"No hay porvenir sin Marx. Sin la memoria y sin la herencia de Marx: en todo caso de un cierto Marx: de su genio, de al menos uno de sus espíritus. Pues ésta será nuestra hipótesis o más bien nuestra toma de partido: hay más de uno, debe haber más de uno." — Jacques Derrida

"Los hombres hacen su propia historia, pero no la hacen a su libre arbitrio, bajo circunstancias elegidas por ellos mismos, sino bajo aquellas circunstancias con que se encuentran directamente, que existen y les han sido legadas por el pasado. La tradición de todas las generaciones muertas oprime como una pesadilla el cerebro de los vivos. Y cuando éstos aparentan dedicarse precisamente a transformarse y a transformar las cosas, a crear algo nunca visto, en estas épocas de crisis revolucionaria es precisamente cuando conjuran temerosos en su auxilio los espíritus del pasado, toman prestados sus nombres, sus consignas de guerra, su ropaje, para, con este disfraz de vejez venerable y este lenguaje prestado, representar la nueva escena de la historia universal" Karl Marx

19/9/16

Marx, la Comune di Parigi e la democrazia espansiva

“Sarebbe del resto assai comodo fare la storia universale, se si accettasse battaglia soltanto alla condizione di un esito infallibilmente favorevole. D’altra parte, questa storia sarebbe di una natura assai mistica se le “casualità” non vi avessero parte alcuna.” Karl Marx, Lettera a Ludwig Kugelmann, 17 aprile 1871
Andrea Girometti
La Comuna de París ✆ Lefman

Marx e la politica. Sembrerebbe un binomio scontato. È in effetti impensabile scindere il Marx “scienziato” – declinato in senso “forte” come snodo di una pratica teorica che ha aperto alla conoscenza scientifica il “Continente Storia” (Althusser 1977) – dal Marx “politico” (si pensi solo al dirigente della I Internazionale) e quindi dalla stessa dimensione politica intesa come “arena” in cui intervenire per mutare lo status quo. Cos’altro sarebbe la lotta di classe se si limitasse ad una dimensione meramente socio-economica senza diventare immediatamente politica? Senza porsi il problema dei poteri e dei rapporti di potere e delle relative configurazioni storicamente assunte? Senza intervenire nell’incontro/scontro di forze che ripartiscono continuamente i confini di pubblico e privato? A ben vedere equivarrebbe a pensare lo sfruttamento in termini meramente contabili, dimenticando i rapporti di dipendenza in cui si articola, la dimensione ideologica – mai sopprimibile – che li alimenta, la necessità di (ri)produrre ed alimentare identità per quanto sempre contingenti e dunque mai definitivamente date. Che il rapporto di Marx con la politica sia stato lacunoso è un’ovvietà. Peraltro la natura dell’oggetto ci pare costitutivamente inesauribile. Di certo pesa, in negativo, una lettura maggioritaria – per quanto volgare non certo priva di ancoraggi, e successivamente letale per un marxismo che si volle ortodosso – che ha ridotto la politica a mera sovrastruttura. Un determinismo economico che nel tentativo di far luce nei segreti (e mostruosi) laboratori della produzione – allora quasi esclusivamente materiale –, avrebbe trascurato la dimensione politica, sia in termini d’interrogazione sulla natura della macchina statale (e dunque sullo Stato-nazione come luogo principe della politica moderna), sia relativamente alla centralità delle dinamiche interstatali e le logiche di dominio che le connotano e in tal senso sull’uso stesso del “mercato” da parte degli attori statali come ha sottolineato Giovanni Arrighi soffermandosi sugli errori marxiani (Arrighi 2010). 

Da ciò la riduzione della politica ad istanza derivata e l’interpretazione del deperimento dello stato – successivo alla “dittatura del proletariato” (altro concetto a dir poco travisato per quanto ambiguo) – come “fine della politica” in luogo di una “amministrazione delle cose” che subentrerebbe nella società senza classi. In altri termini, azzardando un’impossibile sintesi: il comunismo come fine della storia – paradossalmente echeggiante le tesi di Fukuyama sulla fine della storia in seguito alla caduta dell’Urss… ( Fukuyama 1992) – e riconciliazione umana che poggia su un’antropologia “simbiotico-fusionale” più vicina al materialismo di Feuerbach che allo stesso Hegel (Finelli 2004).
 Ad ogni modo è davvero tutto qui il pensiero politico marxiano, anzi marxengelsiano, se non vogliamo ridurre lo stesso Engels ad un semplice “cattivo” divulgatore/traduttore di Marx, come vorrebbe un nuovo senso comune? Se ne può dubitare. La riedizione degli scritti di Marx ed Engels sulla Comune parigina (Inventare l’ignoto. Testi e corrispondenze sulla Comune di Parigi, Edizioni Alegre, Roma, 2011) – dalla Guerra civile in Francia ai primi due indirizzi dell’Associazione internazionale dei lavoratori sulla guerra franco-prussiana, sino alla principale corrispondenza sulla Comune (pp. 93-254) – ne è una conferma. Il lungo saggio introduttivo di Daniel Bensaïd, significativamente intitolato Politiche di Marx (pp. 15-92), è un tentativo di recuperare un Marx che sembrerebbe “minore”, se non sconosciuto a troppi lettori. La vulgata economicistica sfuma gradualmente, sino a mettere in luce – in quel che Bensaïd, in un campo d’osservazione più vasto, chiama “trilogia” riferendosi alle principali opere politiche marxiane (Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, Il 18 di Brumaio di Luigi Bonaparte e La guerra civile in Francia) – “l’altra faccia della critica marxiana della modernità” (p. 15). In questi scritti “l’azione politica non è mai ridotta alla piatta traduzione di una logica storica o al compimento di un destino già segnato” (p.16). L’analista delle singole congiunture e – aggiungiamo – il “soggetto” che interviene nella specifica congiuntura, convivono inestricabilmente. Così come ogni rivoluzione ha un sua “provocazione”, “ingiustizia” e livello di aleatorietà che ne accende la miccia – nel caso della Comune il tentativo di disarmare la popolazione di Belleville nel marzo 1871 – senza la possibilità di prevederla ex ante. Le rotture rivoluzionarie sono oltre e contro il tempo ordinario e la lotta politica ha ritmi specifici irriducibili, dunque “non necessariamente sincronizzati su quelli dell’economia” (p. 17). Politica che Bensaïd declina in termini di “arte della mediazione” tra diverse istanze – e non espressione e/o determinazione univoca di una sfera su un’altra – ma anche “arte del controtempo e del momento propizio”, di modo che “le rivoluzioni sono raramente in orario. Non conoscono il just in time. Sono dilaniate tra il ‘non più’ e il ‘non ancora’, tra ciò che viene troppo presto e ciò che viene troppo tardi” (pp. 17-18). In questi décalages si giocano gli esiti di un rivolgimento, le conquiste come le tragedie. Ciò implica che non c’è mai un tempo pieno della rivoluzione, ma, al contrario, come dirà Marx nelle Lotte di classe in Francia, la necessità di pensare “la rivoluzione in permanenza”, espressione enigmatica in cui – come dice bene Bensaïd – si annodano “problematicamente atto e processo, l’istante e la durata, l’avvenimento e la storia” (pp. 21-22). Per questo, attualizzando la lezione della Comune, non c’è spazio per riproporre una concezione della storia come processo lineare, teleologico, o, peggio ancora, fatalistico. L’“ultimo” Althusser, da una prospettiva chiaramente diversa e sviluppando alcuni elementi teorici già accennati nelle opere maggiori degli anni ’60, evidenzierà la presenza in Marx di una concezione teleologica del tempo storico contrapposta ad una aleatoria in merito alla formazione del modo di produzione capitalistico (Althusser 2006). Ma è lo stesso “materialismo storico” (terminologia in realtà mai utilizzata da Marx, che parlerà di “materialismo comunista” o “pratico”) a non configurarsi come “un passe-partout per la comprensione della storia”, bensì, in primis, come “una modalità pratica d’intervento nella [corsivo mio] storia” (Tomba 2010). Pertanto Bensaïd, sulla scia di Guy Debord, intravede nella plurale eredità marxiana una contiguità con il “pensiero strategico” a cui si correla una “temporalità storica aperta” (p. 89). Torna, prepotentemente, la centralità del presente non più determinato in via esclusiva dal passato, né momento di un destino nell’atto di compiersi. Detto altrimenti torna il tempo “dell’azione e della decisone” (politica), anche se ciò non significa di per sé – come sembra ritenere Bensaïd – una priorità della politica sulla storia. Semmai a mutare è il quadro percettivo di tale rapporto, sino alla possibilità di vedervi una simbiosi nei frangenti in cui la storia si manifesta come campo di battaglia in cui si misurano le forze contrapposte.

Alla specificità temprale della dimensione politica corrisponde anche un mutamento spaziale. Basterebbe ricordare l’incipit del Manifesto del Partito Comunista – “uno spettro si aggira per l’Europa, lo spettro del comunismo” – per evidenziarne la discontinuità. È sul fronte europeo che si giocherà una guerra civile rispetto alla quale “i territori nazionali sono i campi di battaglia instabili e parziali” (p. 24) e Marx non fa altro che ribadirlo – memore degli insegnamenti del 1793 e del 1848 – nelle Lotte di classe in Francia quando afferma che “la nuova rivoluzione francese è costretta ad abbandonare prestissimo il suolo nazionale e di conquistare il terreno europeo, il solo nel quale si può compiere la rivoluzione sociale del XIX secolo”. Negli scritti politici marxengelsiani le dinamiche interstatali non sono taciute ed anzi s’intravede una riflessione strategica, sino ad una critica della produzione delle “frontiere naturali” come invenzione funzionale agli stati maggiori (Engels 1952). In questo ambito prendere parte per un interesse nazionale è dettato esclusivamente da finalità “progressiste” e difensive. Nella guerra franco-prussiana la posizione marxiana è netta: nel momento in cui le truppe di Bismarck intendono annettere l’Alsazia e la Lorena e muovere verso Parigi, “tanto il dovere quanto l’interesse del popolo tedesco consiste nell’accordare una pace onorevole alla Repubblica francese” – dirà Marx nella Lettera al comitato di Brunswick, inviata ad Engels il 2 settembre 1870. Peraltro la tragedia dei nazionalismi e il bagno di sangue che connoterà il “secolo breve” sono già intravisti nella medesima lettera: “una guerra tra Germania e Russia dovrà necessariamente nascere dalla guerra del 1870 […] tranne nel caso poco probabile che una rivoluzione scoppi prima in Russia”. La rivoluzione accennata del 1905 – ricorda Bensaïd – non la impedirà e l’Ottobre sarà il risultato delle macerie della “Grande Guerra”, sino a sfociare in quella che Enzo Traverso ha definito la trentennale “guerra civile europea” (Traverso 2007). Engels rincarerà ulteriormente la dose nell’introduzione del 1891 a La Guerra civile in Francia quando preannuncia “una guerra di cui nulla è certo eccetto l’assoluta incertezza del suo esito; di una guerra di razze [corsivo mio], che sottoporrà l’Europa intera alla devastazione da parte di 15 o 20 milioni di uomini armati (p. 167).

Non è possibile discutere il pensiero politico marxiano post-quaranttotesco senza rapportarlo all’“ascesa, declino e caduta del Secondo Impero” (p. 31). Il bonapartismo diventa un esempio paradigmatico per ritornare sulla questione dello Stato e del rapporto con la “società civile”. In questi termini ciò che viene osservato e sottoposto a critica radicale è la progressiva burocratizzazione dello Stato, ormai tramutatosi in “escrescenza parassitaria” innestata sulla società civile, come ribadirà nella Guerra civile in Francia. Riemerge quella critica al corporativismo burocratico – su cui insiste Bensaïd, non nascondendo la propria matrice trotzkista, tutt’altro che dogmatica –, già in parte presente nei testi giovanili e ripresa recentemente da un versante non marxista, in particolare si pensi alle tesi di Miguel Abensour che, a partire dalla Critica del diritto statuale hegeliano, ha tentato di rinvenire in Marx un “momento machiavelliano”, una riformulazione del politico, del suo carattere “autonomo”, che agisce sottotraccia e riemerge negli scritti politici successivi (Abensour 2008). La Comune è delineata – ad un tempo – come “forma positiva della Repubblica sociale” (p. 135) e, con toni libertari, “rivoluzione contro lo Stato, questo aborto soprannaturale della società”. In questi termini il bonapartismo – che si è manifestato come una sorta di “monarchia elettiva” per poi diventare una “semi-dittatura” in cui si condensa “la forma normale” della dominazione borghese, di cui il “bismarckismo” costituisce la variante tedesca – sembra essere letto come “forma tendenziale dello Stato di eccezione nello Stato moderno” (p. 37), anzi come “la sola forma possibile di governo in un’epoca in cui la borghesia aveva già perduto – e la classe operaia non aveva ancora guadagnato – la facoltà di governare” (p. 134). Tuttavia a cosa corrisponde quell’essere “contro lo Stato”? In quelle formidabili sei settimane la libertà comunale lo aveva davvero “abolito” come scrive il Moro? Sembra sfumare la polemica contro l’anarchismo, sull’impossibilità di abolire lo Stato e il lavoro salariato per decreto. In realtà “abolizione” rimanda ad “estinzione” o “deperimento”, alla naturaprocessuale di una trasformazione immanente non decretabile dall’esterno. Le misure politico-giuridiche che connotarono la Comune – disegnate nel fuoco della battaglia, “con il nemico straniero alla porta e quello di classe all’altra” – sono paradigmatiche più per le indicazioni di rotta fornite che per le forme attuate: dall’elezione a suffragio universale (con l’esclusione delle donne. E non è certo un’esclusione minore…) dei consiglieri municipali, alla loro revocabilità legandoli altresì a mandati imperativi, sino alla corresponsione di un salario da operaio qualificato per i rappresentanti. Ciò tuttavia non implica il venir meno di “funzioni centrali”, quanto l’essere “passate nelle mani della Comune”, dato che non possono (o non dovrebbero) più elevarsi al di sopra della società civile come nel vecchio apparato di governo. Continueranno ad esistere sotto il controllo popolare (pp. 135-139). Quest’ultimo, tuttavia, non è mai omogeneo e – potremmo aggiungere – su di esso insistono differenze non riducibili ad un concetto sociologico di classe, peraltro assai riduttivo e non propriamente marxiano (tanto più se pensiamo al proletariato che è tale nel momento in cui diventa classe per sé). Differenze di genere, culturali, religiose, etniche, generazionali, che s’intrecciano con la divisione in classi e che non si lasciano scomporre e ricomporre in forme definitive. Il Novecento ne ha testimoniato la rilevanza e l’ineludibilità. Pertanto, se il pensiero di Marx sullo Stato – ma anche sulla modalità di organizzazione propriamente politica della lotta di classe – è lacunoso, pur lasciando presagire la possibilità di farla finita con “tutto il ciarpame statale” quando ve ne saranno le condizioni – successivamente alla presa del potere del proletariato –, non ci troviamo di fronte all’affermazione univoca di una presunta fine della politica, né ad una suo assorbimento da parte di un’indistinta sfera “sociale”. La Comune, con tutti i suoli limiti ed errori – tra cui, ricorda Marx, non aver intaccato le riserve della Banca di Francia – è e diventa “il movimento reale che distrugge lo stato di cose esistenti”, connotato dal deperimento dello stato e della divisione in classi, almeno così come si configurano nella società capitalistica. “La grande misura sociale della Comune è stata la sua stessa esistenza” (p. 145) in quanto processo di emancipazione del lavoro dalla costrizione del lavoro salariato, dalle asimmetrie che strutturalmente impongono lo scambio di quest’ultimo contro il capitale, in vista di una riconversione del lavoro come attività socializzata (ma non anti individuale) utile ai bisogni della società. In tal senso l’esperienza comunarda si è sforzata di “fare della proprietà individuale [corsivo mio] una realtà trasformando i mezzi di produzione in […] semplici strumenti di un lavoro libero e associato” (p. 140) sulla cui base – ricorda Bensaïd richiamando l’opposizione proprietà individuale/proprietà privata presente anche nel I libro del Capitale – “diventa possibile regolare la produzione cooperativa secondo un piano nazionale” (p. 43). L’intreccio tra forma politica, in cui la Comune è vista come “associazione volontaria di tutte le iniziative locali” e “una delegazione centrale di comuni federati” e cooperativismo debitamente coordinato relativamente alla dimensione socio-economica è dunque strettissimo. L’autoritarismo statale più volte imputato a Marx, per non parlare dei marxismi più o meno ortodossi, in queste pagine sembra svanire. Bensaïd si spinge oltre intravedendovi “una dinamica espansiva [corsivo mio] dell’associazione che si potrebbe chiamare oggi, nel gergo dell’eurolingua, una “sussidiarietà ascendente o democratica” (p. 45), ma è lo stesso Marx a sottolineare “che essa ha costituito una forma politica completamente espansiva [corsivo mio], mentre tutte le precedenti forme di governo sono state decisamente repressive” (p. 139). Certo, guardando in avantipermane più di un problema nella configurazione del “modello” politico comunardo. Tra questi l’improponibilità di mandati imperativi che rischierebbero di bloccare qualsiasi deliberazione democratica e veder sfumare qualsiasi “interesse generale”, per quanto non possa che assumere, di volta in volta, una configurazione mobile ed eccedente, così come la mancata separazione dei poteri che intravedeva nella Comune un corpo, ad un tempo, esecutivo e legislativo, rimanda ad una concezione dell’estinzione dello Stato troppo contigua ad un’eclissi della politica da cui lo stesso Lenin non sarà immune. Nicolao Merker, recentemente, ha intravisto nella valutazione marxiana della Comune un vuoto d’analisi ed una contraddizione rispetto alle posizioni marxiane precedenti (in sostanza l’assenza di un proletariato maggioritario in termini numerici e politicamente “maturo” che avrebbe reso impossibile qualsiasi rivolgimento politico) su cui si sono innestate strumentalizzazioni che hanno pesato negativamente sull’eredità del Marx “politico”. In generale l’antiparlamentarismo, non solo leniniano, ma esteso al primo Gramsci sino a Rosa Luxemburg, non avrebbe permesso, né di arginare efficacemente i fascismi, né di vedere la centralità dello “Stato di diritto” riducendolo “ad arma ipocrita del dominio di classe” (Merker 2010). Si tratta, evidentemente, di un problema reale ed irrisolto. Tuttavia si può suggerire che non si tratta di assumere ed ipostatizzare ex post una forma giuridica, neutralizzandone parzialità e storicità, bensì di un problema che interroga i limiti del potere, di ogni potere politico, ancorché rivoluzionario, quando pensa di saturare ogni spazio non contemplando altre possibilità. È il problema del “partito rivoluzionario” che si è fatto Stato e che in questo modo, oltre a svuotare una serie di diritti imprescindibili (libertà d’espressione, di associazione, ecc.), ha bloccato, di fatto, ogni trasformazione rivoluzionaria. Non ha riconosciuto il carattere contingente e singolare della sua azione, dimenticando che “l’unità delle classi sfruttate, in quanto esito delle lotte, non è mai compiuta” (Raimondi 2011). Diversamente detto è il problema di un “potere costituente”, delle forme che si dà in “una dinamica democratica e […] espansiva” (p. 80). Da un’altra prospettiva Fabio Frosini, rileggendo i testi marxiani dalle Lotte di classe in Francia al 18 Brumaio di Luigi Bonaparte ed assumendo un’identità tra storia e politica, pone l’accento sulla centralità degli interventi politici marxiani (a discapito dell’eredità più propriamente “scientifica”) e sottolinea “la peculiare ‘collocazione’ della politica comunista” nei termini di “rappresentare l’irrapresentabile”, cioè del proletariato non come dato sociologico specifico, bensì “dissoluzione della società nella figura di un ceto particolare”. Pertanto “compito dei comunisti” non è costituire un partito come gli altri – riducendo il proletariato a “parte” (equivalente ad altre) di un sistema dato –, ma “re-istituire sempre di nuovo nella storia l’identità di storia e politica, cioè la storia come campo di lotte” e di farlo senza inventare nulla, ma rendendo conto dell’antagonismo in tutte le sue forme e manifestazioni”. Il proletariato “è insorgenza”, ma ancor prima è “assenza di potere; e dunque è resistenza” […], ostacolo alla totalizzazione del potere, alla sua chiusura” (Frosini 2009). Il richiamo à la mésentente rancieriana (Rancière 2007a) è evidente ed è interessante il confronto che Bensaïd instaura con la concezione radicalmente egualitaria della democrazia ipotizzata da Jacques Rancière (Rancière 2007b). L’assenza di fondamenti, la qualificazione anarchica che la connota – il potere di tutti e di chiunque –, l’irriducibilità a “stato democratico”, delineano una critica “forte” della rappresentanza. Ma se la democrazia eccedesempre la rappresentanza (Girometti 2012), se ne può semplicemente fare a meno? Vi sono alternative realisticamente praticabili che non sfuggano all’utopia di un assemblearismo permanente o alla reintroduzione (esclusiva) del sorteggio? E quest’ultimo, a ben vedere, non sarebbe un modo per decretare la fine della politica come progettualità e conflitto? Come può una società costitutivamente plurale fare a meno di rappresentarsi? Come potrebbe efficacemente insorgere una “parte” non conteggiata senza darsi una qualche organizzazione (aspetto che Rancière volutamente non tematizza, ma nemmeno riduce all’opposizione semplice spontaneismo/organizzazione)?  Bensaïd, richiamando criticamente Il manifesto per la soppressione dei partiti politici di Simone Weil – e lo slittamento dalla politica alla teologia ivi impresso – s’interroga: non occorrerà, ad esempio, ripensare la “forma-partito” piuttosto che ridurla ad una determinata configurazione? Si tratta sicuramente di un campo inesplorato, non disgiungibile dal piano del conflitto sociale, le cui forme non sono prefigurabili ex ante ed ancor meno ricalcabili sull’esistente. In tal senso lo “scandalo democratico” di cui parla Rancière non è affatto scartato da Bensaïd: la democrazia per “andare sempre più lontano deve trasgredire le sue forme istituite, mettere a soqquadro l’orizzonte dell’universale, mettere l’uguaglianza alla prova della libertà” (Bensaïd 2010). Ammesso che eguaglianza e libertà non siano solo feticci borghesi… È sulla politica come rappresentazione complessa costellata da continui rivolgimenti – di scena e di trama – e non (solo) eccezione evenemenziale che si apre il campo di una problematica da elaborare e sperimentare nella singola congiuntura.

Un’altra questione delicata è rappresentata dal concetto di dittatura del proletariato (contrapposta da Marx alla violenza sfrenata della borghesia ed irriducibile ad un governo arbitrario non normato) o governo operaio. Strana dittatura questo governo “finalmente scoperto” della classe operaia in cui si combinano suffragio universale e pluralismo politico – pur non trattandosi di partiti come li intenderemmo oggi, ma più propriamente di différentes tendances come ricordava Henri Lefebvre (Lefebvre 1965) –, processo di sburocratizzazione e smilitarizzazione, promozione della partecipazione politica e di alleanze come quella tra operai e contadini (su cui Marx si sofferma a lungo) – che oggi definiremmo in termini di “democrazia partecipativa reale” – e misure di giustizia sociale. Se dovessimo trarne delle conseguenze per l’oggi diremmo che la costruzione di un tale governo non è meramenteriflessiva, ma – come ricorda Bensaïd – è un’operazione di continua “traduzione e trasposizione tra rapporti sociali e loro espressioni politiche” (p. 53). Nella Comune la classe operaia ha aggregato attorno a sé la piccola e la media borghesia, così come la grande massa della guardia nazionale. Per dar forza a questa alleanza ha preso misure in favore dei debitori ed in questo modo la Comune è diventata “la vera rappresentazione di tutti gli elementi sani della società francese, e perciò il vero governo nazionale, […] e allo stesso tempo, in quanto governo operaio, campione audace dell’emancipazione del lavoro” (p. 144). Si configura come “un particolare universale”, suggerisce Bensaïd, la cui potenzialità vittoriosa non scompare con la sconfitta patita ed interroga (o avrebbe dovuto interrogare) i successivi tentativi rivoluzionari. In particolare nel riproporre il suo carattere di classe una politica di emancipazione non poteva essere vincolata solo ad una parte. Se la prospettiva socialista non è prerogativa di un’unica classe – designando un’altra formazione sociale – deve diventare maggioritaria. Le stesse critiche, osteggiate da Lenin, all’“esperimento sovietico” incentrate sul carattere non puramente operaio degli organi di governo, pur vedendo le derive burocratiche e la centralità dei rapporti di produzione da mutare (e non la sola natura proprietaria dei mezzi di produzione), sembrano rimanere prigioniere di un carattere corporativistico. Non pare esserci spazio per la formazione (non rigida) di un “interesse generale”, e la stessa critica leniniana che riconosce tali limiti accetta, di fatto, l’idea di un deperimento dello Stato in termini di “gestione” – che poi è la stessa idea rovesciata di uno Stato super partes che gestisce e compone gli interessi mediati dal mercato nell’orizzonte liberale, dove non ha cittadinanza un eventuale rivolgimento sociale, di natura collettiva, che superi la mediazione mercantile – e dunque di “amministrazione delle cose”. La politica sembra esaurirsi in una semplice tecnologia di gestione del sociale abolendoun spazio, necessariamente plurale, in cui far emergere delle scelte. A ciò si correla la stessa ammirazione leniniana per il taylorismo come modello d’impresa “neutrale”, rispetto al quale la divisione del lavoro rimane non problematizzata. Guardandola a ritroso – suggerisce Bensaïd – la posizione luxemburghiana sulla critica dello Stato come semplice strumento di una classe diventa ancora più pregnante. Tanto più se al “dominio proletario” si è associata la soppressione di quegli elementi democratici come libertà d’espressione, di stampa, di riunione, ancorapiù essenziali per costruire una nuova società – costruzione sempre da riprendere ed il cui esito è tutt’altro che scontato – ed invece ritenuti, a torto, una sovrastruttura borghese. Si tratta tuttavia di riconoscere le trasformazioni dello Stato, oltre la stessa critica delle burocrazie, classificato da Foucault come “una maniera di governare” – che un certo “foucaultismo volgare” vorrebbe ormai disciolto “nelle reti di potere della società liquida, dimostrando che non sarebbe più necessario prendere il potere per cambiare il mondo” (p. 73) –, sino a vederne, suggeriamo, le implicazioni nell’intreccio complesso tra apparati ideologici e repressivi con il modo di produzione capitalistico, e ancor prima di accumulazione, rilevandone – per riprendere le tesi di Giovanni Arrighi – le mutazioni ed i poli egemonici che storicamente hanno unito e uniscono gerarchicamente il sistema-mondo (Arrighi 1996). Su queste basi si tratta di smontare e spezzare quella “simbiosi mutualistica” tra “potere politico-territoriale” (quello dello Stato-nazione. Dove gli stati non sono tutti sullo stesso piano) e “potere economico” (capitalistico) in cui i processi di finanziarizzazione dell’economia, ovvero “la natura del capitalismo” (Arrighi 1999), sono tutt’altro che senza patriainnescando “la concorrenza tra stati nei periodi di transizione egemonica” (Turchetto 2008). Compito smisurato, a cui può rispondere, di volta in volta, solo una varietà di “soggetti collettivi”, o meglio di agenti collettivi e plurali, capaci di organizzarsi su scala locale e globale.

La Comune fu proprio il tentativo di arginare la dismisura in atto: “il grande e supremo tentativo da parte della città di ergersi a misura e norma della realtà umana” – sostiene Henri Lefebvre – rispetto “all’artificiosità del denaro e del capitale” che prendeva il sopravvento (Lefebvre 1965). E allo stesso tempo – ricorda Bensaïd citando i situazionisti – fu “l’unica realizzazione di un urbanesimo rivoluzionario combattendo sul terreno dei segni pietrificati dell’organizzazione dominante della vita”; o ancora un “momento orizzontale” (Ross 1988) simbolicamente visibile nella caduta della colonna Vendôme, e dunque nell’occupazione di un “territorio ostile” in uno scenario in cui la città diventa “un teatro strategico” e la posta in gioco è “la capitale di un territorio” (pp. 76-77). Non è certo casuale – rincara Bensaïd – se “per tutto il XX secolo, i piani di sviluppo urbano non hanno smesso di scongiurare gli spettri della Comune, del Fronte popolare, della Liberazione o del Maggio ’68, privando la capitale delle sue energie popolari a vantaggio dell’edificazione monumentale e dell’esposizione fieristica della merce trionfante” (p. 78). Infine la Comune fu anche un esempio del nodo irrisolto tra “legalità e legittimità”. Sintetizzato nella contrapposizione tra il comitato centrale della Guardia nazionale – che di fatto si innalzava a nuovo potere decidendo di togliere l’assedio e organizzare nuove elezioni – e sindaci e vice sindaci legalmente eletti, con tutte le difficoltà che contraddistinguevano un potere in via di scioglimento ed uno ancora non pienamente tale anche a causa della disomogeneità e dei contrasti in seno a quest’ultimo. Riassumendo: “la Comune è un evento politico complesso in cui si articolano e si intrecciano tempi e spazi discordanti, e altrettanti motivi politici strettamente mescolati” (p. 80). Un’esperienzaeccedente, non archiviata. Forse è anche per questo che la repressione fu brutale. Terrificante. Friedrich Engels nell’introduzione all’edizione del 1891 della Guerra civile in Francia ricorda così quegli ultimi giorni del maggio 1871:
soltanto dopo una lotta di otto giorni gli ultimi difensori della Comune caddero sulle alture di Belleville e Ménilmontant; e l’eccidio di uomini inermi, delle donne, dei fanciulli, che infuriò con rabbia crescente per tutta la settimana, raggiunse qui il suo punto più alto. Il fucile a ripetizione non uccideva abbastanza rapidamente; i vinti vennero trucidati collettivamente a centinaia dalle mitragliatrici. Il “Muro dei federati” nel cimitero di Père Lachaise, dove fu consumato l’ultimo eccidio in massa, rimane ancor oggi come un muto ma eloquente documento della furibonda follia di cui è capace la classe dominante, non appena il proletariato osa farsi innanzi per far valere i suoi diritti (p. 175).
È una storia nota, soprattutto per chi non smette, se non d’inventare, almeno di ricercare l’ignoto.
http://storiaefuturo.eu/

◆ El que busca, encuentra...

Todo lo sólido se desvanece en el aire; todo lo sagrado es profano, y los hombres, al fin, se ven forzados a considerar serenamente sus condiciones de existencia y sus relaciones recíprocasKarl Marx

Not@s sobre Marx, marxismo, socialismo y la Revolución 2.0

— Notas notables
Cecilia Feijoo: Apuntes sobre el Concepto de Revolución Burguesa en Karl Marx — Red Diario Digital
Moishe Postone: Il compito della teoria critica oggi: Ripensare la critica del capitalismo e dei suoi futuri — Blackblog Franco Senia
Pierre-Yves Quiviger: Marx ou l'élimination des inégalités par la révolution — Le Point
Hernán Ouviña: Indigenizar el marxismo — La Tinta
Emmanuel Laurentin: Les historiens américains et Karl Marx — France Culture
Adèle Van Reeth: Le Capital de Karl Marx: La fabrique de la plus-value — France Culture
Manuel Martínez Llaneza: Reproches a Marx acerca de El Capital (Bajo la égida de Friedrich Engels) — Rebelión
Victoria Herrera: Marx y la historia — Buzos
Alejandro F. Gutiérrez Carmona: La vigencia del pensamiento marxista — Alianza Tex
Víctor Arrogante: El Capital y las aspiraciones de la clase trabajadora — Nueva Tribuna
Mauricio Mejía: Karl Marx, el poeta de la mercancía — El Financiero
Emmanuel Laurentin: Karl Marx à Paris: 1843-1845 — France Culture
Jacinto Valdés-Dapena Vivanco: La teoría marxista del Che Guevara — Bohemia
Aldo Casas: El marxismo como herramienta para la lucha — La necesidad de la formación en la militancia — La Tinta
Evald Vasiliévich Iliénkov: La dialéctica de lo abstracto y lo concreto en El Capital de Marx — Templando el Acero
Vincent Présumey: Suivi des écrits de Karl Marx / 1837-1848 - Part I, Part II, Part III & Part IV — Mediapart
Roman Rosdolky: Marx ésotérique et Marx exotérique — Palim Psao
Lepotier: Marx, Marxisme, Cui bono? — Bella Ciao
Andrea Vitale: La critica di Pareto a Marx: una abborracciatura — Operai e Teoria
Annelie Buntenbach: Marx provides us with a glimpse behind the scenes of capitalism — Marx 200
Antoni Puig Solé: La Ley del Valor y la ecología en Marx — Lo que somos
Vladimiro Giacché: Note sui significati di "Libertà" nei Lineamenti di Filosofia del Diritto di Hegel — Il Comunista
Salvador López Arnal: Manuel Sacristán (1925-1985) como renovador de las tradiciones emancipatorias — Rebelión
Paúl Ravelo Cabrera: Marx, Derrida, el Gesto Político y la supercapitalización mundial — Scribb
Dino Greco: In difesa del marxismo — Sollevazione
Alberto Quiñónez: Arte, praxis y materialismo histórico — Rebelión
Josefina L. Martínez: Feminismo & Socialismo marxista - Eleanor Marx, la cuestión de la mujer y el socialismo — Rebelión
John Bellamy Foster: Marx y la fractura en el metabolismo universal de la naturaleza — Scribb
José Manuel Bermudo Ávila: Concepto de Praxis en el joven Marx — Scribb
Carlos Oliva Mendoza: Adolfo Sánchez Vázquez: ¿marxismo radical o crítica romántica? — InfoLibre
Bernardo Coronel: ¿El marxismo es una ciencia? — La Haine
Sylvain Rakotoarison: Le capitalisme selon Karl Marx — Agora Vox

— Notas y comentarios sobre El Capital
António Ferraz: Os 150 anos do livro ‘O Capital’, de Karl Marx — Correio do Minho
Horacio Tarcus: Traductores y editores de la “Biblia del Proletariado” - Parte I & Parte II — Memoria
Emmanuel Laurentin: Le Capital, toujours utile pour penser la question économique et sociale? — France Culture
J.M. González Lara: 150 años de El Capital — Vanguardia
Roberto Giardina: Il Capitale di Marx ha 150 anni — Italia Oggi
Alejandro Cifuentes: El Capital de Marx en el siglo XXI — Voz
Marcela Gutiérrez Bobadilla: El Capital, de Karl Marx, celebra 150 años de su edición en Londres — Notimex
Mario Robles Roberto Escorcia Romo: Algunas reflexiones sobre la vigencia e importancia del Tomo I de El Capital — Memoria
Antoni Puig Solé: El Capital de Marx celebra su 150° aniversario — Lo que Somos
Jorge Vilches: El Capital: el libro de nunca acabar — La Razón
Carla de Mello: A 150 años de El Capital, la monumental obra de Karl Marx — Juventud Socialista del Uruguay
Rodolfo Bueno: El Capital cumple 150 años — Rebelión
Diego Guerrero: El Capital de Marx y el capitalismo actual: 150 años más cerca — Público
José Sarrión Andaluz & Salvador López Arnal: Primera edición de El Capital de Karl Marx, la obra de una vida — Rebelión
Sebastián Zarricueta: El Capital de Karl Marx: 150 años — 80°
Marcello Musto: La durezza del 'Capitale' — Il Manifesto
Esteban Mercatante: El valor de El Capital de Karl Marx en el siglo XXI — Izquierda Diario
Michael Roberts: La desigualdad a 150 años de El Capital de Karl Marx — Izquierda Diario
Ricardo Bada: El Capital en sus 150 años — Nexos
Christoph Driessen: ¿Tenía Marx razón? Se cumplen 150 años de edición de El Capital — El Mundo
Juan Losa: La profecía de Marx cumple 150 años — Público
John Saldarriaga: El Capital, 150 años en el estante — El Colombiano
Katia Schaer: Il y a 150 ans, Karl Marx publiait ‘Le Capital’, écrit majeur du 20e siècle — RTS Culture
Manuel Bello Hernández: El Capital de Karl Marx, cumple 150 años de su primera edición — NotiMex
Ismaël Dupont: Marx et Engels: les vies extravagantes et chagrines des deux théoriciens du communisme! — Le Chiffon Rouge
Jérôme Skalski: Lire Le Capital, un appel au possible du XXIe siècle - L’Humanité
Sebastiano Isaia: Il Capitale secondo Vilfredo Pareto — Nostromo

— Notas y reportajes de actualidad
Román Casado: Marx, Engels, Beatles, ese es el ritmo de Vltava — Radio Praga
María Gómez De Montis: El Manifiesto Comunista nació en la Grand Place — Erasmus en Flandes
Enrique Semo: 1991: ¿Por qué se derrumbó la URSS? — Memoria
Michel Husson: Marx, un économiste du XIXe siècle? A propos de la biographie de Jonathan Sperber — A L’Encontre
César Rendueles: Todos los Marx que hay en Marx — El País
Alice Pairo: Karl Marx, Dubaï et House of cards: la Session de rattrapage — France Culture
Sebastián Raza: Marxismo cultural: una teoría conspirativa de la derecha — La República
Samuel Jaramillo: De nuevo Marx, pero un Marx Nuevo — Universidad Externado de Colombia
Sergio Abraham Méndez Moissen: Karl Marx: El capítulo XXIV de El Capital y el “descubrimiento” de América — La Izquierda Diario
Joseph Daher: El marxismo, la primavera árabe y el fundamentalismo islámico — Viento Sur
Francisco Jaime: Marxismo: ¿salvación a través de la revolución? — El Siglo de Torreón
Michel Husson: Marx, Piketty et Aghion sur la productivité — A l’encontre
Guido Fernández Parmo: El día que Marx vio The Matrix — Unión de Trabajadores de Prensa de Buenos Aires
Cest: Karl Marx y sus "Cuadernos de París" toman vida con ilustraciones de Maguma — El Periódico
Leopoldo Moscoso: 'Das Kapital': reloading... — Público
Laura "Xiwe" Santillan: La lucha mapuche, la autodeterminación y el marxismo — La Izquierda Diario
José de María Romero Barea: Hölderlin ha leído a Marx y no lo olvida — Revista de Letras
Ismaël Dupont: Marx et Engels: les vies extravagantes et chagrines des deux théoriciens du communisme! — Le Chiffon Rouge Morlai
Francisco Cabrillo: Cómo Marx cambió el curso de la historia — Expansión
El “Dragón Rojo”, en Manchester: Cierran el histórico pub donde Marx y Engels charlaban "entre copa y copa" — BigNews Tonight
Marc Sala: El capitalismo se come al bar donde Marx y Engels debatían sobre comunismo — El Español

— Notas sobre debates, entrevistas y eventos
Fabrizio Mejía Madrid: Conmemoran aniversario de la muerte de Lenin en Rusia — Proceso
Segundo Congreso Mundial sobre Marxismo tendrá lugar en Beijing — Xinhua
Debate entre Andrew Kliman & Fred Moseley — Tiempos Críticos
David McNally & Sue Ferguson: “Social Reproduction Beyond Intersectionality: An Interview” — Marxismo Crítico
Gustavo Hernández Sánchez: “Edward Palmer Thompson es un autor que sí supo dar un giro copernicano a los estudios marxistas” — Rebelión
Alberto Maldonado: Michael Heinrich en Bogotá: El Capital de Marx es el misil más terrible lanzado contra la burguesía — Palabras al Margen
Leonardo Cazes: En memoria de Itsván Mészáros — Rebelión (Publicada en O Globo)
Entrevista con István Mészáros realizada por la revista persa Naghd’ (Kritik), el 02-06-1998: “Para ir Más allá del Capital” — Marxismo Crítico
Rosa Nassif: “El Che no fue solo un hombre de acción sino un gran teórico marxista” Agencia de Informaciones Mercosur AIM
Entrevista a Juan Geymonat: Por un marxismo sin citas a Marx — Hemisferio Izquierdo
Juliana Gonçalves: "El Capital no es una biblia ni un libro de recetas", dice José Paulo Netto [Português ] — Brasil de Fato
Entrevista a Michael Heinrich: El Capital: una obra colosal “para desenmascarar un sistema completo de falsas percepciones” — Viento Sur
Alejandro Katz & Mariano Schuster: Marx ha vuelto: 150 años de El Capital. Entrevista a Horacio Tarcus — La Vanguardia
Salvador López Arnal: Entrevista a Gustavo Hernández Sánchez sobre "La tradición marxista y la encrucijada postmoderna" — Rebelión
Jorge L. Acanda: "Hace falta una lectura de Marx que hunda raíces en las fuentes originarias del pensamiento de Marx" — La Linea de Fuego

— Notas sobre Lenin y la Revolución de Octubre
Guillermo Almeyra: Qué fue la Revolución Rusa — La Jornada
Jorge Figueroa: Dos revoluciones que cambiaron el mundo y el arte — La Gaceta
Gilberto López y Rivas: La revolución socialista de 1917 y la cuestión nacional y colonial — La Jornada
Aldo Agosti: Repensar la Revolución Rusa — Memoria
Toni Negri: Lenin: Dalla teoria alla pratica — Euronomade
Entretien avec Tariq Ali: L’héritage de Vladimir Lénine — Contretemps
Andrea Catone: La Rivoluzione d’Ottobre e il Movimento Socialista Mondiale in una prospettiva storica — Marx XXI
Michael Löwy: De la Revolución de Octubre al Ecocomunismo del Siglo XXI — Herramienta
Serge Halimi: Il secolo di Lenin — Rifondazione Comunista
Víctor Arrogante: La Gran Revolución de octubre — El Plural
Luis Bilbao: El mundo a un siglo de la Revolución de Octubre — Rebelión
Samir Amin: La Revolución de Octubre cien años después — El Viejo Topo
Luis Fernando Valdés-López: Revolución rusa, 100 años después — Portaluz
Ester Kandel: El centenario de la Revolución de octubre — Kaos en la Red
Daniel Gaido: Come fare la rivoluzione senza prendere il potere...a luglio — PalermoGrad
Eugenio del Río: Repensando la experiencia soviética — Ctxt
Pablo Stancanelli: Presentación el Atlas de la Revolución rusa - Pan, paz, tierra... libertad — Le Monde Diplomatique
Gabriel Quirici: La Revolución Rusa desafió a la izquierda, al marxismo y al capitalismo [Audio] — Del Sol

— Notas sobre la película “El joven Karl Marx”, del cineasta haitiano Raoul Peck
Eduardo Mackenzie:"Le jeune Karl Marx ", le film le plus récent du réalisateur Raoul Peck vient de sortir en France — Dreuz
Minou Petrovski: Pourquoi Raoul Peck, cinéaste haïtien, s’intéresse-t-il à la jeunesse de Karl Marx en 2017? — HuffPost
Antônio Lima Jûnior: [Resenha] O jovem Karl Marx – Raoul Peck (2017) — Fundaçâo Dinarco Reis
La película "El joven Karl Marx" llegará a los cines en el 2017 — Amistad Hispano-Soviética
Boris Lefebvre: "Le jeune Karl Marx": de la rencontre avec Engels au Manifeste — Révolution Pernamente

— Notas sobre el maestro István Mészáros, recientemente fallecido
Matteo Bifone: Oltre Il Capitale. Verso una teoria della transizione, a cura di R. Mapelli — Materialismo Storico
Gabriel Vargas Lozano, Hillel Ticktin: István Mészáros: pensar la alienación y la crisis del capitalismo — SinPermiso
Carmen Bohórquez: István Mészáros, ahora y siempre — Red 58
István Mészáros: Reflexiones sobre la Nueva Internacional — Rebelión
Ricardo Antunes: Sobre "Más allá del capital", de István Mészáros — Herramienta
Francisco Farina: Hasta la Victoria: István Mészáros — Marcha
István Mészáros in memoriam : Capitalism and Ecological Destruction — Climate & Capitalism.us