Paris, 1990), oltre a non poter scalfire di un millimetro il predominio
dello “speculativo”, renderebbe impossibile poter comprendere la sofisticata
natura interna del modo di produzione capitalistico, legittimando la logica
della fattualità. Per le opere degli epistemologi e scienziati citati cfr.: G.
Bachelard, L’activité rationaliste de la physique contemporaine, Paris,
PUF, 1952; id., La philosophie du non, PUF, Paris, 1981; E. Cassirer, Determinismo
e indeterminismo nella fisica moderna, La Nuova Italia, Firenze, 1970; E.
Nagel, La struttura della scienza, Feltrinelli, Milano, 1981; L. Geymonat, Scienza
e realismo, Feltrinelli, Milano, 1982; D. Layzer, Cosmogenesis. The growth
of order in the universe, Oxford U. P., 1990. Il principio scientifico
enunciato - “to go beyond facts”, nella formulazione di Thomas Huxley
del 1887 - rappresenta ancora oggi un prezioso concetto senza il quale ci
sarebbe vietata qualsiasi analisi dei profondi meccanismi riproduttivi interni
dell’attuale sistema sociale.
[508] Cfr. G. V. Plekhanov, Essays in
the history of materialism, London, 1896. Paradossalmente, Plechanov riteneva
che la sua concezione appartenesse alla “scientific school”!
[509] Cfr. R. Bhaskar, A realist
theory of science, Verso, London, 1997.
[510] Cfr. Varii Auctores, L’ape e
l’architetto. Paradigmi scientifici e materialismo storico, Feltrinelli,
Milano, 1977; L. Geymonat, Paradossi e rivoluzioni, Il Saggiatore, Milano,
1979; id., Scienza e realismo, Feltrinelli, Milano, 1982.
[511] Cfr. L. Althusser, Philosophie
et philosophie spontanée des savants, Maspero, Paris,1974.
[512] Cfr. ad esempio H. Marcuse, L’uomo
a una dimensione, Einaudi, Torino, 1967; A. Sohn-Rethel, Lavoro
intelettuale e lavoro manuale; Il denaro. L’apriori in contanti, entrambi
già citati. Esistono anche altre varianti non marxiste che cercano di spiegare
la natura socialmente condizionata della scienza: quella di Shapin e Desmond
per esempio. Langdon Winner è un caso a parte. Ellul e Latouche sono un’altra
variante ancora, del resto divisa in due tendenze distinte. Per
un’illustrazione di tutte queste scuole mi permetto di rinviare al mio Sistemi
di conscenza e Potere nella società capitalistica, cit., in particolare al
Capitolo settimo: Oltre il marxismo storico, pp.630 e sgg.