Marcello Musto | Pochi
uomini hanno scosso il mondo come Karl Marx. Alla sua scomparsa, passata
pressoché inosservata, fece immediatamente seguito, con una rapidità che nella
storia ha rari esempi ai quali poter essere confrontata, l’eco della fama. Ben
presto, il nome di Marx fu sulle bocche dei lavoratori di Chicago e Detroit,
così come su quelle dei primi socialisti indiani a Calcutta. La sua immagine
fece da sfondo al congresso dei bolscevichi a Mosca dopo la rivoluzione. Il suo
pensiero ispirò programmi e statuti di tutte le organizzazioni politiche e
sindacali del movimento operaio, dall’intera Europa sino a Shanghai. Le sue
idee hanno irreversibilmente stravolto la filosofia, la storia, l’economia.
Eppure, nonostante l’affermazione delle sue teorie, trasformate nel XX secolo
in ideologia dominante e dottrina di Stato per una gran parte del genere umano
e l’enorme diffusione dei suoi scritti, egli rimane, ancora oggi, privo di un’edizione
integrale e scientifica delle proprie opere. Tra i più grandi autori, questa
sorte è toccata esclusivamente a lui. Ragione primaria di questa particolarissima condizione
risiede nel carattere largamente incompleto della sua opera. Se si escludono,
infatti, gli articoli giornalistici editi nel
quindicennio 1848-1862, gran
parte dei quali destinati al «New-York Tribune», all’epoca uno dei più
importanti quotidiani del mondo, i lavori pubblicati furono relativamente
pochi, se comparati ai tanti realizzati solo parzialmente ed all’imponente mole
di ricerche svolte. Emblematicamente, quando nel 1881, in uno dei suoi ultimi
anni di vita, Marx fu interrogato da Karl Kautsky, circa l’opportunità di un’edizione
completa delle sue opere, egli rispose: «queste dovrebbero prima di tutto
essere scritte». Marx lasciò, dunque, molti più manoscritti di quanti non ne
diede invece alle stampe. Contrariamente a come in genere si ritiene, la sua
opera fu frammentaria e talvolta contraddittoria, aspetti che ne evidenziano
una delle caratteristiche peculiari: l’incompiutezza. Il metodo oltremodo
rigoroso e l’autocritica più spietata, che determinarono l’impossibilità di
condurre a termine molti dei lavori intrapresi; le condizioni di profonda
miseria ed il permanente stato di cattiva salute, che lo attanagliarono per
tutta la vita; l’inestinguibile passione conoscitiva, che restò inalterata nel
tempo spingendolo sempre verso nuovi studi; ed infine, la gravosa consapevolezza
acquisita con la piena maturità della difficoltà di rinchiudere la complessità
della storia in un progetto teorico, fecero proprio dell’incompiutezza la
fedele compagna e la dannazione dell’intera produzione di Marx e della sua
stessa esistenza. Il colossale piano della sua opera non fu portato a termine
che per un’esigua parte, risolvendo in un fallimento letterario le sue
incessanti fatiche intellettuali, che non per questo si mostrarono meno geniali
e feconde di straordinarie conseguenze.
Tuttavia, nonostante la frammentarietà del Nachlass
("lascito") di Marx e la sua ferma contrarietà ad erigere
un’ulteriore dottrina sociale, l’opera incompiuta fu sovvertita e un nuovo
sistema, il «marxismo», potè sorgere.
Dopo la morte di Marx, avvenuta nel 1883, fu Friedrich
Engels a dedicarsi per primo alla difficilissima impresa, stante la
dispersività dei materiali, l’astrusità del linguaggio e l’illeggibilità della
grafia, di dare alle stampe l’eredità letteraria dell’amico. Il lavoro si
concentrò sulla ricostruzione e selezione degli originali, sulla pubblicazione
dei testi inediti o incompleti e, contemporaneamente, sulle riedizioni e
traduzioni degli scritti già noti.
Anche se vi furono delle eccezioni, come nel caso delle Tesi
su Feurbach, edite nel 1888 in appendice al suo Ludwig Feuerbach e il punto
d’approdo della filosofia classica tedesca, e della Critica al programma di
Gotha, uscita nel 1891, Engels privilegiò quasi esclusivamente il lavoro
editoriale per il completamento de Il capitale, del quale era stato portato a
termine soltanto il libro primo. Questo impegno, durato oltre un decennio, fu
perseguito con il preciso intento di realizzare «un’opera organica e il più
possibile compiuta». Tale scelta, seppur rispondente ad esigenze comprensibili,
produsse il passaggio da un testo parziale e provvisorio, composto in molte
parti da «pensieri scritti in statu nascendi» e da appunti preliminari che Marx
era solito riservarsi per ulteriori elaborazioni dei temi trattati, ad un altro
unitario, dal quale originava la parvenza di una teoria economica sistematica e
conclusa. Così, nel corso della sua attività redazionale, basata sulla cernita
di quei testi che si presentavano non come versioni finali quanto, invece, come
vere e proprie varianti e sulla esigenza di uniformarne l’insieme, Engels più
che ricostruire la genesi e lo sviluppo del secondo e del terzo libro de Il
Capitale, ben lontani dalla loro definitiva stesura, consegnò alle stampe dei
volumi finiti.
D’altronde, in precedenza, egli aveva contribuito a generare
un processo di sistematizzazione teorica già direttamente con i suoi scritti.
L’Anti-Dühring, apparso nel 1878, da lui definito l’«esposizione più o meno
unitaria del metodo dialettico e della visione comunista del mondo
rappresentati da Marx e da me» , divenne il riferimento cruciale nella
formazione del «marxismo» come sistema e nella differenziazione di questo dal
socialismo eclettico, in quel periodo prevalente. Ancora maggiore incidenza
ebbe L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza, rielaborazione, a
fini divulgativi, di tre capitoli dello scritto precedente che, pubblicata per
la prima volta nel 1880, conobbe fortuna analoga a quella del Manifesto del
partito comunista. Seppur vi fu una netta distinzione tra questo tipo di volgarizzazione,
compiuta in aperta polemica con le scorciatoie semplicistiche delle sintesi
enciclopediche, e quello di cui si rese invece protagonista la successiva
generazione della socialdemocrazia tedesca, il ricorso di Engels alle scienze
naturali aprì la strada alla concezione evoluzionistica che, di lì a poco, si
sarebbe affermata anche nel movimento operaio.
Il pensiero di Marx, pur se a volte attraversato da
tentazioni deterministiche, indiscutibilmente critico ed aperto, cadde sotto i
colpi del clima culturale dell’Europa di fine Ottocento, pervaso, come non mai,
da concezioni sistematiche, prima tra tutte il darwinismo. Per rispondere ad
esse ed al bisogno di ideologia che avanzava anche tra le file del movimento
dei lavoratori, il neonato «marxismo», che andava sempre più estendendosi da
teoria scientifica a dottrina politica – divenuto precocemente ortodossia sulle
pagine della rivista «Die Neue Zeit» diretta da Kautsky – assunse rapidamente
medesima conformazione sistemica. In questo contesto, la diffusa ignoranza ed
avversione all’interno del partito tedesco nei riguardi di Hegel, vero e
proprio arcano impenetrabile, e della sua dialettica, ritenuta finanche
«l’elemento infido della dottrina marxista, l’insidia che intralcia ogni
considerazione coerente delle cose» , giocarono un ruolo decisivo.
Ulteriori fattori che contribuirono a consolidare definitivamente la
trasformazione dell’opera di Marx in sistema, sono rintracciabili nelle
modalità che ne accompagnarono la diffusione. Com’è dimostrato dalla tiratura
ridotta delle edizioni dell’epoca dei suoi testi, ne furono privilegiati
opuscoli di sintesi e compendi molto parziali. Alcune delle sue opere, inoltre,
recavano gli effetti delle strumentalizzazioni politiche. Comparvero, infatti,
le prime edizioni rimaneggiate dai curatori, pratica che, favorita
dall’incertezza del lascito marxiano, andò, in seguito, sempre più imponendosi
insieme con la censura di alcuni scritti. La forma manualistica, notevole
veicolo di esportazione del pensiero di Marx nel mondo, rappresentò sicuramente
uno strumento molto efficace di propaganda, ma anche l’alterazione fatale della
concezione iniziale. La divulgazione della sua opera, dal carattere complesso
ed incompiuto, nell’incontro col positivismo e per meglio rispondere alle
esigenze pratiche del partito proletario, si tradusse, infine, in impoverimento
e volgarizzazione del patrimonio originario, fino a renderlo irriconoscibile
trasfigurandolo da Kritik a Weltanschauung.
Dallo sviluppo di questi processi, prese corpo una dottrina
dalla schematica ed elementare interpretazione evoluzionistica, intrisa di
determinismo economico: il «marxismo» del periodo della Seconda Internazionale
(1889-1914). Guidata da una ferma quanto ingenua convinzione del procedere
automatico della storia, e dunque dell’ineluttabile successione del socialismo
al capitalismo, essa si mostrò incapace di comprendere l’andamento reale del
presente e, rompendo il necessario legame con la prassi rivoluzionaria,
produsse una sorta di quietismo fatalistico che si tramutò in fattore di
stabilità per l’ordine esistente. Si palesava in questo modo la profonda
lontananza da Marx, che già nella sua prima opera aveva dichiarato: «la storia
non fa niente (…) non è la ‘storia’ che si serve dell’uomo come mezzo per
attuare i propri fini, come se essa fosse una persona particolare; essa non è
altro che l’attività dell’uomo che persegue i suoi fini» .
La «teoria del crollo», ovvero la tesi della fine incombente
della società capitalistico-borghese, che ebbe nella crisi economica della
Grande Depressione, dispiegatasi lungo il ventennio successivo al 1873, il
contesto più favorevole per esprimersi, fu proclamata come l’essenza più intima
del socialismo scientifico. Le affermazioni di Marx, volte a delineare i principi
dinamici del capitalismo e, più in generale, a descriverne una tendenza di
sviluppo, furono trasformate in leggi storiche universalmente valide dalle
quali far discendere, sin nei particolari, il corso degli eventi.
L’idea di un capitalismo agonizzante, autonomamente
destinato al tramonto, fu presente anche nell’impianto teorico della prima
piattaforma interamente «marxista» di un partito politico, Il programma di
Erfurt del 1891, e nel commento che ne fece Kautsky che enunciava come
«l’inarrestabile sviluppo economico porta alla bancarotta del modo di
produzione capitalistico con necessità di legge naturale. La creazione di una
nuova forma di società al posto di quella attuale non è più solo qualcosa di
desiderabile ma è diventata inevitabile» . Esso fu la rappresentazione, più
significativa ed evidente, dei limiti intrinseci all’elaborazione dell’epoca,
nonché dell’abissale distanza prodottasi da colui che ne era stato
l’ispiratore.
Lo stesso Eduard Bernstein, che concependo il socialismo
come possibilità e non come ineluttabilità aveva segnato una discontinuità con
le interpretazioni in quel periodo dominanti, operò una lettura di Marx
altrettanto artefatta che non si discostava minimamente da quelle del tempo e
contribuì a diffonderne, mediante la vasta risonanza che ebbe il
Bernstein-Debatte, un’immagine egualmente alterata e strumentale.
Il «marxismo» russo, che nel corso del Novecento svolse un
ruolo fondamentale nella divulgazione del pensiero di Marx, seguì questa
traiettoria di sistematizzazione e volgarizzazione con un irrigidimento persino
maggiore.
Per il suo più importante pioniere, Gheorghi Plekhanov,
infatti, «il marxismo è una completa concezione del mondo» , improntata ad un
semplicistico monismo in base al quale le trasformazioni sovrastrutturali della
società procedono in maniera simultanea alle modificazioni economiche. In
Materialismo ed empiriocriticismo del 1909, Lenin definisce il materialismo
come «il riconoscimento della legge obiettiva della natura, e del riflesso
approssimativamente fedele di questa legge nella testa dell’uomo». La volontà e
la coscienza del genere umano devono «inevitabilmente e necessariamente»
adeguarsi alla necessità della natura. Ancora una volta a prevalere è
l’impostazione positivistica.
Dunque, a dispetto dell’aspro scontro ideologico apertosi
durante quegli anni, molti degli elementi teorici caratteristici della
deformazione operata dalla Seconda Internazionale trapassarono in quelli che
avrebbero contrassegnato la matrice culturale della Terza Internazionale.
Questa continuità si manifestò, con ancora più evidenza, in Teoria del
materialismo storico, pubblicato nel 1921 da Nikolaj Bucharin, secondo il quale
«sia nella natura che nella società, i fenomeni sono regolati da determinate
leggi. Il primo compito della scienza è scoprire questa regolarità». L’esito di
questo determinismo sociale, interamente incentrato sullo sviluppo delle forze
produttive, generò una dottrina secondo la quale «la molteplicità delle cause
che fanno sentire la loro azione nella società non contraddice affatto
l’esistenza di una legge unica dell’evoluzione sociale» .
La critica di Antonio Gramsci, che si oppose a siffatta
concezione, per la quale la «posizione del problema come una ricerca di leggi,
di linee costanti, regolari, uniformi è legata a una esigenza, concepita in
modo un po’ puerile e ingenuo, di risolvere perentoriamente il problema pratico
della prevedibilità degli accadimenti storici», riveste particolare interesse.
Il suo netto rifiuto a restringere la filosofia della praxis marxiana a
grossolana sociologia, a «ridurre una concezione del mondo a un formulario
meccanico che dà l’impressione di avere tutta la storia in tasca» , fu tanto
più importante poiché si spingeva oltre lo scritto di Bucharin e mirava a condannare
quell’orientamento assai più generale che sarebbe poi prevalso, in maniera
incontrastata, in Unione Sovietica.
Con l’affermazione del «marxismo-leninismo», il processo di
snaturamento del pensiero di Marx conobbe la sua definitiva manifestazione. La
teoria fu estromessa dalla funzione di guida dell’agire, divenendone,
viceversa, giustificazione a posteriori. Il punto di non ritorno fu raggiunto
con il «Diamat» (Dialekticeskij materialzm), «la concezione del mondo del
partito marxista-leninista». L’opuscolo di Stalin del 1938, Del materialismo
dialettico e del materialismo storico, che ebbe una straordinaria diffusione,
ne fissava i tratti essenziali: i fenomeni della vita collettiva sono regolati
da «leggi necessarie dello sviluppo sociale», «perfettamente conoscibili»; «la
storia della società si presenta come uno sviluppo necessario della società, e
lo studio della storia della società diventa una scienza». Ciò «vuol dire che
la scienza della storia della società, nonostante tutta la complessità dei fenomeni
della vita sociale, può diventare una scienza altrettanto esatta quanto, ad
esempio, la biologia, capace di utilizzare le leggi di sviluppo della società
per servirsene nella pratica» e che, di conseguenza, compito del partito del
proletariato è fondare la propria attività in base a queste leggi. È evidente
come il fraintendimento intorno ai concetti di «scientifico» e «scienza» fosse
giunto al suo culmine. La scientificità del metodo marxiano, fondata su criteri
teorici scrupolosi e coerenti, fu sostituita con il modo di procedere delle
scienze naturali che non contemperava contraddizione alcuna.
Accanto a questo catechismo ideologico, trovò terreno
fertile il più rigido ed intransigente dogmatismo. Completamente estraneo ed
avulso dalla complessità sociale, esso si sosteneva, come sempre accade quando
si propone, con un’arrogante quanto infondata cognizione della realtà. Circa
l’inesistente legame con Marx, basta ricordare il suo motto preferito: de
omnibus dubitandum.
L’ortodossia «marxista-leninista» impose un’inflessibile monismo che non mancò
di produrre effetti perversi anche sugli scritti di Marx. Inconfutabilmente,
con la Rivoluzione Sovietica il «marxismo» visse un significativo momento di
espansione e circolazione in ambiti geografici e classi sociali dai quali era,
sino ad allora, stato escluso. Tuttavia, ancora una volta, la diffusione dei
testi, più che riguardare direttamente quelli di Marx, concerneva manuali di
partito, vademecum, antologie «marxiste» su svariati argomenti. Inoltre, invalse
sempre più la censura di alcune opere, lo smembramento e la manipolazione di
altre, così come la pratica dell’estrapolazione e dell’astuto montaggio delle
citazioni. A queste, il cui ricorso rispondeva a fini preordinati, venne
destinato lo stesso trattamento che il brigante Procuste riservava alle sue
vittime: se troppo lunghe venivano amputate, se troppo corte allungate.
In conclusione, il rapporto tra la divulgazione e la non
schematizzazione di un pensiero, a maggior ragione per quello critico e volutamente
non sistemico di Marx, tra la sua popolarizzazione e l’esigenza di non
impoverirlo, è senz’altro impresa difficile da realizzare. In ogni caso a Marx
non poté capitare di peggio.
Piegato da più parti in funzione di contingenze e necessità
politiche, venne a queste assimilato e nel loro nome vituperato. La sua teoria,
da critica quale era, fu utilizzata a mo’ di esegesi di versetti biblici.
Nacquero così i più impensabili paradossi. Contrario a «prescrivere ricette (…)
per l’osteria dell’avvenire» , fu trasformato, invece, nel padre illegittimo di
un nuovo sistema sociale. Critico rigorosissimo e mai pago di punti d’approdo,
divenne la fonte del più ostinato dottrinarismo. Strenuo sostenitore della
concezione materialistica della storia, è stato sottratto al suo contesto
storico più d’ogni altro autore. Certo «che l’emancipazione della classe
operaia dev’essere opera dei lavoratori stessi» , venne ingabbiato, al
contrario, in una ideologia che vide prevalere il primato delle avanguardie
politiche e del partito nel ruolo di propulsori della coscienza di classe e di
guida della rivoluzione. Convinto assertore dell’abolizione dello Stato, si
ritrovò ad esserne identificato come suo baluardo. Interessato come pochi altri
pensatori al libero sviluppo delle individualità degli uomini, affermando,
contro il diritto borghese che cela le disparità sociali dietro una mera
uguaglianza legale, che «il diritto, invece di essere uguale, dovrebbe essere
diseguale» , è stato accomunato ad una concezione che ha neutralizzato la
ricchezza della dimensione collettiva nell’indistinto dell’omologazione.
L’incompiutezza originaria del grande lavoro critico di Marx
soggiacque alle spinte della sistematizzazione degli epigoni che produssero,
inesorabilmente, lo snaturamento del suo pensiero sino ad obliterarlo ed a
divenirne sua manifesta negazione.
Un autore
misconosciuto
«Gli scritti di Marx ed Engels (…) furon essi mai letti per
intero da nessuno, il quale si trovasse fuori dalla schiera dei prossimi amici
ed adepti, e quindi, dei seguaci e degl’interpreti diretti degli autori
stessi?» Così Antonio Labriola andava interrogandosi, nel 1897, su quanto fosse
sino ad allora conosciuto delle loro opere. Le sue conclusioni furono
inequivocabili: «il leggere tutti gli scritti dei fondatori del socialismo
scientifico è parso fino ad ora come un privilegio da iniziati»; il
«materialismo storico» era giunto fra i popoli di lingue neolatine «attraverso
una infinità di equivoci, di malintesi di alterazioni grottesche, di strani travestimenti
e di gratuite invenzioni» . Un «marxismo» immaginario. In effetti, come poi
dimostrato dalla successiva ricerca storiografica, la convinzione che Marx ed
Engels fossero stati veramente letti è stata il frutto di una leggenda
agiografica. Al contrario, molti dei loro testi erano rari o irreperibili anche
in lingua originale e, dunque, l’invito dello studioso italiano: dare vita ad
«una edizione completa e critica di tutti gli scritti di Marx ed Engels»,
indicava un’ineludibile necessità generale. Per Labriola, non bisognava
compilare antologie, bensì «tutta la operosità scientifica e politica, tutta la
produzione letteraria, sia pur essa occasionale, dei due fondatori del
socialismo critico, deve essere messa alla portata dei lettori (…) perché essi
parlino direttamente a chiunque abbia voglia di leggerli» . Oltre un secolo
dopo il suo auspicio, questo progetto non è stato ancora realizzato.
Accanto a queste valutazioni prevalentemente filologiche,
Labriola ne avanzava altre di carattere teorico, di sorprendente lungimiranza
in relazione all’epoca nella quale visse. Egli considerava tutti gli scritti ed
i lavori di circostanza di Marx ed Engels non portati a termine come «i
frammenti di una scienza e di una politica, che è in continuo divenire». Per
evitare di cercare al loro interno «ciò che non c’è, e non ci ha da essere»,
ovvero «una specie di volgata o di precettistica per la interpretazione della
storia di qualunque tempo e luogo», essi potevano essere pienamente compresi
solo se ricollegati al momento ed al contesto della loro genesi. Diversamente,
coloro i quali «non intendono il pensare ed il sapere come operosità che sono
in fieri», ossia «i dottrinari e i presuntuosi d’ogni genere, che han bisogno
degl’idoli della mente, i facitori di sistemi classici buoni per l’eternità, i
compilatori di manuali e di enciclopedie, cercheranno per torto e per rovescio
nel marxismo ciò che esso non ha mai inteso di offrire a nessuno» : una
soluzione sommaria e fideistica ai quesiti della storia.
Naturale esecutore della realizzazione dell’opera omnia non
avrebbe potuto essere che la Spd, detentrice del Nachlass e delle maggiori
competenze linguistiche e teoriche. Tuttavia, i conflitti politici in seno alla
Socialdemocrazia, non solo impedirono la pubblicazione dell’imponente e
rilevante massa dei lavori inediti di Marx, ma produssero anche la dispersione
dei suoi manoscritti, compromettendo ogni ipotesi di edizione sistematica.
Incredibilmente il partito tedesco non ne curò alcuna, trattando l’eredità
letteraria di Marx ed Engels con la massima negligenza. Nessuno tra i suoi
teorici si occupò di stilare un elenco del lascito intellettuale dei due
fondatori, composto da molti manoscritti incompleti e progetti incompiuti.
Tanto meno vi fu chi si dedicò a raccogliere la corrispondenza, voluminosissima
ma estremamente disseminata, pur essendo utilissima come fonte di chiarimento,
quando non addirittura continuazione, dei loro scritti. La biblioteca, infine,
contenente i libri da loro posseduti recanti gli interessanti marginalia e
sottolineature, fu ignorata, dispersa e solo in seguito parzialmente
ricostruita e catalogata.
La prima pubblicazione delle opere complete, la Marx Engels
Gesamtausgabe (MEGA), prese avvio solamente negli anni Venti, per iniziativa di
David Borisovic Rjazanov, principale conoscitore di Marx nel Novecento e
direttore dell’Istituto Marx-Engels di Mosca. Anche quest’impresa, però,
naufragò a causa delle tempestose vicende del movimento operaio internazionale
che troppo spesso ostacolarono anziché favorire l’edizione dei loro testi. Le
epurazioni dello stalinismo in Unione Sovietica, che s’abbatterono anche sugli
studiosi che guidavano il progetto, e l’avvento del nazismo in Germania,
portarono alla precoce interruzione dell’edizione, vanificando anche questo
tentativo. Si produsse così la contraddizione assoluta della nascita di
un’ideologia inflessibile che s’ispirava ad un autore la cui gigantesca opera
era in parte ancora inesplorata. L’affermazione del «marxismo» e la sua
cristallizzazione in corpus dogmatico precedettero la conoscenza di testi la
cui lettura era indispensabile per comprendere la formazione e l’evoluzione del
pensiero di Marx . I principali lavori giovanili, infatti, furono dati alle
stampe solo con la MEGA: Dalla critica della filosofia hegeliana del diritto
pubblico nel 1927, i Manoscritti economico-filosofici del 1844 e L’ideologia
tedesca nel 1932. Ancora successivamente, in tirature che riuscirono ad
assicurare soltanto una scarsissima diffusione, furono pubblicati alcuni
importanti lavori preparatori de Il capitale: nel 1933 il Capitolo VI inedito e
tra il 1939 ed il 1941 i Grundrisse. Questi inediti, inoltre, come gli altri
che seguirono, quando non celati nel timore che potessero erodere il cànone
ideologico dominante, furono accompagnati da un’interpretazione funzionale alle
esigenze politiche che, nella migliore delle ipotesi, apportava scontati
aggiustamenti a quella già predeterminata e che mai si tradusse in seria
ridiscussione complessiva dell’opera.
Il tortuoso processo della diffusione degli scritti di Marx
e l’assenza di una loro edizione integrale, insieme con la primaria
incompiutezza, il lavoro scellerato degli epigoni, le letture tendenziose e le
più numerose non letture, sono le cause principali del grande paradosso: Karl
Marx è un autore misconosciuto, vittima di una profonda e reiterata
incomprensione. Lo è stato nel periodo durante il quale il «marxismo» era
politicamente e culturalmente egemone, tale rimane ancora oggi .
Un’opera per l’oggi
Liberata dall’odiosa funzione di instrumentum regni, cui in
passato è stata destinata, e dalla fallacia del «marxismo», dal quale viene
definitivamente separata, l’opera di Marx, in parte ancora inedita, riemerge
nella sua originale incompiutezza ed è riconsegnata ai liberi campi del sapere.
Sottratta a sedicenti proprietari ed a costrittivi modi d’impiego, il pieno
dispiegarsi della sua preziosa ed immensa eredità teorica è reso finalmente
possibile.
Con l’ausilio della filologia trovano risposta l’esigenza
non più eludibile di ricognizione delle fonti, per tanto tempo avvolte e
mistificate dalla propaganda apologetica, ed il bisogno di disporre di un
indice certo e definitivo di tutti i manoscritti di Marx. Essa si offre come
imprescindibile mezzo per far luce sul suo testo, ristabilendone l’originario
orizzonte problematico e polimorfo ed evidenziandone l’enorme divario con molte
delle interpretazioni e delle esperienze politiche che, pur essendosi a lui
richiamate, ne hanno trasmesso una percezione oltremodo sminuente. Leggere Marx
con l’intento di ricostruirne la genesi degli scritti e il quadro storico nel
quale nacquero, di evidenziarne l’importanza del debito intellettuale
dell’elaborazione, di considerarne il carattere costantemente multidisciplinare
: è l’impegnativo compito che la nuova Marx Forschung (la ricerca su Marx) ha
innanzi a sé e che necessita, per essere perseguito, di un orientamento
permanentemente critico e lontano dal fuorviante condizionamento
dell’ideologia.
Tuttavia, quella di Marx non è soltanto un’opera priva di
un’adeguata interpretazione critica in grado di rendere giustizia al suo genio,
ma è anche un’opera in costante ricerca d’autore.
Le riflessioni di Marx sono attraversate da una differenza
irriducibile, da un carattere del tutto particolare rispetto a quelle della
maggior parte degli altri pensatori. Esse racchiudono un inscindibile legame
tra teoria e prassi e sono persistentemente rivolte ad un soggetto privilegiato
e concreto: «il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente», al
quale viene affidato il «rovesciamento pratico dei rapporti sociali esistenti»
. Credere di poter relegare il patrimonio teorico e politico di Marx ad un
passato che non avrebbe più niente da dire ai conflitti odierni, di
circoscriverlo alla funzione di classico mummificato con un interesse
inoffensivo per l’oggi o di rinchiuderlo in specialismi meramente speculativi,
si rivelerebbe impresa errata al pari di quella che lo ha trasformato nella
sfinge del grigio socialismo reale del Novecento.
La sua opera conserva confini e pretese ben più vasti degli
àmbiti delle discipline accademiche. Senza il pensiero di Marx mancherebbero i
concetti per comprendere e descrivere il mondo contemporaneo, così come gli
strumenti critici per invertire la subalternità al credo imperante che presume
di poter raffigurare il presente con le sembianze antistoriche della naturalità
e dell’immutabilità. Senza Marx saremmo condannati ad una vera e propria afasia
critica.
Non tragga in inganno l’apparente inattualità, l’assoluto ed
unanime dogma che ne decreta con certezza l’oblio. Le sue idee potranno invece
suscitare nuovi entusiasmi e stimolare ulteriori feconde riflessioni. La causa
dell’emancipazione umana dovrà ancora servirsi di lui.
Critico ineguagliato del sistema di produzione
capitalistico, Karl Marx sarà fondamentale fino al suo superamento. Il suo
«spettro» è destinato ad aggirarsi per il mondo ed a far agitare l’umanità
ancora per molto.