"No hay porvenir sin Marx. Sin la memoria y sin la herencia de Marx: en todo caso de un cierto Marx: de su genio, de al menos uno de sus espíritus. Pues ésta será nuestra hipótesis o más bien nuestra toma de partido: hay más de uno, debe haber más de uno." — Jacques Derrida

"Los hombres hacen su propia historia, pero no la hacen a su libre arbitrio, bajo circunstancias elegidas por ellos mismos, sino bajo aquellas circunstancias con que se encuentran directamente, que existen y les han sido legadas por el pasado. La tradición de todas las generaciones muertas oprime como una pesadilla el cerebro de los vivos. Y cuando éstos aparentan dedicarse precisamente a transformarse y a transformar las cosas, a crear algo nunca visto, en estas épocas de crisis revolucionaria es precisamente cuando conjuran temerosos en su auxilio los espíritus del pasado, toman prestados sus nombres, sus consignas de guerra, su ropaje, para, con este disfraz de vejez venerable y este lenguaje prestado, representar la nueva escena de la historia universal" Karl Marx

21/10/13

Capitalismo 2013 | Anatomia della politica attraverso l’economia

  • a) Il caso italiano (1945 – 2013)
  • b) La depressione mondiale ed i funerali dell’ “autonomia del politico”
Antonio Carlo  |  Nei miei precedenti articoli sulla crisi mondiale1 ho sottolineato la centralità, quasi oppressiva, dell’economica sulla società nel suo complesso e sulla politica in particolare: una crisi strutturale senza soluzioni possibili, o meglio una depressione che è un crollo graduale già in atto ed irreversibile, produce l’impotenza della politica. Eppure c’è stato un tempo in cui la politica ha avuto un peso notevole negli equilibri della società capitalistica, non nel senso che essa potesse dirigere o pianificare l’economia capitalistico-mercantile, ma nel senso che la politica, lo Stato, sceglievano tra le alternative di sviluppo possibile e compatibili con la logica del capitalismo e del profitto: un esempio per tutti, l’alternativa che caratterizza tutta la storia del XIX secolo tra protezionismo e libero scambio, attorno a cui vi furono conflitti terribili all’interno della classe dominante che in un caso esplosero nella prima guerra dell’era industriale: la guerra di Secessione americana2. Oggi questo non è più possibile perché alternative di sviluppo non c’è ne sono più: gli Stati sopravvivono galleggiando sulla crisi, senza prospettive di medio-lungo periodo, cosa che evidenzio nell’ultimo lungo paragrafo di questo lavoro, dove si pone in luce come nessun Governo sappia in quale modo affrontare la cause della crisi, che appare una maledizione incomprensibile caduta dal cielo, al più si accenna a fenomeni che sono delle mere concause (gli eccessi speculativi) senza affrontare il nodo principale che è il fatto che questo sistema
contrae stabilmente l’occupazione, mentre la popolazione mondiale cresce, ciò che crea una forbice insostenibile da cui derivano tutti i guai dell’economia mondiale3; certo si ammette che il problema occupazionale è centrale, ma nessuno ne affronta la vera causa che è nella natura di un sistema, in cui ormai la produzione può crescere riducendo l’occupazione in modo costante, ciò che crea tensioni insolubili.

L’ultimo lungo paragrafo è preceduto dai paragrafi 2-7 dove analizzo il sistema politico italiano nella sua relazione con l’economia capitalistica, ciò che potrebbe sembrare una ricerca dall’oggetto diverso rispetto al paragrafo finale, ma non è così perché anche nella parte “italiana” di questo lavoro ho cercato di evidenziare il legame profondo tra economia e politica nel senso che quando c’era uno sviluppo possibile la politica era in grado di operare scelte tra le alternative di sviluppo capitalistico, che però erano diverse e avevano grosse implicazioni pratiche: il miracolo economico italiano è impensabile senza la politica della DC. Poi la fine del miracolo italiano che, si noti, è parte del grande miracolo capitalistico post-bellico, determina da noi la crisi e il “deperimento” della politica sempre più incapace di dare risposte ai problemi creati da un’economia capitalistica impazzita. Le vicende italiane sono parallele ed analoghe alle vicende mondiali e spesso le anticipano, per cui l’analisi contestuale delle nostre vicende e di quelle mondiali mi pare giustificata ed opportuna.

Il prologo in cielo: la Costituzione del 1948 ovvero la “cena delle beffe”

La nostra Costituzione, da cui è nata la prima e unica Repubblica4, viene esaltata come “la più bella del mondo” nata “da i valori della Resistenza”. 

Asserzioni declamatorie che non condivido minimamente. La Costituzione non è nata dalla Resistenza , ma dopo la fine della Resistenza. I rapporti economici che essa regola sono sfacciatamente capitalisti e le promesse di giustizia sociale che contiene sono promesse propagandistiche senza alcun rilievo pratico; su alcuni punti nodali, poi, è evidente che la Costituzione si pone in continuità col fascismo, basterà considerare che le relazioni economiche, la proprietà e il lavoro continueranno ad essere regolare dal codice civile varato dal 1942 dal regime fascista e su cui l’influenza della Costituzione è stata pressoché nulla5.

In sostanza la più grossa conquista della Costituzione è la fine della discriminazione politica verso una parte notevole dei cittadini, le donne, equiparate politicamente agli uomini, ma non eravamo i primi a realizzare questa scelta, e soprattutto essa riguardava il campo dell’eguaglianza formale trai cittadini e non dell’eguaglianza sostanziale: infatti in questa società vi può essere da una parte un Agnelli e un Berlusconi e dall’altra braccianti e disoccupati, il che espone al rischio che anche la stessa eguaglianza formale sia svuotata di contenuto.

E valga il vero.
A) Gli artt. 1 e 4 della Costituzione. La prima beffa
L’art. 1 dice che la Repubblica è “fondata sul lavoro”, esattamente come la società feudale era fondata sul lavoro dei servi della gleba, e la società greco-romana su quella degli schiavi. Il problema è sapere come la società tratta il lavoro ed il lavoratore; la Costituzione repubblicana non lo dice epperò lo dice il codice civile fascista per cui il lavoro è e resta una merce. Intendiamoci non c’è nel codice una simile definizione, ma la si ricava dalla disciplina del contratto di lavoro subordinato, che è il lavoro centrale nel capitalismo (la subordinazione è nei confronti del datore di lavoro e cioè nel capitale): nel contratto a tempo indeterminato, che sarebbe quello che realizza un rapporto stabile, il datore di lavoro può licenziare il lavoratore quando vuole, ad nutum con un cenno di testa cioè. Il lavoro c’è finchè fa comodo ed è profittevole per il datore di lavoro; una volta licenziato il lavoratore tornerà sul mercato ad offrire la sua merce sperando che qualcuno l’acquisti. Questo fino al 1970 quando lo Statuto dei lavoratori afferma il principio che il licenziamento può avvenire solo per giusta causa o per giustificato motivo, il che, secondo alcuni giuristi come Federico Mancini , ridurrebbe il licenziamento ad un fenomeno “residuale”. A mio avviso se questo è un residuo somiglia per dimensione all’Oceano Pacifico.

Infatti accanto al licenziamento per giustificato motivo soggettivo (il vecchio licenziamento per scarso rendimento)6 ci sono i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo e cioè economico, e quindi licenziamenti per crisi aziendali, ma anche per motivi tecnologici (perché le nuove tecniche permettono di ridurre l’occupazione), o perché l’imprenditore trova più conveniente delocalizzare e trasferire l’azienda o l’impianto all’estero; negli ultimi decenni di casi di questo genere ne abbiamo avuti a bizzeffe. Emblematico è quello che è avvenuto nel periodo del 2011-2012: nel primo anno oltre 900.000 licenziamenti, nel secondo la cifra cresce ancora anche se non raggiunge il milione7, in due anni poco meno di due milioni di licenziati a fronte però di 160.000 cause di lavoro pendenti, di cui solo lo 0,2-0,3% concernono vertenze per la riassunzione8. La verità è che nel nostro sistema sono vietati solo i licenziamenti per motivi o rappresaglia politico-sindacale o per antipatie e ripicche personali9, un’infima minoranza cioè, come si evidenzia paragonando il numero delle vertenze per le riassunzioni contro il numero globale dei licenziamenti. Ovviamente non sottovaluto l’importanza politica delle riassunzioni dei licenziati per motivi sindacali. Quando la FIOM ha ottenuto di recente dalla Cassazione la riassunzione dei tre operai FIAT licenziati perché accusati di sabotaggio, ha ottenuto una grossa vittoria ma i riassunti erano solo 3, dal punto di vista socio-economico la grande massa dei lavoratori è licenziabile per gli stessi motivi esistenti quando Marx scrisse Il Capitale: allora come adesso la forza lavoro che opera subordinata al capitale, che è fondamentale nel capitalismo10, rimane una merce subordinata alle fluttuazioni dell’economia e del mercato.

Quanto all’art. 4 della Costituzione, stabilisce che il lavoro è un diritto anzi è un dovere. La cosa non è nuova: la carta del lavoro fascista del 1927 stabiliva quanto segue (art. 2 comma 1°): “Il lavoro sotto tutte le sue forme organizzative ed esecutive, intellettuali, tecniche, manuali , è un dovere sociale. A questo titolo e solo a questo titolo è tutelato dallo Stato”. Ciò non impedì a milioni di italiani di essere disoccupati o di finire nell’emigrazione, malgrado che il regime, con severità calvinista, prometteva di tutelare questo imprescindibile dovere sociale. Per contro quelli che vivevano di rendita senza lavorare continuarono tranquillamente a farlo11. Ciò non è cambiato con lo Statuto dei lavoratori, di cui abbiamo visto i limiti, e che peraltro tutela in misura molto ridotta chi il lavoro lo ha non chi il lavoro lo vorrebbe e lo cerca. Del resto che l’art. 4 non preveda un diritto agibile presso i Tribunali è stato riconosciuto di recente anche da un giurista come Zagrebelsky , che ha rilevato come il diritto al lavoro sia un diritto politico e non un diritto in senso tecnico-giuridico12. 

Il fatto è , però, che un diritto privo totalmente di tutela giuridica (anche come aspettativa o come interesse legittimo) è un assurdo , come “un cieco che vede”, in realtà quello che viene chiamato “diritto” è una mera rivendicazione politica senza alcuna tutela: 35 anni orsono ho affermato che l’art. 4 è una pseudonorma, che appartiene al campo della propaganda ideologica e non del diritto vero e proprio , dove non c’è alcuna tutela o rilevanza giuridica, parlare di diritto è un inganno consolatorio13; il lavoratore subordinato è solo, in questo sistema, il portatore di una merce, il diritto al lavoro non esiste oggi come sotto il fascismo.
B) L’art. 36 Cost. La seconda beffa
L’art. 36 Cost. riconosce al lavoratore il diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità ed alla qualità del lavoro erogato, e comunque sufficiente ad assicurare a lui ed alla sua famiglia: “un’esistenza libera e dignitosa”. Anche qui poche parole per rilevare che non c’è nessuna tutela giuridica: i nostri salari e stipendi sono decisamente bassi, secondo la BRI dalla fine degli anni ’70 ad oggi i nostri lavoratori hanno perso 10 punti nella ripartizione del PIL14, inoltre è esploso in Italia, come in tutto il mondo, il fenomeno del lavoro parziario e/o precario: nel 2005 i lavoratori a tempo pieno e indeterminato erano il 56,4% del totale, nel 2012 erano scesi al 53,6% (fonte ISTAT), quasi la metà dei lavoratori sono parziari o precari con un reddito basso o intermittente, che non si vede come possa garantire un livello di vita dignitoso. 

Ancora, quando si abolì la scala mobile il decano degli economisti italiani, prof. Caffè, disse che eliminare la scala mobile era come rompere il termometro per non misurare la febbre: la scala mobile si attivava perché i prezzi salivavano, era un effetto e non la causa dell’inflazione, bloccare l’effetto significava solo impedire ai salari di recuperare il proprio reddito, tuttavia nessuno si peritò di rispondere al prof. Caffè o di ricordarsi dell’art. 36 Cost., sicchè abbiamo avuto una riduzione dei salari mentre l’inflazione ha continuato a crescere, evidentemente quando sui mercati del petrolio e delle materie prime si fanno manovre speculative che infiammano i prezzi, gli speculatori non si fermano certo perché la scala mobile non esiste più in quasi tutti i paesi capitalistici.

Analogo discorso può farsi per le pensioni che sono anch’esse un reddito di lavoro o assimilato ad esso15: quando, con la riforma del 1992, si passò dal retributivo al contributivo si disse che si sarebbe passati dall’80% dell’ultimo stipendio, erogato come pensione, al 60%: un taglio secco che non si sa come si concili con l’art. 36 Cost., nel frattempo è ormai comunemente ammesso che le nostre pensioni sono da fame (inferiori a € 1000 al mese e spessissimo a € 500,00); di recente si è arrivati al fenomeno scandaloso degli esodati , lavoratori che si trovano privi di stipendio e di pensione, a causa dell’aumento dell’età pensionabile, e questo con buona pace dell’art. 36 Cost.
C) L’art. 53 della Cost. e la progressività del sistema fiscale. La terza beffa
 L’art. 53 della Cost. stabilisce la progressività del nostro sistema fiscale con una norma estremamente generica, che non indica i caratteri concreti di tale progressività. È accaduto, allora, che accanto alle imposte dirette si sia sviluppato un sistema di imposizione indiretta sempre più importante e di carattere assolutamente regressivo. Dicendo questo non dico nulla di particolarmente eretico, è noto che le imposte indirette , colpendo in modo eguale redditi diseguali, producono effetti pesantemente regressivi, in altre parole paga di più chi ha di meno, e al posto di un fisco progressivo alla Robin Hood (togliere ai ricchi per dare ai poveri) abbiamo un fisco che toglie ai poveri per dare ai ricchi, quando il vecchio Pietro Nenni diceva che il nostro Stato “è forte con i deboli e debole con forti” aveva davanti agli occhi il nostro sistema fiscale. Un esempio chiarirà quanto sostengo: se un operaio investe 500 euro del suo salario netto di € 1000 nell’acquisto di beni gravati da un’IVA del 10% pagherà 50 euro di tasse, il 5% del suo reddito; se lo stesso investimento verrà fatto da un soggetto che guadagna 3000 euro mensili il peso fiscale sarà inferiore al 2% del proprio reddito, se il reddito è di 5000 euro mensili siamo solo all’1% e così via. Lo stesso discorso può farsi per le accise o per le altre imposte indirette il cui peso è enorme: stando ai dati del Tesoro nel 2002 l’IVA pesava per 94,304 miliardi di euro su entrate fiscali su 332,263 miliardi, nel 2007 siamo a 121,251 miliardi su 417,753 miliardi e non considero le accise (pesantissime quelle sulla benzina).

È chiaro che il nostro sistema fiscale colpisce i redditi bassi molto più di quelli alti e prescindo, in questa sede, dal discorso sull’evasione fiscale che è enorme, come vedremo trattando altri profili. E’ chiaro che le imposte indirette dovrebbero essere vietate o ammesse solo in via eccezionale e temporanea oppure limitatamente ad alcuni beni di consumo (quelli di lusso in particolare); la loro ammissione in modo generalizzato, favorita dal carattere estremamente generico dell’art. 53 Cost., porta ad un sfregio costituzionale estremo che sopravvive nell’acquiescenza generale, proprio grazie al suo carattere dirompente ed abnorme per le sue dimensioni. Se si dichiarassero incostituzionali IVA, accise ed imposte indirette, il bilancio dello Stato salterebbe e non ci sarebbero più i soldi per pagare stipendi e pensioni, anche quelli dei giudici costituzionali e nessuno può assumersi tale responsabilità. Il vecchio Lutero diceva: “pecca fortiter” e cioè se devi peccare fallo fortemente e ciò vale anche nel nostro caso, più grave è lo sfregio costituzionale più difficile (impossibile) è rimuoverlo: se bisogna violare la Costituzione tanto vale farlo in modo radicale, più grave è lo sfregio più sicura l’impunità.
D) Gli artt. 41 e 42 della Costituzione. I piani e la funzionalizzazione della proprietà privata. La quarta beffa
L’Art. 42 Cost. dice che “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge” e non vi è dubbio che questa norma sia operativa, ma l’art. 41 stabilisce che la proprietà privata (o meglio l’iniziativa privata fondata sulla proprietà) non può svolgersi contro l’utilità sociale e danneggiando sicurezza, libertà e dignità umana, sicchè per impedire che questo avvenga: “la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali” (art. 42 comma 2 Cost.). 

È evidente che mentre l’iniziativa e la proprietà privata sono garantite come libere subito, mentre per la realizzazione dei fini sociali ci vogliono leggi opportune. Se nel frattempo l’iniziativa privata lede l’utilità sociale non accade proprio nulla. Il capitale ottiene subito quello che gli serve per fare i propri comodi e le classi subalterne ottengono solo una promessa: si faranno dei programmi per dirigere l’economia verso l’utilità sociale. 

In realtà non si faranno piani o programmi al plurale, ma un solo piano, il cd. piano Pieraccini che venne approvato nel 1967 dal Parlamento italiano, che avrebbe dovuto coprire il periodo 1966/70; fu un piano che, lo si disse da vari critici all’epoca, era un libro dei sogni che prevedeva vari obiettivi senza alcun mezzo concreto per realizzarli, perché si fosse usata la forma di una legge per approvare il libro dei sogni rimane ancora un mistero, ma non è un mistero perché il capitalismo italiano sia impianificabile16; dei vari motivi strutturali per cui il capitalismo in generale è quello italiano in particolare siano impianificabili me ne sono occupato nei decenni passati17, qui mi limiterò a sottolineare un dato posto in rilievo nel 1971 dal dott. Carli Governatore della Banca d’Italia, che rilevò come le IM disponevano di riserve di capitale circolante pari a 160 mila miliardi di lire italiane del 1971 , che si muovevano sui mercati mondiali in senso inverso alla politica monetaria dei singoli Stati mettendola in crisi, e contro questa realtà le banche centrali non avevano alcuno strumento di intervento18. Questo significa che una pianificazione meramente nazionale del capitalismo è impensabile mentre un potere mondiale in grado di realizzare una pianificazione mondiale non c’era nel 1971 e non c’è ora né si vede all’orizzonte19.

Ciò posto non meraviglia se, archiviato il libro dei sogni chiamato piano Pieraccini, non ne sia stato approvato nessun altro: al massimo un documento preliminare al piano 1971-75 , mai varato, poi un altro documento preliminare al piano 1973-77, mai varato, e poi il silenzio. C’è ancora un altro rilievo da fare: anche il fascismo riteneva che la proprietà privata fosse da intendere in funzione sociale: la relazione al codice civile del 1942 (libro della proprietà) è chiarissima20, quanto alla pianificazione sia il codice civile che la legge bancaria del 1936-38 (ancora vigente) ne accettano in pieno la logica21.

Qualcuno potrebbe obiettare che tra la funzione sociale ed i fini del piano stabiliti da un regime fascista e gli analoghi concetti che possono operare nel regime repubblicano potrebbero esservi differenze rilevanti e questo potrebbe esser vero. Epperò c’è, tra i due regimi, un elemento di continuità in dubbio: entrambi i regimi hanno mirato a piegare il capitalismo ad una logica di piano ispirata da fini dettati dal potere pubblico, ed entrambi hanno fallito e questo mi sembra un elemento di continuità, tra i due sistemi politici, di grande peso.
E) L’art. 3 comma 2, Cost. ed il principio dell’uguaglianza sostanziale, ovvero la madre di tutte le beffe
L’art. 3 comma 2 Cost recita: “ E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Come si vede il legislatore riconosce che c’è una classe socialmente svantaggiata, i lavoratori, che nel nostro codice civile sono definiti subordinati, che lavorano cioè alle dipendenze di altri ed il cui lavoro potrà essere utilizzato solo se produca un profitto. Se questa è la realtà si capisce anche qual è la “classe privilegiata” gli imprenditori o capitalisti che dir si voglia. Si ammette, dunque, che l’eguaglianza reale non esiste e che esiste una diseguaglianza rilevante, cioè rapporti di dominio e di subordinazione, ma cosa ottengono di concreto i lavoratori? Nulla, solo la promessa che si risolveranno in futuro i loro problemi, prima o poi. Ai capitalisti la libertà di iniziative e di impresa che è operativa, ai lavoratori una promessa per le future generazioni , uno scambio diseguale che mi ricorda quello subito dalle popolazioni Indie del Centro Sud America: oro contro battesimi.

La verità è che se , in una società di diseguali, non intacchi la diseguaglianza e le sue cause, accadrà che chi è titolare di posizioni di potere e privilegio le userà per difendere ed ampliare la stesse. Chi controlla capitali e/o mass media può influenzare l’opinione pubblica , far fallire le emissioni dei titoli pubblici, delocalizzare imprese causando sfasci occupazionali etc.

Abbiamo visto la dichiarazione di impotenza di Carli contro le IM, ma nella storia del capitalismo la capacità dei grandi gruppi di interesse di influenzare lo Stato è antica e consolidata. A tale proposito ecco come Golo Mann , noto storico tedesco , descrive il modo di operare del barone Von Krupp: “… sempre pronto a minacciare lo Stato con la vendita della ditta alla Francia o con l’emigrazione in Russia, un argomento che egli definisce “come mezzo di pressione più sicuro” e come “pepe negli occhi”. Al re Guglielmo I che gli muoveva rimproveri perché ha rifornito l’Austria nemica risponde francamente: “non possiamo vivere con la sola Prussia”22.

La cosa incredibile è che il referente di Krupp è lo Stato Prussiano noto per la sua severa inflessibilità: evidentemente il barone ha i mezzi per renderlo “flessibile e bonario” e per poter ammettere serafico davanti al re (di Prussia) che certo aveva venduto armi all’Austria, durante la guerra del 1866, ma si sa“businnes is businnes”.

Tornando all’Italia se non si intaccavano nella stessa Costituzione le posizioni di potere e di privilegio di una borghesia ingrassata nello Stato liberale, cresciuta con le commesse di guerra,collaboratrice del fascismo e dotata di una moralità del tutto simile a quella del barone Von Krupp, sarebbe accaduto che i vecchi gruppi di potere avrebbero ripreso il sopravvento. Sarebbe stato necessario, dunque, fissare nella Costituzione limiti alle concentrazioni finanziarie e industriali, o all’arricchimento individuale, o al controllo sui mass media etc. Non lo si è fatto e le conseguenze sono ben note: cacciata della sinistra dal Governo , scissione sindacale, reparti confino e pugno di ferro in fabbrica etc.: i privilegiati usano i propri privilegi per difenderli ed ampliarli, come è normale in una società classista. Si dirà che i rapporti di forza non permettevano di ottenere molto di più e qui, darò un dispiacere ai miei vecchi compagni sessantottini, sono d’accordo23, ma se la Costituzione del ’48 è solo una delle Costituzioni borghesi non è il caso di considerarla una vittoria, un ponte verso il socialismo e così via elencando: le sconfitte non cambiano natura se le chiami vittorie.

Nel 1945 la Resistenza è finita, e la Carta del 1948 segna un ritorno al potere delle forze conservatrici anche se è bene dirlo subito, il partito che incarnerà il ritorno della conservazione è un partito conservatore di tipo nuovo, un partito di massa che cercherà di collegare e sintetizzare sviluppo economico di tipo capitalistico e consenso sociale al sistema.

Atto prima scena prima. Il sistema politico italiano negli anni della ricostruzione e del miracolo economico (1945-70). Fondamento e natura della consociazione DC – PCI
A) La natura e la politica della DC
Spesso la DC è stata rappresentata come un partito clientelare e per certi versi arcaico, molto più un peso per lo sviluppo economico che non un elemento fondamentale dello sviluppo stesso, il cui merito andrebbe all’economia cresciuta malgrado la DC.

Nulla di più falso, a mio avviso, la DC è stato un grande partito conservatore di massa, che ha ben saputo interpretare le esigenze dello sviluppo capitalistico e la necessità di coniugare insieme sviluppo economico e consenso sociale. Per capire cosa sia un moderno partito conservatore di massa bisogna partire da un brano avveniristico che Marx scrisse nel 1862, a proposito dello sviluppo dei ceti medi destinati a diventare la maggioranza della forza lavoro e della popolazione: “… in seguito al macchinismo in generale, allo sviluppo della forza produttiva degli operai, il reddito netto, il profitto e la rendita crescono a tal punto, che la borghesia ha bisogno di più servidorame di prima (…) Questa progressiva trasformazione di una parte degli operai in servitori è una bella prospettiva. Egualmente consolante per essi, è sapere che in seguito all’accrescimento del prodotto netto, al lavoro improduttivo si aprono nuove sfere, che vivono del loro prodotto, ed il cui interesse più o meno rivaleggia nel loro sfruttamento, con quello delle classi direttamente sfruttatrici”24.

Pochi anni dopo, nel 1867, Marx rileverà ne “Il Capitale”, che , sulla base del censimento inglese del 1861, i cd. ceti medi (o lavoratori improduttivi) sono diventati la maggioranza della forza lavoro in Inghilterra25. Da queste analisi derivano alcuni corollari: la classe dominante può allearsi con i ceti medi, rendendoli compartecipi in certa misura dello sfruttamento del lavoro operaio: la marcia dei 40.000 a Torino nel 1980 evidenziava come i quadri FIAT si sentissero molto più vicini al padrone che non agli operai. Questa politica delle alleanze, però, necessita di strumenti operativi per essere realizzata e cioè del partito conservatore di massa, il che è tanto più vero nel XX secolo perché si generalizza il suffragio universale. Nascono allora i grandi partiti di centro come la DC italiana e tedesca, che sono dichiaratamente interclassisti, si rivolgono cioè a tutte le classi sociali, per quanto accettino esplicitamente come orizzonte organico il capitalismo, i politologi li definiranno “partiti pigliatutto” che si rivolgono cioè a tutte le classi e a tutto l’elettorato. Questi partiti, però, almeno nel II dopoguerra non sono meramente conservatori, ma propugnano riforme, necessarie ad avere il consenso di ampi strati sociali, e questo li avvicina alle socialdemocrazie. De Gasperi dirà che la DC è un partito di centro che guarda verso sinistra e ciò non è valido solo per la DC italiana. Il piano Beveridge, che è il simbolo del riformismo postbellico, fu realizzato dai laburisti inglesi ma fu concepito da un lord liberale e fu sottoscritto da un gruppo di 36 deputati tories che si definirono “tories reformers”26, evidentemente essere conservatori e riformatori poteva essere strano dal punto di vista logico formale, ma essere possibile storicamente: l’esperienza della grande crisi e la sfida comunista imponevano al capitale di modernizzarsi salvando il profitto e allargando il consenso sociale al sistema, anche perché i salari e consumi erano necessari ad impedire che si aprisse una forbice troppo larga tra investimenti e consumi che portasse ad un altro 1929.

In Germania la Dc di Adenauer accettò le tesi di un economista liberale ed antinazista (Roepke) che sosteneva la necessità di un’economia sociale di mercato, in cui il mercato dovesse realizzare i fini sociali, come il pieno impiego, ed in cui il potere politico poteva intervenire tutte le volte in cui il mercato funzionava male e si allontanava dalla realizzazione dei fini sociali di cui sopra; in Inghilterra i conservatori, tornati al Governo nel 1951, non annullarono ma conservarono le riforme dei laburisti come fecero in America i repubblicani tornati al potere nel 1952 e che non toccarono il welfare state realizzato negli anni di Roosevelt, anzi la tassazione progressiva raggiunse il suo picco nel 1957 (il 91% di aliquota massima) quando alla Casa Bianca c’è un vecchio generale in pensione repubblicano diventato Presidente della Repubblica stellata27.

Si trattava di un riformismo che accettava il capitalismo e i suoi pilastri fondamentali ma che non era per nulla gattopardesco. La DC interpretò in Italia questa esigenza a partire dalla svolta europeista che fu fondamentale per il miracolo italiano. Bisogna capire che la ricostruzione postbellica fu una ricostruzione da giganti come rileva Andrè Piettre28, in Italia come in Europa. I grandi gruppi che si sviluppano sulla scia dello sforzo di ricostruzione che esige enormi risorse , avvertono i confini nazionali come un limite e quindi si mira ad allargare gli spazi economici e commerciali. In Europa nascono la CECA, l’Euratom, ed il MEC (1957), e gli uomini della DC italiana e tedesca sono all’avanguardia del processo (De Gasperi, Fanfani ed Adenauer), e i monopoli italiani (FIAT in testa) sono tutti dichiaratamente europeisti: noi non possiamo immaginare il boom dell’auto e dell’industria italiana senza l’europeismo ed il piano autostradale che ne fu la sua proiezione all’interno. Ovviamente questa scelta poteva mettere in difficoltà i settori poco competitivi ed arretrati come le PMI e il Mezzogiorno e si intervenne con leggi di sostegno a queste ultime (la legge 59 del 1959) o anche con i metodi surrettizi ma efficaci, come la tolleranza verso l’evasione fiscale del popolo delle partite IVA che rappresenta il 28% della forza lavoro italiana29. Scrive in proposito Arvedo Forni: “Gli evasori medi hanno un peso diverso la loro influenza è generalmente politica si esercita nelle elezioni e nei rapporti politici di gruppo o locali (…) Il partito “populista” di massa (in senso elettoralistico e passivo) ha individuato la possibilità di mantenere la propria popolarità attraverso la tolleranza dell’evasione, lo Stato diventa così indifferente verso l’evasione degli strati intermedi …”30. Fenomeno questo notissimo: l’evasione fiscale in Italia è enorme e viene essenzialmente dalle classi dei lavoratori autonomi e degli imprenditori le cui dichiarazioni sono in maggioranza evasive31, che da tempo immemorabile denunciano redditi inferiori a quelli degli operai32 per non parlare dell’enorme evasione dell’IVA33.

Ciò che però voglio rilevare è che questa tolleranza non ha solo il significato di uno scambio politico, voto contro evasione, ma anche il significato di un sostegno economico consistentissimo per i redditi di capitale, di cui godono tendenzialmente tutti i capitalisti, dai grandissimi ai piccoli e medi imprenditori.

Quanto poi al Mezzogiorno la DC inaugurerà una nuova politica che non risolverà la “questione meridionale” ma permetterà al Sud di passare da un sottosviluppo stagnante ad un “sottosviluppo dinamico”, in cui il PIL procapite cresce notevolmente anche se a ritmi inferiori al Centro-Nord34. Non meno rilevante è la politica nel campo dell’occupazione dove il mercato del lavoro verrà tenuto in piedi grazie alla crescita dell’occupazione nella PA35, che non è un fenomeno solo clientelare come si dice superficialmente, ma una tendenza propria del neocapitalismo: in USA il piano di riassorbimento dei 5,3 milioni di lavoratori “liberati” dalla automazione dei trasporti, ne prevedeva il recupero nell’area pubblica e semipubblica, sempre in USA il 25% dei posti di lavoro creati nel periodo 1950-65 è nella PA36 , tale tendenza si accentua tra il 1958 e il 1963, quando ben 2,8 milioni di posti di lavoro su 4,3 milioni verranno creati nel settore pubblico o semipubblico37; in Giappone nel periodo 1948-68 la produttività nell’industria crescerà del 100% e negli uffici solo del 4%38, ciò significa che negli uffici (terziario pubblico e privato) si opera con criteri labour intensive che controbilanciano il carattere capital intensive dell’industria.

Ma è tutto il capitalismo avanzato che si muove in questa direzione: i ricercatori dell’ILO parlando di un settore (quello della PA) out market perché non risponde ad una logica di profitto ed assume anche in presenza di crisi, fungendo da spugna della disoccupazione, ciò fino alla recessione del 1973-75 inclusa39. In Italia avviene lo stesso come si diceva: in particolare negli anni ’70, che sono anni di crisi e di esplosione della disoccupazione, la PA aumenta i suoi dipendenti del 15,5% (da 3.078.000 a 3.558.000) nel periodo 1973-7740. Dopo, la crisi fiscale dello Stato impedirà di compiere questa funzione di spugna e la situazione occupazionale peggiorerà nettamente. L’assistenzialismo avrà i suoi limiti ma è di gran lunga migliore dell’assenza di qualsiasi politica occupazionale come stiamo sperimentando da trent’anni.

Infine il problema del sistema pensionistico-previdenziale su cui sono fioccate le accuse di clientelismo e questo è vero ma è solo una verità molto parziale. Si trattava in realtà di sussidi di disoccupazione mascherati41 che permettevano a larga parte della popolazione di sbarcare il lunario e che si traducevano in richiesta di consumi e quindi in sostegno all’economia. Un sostegno rilevante, infatti: “Per l’intera economia il numero dei pensionati è passato da 11,1 milioni contro 18,8 di occupati del 1968 a 16,3 milioni di pensionati contro 19 milioni di occupati nel 1975. In tutto il periodo si sono create 23 pensioni in più contro ogni nuovo occupato in più”42.

Clientelismo certo ma anche sostegno all’economia: il miracolo è finito, la crisi esplode pesantemente (recessione del 1973-75) e il numero delle pensioni si impenna43. Keynes diceva che occorre pagare un reddito anche a lavoratori che fanno buchi per terra per poi riempirli, che è un modo per dire che l’assistenzialismo è di gran lunga preferibile al nullismo, consistente nel sedersi sulla riva del fiume in attesa che arrivi la ripresa dell’economia che risolva spontaneamente i problemi sul tappeto, come fece il presidente Hoover nel 1929-32 con risultati non proprio felici. La DC utilizzò in modo improprio il sistema previdenziale per realizzare una sorta “di reddito di cittadinanza” mascherato per milioni di italiani, non si chiese loro di fare buche per terra per poi riempirle, ma si disse che erano ciechi anche se vedevano , che erano storpi anche se potevano correre una maratona, o che soffrivano di postumi per una operazione alla prostata anche se erano donne (la cd. prostata femminile). Oggi le pensioni si tagliano, ogni governo usa i pensionati come bancomat, e i consumi ristagnato in coma profondo, mai come in questo caso si potrebbe dire si stava meglio quando si stava peggio.

Sulla DC non vanno dati giudizi moralistici: nel capitalismo l’evasione fiscale, la corruzione e il clientelismo sono fenomeni normali44, l’importante è capire se , malgrado la corruzione o addirittura, attraverso la corruzione stessa il sistema sia capace di funzionare. Con la DC, nel periodo 1945-70 il sistema ha funzionato con tutte le contraddizioni e le ingiustizie del capitalismo, ma ha funzionato, pensare che questo sarebbe accaduto senza la mole enorme di iniziative messe in cantiere dalla DC (europeismo, nuovo meridionalismo, sostegno al grande capitale ed in forma diversa alla PMI, uso spregiudicato della PA e del sistema pensionistico per sostenere occupazione e consumi) significa credere che la storia possa procedere attraverso i miracoli dei maghi dell’Oriente.

Inoltre i successi della politica economica della DC permisero di ampliare il consenso sociale al sistema: nacquero sindacati diversi dalla CGIL e alternativi ad essa, il PSI al congresso di Torino (1955) lanciò la politica del dialogo con i cattolici confermata a Venezia (1957) mentre l’anno prima Nenni e Saragat riprendono i contatti: sono le prove per il governo di centro sinistra degli anni ’60 che isolerà il PCI e creerà in quel partito un nervosismo estremo dovuto al timore di un isolamento senza prospettive all’opposizione. Da tale isolamento il Pci tentò di uscire con manovre assurde e spregiudicate come il “milazzismo” in Sicilia e cioè l’appoggio alla giunta Milazzo, dirigente locale della DC che aveva creato un suo partito e che governò con l’appoggio dei monarco-fascisti (notoriamente contigui con la mafia) e della sinistra45. Una soluzione disperata per uscire dall’isolamento che finì presto nel nulla come era prevedibile, ma che era il segno di quanto fosse egemonica ed espansiva la politica della DC che, grazie al successo del miracolo economico era in grado di isolare e neutralizzare a sinistra il PCI46.
B) La politica economica del PCI (1945-1970)
Da anni si dice che la DC aveva il monopolio del governo e il PCI quello dell’opposizione (negli anni del dopoguerra fino al 1970)47. Ma quale era la politica che il PCI propone in alternativa a quella vincente della DC? Si trattava, è bene dirlo, di una mediocre politica socialdemocratica che mirava ad ottenere alcuni limitati vantaggi per i gruppi sociali cui il PCI si rivolgeva in prevalenza: un po’ più di salario e di pensioni, un po’ più di occupazione, il 60% del prodotto al mezzadro invece del 50% etc.48, senza però mettere in discussione il carattere capitalistico degli anni della ricostruzione, anche se si chiederà in un primo tempo la nazionalizzazione di alcuni grandi gruppi monopolistici, richiesta che poi nei documenti e nelle proposto della PCI successive verrà tacitamente abbandonata. Il quadro complessivo del capitalismo è comunque accettato fin dai primi documenti del 1945: in uno di essi, intitolato emblematicamente“Ricostruire” Togliatti dice esplicitamente che non dobbiamo fare come in Russia: “Se dicessimo di volere oggi un piano economico generale come condizione per la ricostruzione, sono convito che porremmo una rivendicazione che noi stessi non saremmo in grado di realizzare. Voglio dire che, anche se fossimo oggi al potere da soli, faremmo appello per la ricostruzione all’iniziativa privata perché sappiamo che vi sono compiti a cui sentiamo che la società italiana non è ancora matura”. E ancora: “L’obiezione più radicale che è stata fatta a questa nostra linea è quella del compagno che ha detto che noi siamo degli utopisti perché crediamo che sia possibile in una società capitalistica imporre una politica di solidarietà nazionale. E questo in linea di astratta dottrina è giusto, ma in pratica grandi risultati si possono ottenere purché lo si voglia”49.

Quali sono questi grandi risultati non è chiaro, si accenna solo a “limitare l’assoluta libertà speculativa” dell’imprenditore privato” come sarebbe avvenuto in Inghilterra negli anni di guerra, che è rimasta pur sempre un paese capitalista50. In sintesi accettazione del capitalismo e dell’iniziativa privata indispensabile alla ricostruzione, limitare solo l’assoluta “libertà speculativa” e quanto ai problemi si supereranno “purché si voglia”, il che è generico e semplicistico51.

Un preludio alquanto deprimente che evidenzia un riformismo estremamente cauto, privo di grosse idee e vago sulle soluzioni, e si può dire che questa continuerà ad essere la linea del Pci che appoggerà il piano del lavoro proposto dalla CGIL proposto qualche anno dopo52 e di cui Luciano Lama dirà, autocriticamente, che era solo un palliativo assistenziale per aiutare la povera gente del Sud53.

Lo stesso discorso vale per la politica meridionalista centrata sulla difesa della piccola impresa agricola diretto coltivatrice, arcaica e arretrata54.

Tuttavia nel corso degli anni la linea del Pci si arricchirà della parola d’ordine della “pianificazione democratica” che , si badi, è sempre la pianificazione o programmazione di una società che rimane capitalistica, dirà infatti Enrico Berlinguer: “Noi non vogliamo seguire i modelli del socialismo sinora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell’economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale che l’iniziativa privata individuale sia insostituibile, che l’impresa privata abbia uno spazio e conservi un ruolo importante”55.

L’intervistatore (Scalfari) osserva che questa è una posizione socialdemocratica e Berlinguer non lo nega, ma dice solo che mentre la socialdemocrazia fa gli interessi degli operai nel capitalismo il PCI pensa anche agli strati sociali emarginati56, tuttavia Berlinguer non nega anzi ammette implicitamente un elemento comune di fondo con la socialdemocrazia: il collocarsi cioè all’interno del sistema capitalistico che è accettato.

Ma l’impostazione del PCI sulla programmazione democratica risulta chiara nel documento di critica al piano Pieraccini che si colloca in un’ottica tutta interna a quella del piano Pieraccini e cioè l’ottica di una programmazione indicativa del tutto priva di strumenti per operare; infatti nel documento approvato dalla direzione del PCI nel 1966 si chiede semplicemente alle grandi SPA di comunicare agli organi della programmazione i propri piani di investimento, ma esse rimangono sovrane nelle scelte che intendono operare, si parla inoltre di controllo sui monopoli senza indicare concretamente come realizzare questo controllo posto che dalla fine dell’ 800 in poi tutte le leggi antimonopolio sono clamorosamente fallite57.

Quando poi il PCI passa dalle indicazioni generiche ai progetti di legge concreti, partorisce un progetto sulla programmazione comprensoriale indicativo ed inconsistente ed un progetto sulla riforma della PP.SS. farraginoso ed impraticabile58.

In altre parole il PCI vorrebbe programmare il capitalismo ma non sa come fare e propone velleitariamente una programmazione che colpisca sprechi, parassitismo e rendite59, ma non il profitto, dimenticando che profitto e rendita sono inscindibilmente connessi nel capitalismo italiano (e non solo) per cui è impossibile colpire l’una senza colpire l’altro60.

Inoltre il PCI non affronta, nei suoi documenti, il problema di come possa programmarsi un capitalismo integrato in un’area sovranazionale attraverso provvedimenti essenzialmente nazionali, problema posto drammaticamente dalla dichiarazione di Guido Carli del 1971 che abbiamo prima citato. A tal proposito sul problema del MEC e della integrazione dell’Italia in uno spazio economico sopranazionale il PCI è del tutto disarmato: prima si oppone all’entrata dell’Italia nel MEC , poi chiede la sospensione dei trattati europei, poi una diversa politica europea, che si opponga al prepotere delle multinazionali per la quale si propone un’alleanza con tutte le forze democratiche, senza chiarire né gli obiettivi né le modalità attuative di una simile alleanza61.

Anche nel campo delle relazioni industriali il PCI è assente o carente: le grandi lotte che dal ’68 in poi scuotono la struttura della fabbrica capitalistica sono sostanzialmente ignorate nell’antologia dei documenti che abbiamo più volte citato. C’è , è vero, un progetto di Statuto dei lavoratori elaborato dai gruppi parlamentari del partito e che porta le firme di due grandi come Terracini e Li Causi62, ma purtroppo il contenuto non è all’altezza delle firme. Il progetto, infatti, è ispirato ad una logica arcaica di difesa dei diritti individuali dei lavoratori, cosa che in mancanza di un’organizzazione sindacale forte, può essere vanificata dalle imprese capitalistiche, bisognava perciò rafforzare gli strumenti di autotutela collettiva dei lavoratori sul posto di lavoro, ciò che avvenne ma essenzialmente perché prevalse la spinta delle lotte operaie di quegli anni, che imposero al parlamento una legge che fu la più avanzata dell’occidente capitalistico63. Anche qui il PCI è alla coda degli eventi. A questo punto possiamo dare un giudizio su ciò che il PCI è stato dal 1945 in poi e possiamo dire che il Pci non è mai stato un partito rivoluzionario ma un partito moderatamente riformista, il brutto anatroccolo della destra socialdemocratica europea travestito da comunista. Il riformismo del PCI è quanto mai minimalista si può dire che la rivendicazione del 60% del prodotto ai mezzadri ben esprime quello che il PCI è stato: nei suoi documenti e nella sua azione non c’è niente della “grandeur” riformista del piano Beveridge , il paragone tra il riformismo di Togliatti e quello dei laburisti inglesi è improponibile come una partita di calcio tra il Giulianova Marche e il Barcellona. Ma anche il rapporto con il vecchio PSI dagli anni dal 1892 al 1914 è umiliante per il PCI. I socialisti affrontarono dal 1892 al 1900 battaglie memorabili contrassegnate da eccidi terribili (quello di Bava Beccaris a Milano causò 80 morti e 450 feriti secondo le stime ufficiali che si considerano inferiori alla realtà), leggi eccezionali , camere del lavoro sciolte dai prefetti etc.64. Alla fine di questo periodo nel 1900, Giolitti rispose alla richiesta di un deputato socialista, che non userà l’esercito per sostituire i braccianti in sciopero perché sarebbe stato impopolare ed inutile, dopo 8 anni di lacrime e sangue i socialisti avevano ottenuto il diritto all’organizzazione politica e sindacale, alla contrattazione collettiva, allo sciopero65 e negli anni seguenti le lotte continuarono e si arrivò alla decisione che in caso di eccidi operai lo sciopero sarebbe scattato automaticamente senza bisogno di essere proclamato66. La storia del PCI invece è, dopo il 1948, la storia di una forza essenzialmente parlamentare, con l’eccezione delle lotte contro la mafia in Sicilia di cui abbiamo parlato67. Le grandi vittorie ottenute dopo il 1968 (Statuto dei lavoratori e processo del lavoro) avvengono al di fuori del PCI e in un primo tempo anche al di fuori del sindacato, il movimento dei delegati operai nasce infatti, al di fuori del movimento operaio ufficiale ed in forte critica nei suoi confronti68.
C) Le cause della socialdemocratizzazione del PCI
Il Pci , dunque, è un partito socialdemocratico come tanti e qui si pone il problema di spiegare la sua involuzione, dopo anni di lotta dura contro il fascismo e il nazismo, verso un approdo socialdemocratico quanto mai moderato e parlamentare. Per molti la scelta moderata era per così dire necessitata dall’occupazione militare degli alleati e dagli accordi di Yalta del 1945, che ci relegavano nell’area dominata dall’America, eravamo, cioè, un paese a sovranità limitata69, come si dirà negli anni ’70 quando verrà fuori la vicenda di “stay behind”. Ora che l’America interferisse nelle vicende italiane è indubbio basti pensare alla signora Luce (ambasciatrice negli anni ’50) e alle sue interferenze: il signor Colby direttore della CIA ha raccontato nelle sue memorie quello che fece in quegli anni come capo della sezione italiana della CIA stessa, tra l’altro siccome nel 1952 sembrava possibile una vittoria dei comunisti alla elezioni provinciali per Roma dove presentavano un noto penalista (il prof. Sotgiu) come candidato, egli organizzò uno scandalo detto dei “balletti rosa” per spezzare le gambe alla candidatura del suddetto professore. La cosa riuscì in pieno, anche se si trattava di una montatura, e ciò placò le ansie di papa Pio XII giustamente preoccupato dal fatto che la capitale della cristianità potesse avere un presidente di provincia rosso70.

L’America interferiva senza ritegno alcuno: in Grecia la guerriglia comunista fu stroncata, il regime di Arbenz (Guatemala) fu abbattuto , il presidente brasiliano Vargas spinto al suicidio, Peron fu defenestrato ed esiliato, e poi il Vietnam, il golpe anti-Allende in Cile nel 1973 e quello dei militari argentini nel 1977. Per gli USA la libertà è la libertà di fare gli affari propri: un presidente USA non proprio noto per essere un genio, Calvin Coolidge, disse una volta “businnes of America are businnes”, la democrazia americana è una democrazia degli affari (propri). Epperò se questo è vero è anche vero che la logica di Yalta è stata bucata per un numero di volte eguale o superiore a quello in cui è stata affermata. Ad esempio la Jugoslavia non rientrava nella sfera sovietica essendovi un accordo tra Churchil e Stalin per un’influenza occidentale e sovietica al 50%71, ma la vicenda si concluse con la vittoria di Tito che pagò con la scomunica la propria disobbedienza a Stalin. Ancor più grave, per le dimensioni del paese, fu la vicenda cinese che Yalta non assegnò all’URSS, anzi nell’agosto del 1945 vi fu un trattato tra la Cina nazionalista e l’URSS in cui quest’ultima riconosceva la prima e le riconsegnava la Cina settentrionale occupata dai sovietici dopo il crollo giapponese72. Stalin non voleva la rivoluzione in Cina, una rivoluzione che per le sue dimensioni avrebbe messo in discussione il suo predominio sul movimento comunista, quanto a Mao finse di obbedire ma disobbedì e a vittoria conseguita non poté essere espulso dal movimento comunista internazionale come Tito perché la Cina era troppo grande per essere trattata come la Jugoslavia. Peraltro il rancore di Mao contro Stalin esplose negli anni ’60 durante la rivoluzione culturale con una serie feroce di critiche cui le guardie rosse sottoposero l’operato di Stalin.

Ancora: a Cuba trionfa una rivoluzione che si dice socialista, Peron esiliato ritorna e con lui torna il peronismo tuttora esistente, in Vietnam l’America rimedia una sconfitta clamorosa e oggi proliferano in America latina governi che non amano gli USA e non ne sono riamati. Un noto sociologo conservatore come il prof. Lipset teorizza che i comunisti estranei alla cultura occidentale non possono vincere le elezioni e partecipare ad un governo nei paesi occidentali73, epperò nel 1981 col programma comune delle sinistre francesi il PCF è al governo in un paese di grande importanza come la Francia.

Gli USA, dunque, sono potenti ma non onnipotenti, la logica di Yalta è stata confermata quanto smentita, era, perciò, un condizionamento reale ma non infrangibile. Si pone dunque il problema di capire il perché il PCI di Togliatti non la eluse e in verità non ci provò nemmeno. Per capirlo dobbiamo cercare di comprendere quali fossero i rapporti di forza interni alla società italiana nel 1945, ma prima di fare questa valutazione dobbiamo riconsiderare il brano di Marx prima citato sul fatto che nei paesi capitalistico-industriali la classe operaia sia destinata ad essere una minoranza, ciò che era vero già nell’Inghilterra del 186174. Kautzky, che ben conosceva questo brano di Marx (fu ottimo curatore dell’edizione postuma dell’opera in questione), sosterrà che i partiti operai devono venire a patti e conquistare i consensi delle classi medie e possono farlo in un solo modo: riconoscendo e legittimando i privilegi che la società borghese concede a queste classi75, ciò però implica come corollario di riconoscere la società che produce questi privilegi e la stratificazione sociale che ne consegue. Del resto se sei organicamente una minoranza e fai una politica aggressiva nei confronti della maggioranza, che conta sull’apparato repressivo statale, vai incontro ad una sicura sconfitta, sicché per diventare maggioranza devi conquistare altri gruppi sociali facendo loro grosse concessioni, che concernono i vantaggi che essi ricevono da questa struttura sociale.

Si delinea così un partito che mira a ottenere concreti vantaggi per i propri elettori all’interno del sistema sociale esistente e che non ne mette in discussione i caratteri fondamentali: un partito in cui domina una prassi parlamentaristica ed un sindacato, collegato al partito, che si specializza nella vendita della forza lavoro alle migliori condizioni ottenibili sul mercato, che è pur sempre il mercato capitalistico, un partito di parlamentari e sindacalisti organicamente inserito nell’attuale sistema sociale.

Tornando adesso al PCI ed a Togliatti, che sbarca a Salerno nel 1944 e sostiene che il PCI deve diventare un partito meno proletario e più popolare76, si pone per essi il problema di aprirsi ai ceti medi: la classe operaia infatti è una forza decisamente minoritaria all’interno del paese77, per cui una politica delle alleanze diventa assolutamente necessaria. Questa esigenza è evidente nel celebre discorso che Togliatti tiene a Reggio Emilia nel 1945 dove affronta il tema dei ceti medi osservando che l’Italia è piena di ceti medi quali i piccoli proprietari agricoli, i coloni, i mezzadri, gli artigiani, i commercianti, i piccoli industriali, gli impiegati etc. essi fanno parte delle “masse lavoratrici” e la Pci deve avere la capacità di realizzare l’unità delle “masse lavoratrici”78. Qui Togliatti fa un passo a destra rispetto a Kautzky per cui i ceti medi sono un’altra classe rispetto agli operai, mentre Togliatti tende ad assorbire i ceti medi all’interno delle “masse della popolazione lavoratrice” assimilandole in sostanza alla classe operaia. Le masse lavoratrici sono formate da coloro che vivono prevalentemente del proprio lavoro; ora è indubbio che vi possono essere dei punti di contatto tra impiegati ed operai, ad esempio perciò che concerne la difesa di salari e stipendi dall’inflazione, ma ciò non toglie che esistono anche enormi differenze da altri punti di vista: i 40.000 della marcia dei quadri FIAT del 1980 erano impiegati della FIAT a reddito fisso ma non erano e non si sentivano operai, erano piuttosto i rappresentanti del potere capitalistico presso gli operai ed assimilarli ad essi era una impresa improba. Lo stesso dicasi per i piccoli artigiani, commercianti e gli industriali, che fanno parte del grande popolo delle partite IVA che realizza, come abbiamo visto, un’evasione fiscale di massa i cui costi ricadono in larga misura sugli operai e i pensionati. Quanto agli statali è appena il caso di notare che statale era anche il generale Bava Beccaris che prendeva a cannonate gli operai milanesi durante uno sciopero, lavoratore dipendente era anche l’ing. Valletta collaboratore principale del senatore Agnelli nella gestione della FIAT e che io avrei qualche difficoltà ad assimilare agli operai, che notoriamente non lo amavano. Lo stesso discorso può farsi per la grande massa dei coloni e dei mezzadri, cui Togliatti dedica una particolare attenzione nei confronti dei quali la sua analisi si pone in chiaro contrasto con quella fatta negli anni dell’esilio da un altro comunista, che si chiamava Giuseppe Di Vittorio: quest’ultimo analizzava la politica del fascismo evidenziando come essa mirasse a creare al posto dei braccianti una piccola borghesia stracciona di coloni e mezzadri attaccati al sogno della piccola proprietà e vaccinati dal bacillo della lotta di classe che caratterizzava i braccianti79.

In sostanza Togliatti cancellava le differenze, allora molto rilevanti, tra operai e ceti o classi medie per delineare un partito, il PCI, di carattere ecumenico molto simile alla DC perché si rivolgeva potenzialmente a quasi tutti, ne erano esclusi soltanto una piccola minoranza che viene spesso definita nei documenti di quell’epoca col termine “ceti parassitari”, ma il PCI appare in sostanza un partito di sinistra che marcia verso il centro; tuttavia questa scelta di carattere socialdemocratico trovava il suo fondamento nella debolezza sociale della classe operaia che Togliatti aveva ben capito, una debolezza aggravata dal fatto che la forza della classe operaia era assai mal distribuita: c’erano zone del paese come il meridione, le isole, il Nord-Est in cui la forza della sinistra era estremamente fragile, Milano e Torino erano grandi città operaie ma anche città di ceti medi, inoltre la Resistenza in Italia non era stata opera solo del PCI ma anche di altre forze e l’apparato repressivo dello Stato era di gran lunga superiore all’apparato militare che il PCI aveva realizzato durante la lotta di Resistenza e che nei primi anni del dopoguerra era stato in qualche modo conservato80. Quanto all’URSS era uscita dissanguata dalla seconda guerra mondiale e fino al settembre 1949 non disponeva dell’arma atomica per cui era impensabile che potesse fornire un appoggio, ancorché indiretto, ad un’eventuale ipotesi rivoluzionaria in Italia. In questo quadro si verifica nel luglio del 1948 il famoso attentato a Togliatti, che portò a una forte reazione popolare in Italia e ad una situazione preinsurrezionale in alcune zone d’Italia come Genova o la Toscana81, tuttavia una rivoluzione non si può fare solo a Genova o alle pendici del monte Amiata, i rapporti di forza erano quelli sopra indicati e Togliatti quando fermò, dal proprio letto di ospedale, la spinta verso l’insurrezione compì un gesto oculato: se si fosse andati allo scontro si sarebbe finiti in una mattanza, con il movimento operaio nello scomodo ruolo del“matado”. Non critico quindi Togliatti per quella scelta ma non posso non rilevarne le conseguenze storiche che essa ebbe: il PCI si trasformò definitivamente in un partito parlamentarista di destra socialdemocratica che praticò una mediocre politica riformista e che diventò un partito aperto ad intellettuali borghesi che aderivano ad esso per compiere una carriera parlamentare quanto mai tradizionale. Quando Percy Allum analizzò la struttura del partito comunista a Napoli nel dopoguerra evidenziò che la sua politica e la sua prassi non erano diverse da quelle della DC e che al PCI e alla DC gli intellettuali della borghesia aderivano con un solo fine: fare carriera82.

Ciò che io condanno del PCI non è tanto la scelta socialdemocratica ma il fatto che tale scelta fu di livello bassissimo: in un partito come quello laburista dei primi anni del dopoguerra uno come me avrebbe potuto militare sia pure come critico di sinistra, nel PCI assolutamente no, sia perché il suo riformismo era miserabile, come abbiamo visto, sia perché aveva una struttura stalinista e autoritaria che impediva ogni dibattito critico. Inoltre la pretesa di far passare come rivoluzionaria una politica di bassissimo livello riformista era disgustosa, nulla è più ridicolo di un riformista di bassissimo livello che giochi a fare il rivoluzionario nei comizi domenicali. La cosa migliore che un simile partito abbia potuto fare nella sua vita è stata quella di crepare.
D) I pretesi limiti della consociazione DC - PCI
La consociazione tra DC che esercita il potere e il PCI che gestisce l’opposizione è stata criticata a vario titolo. Si è detto da molti che la nostra era una democrazia bloccata perché mancherebbe l’alternanza dei ruoli e cioè la possibilità per l’opposizione di diventare governo. In realtà questa alternanza è una caratteristica normale ma non essenziale delle democrazie liberali: la socialdemocrazia svedese ha avuto una longevità al potere non inferiore a quella della nostra DC e nessuno la critica per questo, così come nessuno critica Roosevelt per aver vinto quattro volte di seguito le elezioni presidenziali americane. La validità di un sistema politico si valuta dal funzionamento e dai risultati: l’Italia del 1945-70 è il paese della ricostruzione e del miracolo economico, in cui la DC ha avuto un ruolo centrale e fondamentale, non si vede perché il PCI avrebbe dovuta sostituirla al governo in omaggio al principio astratto dell’alternanza.

L’altra critica, in voga negli anni ’70, era quella della confusione dei ruoli: un politologo ha rilevato, analizzando la produzione legislativa del periodo 1948-68 che spesso i provvedimenti proposti dall’opposizione erano approvati dalla DC e viceversa, inoltre frequentissimo era lo scambio di emendamenti tra governo ed opposizione83. Ciò avrebbe determinato un’incertezza su chi governasse veramente, tuttavia è facile osservare che questa obiezione avrebbe avuto un senso se il PCI avesse fatto veramente una politica alternativa al sistema, siccome, però, il PCI il sistema lo accettava in pieno e la sua logica aveva moltissimi punti di contatto con quella della DC, non si vede per quale motivo non vi dovesse essere uno scambio a livello di produzione legislativa. Ciò che viene considerato un elemento di debolezza in realtà era un elemento di forza perché era la DC che egemonizzava il PCI. Inoltre nelle democrazie liberali è normale una contrattazione tra governo ed opposizione: in USA , la più grande delle democrazie liberali, è normale che nelle elezioni di mezzo tempo il partito del presidente perda il controllo di uno dei due rami del Congresso per cui tra l’amministrazione e l’opposizione diventa obbligata una sorta di contrattazione permanente. Non si capisce poi per quale motivo una democrazia liberale in cui vi sia un dialogo tra governo ed opposizione sia più debole di una democrazia liberale in cui vi sia un conflitto permanente tra chi governa e chi si oppone.

La verità è che negli anni che vanno al 1945 al 1970 il sistema politico italiano ha funzionato e ciò è stato anche nella difficilissima legislatura nel 1953-58, che presentava un parlamento ingovernabile sulla carta, ma in cui la DC spostandosi ora leggermente a destra , ora leggermente a sinistra, riuscì a governare compiendo scelte importantissime dai trattati di Roma al riassetto delle PP.SS., il che significa che quando hai un’ipotesi di sviluppo puoi governare, i guai vengono quando non hai ipotesi di sviluppo e allora anche con maggioranze oceaniche, come è avvenuto in Italia negli ultimi anni con Berlusconi, non riesci a governare84.

Atto primo scena seconda. La fine del miracolo economico ed i tremendi anni ’70. La mutazione genetica del PCI


Nel 1970 finisce il miracolo economico italiano ed esplode il debito pubblico85, nell’estate di quell’anno viene varato un DL che passerà alla storia col nome di “decretone”, che contiene le prime misure per le quali si comincerà a parlare di “austerità”. Ma di lì a poco la decelerazione delle economie capitalistiche si fa mondiale: “Il tasso di crescita medio annuo dei paesi dell’OCSE scende al 5,2% del periodo 1961 – 69 al 3,9% del 1970-79, al 2,6% del 1980-89, al 2,1% del 1990-96”86.

Poi nel 1973 arriva la famosa crisi del petrolio con una pesantissima recessione industriale ed il riemergere della disoccupazione di massa accompagnata da un’inflazione a due cifre: da noi fatta base 100 i prezzi del 1972 siamo a 259 nel 197887, tale inflazione colpisce pesantemente i redditi fissi, infatti la scala mobile (ora un ricordo) opera in ritardo e con una copertura parziale88, non solo ma la crescita monetaria dei salari pure inadeguata fa scattare aliquote progressive dell’IRPEF riducendo ancor più il salario netto reale89. Esplode anche da noi la disoccupazione: nel 1976 l’ISTAT rileva 18,6 milioni di occupati, un terzo della popolazione totale, cifra molto bassa; a quell’epoca il tasso di attività era dato dal rapporto tra occupati e popolazione totale (adesso si valuta la percentuale di occupati sulla sola popolazione in età da lavoro) e con quel criterio in Giappone negli anni del miracolo lavorava poco meno della metà della popolazione totale. Nel 1977, però, avviene un fatto strano e “miracoloso”: gli occupati, rispetto al 1976, crescono di un milione mentre i disoccupati crescono di 600.000 unità, nello stesso anno avremmo, dunque, un aumento degli occupati da boom ed un aumento dei disoccupati da crisi. La cosa però si spiega agevolmente: l’aumento dei disoccupati è reale, l’aumento degli occupati è dovuto al fatto che l’ISTAT ha cambiato i criteri di valutazione e ha considerato occupati persone che lavoravano in modo occasionale e saltuario e che in precedenza erano considerati disoccupati90. E’ questo un caso “frappant” di come ormai le statistiche sul lavoro, in Italia e nel mondo, cerchino di risolvere il problema della disoccupazione nascondendolo; la cosa poi è aggravata dal fatto che in Italia, come altrove, la sottoccupazione e/o il lavoro nero si diffondono sempre più in quegli anni91.

Una situazione complessiva disastrosa e nel paese, scosso da lotte operaie quanto mai estese, il malcontento esplode anche a livello elettorale: nel 1975 i PCI sfonda raggiungendo alle amministrative generali il 32,4% dei voti, scriverà Celso Ghini (massimo esperto elettorale del PCI): “Il 15 giugno gli elettori con la loro scheda hanno voluto dire basta! ai maneggioni della politica, ai profittatori della politica, hanno voluto dire che bisogna cambiare radicalmente e presto92” .

La legislatura agonizza e verrà sciolta in anticipo, ma nel 1976, se il PCI arriva al 34,4%, la DC risale la china e supera il 38%; il governo delle sinistre è impossibile e si arriva all’unità nazionale, prima grazie all’astensione del PCI poi col suo voto favorevole. Il guaio è però che nel triennio 1976-79 i maneggioni della politica rimangono in sella e nulla cambia, neanche in superficie, ciò perché la politica economica proposta dal PCI, è, a dir poco, fallimentare. Per combattere l’inflazione Lama, leader comunista della CGIL, proporrà, sostenuto dal suo partito, la svolta dell’EUR e cioè una moderazione salariale estrema (anche aumenti mensili di 6.000 lire) che porterà come conseguenza il crollo dei salari sul valore aggiunto dell’industria dal 70,6% del 1975 al 62,2% del 198093. Più che moderazione salariale abbiamo un suicidio salariale aggravato anche dalle concessioni fatte sulla scala mobile (i punti di contingenza scattati dopo il 1977 non verranno conteggiati nell’indennità di liquidazione): si spera che la moderazione salariale favorisca gli investimenti e l’occupazione ma non si otterrà nulla. Il perché è evidente , è chiaro ormai , sia in Italia che nel mondo, che il capitalismo può aumentare la produzione senza aumentare l’occupazione sicché la moderazione salariale non ottiene alcun posto di lavoro ma serve solo ad aumentare i profitti delle aziende. Non meno fallimentare è la lotta contro l’inflazione: proprio in quel periodo in sede europea una commissione di saggi presieduta dall’economista belga Maldague (di cui fa parte il nostro prof. Archibugi, notoriamente democristiano) elabora un rapporto che fa carico dell’inflazione all’azione delle IM in rapporto alle quali si propone una politica riformista molto dura e incisiva94. La risposta della CEE è indicativa: si cerca di nascondere il rapporto in fondo ad un cassetto, da cui però qualcuno lo tirerà fuori, sarebbe una sponda d’oro per il PCI per realizzare la politica antimonopolista che predica dal 1945, ma ovviamente nessuno lo farà95.

Il fatto è che il PCI è totalmente subalterno alla logica del capitale e questa subalternità appare evidente in questo articolo di Giorgio Napolitano autorevolissimo esponente dell’ala migliorista del PCI: “… se si vogliono creare le condizioni per un rilancio del processo di accumulazione a livello di imprese bisogna operare un forte spostamento di risorse dai consumi agli investimenti ed anche favorire un maggiore aumento della produttività da utilizzare fondamentalmente per l’allargamento della base produttiva e dell’occupazione e non per un ulteriore aumento dei salari reali dei già occupati96”.

Contrarre i consumi, dunque, per sostenere gli investimenti che è la politica di Milton Friedman, di Reagan e della Tchatcher, nella speranza che gli investimenti producano nuova occupazione, ciò che come abbiamo detto più volte, non avviene più a partire dalla ripresa del 1976-79. I dirigenti del PCI non percepiscono che il capitalismo è radicalmente cambiato e può aumentare la produzione senza nuova occupazione, il rapporto non è più tra investimenti ed occupazione ma tra investimenti e disoccupazione97.

Si dirà che questa di Napolitano è la posizione di un esponente dell’ala migliorista del partito, ma non sarebbe giusto perché ormai questa è la linea di tutto il PCI e della CGIL, che si esprime nella produzione legislativa nel triennio dal ‘76 al ’79 realizzata con i voti determinanti del PCI: valanghe di miliardi alle imprese e nulla per l’occupazione e per la difesa del salario. Così il piano agricolo prevede una pioggia di 7000 miliardi di finanziamenti e quello ferroviario 1600 miliardi di commesse98, mentre la legge per la riconversione industriale prevede, per le imprese che si riconvertono, sostegni consistenti e la possibilità di contrarre l’occupazione precedente anche del 20%99. In tema di occupazione un solo intervento di rilievo: nel 1977 l’ISTAT rileva che la disoccupazione giovanile è al 22% e si vara una legge per il sostegno alle assunzioni di giovani, che sarà un colossale e prevedibile flop, prevedibile perché non ha molto senso ridurre notevolmente il costo dei nuovi assunti per qualche anno (usando la leva fiscale) in un momento in cui il capitale può aumentare la produzione senza aumentare l’occupazione, anzi contraendola, può cioè risparmiare completamente, grazie alla tecnologia, il costo di nuovi assunti100.

Nessun provvedimento serio contro l’evasione fiscale, contro la corruzione per tentare di programmare l’economia come da lustri il PCI dice di voler fare etc. Una resa totale alla destra economica nella speranza che, sostenendo profitto ed investimenti senza chiedere alcuna contropartita, arrivino nuovi posti di lavoro, una illusione disastrosa per quanto si è visto. Non era questa, solo qualche anno prima, la politica del PCI: in un documento della direzione comunista del 1970 leggiamo: “La seconda condizione è che lo sviluppo produttivo abbia tre precisi obiettivi, l’aumento dell’occupazione, soprattutto nel Mezzogiorno, la difesa del salario reale e dei redditi dei contadini, le riforme capaci di operare una ristrutturazione dei consumi a favore dei grandi consumi sociali (sanità, casa, scuola e ricerca scientifica, trasporti pubblici) …”101.

Ancora nel 1970 il PCI parla di aumentare i consumi sia pure riqualificandoli nella direzione dei consumi sociali, che, si badi, rappresentano per i lavoratori un incremento del reddito reale percepito (penso alla casa o alla sanità gratuita), pochi anni dopo occorrerà contrarre i consumi a vantaggio dell’accumulazione ed accettare aumenti salariali di 6000 lire mensili mentre l’inflazione galoppa e il “fiscal drag” taglia ulteriormente il reddito dei lavoratori.

Un panorama disastroso ed una involuzione evidente anche rispetto alla vecchia politica socialdemocratica di estrema moderazione, per cui non si può non concordare con Giorgio Galli quando scrive: “Al terzo livello, quello dell’Italia sotterranea i ceti finanziario-speculativi, superato il timore della “primavera degli onesti” davanti alla remissività del PCI, si scatenano, nei loro settori più aggressivi, in una campagna di arricchimento individuale e di gruppo nella quale le migliaia di miliardi truffati dai petrolieri e le migliaia di miliardi riscossi dalla P2 sono l’espressione più lampante. Mentre il PCI di Berlinguer ed i sindacati di Lama, Carniti e Benvenuto, chiamano la classe operaia all’austerità, sterilizzano la scala mobile, riducono le liquidazioni, i Muselli comprano scuderie di cavalli da corsa, i Freato collezionano Van Gogh, i Fabbri spendono miliardi in antiquariato, i Calvi acquistano residenze nelle località più esclusive d’Europa e d’America”102.

Il PCI è il battistrada, l’apripista di una involuzione che riguarda tutta la socialdemocrazia europea: il canto del cigno di quest’ultima fu il programma comune delle sinistre in Francia, con le sue massicce nazionalizzazioni ed il forte dirigismo statale che proponeva, ciò che creò un certo imbarazzo del PCI103.

Tuttavia il riformismo della sinistra francese rientrò rapidamente dopo pochi mesi di governo104 e nei decenni successivi varie istituzioni capitalistiche come l’OCSE e la BRI rilevarono la caduta dei salari come quota del PIL dei paesi industriali avanzati, caduta che è generale e che prescinde dai colori dei governi105; l’indebolimento delle posizioni della classe operaia sul mercato del lavoro indebolisce partiti e sindacati di sinistra e favorisce le critiche che vengono dalla destra conservatrice contro il welfare state , se la classe operaia è debole il riformismo difficilmente può essere difeso e quindi prendono piede posizioni del tipo di Reagan che finiscono per essere accettate e subite anche dai partiti e dai sindacati che si richiamano al mondo del lavoro, e che, a causa della loro debolezza sul mercato del lavoro, finiscono col subire o peggio legittimare “le stangate” che i vari governi pongono in essere.

A questo punto però è necessario capire una cosa: si dice, in genere, che il riformismo è possibile solo nelle fasi espansive o di relativo benessere di un paese, ma ciò è solo in parte esatto poiché l’Italia nel periodo 1892-1915, era assai meno ricca dell’Italia degli anni ’70, e il PSI ottenne in quella fase storica, notevoli risultati come si è visto; l’America di Roosevelt (anni ’30) era molto più povera di quella degli anni ’20 ed alle prese con la grande depressione, eppure in essa il riformismo lo si praticò, come lo si praticò nell’Inghilterra del secondo dopoguerra, uscita ferita e dissanguata da una costosissima vittoria. La verità è che il riformismo può praticarsi quando esistono prospettive di sviluppo (o di uscita da una crisi) che siano in grado di conciliare la crescita dell’economia con quella dell’occupazione, poiché se l’economia può crescere senza aumentare l’occupazione, anzi contraendola, la posizione della classe operaia sul mercato del lavoro si indebolisce e con essa quella dei sindacati e dei partiti che la rappresentano.

Questa è proprio la situazione che si verifica negli anni ’70 con la recessione mondiale e la ripresa, con perdita di posti di lavoro, del 1976-79. Da allora le riprese senza posti di lavoro, o con perdita degli stessi, sono diventate normali in tutto il mondo e si sorride leggendo i documenti di OCSE ed FMI che parlano di un rischio attuale che la disoccupazione diventi strutturale, poiché questo non è un rischio ma è una realtà consolidata dagli anni ’70.

È evidentemente, dunque, che partiti come PCI o le socialdemocrazie europee strutturati per ottenere vantaggi per la classe operaia all’interno del sistema, che non è messo in discussione, siano spiazzati da questa svolta storica: il ricatto sul mercato del lavoro impedisce loro di ottenere alcunché, i rapporti di forza non lo permettono più, il mercato del lavoro diventa sempre più un mercato del compratore della forza lavoro (il capitale) e non del venditore. La Storia pone all’ordine del giorno il problema di un’alternativa al sistema ma partiti che sono organizzati per operare all’interno del sistema, per contrattare la vendita della forza lavoro (delegata ai propri sindacati) o per ottenere consensi elettorali attraverso una prassi parlamentare tradizionale, non hanno l’organizzazione l’esperienza, la pratica, il personale e conseguentemente la cultura per essere alternativi: se ti organizzi per gestire bene il Comune di Bologna o per avere il voto dei commercianti bolognesi non puoi essere alternativo o rivoluzionario, se ti organizzi a fare certe cose non puoi fare cose del tutto opposte. Una struttura funzionale ad esse non può fare con le sue caratteristiche cose opposte e, lasciando da parte l’esempio del Comune di Bologna (legato all’esperienza italiana), il fenomeno è generale nei paesi avanzati: tutte le socialdemocrazie organizzate per gestire riformisticamente il sistema, vanno in crisi quando il sistema diventa ingestibile, poiché non sanno fare altro, per prassi e organizzazione, che gestire il sistema stesso.

Il PCI, dunque, è il primo partito socialdemocratico che si arrende a questa realtà e se ne può agevolmente comprendere il motivo: l’Italia è il primo paese in cui finisce il miracolo e anche il più debole del capitalismo avanzato, da noi i margini di riformismo si bruciano prima e più rapidamente che altrove: nel 1990-91 il rapporto debito-PIL sfonda il muro del 100% e bisognerà attendere il 2011 perché questa cifra sia raggiunta nella media dei paesi OCSE. Il PCI dunque è all’avanguardia dell’involuzione delle socialdemocrazie occidentali e si trasforma in un partito conservatore di massa ma non nel senso dei partiti degli anni ’50 che erano partiti riformisti, ma nel senso dei partiti conservatori dell’era di Reagan e della Thatcher, per i quali occorre sacrificare il salario all’accumulazione e al profitto per sostenere l’economia, ciò che porta ad un sostegno dei profitti senza alcun vantaggio in termini di occupazione106.

Atto secondo. I grigi e stagnanti anni ’80. Il PCI alla ricerca di un nuovo ruolo. La risibile predica di “Don Berlinguer” sulla “questione morale”
A) DC e PSI galleggiano sul potere
A giugno 1979 si hanno nuove elezioni anticipate. Il PCI pagherà lo scotto della sua subalternità al capitale perdendo 4 punti (dal 34,4 al 30,4%) e si ritroverà sospinto all’opposizione, non serve più per governare a DC e PSI, nel frattempo il ciclo delle lotte operaie 1968-1980 volge al termine e nel 1980 col contratto integrativo Fiat ha il colpo di grazia, il sindacato dei consigli è finito, la CGIL torna ad essere il sindacato debole e condizionato politicamente che era negli anni ‘50107.

DC e PSI possono tornare ai cari vecchi governi di centrosinistra in cui di sinistra c’è solo il nome: gli spazi di riformismo sono azzerati e si gestisce il capitalismo per quello che è un sistema che si sviluppa sempre più debolmente, con un debito crescente, una disoccupazione alta ed un’inflazione che rimane elevata anche se, alla metà degli anni ’80 tornerà ad una cifra. Corruzione ed evasione fiscale impazzano: scriverà Renzo Stefanelli su “L’Unità” che il fisco, stando alle dichiarazioni dei redditi, conosce solo due categorie di ricchi e cioè lavoratori e pensionati108, peccato che Stefanelli, uno dei pochi cervelli pensanti del PCI che capiscano di economia, non si chieda cosa abbia fatto il PCI, nello sciagurato triennio dell’unità nazionale, per contrastare questo fenomeno gravissimo. Quanto alla corruzione basterà ricordare lo scempio della ricostruzione post-terremoto a Napoli, nonché quello che emerse ad inizio degli anni Novanta sul sistema delle tangenti (durante i famosi anni di “mani pulite”) che era generalizzato e diffuso da lunghissimo tempo.

La DC di quel periodo sembra un altro partito rispetto a quella della ricostruzione e del miracolo economico, non che allora la corruzione non esistesse, al contrario, ma si accompagnava ad una politica di sviluppo che veniva rappresentata da statisti come De Gasperi e Fanfani, diversi tra loro ma che aveva un progetto di futuro e di società. Adesso la DC e il suo sistema di potere sono rappresentanti da un uomo che è un finissimo politicante, privo però di una visione strategica, Giulio Andreotti, tattico senza strategia la cui visione della politica si esprime in due battute quanto mai celebri: “Il potere logora chi non ce l’ha” e “è meglio tirare a campare che tirare le cuoia”. Galleggiare sul potere sempre e comunque, vivere alla giornata senza prospettive se non quella di rimanere incollati ad una poltrona; del resto prospettive di sviluppo il capitalismo italiano non ne ha più e il PCI è confinato all’opposizione con il suo inutile 30% e non sa che fare, in un simile contesto è normale che fioriscano gli Andreotti.

C’è, però, nei confronti del PCI un fatto relativamente nuovo ereditato dagli anni ’70: Marco Caciagli rileva , in un’analisi molto documentata relativa al potere democristiano a Catania, che nel sottogoverno catanese avviene un mutamento negli anni ’70: prima vigeva il principio maggioritario, per cui chi vinceva prendeva tutto il piatto del sottogoverno, poi dagli anni ’70 verrà introdotto un principio proporzionale: anche l’opposizione (il PCI e la CGIL) avranno una fetta di potere rilevante109. Ora non c’è nessun motivo per ritenere che il fenomeno fosse locale, il fatto era che la sinistra e il sindacato andavano tenuti buoni dopo lo sfondamento elettorale degli anni ’70 e le lotte operaie del ciclo 1968 -80, e bisognava fornire al PCI e alla CGIL validi motivi per rimanere all’opposizione come forza “calma e responsabile”, la paura degli anni ’70 era stata rilevante. Inoltre quando un uomo che veniva dalle Camere del lavoro toscane, come Arvedo Forni, scriverà il suo libro-requisitoria contro l’evasione fiscale, è diventato il numero due dell’INPS, un gigantesco centro di potere che in Italia vale più di molti ministeri, e nessuno è così ingenuo da pensare che si possa essere promossi dalle Camere del lavoro all’altissima burocrazia degli enti previdenziali per mero caso o per meriti che siano estranei alle valutazioni politiche. Ancora, come dicevamo, quando esplode “mani pulite” si vedrà che il PCI, divenuto PDS, è dentro al sistema ossificato delle tangenti in Lombardia, regione guida del Paese in cui però il PCI è forza minoritaria, il che non gli impedisce di avere una notevole fetta di sottogoverno con relative percentuali di tangenti110.

In sintesi per la DC di quel tempo, e per il PSI, la logica politica consiste nello gestire un capitalismo stagnante senza alcuna prospettiva per il futuro tenendo il PCI all’opposizione e lasciandogli però una consistente fetta di sottogoverno anche al di là dei confini delle vecchie regioni rosse, al fine di garantirsi un’opposizione “responsabile”
B) Il PCI alla ricerca di nuovi spazi. La “questione morale”
Quanto al PCI, risospinto all’opposizione, cercherà nuovi spazi compiendo anche una isolatissima “sortita a sinistra” col referendum contro il taglio di alcuni punti della scala mobile operata del governo Craxi. Perderà sia pure di poco perché è difficile trasformarsi in difensori del salario dopo aver contribuito, nel triennio 1976-79, ad affossarlo; tuttavia nella politica economica del PCI non c’è nulla di nuovo, ci si limita a riproporre la vecchia parola d’ordine della programmazione democratica del capitalismo senza spiegare perché sia fallita e quali nodi vadano sciolti per realizzarla, né si spiega perché nel triennio ’76-79, quando il PCI era vicino al governo, non abbia fatto nulla per rilanciarla. Ci si limita a ripetere come un disco incantato una vecchia parola d’ordine usurata e fallimentare.

Le novità, però, ci sono ma sul terreno della politica-politica con la proposta di una “alternativa democratica”, che mira a sostituire al governo la DC, affrontando il nodo dei nodi che per il PCI è “la questione morale” poiché la corruzione sarebbe la causa di tutti i mali italiani. Nel luglio 1981 Berlinguer rilascia a Scalfari una celebre intervista che ancora oggi è citata con ammirazione111, esprimendo la nuova politica del PCI che si lascia alle spalle il compromesso storico e l’unità nazionale , senza fare un minimo di autocritica come il PCI fece in occasione dell’abbandono del “milazzismo”.

Ma diamo la parola allo stesso Berlinguer: “… i partiti hanno degenerato e questa è l’origine dei malanni d’Italia (…) La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un “boss” e dei “sottoboss” (…) I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali (…) Ho detto che i partiti hanno degenerato quale più quale meno, da questa funzione costituzionale loro propria, recando così danni gravissimi allo Stato e a se stessi. Ebbene il partito comunista italiano non li ha seguiti in queste degenerazione112”.

Tutti colpevoli tranne il PCI , ma sarà vero?

Assolutamente no. Berlinguer parla delle occupazione delle banche dimenticando di citare il caso di una grandissima banca (MPS) su cui il PCI ha una grandissima influenza; qualche mese prima dell’intervista in esame “L’Unità” pubblica un elenco di palazzinari romani, di petrolieri e uomini di spettacolo sospettati di evasione fiscale, ma dimentica di citare nell’elenco Alfio Marchini, grande palazzinaro romano e comunista del periodo della Resistenza (è un ex partigiano di quelli “tosti”), costruttore tra l’altro del leggendario “Bottegone”113. Inoltre Berlinguer tace sullo sciagurato triennio dell’unità nazionale, in cui non fece nulla contro evasori e corrotti, così come tace sulla pratica che si delinea negli anni ’70 di cooptare il PCI nel sottogoverno. La vicenda di “mani pulite” è emblematica: il PCI-PDS finisce nella rete come tutti, uno dei massimi dirigenti del partito, Cervetti, viene travolto dalle inchieste e scompare dalla politica, aveva fatto carriera all’ombra di Berlinguer; Stefanini, tesoriere del partito, non sarà processato perché durante le indagini morirà di infarto; Donegaglia, uomo del PCI e della lega delle cooperative collezionerà per la raccolta delle tangenti una trentina di procedimenti penali, per i giudici risulterà pacifico che dal 1987 al 1992 il PCI –PDS ricevette, per i lavori della metropolitana milanese, il 18,75% del totale delle mazzette114.

Ma a parte il rilievo sulla verginità del PCI è tutta l’impostazione di Berlinguer che esprime un moralismo ignorante da curato di campagna. Ignorante perché ignora la storia del capitalismo in cui la corruzione è una realtà plurisecolare e consolidata che non ha impedito, anzi ha accompagnato, lo sviluppo del capitalismo stesso; al più è stato un costo sopportabilissimo dello sviluppo e c’è addirittura la più importante corrente conservatrice della sociologia (i cd. funzionalisti ) che sostiene che la corruzione esiste perché è funzionale al sistema, il che è forse eccessivo ma è indubbio che corruzione e sviluppo possano tranquillamente accompagnarsi115.

In Inghilterra la corruzione è presente e documentata dal ‘700 almeno116, e gli storici della rivoluzione industriale hanno evidenziato come l’evasione fiscale delle classi alte fosse normalissima in quel periodo117; in USA la corruzione è diffusa ed evidente dal XIX secolo118; in Germania abbiamo visto come, a metà dell’’800 si comportasse Krupp119, ed il grande sociologo conservatore Max Weber osserva, parlando dei capitalisti: “L’inclinazione a sacrificare possibilità economiche, soltanto per agire legalmente è naturalmente tenue120”. E ancora: “Le tasse sui prezzi, ad esempio, sono sempre state di precaria efficacia (…) Le elusioni di una legge sono spesso, in campo economico, facilmente dissimulabili”121.

Corruzione e sviluppo capitalistico sono gemelli ed i guai dell’Italia non sono dovuti alla corruzione che c’è sempre stata anche negli anni del miracolo economico122, ma alla fine del miracolo stesso che è un momento della fine del miracolo economico post-bellico che ha caratterizzato il capitalismo mondiale. Non solo ma anche l’accenno al sistema del boss è quanto mai infelice, la parola è inglese anzi “americana” ed allude ad un sistema politico tipicamente USA consistente dello spoil sistem e cioè nell’occupazione del potere ad opera di chi ha vinto le elezioni centrali o locali e che costituisce macchine politiche per la gestione clientelare del potere: questa espressione venne coniata nei primi decenni dell’’800 da un soldataccio populista divenuto presidente degli Stati Uniti d’America e che osservava che in politica come in guerra chi vinceva le battaglie saccheggiava le spoglie del nemico sconfitto123. Né questa logica è sempre negativa: Roosevelt sottomise la Corte Suprema, o meglio se la annesse, per impedire che essa continuasse a dichiarare incostituzionali leggi fondamentali per il New Deal, se non avesse vinto questa battaglia non staremmo a parlare oggi della grandezza di Roosevelt e della sua politica, del resto è normale che chi ha vinto le elezioni si assicuri da parte dell’apparato dello Stato una esecuzione delle proprie direttive politiche e che quindi tenda a mettere nei posti chiave dell’apparato stesso persone che diano garanzie di eseguire una politica che ha “legittimamente” vinto le elezioni. La differenza tra un Roosevelt e un Andreotti non sta nel fatto che occupino il potere, questo lo fanno entrambi, ma sta nel fatto che Roosevelt aveva un progetto di società, e Andreotti mirava solo a rimanere seduto sul potere.

Ma perché Berlinguer compie una scelta così inconsistente e vacua? La risposta è nell’interlocutore nascosto cui Berlinguer si rivolge, un vero e proprio “convitato di pietra” che non è citato nella famosa intervista ma è presente in essa: la Confindustria, che è il vero interlocutore cui Berlinguer si rivolge. Al massimo organo della classe dominante italiana Berlinguer dice che la DC va sostituita, che il PCI è pronto a farlo e che le colpe dei mali dell’Italia sono nella corruzione prodotta dalla DC: in sostanza Berlinguer chiede alla Confindustria di essere legittimato all’esercizio del potere e in cambio le offre una benevola assoluzione come compartecipe della corruzione che, dice Berlinguer, devasta l’Italia. Il guaio è che il corrotto presume il corruttore e il corruttore del potere è colui che chiede al potere stesso dei favori in cambio di bustarelle o tangenti. Tra l’altro proprio mentre Berlinguer concede la sua intervista è cominciata a Napoli la pacchia della ricostruzione post-terremoto in cui il potere politico ha delle colpe ma gli uomini legati alla Confindustria non sono da meno. Lo stesso discorso vale per l’evasione fiscale che viene posta in essere dalle classi dominanti e da coloro che hanno capitali, è un tipico caso di “criminalità dei colletti bianchi”. Su ciò Berlinguer tace scaricando tutte le colpe sulla povera DC, come dicevamo è un’offerta di collaborazione volta alla Confindustria di cui si tacciano le colpe e le responsabilità. Assolutamente niente di rivoluzionario, Berlinguer non vuole distruggere il sistema di potere della DC ma semplicemente ereditarlo, un calcolo politico cinico e miope in cui di morale non c’è proprio nulla.

Atto terzo. Esplode la crisi (1990-2008). Crollo e ricomposizione del quadro politico. Le radici del fenomeno Berlusconi e del suo successo

Gli anni Novanta si presentano con un botto: tra il 1990 e il 1991 il rapporto debito pubblico-PIL sfonda il muro del 100%, anticipando di 20 anni la media OCSE del 2011. Nel 1992 si tengono le elezioni e tutti si attendono, alla vigilia delle stesse, il rinnovo “elettorale” del contratto del personale della scuola, enorme serbatoio di voti, ma non se ne farà nulla, malgrado sia presidente Andreotti, uomo da cui era legittimo attendersi una certa generosità elettorale, il fatto è però che non c’è una lira. Finisce qui la carriera politica di Andreotti il quale sopravviverà imbalsamato per un altro ventennio e imparerà a sue spese che rimanere seduti sui problemi senza affrontarli, li fa incancrenire e che questo può determinare la fine di carriere politiche anche di uomini dotati di una estrema spregiudicatezza tattica, ma del tutto privi di strategia. Dopo le elezioni il governo Amato-Goria pone in essere una superstangata terrificante: le pensioni passano dal sistema retributivo al contributivo (dall’80% al 60% dell’ultimo stipendio), viene annullato il recupero del fiscal drag con efficacia retroattiva e senza rateizzazioni per cui molti malcapitati lavoratori a reddito fisso si trovarono la busta paga dimezzata in un mese (lo so per esperienza diretta), e insieme a questi provvedimenti altre delizie che non sto qui ad elencare. DC e PSI, che sono al governo sparano sul proprio elettorato che è in rivolta, anche perché parallelamente esplode la vicenda di “mani pulite”, ciò che fa aumentare la rabbia popolare e rende ancor più odiosa la manovra “lacrime e sangue” che viene posta in essere.

Intendiamoci non è la prima volta che la magistratura crea grane al potere: dal caso Montesi in poi è avvenuto varie volte ma il potere è sempre riuscito a controllare la magistratura a cominciare proprio dal caso Montesi124, adesso, però, questo non avviene perché la cd. classe politica è screditata ed isolata come non mai: il referendum che abroga il finanziamento pubblico dei partiti ottiene, all’inizio degli anni ’90 maggioranze bulgare, nel ’78 proposto per la prima volta, ottenne il 42,9% dei si125.

Gli elettori DC e Psi si sentono traditi e voltano le spalle ai loro partiti, che rapidamente si sfaldano, tutto sembra volgere verso la vittoria del PDS erede del PCI, l’unica grande forza rimasta in campo per quanto anch’essa malconcia a causa di “mani pulite”, ma a questo punto si ha un fatto nuovo la discesa in campo di Silvio Berlusconi, che per quasi 20 anni diventerà il numero uno della politica italiana e sbarrerà la strada alla sedicente sinistra.
A) Le ragioni del successo di Berlusconi
Il successo di Berlusconi è indubbio, vincerà le elezioni del 1994, 2001 e 2008 (la seconda e la terza con maggioranze oceaniche), ma anche quando è ricacciato all’opposizione condiziona pesantemente il governo; emblematico è quello che dichiarerà in parlamento l’onorevole Violante nel 2002: “L’onorevole Berlusconi sa per certo che gli è stata data la garanzia piena, non adesso ma nel 1994, che non sarebbero state toccate le televisioni, quando ci fu il cambio di governo. Lo sa lui e lo sa Letta (…) Voi ci avete accusato di regime nonostante non avessimo fatto il conflitto d’interessi, avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi, nonostante le concessioni, e avessimo permesso che il fatturato di Mediaset aumentasse di 25 volte durante il centrosinistra”126.

È evidente che il cavaliere può pesantemente condizionare i deboli governi di centrosinistra, gridando, per giunta, all’esproprio proletario.

Ma perché B. è sceso in politica? Non certo per il pericolo comunista, in un paese dove i comunisti non esistono più e dove il PCI dal 1945 almeno è stato un partito comunista solo di nome. Non certo per realizzare la “rivoluzione liberale” i cui contenuti non sono mai stati indicati con chiarezza in documenti, ricerche o atti di congresso e di partito che nel mondo di B. non si usano. Inoltre un signore che esercita le sue attività televisive in un regime di duopolio imperfetto (con la Rai) e che ha fatto carriera con la protezione politica di Craxi, non può certo erigersi credibilmente a difensore della libertà di mercato. Del resto negli anni in cui ha governato tra il 2001 e il 2011 con maggioranze larghissime, questa fantomatica rivoluzione non l’ha fatta. Di ciò egli stesso è conscio e ne dà la colpa alla mancanza di potere attribuitagli dalla nostra Costituzione o ai veti dei piccoli partiti: anche durante la partecipazione a “Servizio Pubblico” durante la campagna elettorale nel 2013 ha utilizzato simili pretesti. In realtà B. ha gli stessi poteri che avevano personaggi come De Gasperi e Fanfani che sono stati gli artefici a livello politico di ricostruzione e miracolo economico, quanto alla DC, aveva come alleati piccoli partiti ma sapeva controllarli e lo fece anche durante una legislatura difficilissima come quella del 1953-58127.

Giustificazioni inconsistenti, quindi, ed il vero motivo per cui B. è sceso in campo è che un signore che esercita la sua attività come concessionario pubblico ha bisogno di coperture politiche, altrimenti il prezzo delle concessioni può salire o la concessione stessa può essere revocata; con Craxi B. era coperto, senza Craxi ha dovuto arrangiarsi da solo128. Ma quali sono i motivi di tanto successo che mandano in bestia la sinistra? Sintomatico di questo atteggiamento è quanto scrive Eugenio Scalfari: “E’ la quinta volta che glielo promette e la colpa di chi gli impedisce questo meraviglioso regalo è dei magistrati e dei comunisti. Gli allocchi ci sono in tutto il mondo, ma da noi purtroppo ce ne sono molti di più …”129. Ciò che B. promette agli italiani per la quinta volta (tante sono state le tornate elettorali cui si è presentato) è l’asino che vola e ci sono decine di milioni di italiani così imbecilli da credergli. Questo più che un giudizio da “radical chic” mi sembra un giudizio da “conservatore choc” in quanto mi ricorda il giudizio del miliardario ultraconservatore Ross Perrot sui democratici americani e il cui consenso elettorale era spiegato in modo molto semplice: “Il culo dell’asino è più intelligente di un democratico”. Del resto lo stesso Berlusconi in occasione delle elezioni del 2006 aveva detto che non credeva che la maggioranza degli italiani fossero così coglione da votare per i comunisti, sottinteso chi li vota è un coglione. Forse l’intellettuale Scalfari non si rende conto che con questi giudizi si pone al livello di Ross Perrot e di Berlusconi. Ovviamente la mia spiegazione è completamente diversa. Il successo di un leader demagogo, si chiami Berlusconi, Mussolini o Hitler ha sempre delle radici sociali. B. sa benissimo come parlare alla pancia del suo elettorato e la pancia, piaccia o no, è un organo nobile soprattutto in un mondo dove si ragiona in termini di profitto e di carriera come il nostro. L’elettorato di B., il suo nocciolo duro, è rappresentato dal grande popolo delle partite IVA che rappresenta, come rileva Arvedo Forni, il 28% del popolo italiano e che è ossessionato dalle tasse, tanto ossessionato che le evade largamente e ha trovato nella vecchia DC il proprio naturale protettore. B. intende sostituire il vecchio ruolo della DC e alle elezioni del ’94 si presenta con un programma di riforma fiscale articolata su due sole aliquote: il 22% ed il 33% , al di là di questo livello la tassazione diventa un esproprio proletario e quindi, il sottinteso è chiaro, l’evasione fiscale diventa qualcosa di simile alla disobbedienza civile. Per il grande popolo delle partite IVA queste posizioni sono musica per le proprie orecchie, certo B. non realizzerà il suo programma ma nel 1994 la sua permanenza al potere è stata molto breve e quando torna al potere in modo stabile e con larghe maggioranze, dopo il 2001, non manterrà per una seconda volta le proprie promesse, ma farà una serie di altre cose che per il suo elettorato sono altamente positive e giustificano l’affetto che gli viene portato, io stesso ho sentito che lo chiamano “Silviuccio”. B., infatti, ha abolito alcune tasse come l’ICI sulla prima casa, e poi l’INVIM e la tassa di successione, odiate dal popolo delle partite IVA , inoltre ha concesso dopo il 2001 un generosissimo condono tombale seguito da uno scudo non meno tombale (dovevi pagare il 61% e te la cavi con il 5%), poi il condono edilizio e poi ancora, in occasione di una causa tra la Fininvest e il fisco per una bazzecola 170-180 milioni di tasse che gli vengono richiesti dagli uffici fiscali, stabilisce con un DL che, quando nei primi due gradi di giudizio presso le commissioni tributarie vinci la causa, prima di passare al terzo grado di giudizio, in Cassazione (dove ci sono magistrati professionali) puoi risolvere tutto pagando il 5% della somma richiesta130. Qualcuno obietterà che quest’ultima norma è una norma “ad aziendam”, ma il fatto è che si applica a tutti quelli che si trovano nella stessa situazione in cui versavano le aziende di Silviuccio e quindi si tratta di una beneficiata per tutti. Ancora, un paio di anni orsono una ricerca molto seria fatta su dati ufficiali ha evidenziato come presso l’Agenzia delle Entrate giacessero titoli di credito esecutivi per 500 miliardi di euro (avete letto bene) cumulatisi in una diecina di anni e che non venivano riscossi131. Il dato, veramente clamoroso, è stato confermato di recente dal rappresentante del MEF (Ministero Economia e Finanza) davanti alla commissione finanze della Camera dopo le elezioni del 2013: dal 2000 al 2013 sono stati cumulati 800 miliardi di titoli esecutivi di questi sono stati riscossi solo 69 miliardi , altri miliardi risultano inesigibili e sono in giacenza, in attesa di una ipotetica riscossione, 545 miliardi, di questi 452 miliardi sono concentrati su 120.409 contribuenti per cifre da 500 mila euro in su; il debito dunque è molto concentrato e ciò dovrebbe facilitare la sua riscossione, ma indipendentemente da questo nessuno ipotizzerebbe che un’azienda come le Assicurazioni Generali o la Fiat abbia 545 miliardi di crediti (più del PIL di un continente come l’Africa) e non sappia come riscuoterli. Ci troviamo davanti ad un caso incredibile di benevolenza verso i debitori del fisco, che sono evasori scoperti e accertati, e questa benevolenza, che rasenta veramente l’incredibile, si è formata in anni in cui Berlusconi ha governato (2001-2006 e 2008-2011), oppure era all’opposizione condizionando un governo dalle maggioranze fragilissime (2006-2008), oppure partecipava alle maggioranze di governo (governo Monti e governo Letta). Chi sia il principale responsabile politico di questa benevolenza incredibile mi pare che sia indiscutibile.

Il popolo di Silviuccio sa che in tema di tasse e di evasione avrà in B. un interlocutore estremamente attento e benevolo e il fatto che B. sia stato accusato (di recente condannato in via definitiva) per frode fiscale, accresce i suoi meriti agli occhi del proprio popolo, in sostanza è uno dei nostri e ci capisce. In altre parole tra condoni, scudi, vertenze fiscali protratti all’infinito ed eventualmente transatte a condizioni favorevoli, per finire alle cartelle esecutive su cui si cumula la polvere, gli elettori di Silvio sanno che con Silviuccio una soluzione alla fine può sempre trovarsi. I nostri elettori dunque non credono all’asino che vola ma a cose molte più concrete che sono saldamente ancorate sulla terra.

B. dunque ha uno zoccolo duro su cui fare affidamento e che può allargarsi al grande numero degli scontenti della sinistra che può essere attratta da Berlusconi perché la sinistra, di nome ma non di fatto, non ha alcuna alternativa reale a Berlusconi ed è spaventosamente subalterna a lui come si evidenzia dal patetico intervento di Violante in piena camera dei deputati.

Discorso largamente simile vale anche per la Lega che ha praticato parole d’ordine analoghe a quelle di Berlusconi contro lo Stato sprecone e tassatore con in più una accentuazione di carattere regionalistico, per cui l’alleanza Berlusconi – Bossi, sia pure con qualche frizione tattica, era la cosa più naturale e logica.
B) I motivi della perdurante debolezza del centrosinistra
Col termine centrosinistra alludiamo alle varie forze (PDS, DS, Popolari, Margherita) che confluiranno poi nel PD un partito che è la somma delle “nomenclature” sopravvissute alla fine della DC e PCI. Una fusione tra morti poiché la vecchia DC gestiva il potere nello sviluppo, e il vecchio PCI gestiva l’opposizione nello sviluppo, essendo venuto meno lo sviluppo è venuto meno il fondamento di questi due partiti: nel PD confluiscono i resti due burocrazie politiche che cercano di sopravvivere salvando le proprie poltrone e senza alcun progetto serio. Il problema del centrosinistra inoltre, è quello che il suo elettorato è sostanzialmente diverso da quello di B. poiché è un elettorato di tartassati che pagano anche per gli evasori fiscali e che vorrebbero quindi una seria politica antievasione. Il fatto è che la DC e il PCI questa politica non l’hanno mai fatta e hanno cercato il consenso dei ceti evasori, il cui potere in una situazione di globalizzazione dell’economia è cresciuto a dismisura: se puoi trasferire enormi capitali con un click in Svizzera o in Lussemburgo, l’evasione fiscale diventa qualcosa di sostanzialmente imbattibile come scrivo da anni. Il centrosinistra perciò nei momenti in cui si trova al governo con risicatissime maggioranze, si limita a maledire gli evasori senza fare niente di concreto contro di loro: la soluzione peggiore, irriti l’avversario, lo indispettisci e non lo ferisci. Emblematico della totale mancanza di politica della sinistra in campo economico è un recente libro del signor Stefano Fassina di cui non varrebbe la pena di occuparsi se non fosse che è stato, fino a ieri, il responsabile economico del PD per cui le sue tesi dovrebbero esprimere quanto di meglio produce quel partito in campo economico. Ebbene a p. 18 del suo libro Fassina dice che non esiste un solo capitalismo ma vari capitalismi132, il che è semplicemente assurdo in un mondo in cui, malgrado le peculiarità dei singoli paesi, esiste un sistema di vasi comunicanti che collega tra loro borse ed economie: le recessioni sono mondiali, la disoccupazione è un fenomeno mondiale, i prezzi si formano sui mercati mondiali, l’evasione fiscale è un fenomeno mondiale, i movimenti di capitale sono mondiali, etc., in altre parole quello che accade a Pechino si ripercuote su Londra e viceversa. Negare questa realtà è assurdo e lo stesso Fassina si rende conto che un sistema mondiale avrebbe bisogno di un governo mondiale. Ma come è possibile realizzare un governo mondiale? Fassina ritiene che il G20, che egli propone di ridurre a G18, possa essere la sede per realizzare tale governo dimenticando il piccolo fatto che negli ultimi lustri i G hanno prodotto documenti che, come ammetterà il premier inglese Cameron quest’anno, sono stati solo un cimitero di documenti133; bisognerebbe chiedersi perché i G, siano essi 20 o 8 o 7, siano tutti clamorosamente falliti e francamente pensare che, riducendo il numero dei grandi da 20 a 18, i G possano funzionare, mi sembra cosa di una ingenuità desolante che rasenta il ridicolo. Non meno inconsistente è l’esaltazione che Fassina fa dell’innovazione134 dimenticando che l’innovazione nel capitalismo serve ad aumentare la produttività e a produrre di più con meno addetti, il che deprime l’occupazione.

Questo dà l’idea del livello del dibattito economico della sinistra ma anche il programma presentato dal PD per le elezioni del 2013 è semplicemente inconsistente e miserevole come è stato rilevato135.

Il PD dunque non ha nulla da proporre e quando è stato al governo non ha fatto che proporre lacrime e sangue non diversamente da Tremonti. Non solo, ma la “sinistra” non fa nulla contro l’evasione fiscale, il monte crediti insoluto che si è accumulato negli ultimi dodici anni è cresciuto anche negli anni del governo Prodi: dai dati MEF prima citati emerge che nel 2007 su 71,6 miliardi di cartelle esecutive ne sono state riscosse solo 6,5 miliardi, nel 2010 col governo Berlusconi 5,6 miliardi riscossi contro 81,2 iscritti a ruolo, nel 2012 (governo Monti) 2,2 miliardi riscossi contro 84,3 miliardi iscritti a ruolo: come si vede le differenze tra Prodi e Berlusconi sono irrisorie, più rilevanti quelle con Monti ma, si noti, Monti è sostenuto sia dal PDL che dal PD, sicchè tutti sono corresponsabili di quei pessimi risultati.

Contro l’evasione tutti sono impotenti o conniventi con una differenza che il PD ed il centrosinistra tollerano l’evasione ma tuonano contro di essa, come del resto faceva il PCI: Arvedo Forni tuonava a ragione contro i fuorilegge del fisco ma dimenticava di spiegare perché il PCI nei tre anni dell’unità nazionale non aveva fatto niente contro di essi. In altre parole mentre B. giustifica e coccola l’evasione il centro sinistra la tollera ma l’insulta irritandola e fa cadere il peso delle stangate sul suo elettorato. Una politica cieca e suicida che è figlia della irrisolvibilità della crisi italiana davanti alla quale il centrosinistra non sa che fare sia per risolvere la crisi e per tutelare gli interessi del suo elettorato sicché agisce in modo da scontentare tutti.

Atto quarto (2008-2013). La fine del cavaliere azzurro e della Lega. Il mancato decollo del PD e del nuovo centro. Ingovernabilità crescente e senza prospettive

A) La mutazione dell’elettorato azzurro e il declino irreversibile del cavaliere
Nel 2008 B. vince le elezioni con una maggioranza umiliante e fa fuori Veltroni come Prodi e Rutelli, se fosse Toro Seduto la sua tenda sarebbe piena di scalpi dei suoi avversari stesi e umiliati. Poi nel 2011 lascia il governo sotto la spinta di uno “spread” che è arrivato a 550, di una impopolarità crescente, sinanche i suoi che senza di lui sono nessuno, sembrano sul punto di mollarlo. Che cosa è accaduto?

Non certo un ritorno di fiamma del centrosinistra che annega nella sua mediocrità, ma è accaduto che la crisi italiana, pesantissima dal 1990, si è saldata e confluisce nella grande depressione mondiale, che esplode nel dicembre 2007 e determina una situazione insostenibile: il nemico di B. non si chiama Veltroni o Prodi, ma Grande Depressione e per “Silviuccio” sono cavoli amari. Il suo elettorato, che sino ad allora gli aveva chiesto di salvarlo dalle tasse, facendo ricadere il peso delle lacrime e del sangue sui “coglioni comunisti”, davanti ad una situazione devastante gli chiede di intervenire. Il fatto è che lo sport di caricare tutto su salari, stipendi e pensioni sta bloccando i consumi, l’economia italiana è in caduta libera , i salari reali sono erosi, i consumi pure, si torna a livello di 20 anni fa, i negozi sono vuoti e falliscono, non si vendono case e auto e tutto va a rotoli.

Sembra proprio che se i “coglioni comunisti” non consumano anche “lor signori” se la passino male136.

Accade allora che le organizzazioni padronali, dalla Confindustria alla Confcommercio, scoprono che le tasse sul lavoro sono pesantissime e devono calare, assieme ovviamente a quelle delle imprese, dimenticando il piccolo particolare che le imprese evadono sfacciatamente137. Occorre ovviamente che il debito pubblico cali e che l’economia riprenda con tutti i costi che ciò comporta. Naturalmente tutto questo va fatto tenendo i conti in ordine; come dire botte piena, moglie ubriaca e uva nella vigna.

Nel frattempo l’evasione fiscale rimane elevatissima e non si pagano nemmeno le cartelle esecutive: chi ha scassato i conti con la propria evasione insultante, chiede di ridurre le tasse, rilanciare l’economia e salvare gli equilibri di bilancio, richieste che tenendo conto di quello che hanno fatto “lor signori” negli ultimi decenni sa di provocazione. Emblematico è quello che riferisce nel 2013 il quotidiano di Genova “Il Secolo XIX” dell’8/6/13 sul rifiuto del governatore ligure Burlando di andare ad un convegno degli industriali: avrebbe detto “non vado ad ascoltare chi da 20 anni non ha fatto un cazzo”.

Ciò che non è del tutto esatto poiché negli ultimi 20 anni (ed anche prima) qualcosa lor signori hanno fatto: tasse evase, soldi nei paradisi fiscali, imprese delocalizzate, cartelle esattoriali non pagate, tasche dei lavoratori dipendenti vuotate etc. Purtroppo Burlando è l’unico che risponda a costoro come meriterebbero, il centrosinistra dialoga e ascolta come sempre e del resto ha dialogato anche con B. come risulta dall’intervento di Violante nel 2002, la capacità di sdegnarsi, questi signori l’hanno persa da tempo, poiché, come è noto, sarebbe moralismo.

In altre parole il “popolo di Silvio” gli chiede di fare quello che Silviuccio non è mai stato, uno statista a livello di Roosevelt che affrontò la grande crisi; il guaio è che B. è un imprenditore che è entrato in politica solo per fare i fatti suoi e attorno a lui, al posto del “brain trust” che circondava Roosevelt, ha Verdini, Tremonti e la Santanché; inoltre negli anni ’30 una via di uscita dalla crisi era possibile e adesso non si vede. Si noti poi che un recente studio della CGIA di Mestre ha evidenziato che questa crisi è stata, per l’economia italiana, peggiore di quella del 1929, il che significa la peggiore di sempre: nel periodo 1929/34 il PIL cala del 5,1% e gli investimenti del 12,8%, nel periodo 2007-2012 il calo del PIL è del 6,9% e quello degli investimenti del 27,6%, il che significa che “Silviuccio” ed il suo formidabile “brain trust” dovrebbero confrontarsi con questa realtà. Da ridere.

Il poverino affoga, lo “spread” si impenna, forse manovrato, ma le manovre hanno successo sui mercati quando la sfiducia verso un’impresa o un governo sono a mille e nel caso di B. lo sono (o meglio sono solo a 550 il livello massimo raggiunto dallo “spread”).

Silviuccio deve andarsene sostituito da un tecnico nominato senatore a vita ed accolto come un liberatore o il salvatore della patria, di barzellette sulle mele che sanno di culo, di marocchine minorenni, e di politiche economiche fallimentari non se ne poteva più.

Le elezioni del 2013 sanciscono la fine di B.: perderà 6,3 milioni di voti e 16 punti percentuali. La Lega lo appoggia solo a patto che sia chiaro che non è leader della coalizione, ma la stessa Lega passerà dall’8,3% dei voti al 4,1%. Un disastro.

Il cavaliere è bollito , quello che avverrà dopo e che tutti sanno è solo il coronamento dell’opera: condanna definitiva, ineleggibilità etc. mentre all’orizzonte si delineano altri processi da affrontare con la prescrizione lontanissima , per uno di essi rimedia in primo grado una condanna a 7 anni con interdizione perpetua dai pubblici uffici.

La parabola è finita.
B) Il mancato decollo del PD e del nuovo centro
B. , dunque, è finito ma il PD non vince e perde 3 milioni di voti, doveva limitarsi a fare l’avvoltoio cibandosi del cadavere del nemico ma neanche di questo è capace. Se fossi Scalfari direi che nel PD prosperano gli allocchi, ma sarebbe ingiusto: il gruppo dirigente di quel partito brilla per mediocrità ed ignoranza, ma il problema vero, l’ho detto un istante fa, è che nel capitalismo attuale via di uscita dalla crisi non ce ne sono , e questo favorisce l’emergere di una classe dirigente di incapaci e di mediocri, non si può essere all’altezza del compito quando il compito, cioè l’uscita dalla crisi, è impraticabile, e questo accade anche a livello mondiale, dove di Roosevelt in giro non se ne vede neanche uno.

Analogo discorso per il nuovo centro di Monti, partito con l’obiettivo del 20% alle elezioni del 2013, calato al 15% , poi al 12% per finire ad un modesto 10% dei consensi elettorali, in un paese dove un terzo circa dell’elettorato non si esprime.

Il centro non decolla e non esalta e questo perché puoi governare un paese al centro se c’è lo sviluppo (la DC degli anni ’45-’70) , se lo sviluppo è finito e la situazione economica è marcescente (più che nel resto d’Europa) ci vogliono soluzioni nuove e radicali che vadano al di là di un sistema ingovernabile, cosa che è al di fuori delle possibilità di un economista tradizionale ed ottocentesco che esprime la vecchia classe dirigente. Monti nel suo anno di governo ha fatto le stesse cose degli ultimi 20 anni: lacrime e sangue senza sviluppo, con provvedimenti a volte ridicoli come le srl costituite dai giovani con un solo euro di capitale, che avrebbero dovuto aprire il mercato alla concorrenza battendosi con le IM presenti in Italia, i cui AD avranno passato notti insonni davanti al nuovo pericolo creato dal professor Monti; stendiamo poi un velo pietoso sulla gaffe vergognosa e drammatica degli esodati138.

L’uomo poi (il prof. Monti) è la negazione vivente di un leader, dice cose banali in un modo soporifero, cerca (durante la campagna elettorale del 2013) di essere accattivante ed è semplicemente ridicolo, come quando si fa regalare un cagnolino durante una trasmissione de LA7. Due persone intelligenti come Vittorio Zucconi e Carlo Freccero sghignazzeranno su di lui durante una trasmissione televisiva, ma il problema per Monti come per il PD è sempre e solo lo stesso: non hanno nulla da proporre contro la crisi perché, all’interno del sistema, non c’è nulla da proporre139.

Chi guadagna dalle sconfitte altrui è il M5Stelle, che ha un programma elettorale non meno penoso degli altri140, con l’unica connotazione originale di un forte accento sull’economia verde. Il movimento non critica radicalmente il capitalismo, ma il sistema italiano dei partiti, qualificato con la realtà sordida e putrescente, davanti alla quale esplode in una gigantesca pernacchia che sembra evocare la celebre battuta “una risata vi seppellirà”141.

Un quarto degli italiani che va ancora alle urne , stanchi della vacuità della sinistra, del conformismo surgelato di Monti e delle barzellette orripilanti di B., decide di votarli. Un voto di protesta certo, ma la protesta è una cosa seria, gabellarla come qualunquismo è da imbecilli o da struzzi che non vogliono vedere la frana che rovina a valle. Un capitalismo ingovernabile produce un sistema politico ingovernabile gestito da omuncoli e mezze tacche.

L’epilogo in terra. La depressione mondiale ed i funerali dell’ “autonomia del politico”. L’impotenza senza ritorno degli Stati

A) L’evoluzione recente della crisi mondiale

Se questa è la situazione italiana quella mondiale, fatte le debite differenze, è tendenzialmente simile, nel senso che dappertutto gli Stati pur con i caratteri specifici dei differenti sistemi politici, sono impotenti davanti ad una depressione sorda ed invincibile. L’economia mondiale malgrado qualche squillo di tromba sempre meno convinto, continua nel suo corso irreversibile. Se consideriamo le due più significative aree economiche (USA ed Eurozona nel periodo 20082012) vediamo che il PIL evolve in USA in questa maniera: 2008 – 0,3%, 2009 –3,1%, 2010 + 2,4%; 2011 +1,8%, 2012 + 2,8%; nell’Eurozona abbiamo: 2008 + 0,4%, 2009 -4,4%, 2010 +2%, 2011 + 1,4%, 2012 -0,4%142.

In USA, dunque, durante la recessione si perde circa il 3,4% del PIL e si recuperano 7 punti nei tre anni della ripresa, la crescita media del quinquennio è dello 0,7% l’anno, un evidente ristagno pagato però a carissimo prezzo poiché a fine 2007 il rapporto debito federale –PIL era al 65,24%, mentre a fine 2012 è al 104,8% con una crescita del 39,6%, superiore 11 volte alla crescita del PIL durante il quinquennio considerato; durante gli anni di crescita positiva (2010-2012) la crescita del debito è solo 3-4 volte quella del PIL, che sarebbe tantissimo ma la media dell’intero quinquennio è quella indicata, semplicemente deprimente. Gli USA di fatto sono un paese fallito. Ancora peggio l’Eurozona che non ha ancora recuperato i livelli precrisi e per reggere ha dovuto anch’essa indebitarsi pesantemente come è noto: i parametri di Maastricht (60% debito pubblico-PIL) sono ormai un ricordo da libro dei sogni e il rapporto debito pubblico-PIL in media ha superato il 90%143. Ancora, a settembre 2013 l’OCSE dirama le stime per la crescita del 2013 che non sono per nulla esaltanti.

Come si vede i principali paesi capitalistici sono in netta decelerazione con le sole eccezioni di Francia e Canada per pochissimi decimali di punto, l’India è in netto calo, solo il Regno Unito segna una discreta performance, ma comunque a un livello modesto e inferiore alle previsioni del 2010. Un quadro globale decisamente depresso.

Non meno grave è la situazione occupazionale che non accenna a migliorare, qualche piccola limatura al ribasso in paesi come gli USA ma si tratta di un miracolo statistico buono per gli struzzi. L’OCSE segnala che a fine giugno 2012 il tasso di attività (percentuale occupati sulla popolazione attiva), è del 56,5% in Italia, del 54,6% in Spagna mentre in USA stiamo al 58,7%, due punti in meno del periodo pre-crisi145, ed analogo a quello americano è il tasso di attività giapponese, eppure in Giappone la disoccupazione supera di poco il 4%, in America siamo attorno all’8% (fine 2012) , in Italia all’11% ed in Spagna al 25% (sempre alla fine del 2012). Con tassi di attività molto vicini abbiamo sbalzi del 4% al 25% , il che sembrerebbe inspiegabile. La risposta a questo arcano è semplice: le statistiche spagnole chiamano i disoccupati con il loro nome, altri preferiscono chiamarli, inattivi, inoccupati, “missing men” (uomini che si sono persi o che sono scoraggiati e non cercano più lavoro): come dico da anni statistiche per struzzi. In realtà in un paese come gli USA, considerando gli scoraggiati, la disoccupazione raddoppia e tra gli occupati il 40% lavora ad orario o a salario ridotto146; in Italia i lavoratori a tempo pieno e indeterminato sono in calo e sono poco più della metà147, in Germania dove la disoccupazione ufficiale supera di poco il 5% ci sono 8 milioni di lavoratori (un quarto della forza lavoro globale) che lavorano ad orario e salario ridotto guadagnando 450 euro mensili148, i sottoccupati a livello mondiale sono il 50% della forza lavoro nel 2005 (ILO) cifra cresciuta negli anni della recessione. Nel complesso anche nei paesi industriali avanzati ormai la forza lavoro è formata in prevalenza da disoccupati, scoraggiati, inattivi o sottoccupati. Davanti a questo panorama desolante il FMI nel marzo 2013 ammoniva contro i facili ottimismi , la strada della ripresa è “sconnessa” e non esistono soluzioni ottimali al problema del debito ed al ristagno dei consumi, a settembre l’OCSE osserva che l’economia mondiale è caratterizzata da “occupazione debole, crescita globale a rilento, permanenti squilibri”149.

In altre parole si continua ad affondare senza che nessuno sappia come uscire dalle sabbie mobili. Ne è il caso di consolarsi con la crescita di paesi emergenti poiché anch’essi sono in decelerazione netta ed una crescita del 7,5% della Cina significa quasi sempre collocarsi sotto al livello 50 dell’indice PMI che segna lo spartiacque tra sviluppo e ristagno o recessione150, e gli altri paesi emergenti si collocano decisamente sotto il livello cinese.
B) Crisi mondiale e mancanza di un potere mondiale. I funerali della “autonomia del politico”
Ormai è pacifico che per fronteggiare una crisi così radicale e così generalizzata prodotta da meccanismi mondiali, occorrono risposte mondiali, i vari G (siano essi 7,8 o 20) che si susseguono dovrebbero servire a questo, ma al G8 di giugno tenuto nel Regno Unito il padrone di casa Cameron riconosce che i G precedenti hanno prodotto solo un “cimitero di documenti”. Ma indipendentemente dalla candida ammissione di Cameron è chiaro che nessuno dei vari G che ogni anno si tengono , è riuscito ad ottenere un qualche risultato, le ammissioni di OCSE e FMI prima citate sono indicative, affondiamo più o meno lentamente, a seconda dei paesi, e nessuno riesce a capire come si possa uscire dal pantano.

Prendiamo due punti nodali: mentre il G8 si riunisce il Tax Justice Network diffonde i dati sull’evasione fiscale a livello mondiale, un volume di oltre 3.100 miliardi di dollari tasse evase ogni anno, nulla di scandaloso la commissione europea valuta in mille miliardi di euro le tasse evase nella sola UE151, se si proietta a livello mondiale il dato della UE si potrebbe pensare che forse la valutazione del Tax Justice Network è anche troppo ottimistica. Il G8 raggiunge un accordo sullo scambio di informazioni tra i paesi membri sul problema dell’evasione fiscale che diventerà operativo nel 2015, un risultato epocale, dal momento che l’evasione è galoppante ed ha raggiunto i livelli di cui sopra, possiamo attendere fino al 2015 perché cominci uno scambio di informazioni tra i paesi interessati , problema che esiste e si trascina da quando mi occupo dell’evasione fiscale cioè da una quarantina d’anni. Il Ministro delle Finanze austriaco davanti a questi risultati si è messo a ridere e ha affermato che le dichiarazioni trionfalistiche del suo collega inglese Osborne sono incomprensibili. Personalmente concordo con le opinioni della gentile signora che ricopre la carica di Ministro delle Finanze in Austria e ciò perché, come scrivo da anni, nessuno dei paesi interessati vuole veramente combattere l’evasione fiscale dal momento che ospita e protegge sul proprio territorio illustri e famosi paradisi fiscali, dagli USA all’Inghilterra, dalla Francia alla Cina. Tali paradisi servono per attirare investimenti in concorrenza con gli altri paesi. Si noti poi che lo scambio di informazioni si ferma sulla soglia dei paradisi fiscali, che notoriamente sono parchi nel fornire le stesse informazioni, a cominciare dal libro dei soci, che spesso è riservato, e spesso le azioni sono al portatore sicché è impossibile scoprire chi ha compiuto determinati movimenti di capitali. Non occorre poi alcuna informazione per sapere che le IM mettono la loro sede dove pagano meno tasse, sono cose di dominio pubblico e di recente la stampa italiana ed internazionale se ne è occupata in rapporto a giganti come la Fiat e al Apple, il problema non è l’informazione ma la volontà e l’interesse politico ad agire contro l’evasione fiscale.

È emblematico, a tal proposito, quelle che avvenne nel 2009 quando Obama attaccò la Svizzera cercando di ottenere il rientro dei capitali americani in fuga verso la Svizzera; in realtà però l’America è un grande paradiso fiscale al cui interno esistono autentiche oasi per evasori come il Nevada, Puerto Rico, o il Delaware, per cui Obama chiedeva semplicemente ai capitalisti americani di riportare in patria i loro soldi, dove avrebbero potuto continuare ad evadere ma patriotticamente152.

Non meno rilevante è il problema del lavoro poiché questo sistema produce sempre meno lavoro mentre la popolazione aumenta ed i meccanismi di recupero della forza lavoro esuberante sono usurati irreversibilmente. Che fare? Nessuno lo sa e al più si propone di ridurre il costo del lavoro per rendere più appetibili le assunzioni dimenticando che il capitale può contrarre l’occupazione aumentando la produzione e dimenticando che la flessibilità salariale attuata in un mercato del lavoro stagnante o calante, è solo “flessibilità cattiva” che produce sottoccupazione e sottosalario, questo perché i lavoratori e le loro istituzioni si trovano in una situazione di debolezza contrattuale e devono accettare quello che passa il convento.

In una simili situazione si producono solo lettere di intenti che esprimono desideri privi di strumenti attuativi, documenti destinati al cimitero o al massimo annunci di carattere propagandistico.

Un tempo non era così: il XIX secolo fu caratterizzato da grandi conflitti tra due ipotesi di sviluppo il protezionismo e il libero scambio, entrambe queste ipotesi erano ipotesi di sviluppo capitalistico alternative come notò Marx153. Si trattava di scelte alternative ed incompatibili tra loro che portarono a conflitti terribili il più grave di tutti fu la guerra di Secessione americana, che fu la prima guerra dell’era industriale, la cui causa fu la ribellione del Sud alla tariffa protezionistica decisa dall’amministrazione Lincoln154. Lo Stato si muoveva nelle coordinate e nei parametri del capitalismo ma in quell’ambito faceva delle scelte che erano delimitate dalle esigenze dello sviluppo capitalistico: il capitale determinava il campo delle scelte del potere politico ma in quel campo il potere sceglieva e la scelta aveva un peso e delle conseguenze notevoli: senza il protezionismo non possiamo immaginare lo sviluppo degli USA dopo la tariffa Morril, del Giappone dopo la rivoluzione del 1868, dell’Italia dopo la tariffa del 1887, della Germania da Bismark in poi etc.

Lo stesso discorso può farsi per quello che avviene dagli anni ’30 in poi: i tentativi di pianificare il capitalismo (New Deal, nazismo e fascismo) fallirono, nessuno riuscì a realizzare il sogno di un capitalismo dallo sviluppo prevedibile e pianificabile, capace di dominare il ciclo economico e le crisi, epperò nacque il welfare state, che garantì uno sviluppo miracoloso fino al 1970 anche se con costi, contraddizioni, pause recessive.

Il fatto è che allora il capitalismo si sviluppava sia pure tra tensioni e contraddizioni per cui gli Stati, il potere politico, avevano alternative di scelta tra le varie ipotesi di sviluppo. Oggi non più perché lo sviluppo non c’è più, al massimo si ha un ristagno asfittico con un indebitamento crescente ed insostenibile accompagnato da grandi masse di occupati e sottoccupati. I problemi sul tappeto sono insolubili e nessuno Stato può inventarsi soluzioni di sviluppo inesistenti. In altre parole gli Stati non sanno più che pesci pigliare perché non ci sono più pesci da prendere.
C) Gli USA
Quanto sosteniamo può essere ulteriormente verificato analizzando i principali paesi o le aree dell’attuale capitalismo: ovunque lo Stato è impotente davanti alla “Grande Depressione” che viviamo.

In USA il PIL, come si è visto, ristagna, ed il debito federale cresce in modo esplosivo. Il prof. Roubini osserva che, potenzialmente, il PIL USA potrebbe crescere del 2,5-3% l’anno, ma l’attuale crescita è molto più bassa155; in realtà potrebbe crescere molto di più poiché nel 2011 il PIL USA cala di un -1,3% nel primo trimestre per impennarsi del 4,9% nell’ultimo trimestre, nel 2012 siamo ad un + 3,7% nel primo trimestre cui segue uno striminzito 1,2% nel secondo, nel 2013 siamo a 1,1% nel primo trimestre e a 2,5% nel secondo (dati su base annua). Come si vede l’economia USA può crescere anche del 5% circa in un trimestre, il guaio è che subito dopo il ritmo non tiene e si affloscia, ci troviamo in presenza di tipici rimbalzini da inventario passati i quali si ritorna al grigiore precedente156. Questo implica che il tasso di utilizzo degli impianti rimane inadeguato o basso con conseguente perdita degli investimenti che rimangono improduttivi157.

Quanto alla disoccupazione ad agosto 2013 sarebbe calata al 7,4%, secondo i dati ufficiali che abbiamo poc’anzi criticato considerandoli irreali, ma qui voglio aggiungere ulteriori considerazioni. Frugando tra i miei articoli passati sulla crisi ho scoperto che nel febbraio 2005, in USA, vengono creato 266.000 nuovi posti di lavoro e la disoccupazione cresce dello 0,2%158. Nel 2012 la disoccupazione cala lentamente ma si creano mediamente solo 183.000 posti di lavoro al mese159; nel giugno 2013 si creano 195.000 posti di lavoro e la disoccupazione è ferma al 7,6% il mese dopo 162.000 posti di lavoro e la disoccupazione cala al 7,4%, ad agosto 169.000 nuovi posti e siamo al 7,3%. Dati assurdi e misteriosi formalmente incomprensibili che si spiegano col fatto che gli scoraggiati (“missing men”) che hanno perso il lavoro e non lo cercano più non sono considerati disoccupati ma semplicemente scompaiono dalle statistiche del lavoro USA.

Come dico da anni queste statistiche sono fatte da struzzi per altri struzzi, le persone serie a cominciare dai Nobel Phelps e Krugman (o al prof. Rifkin) le trattano con sovrano disprezzo. C’è di più, i dati di luglio 2013 evidenziano anche che l’orario settimanale è ancora calato in USA si lavora solo per poco più di 34 ore settimanali160, il che significa che mediamente un lavoratore americano lavora per poco più di 4 giorni a settimana, in altre parole c’è chi lavora 44 ore settimanali e chi 20, 22, 25 etc. , la media è poco più di 34 ore, la forza lavoro è sottoutilizzata come sottoutilizzati sono gli impianti e questo avviene nel paese più ricco del mondo con la massima potenza tecnologica esistente.

Parallelamente il debito pubblico si impenna, abbiamo visto il dato del 2012 ma il sig. Lew, nuovo ministro del tesoro USA, dice che a ottobre 2013 raggiungeremo il tetto di 16.700 miliardi di dollari di debito federale, per cui bisognerà chiedere al Congresso una nuova autorizzazione per sforarlo, e questo malgrado Obama abbia fatto negli ultimi anni manovre lacrime e sangue161, l’ultima a febbraio di quest’anno con tagli generalizzati di ogni genere dalle spese militari ai parchi pubblici162.

È accaduto inoltre che in una pubblica manifestazione del 20.9.13 Obama abbia attaccato apertamente i repubblicani ricordando loro che l’America non è una repubblica bananiera che possa andare in default . In realtà varie entità pubbliche (municipalità, contee e sinanche uno Stato, il Minnesota) sono andate indefault in USA ed uno Stato che non sia in grado di onorare i propri impegni fallisce, si chiami Nicaragua o USA; ciò che però, Obama voleva dire era che undefault degli USA avrebbe conseguenze catastrofiche e si passerebbe da un 1929 strisciante e nascosto ad uno palese e devastante. Se il governo USA non paga più i buoni pasto o le indennità di disoccupazione assieme ai debiti che ha verso i propri fornitori, se taglia drasticamente le commesse che eroga all’industria, le conseguenze sarebbero immediate e disastrose. Il guaio è che in questa contesa i due contendenti hanno contemporaneamente ragione e torto. Ha ragione Obama nel dire che l’America non può fallire, sarebbe un disastro, la fine di un impero con ricadute su tutta l’economia mondiale; ma hanno ragione anche i repubblicani perché un debito di 16.700 miliardi che cresce di anno in anno come un torrente in piena, con un ritmo enormemente più elevato della crescita del PIL, è come un cancro irreversibile le cui metastasi si diffondono anno dopo anno, sicché la vita del paziente è sempre più a rischio.

Entrambi , però, hanno torto perché non propongono soluzioni valide al problema sul tappeto, soprattutto sul tema nodale dell’occupazione: la ricetta di Obama è fallita e quella dei repubblicani è la solita minestra riscaldata di stampo monetarista: meno spese pubbliche in modo da dilatare gli investimenti privati che rilanceranno produzione, occupazione e benessere. Romney durante la campagna elettorale del 2012 ha promesso agli americani milioni di posti di lavoro sin dai primi mesi del suo ipotetico governo, e questo più che un libro dei sogni ci sembra un delirio da ospedale psichiatrico: i repubblicani dimenticano che gli investimenti ormai non producono più occupazione ma disoccupazione e sottoccupazione e dimenticano, altresì, che la spesa statale non è uno spreco ma un sostengo all’economia capitalistica: i buoni pasto di 4,45 dollari al giorno e a persona significano domanda e consumi per cifre annue molto consistenti e lo stesso dicasi per le indennità di disoccupazione, se tagli queste spese tagli i consumi e quindi la dinamica dell’economia, lo stesso si può dire per i consumi pubblici come le spese per la scuola che si traducono in stipendi degli insegnanti e quindi in consumi, ed in commesse per le industrie fornitrici. In sostanza i repubblicani propongono una politica che avrebbe gli stessi effetti di un default e che è stata già sperimentata e sconfitta: nel 1981 Reagan cercò di tagliare la spesa ma siccome l’economia non reggeva si convertì, nel 1982, ad una politica opposta di spesa a sostegno dell’economia e come tutti sanno il rapporto debito federale-PIL si impennò dal 31,9% del 1981 al 50,99% del 1988; lo stesso avvenne con G. W. Bush e con Greenspan sotto la cui direzione il rapporto debito federale-PIL passò dal 57,34% del 2001 al 73,31% del novembre 2008163.

Un ulteriore nodo di contraddizioni dell’economia USA si colloca nell’ambito della politica della Fed che è uno dei capisaldi del governo dell’economia in USA. Da anni essa persegue una politica di sostegno che consiste anche nell’acquisto massiccio di bonds pubblici o collegati al mercato dei mutui al fine di sostenere l’economia: in altre parole si stampa carta moneta e si acquistano titoli, siano essi del debito pubblico che di imprese private; in questo modo si garantisce la copertura delle emissioni dei titoli pubblici a prezzi e a rendimenti accettabili e si sostiene l’economia privata in particolare il settore delicato dei mutui. Negli ultimi mesi nella Fed si è delineata una spaccatura tra coloro che intendono continuare il piano di acquisti (fino a 85 miliardi di dollari al mese) e chi vorrebbe contenerlo. In realtà la Fed può continuare ad acquistare i titoli che il mercato non acquisterebbe o acquisterebbe a prezzi molto più bassi, ma avendone già in portafoglio alcune migliaia di miliardi c’è il rischio alla lunga si trovi con un portafoglio titoli non collocabile sul mercato se non a prezzi stracciati. In Italia qualcosa di simile capitò alla Banca d’Italia nel 1931 che , dopo aver acquistato per anni titoli spazzatura , al fine di sostenere l’economia, si trovò con il portafoglio pieno di titoli che erano carta straccia, per cui correva il rischio di essere tecnicamente fallita. Il problema fu risolto con la creazione dell’IRI che acquistò a buon prezzo (per la Banca d’Italia) i titoli in questione, naturalmente qualcuno pagò per l’operazione: il contribuente italiano dalle cui tasche uscirono i soldi per costituire la dotazione dell’IRI. Ma è possibile in USA una soluzione simile alla nostra del 1931?

Assolutamente no. Un simile piano implicherebbe un costo di alcune migliaia di migliaia di dollari che si scaricherebbe sul consumatore americano già oberato di debiti164 e quindi implicherebbe una contrazione dei consumi già poco dinamici, in sostanza un rimedio peggiore del male; inoltre i repubblicani che controllano uno dei rami del Congresso (e condizionano il Senato) farebbero le barricate, ciò che poteva fare Mussolini non può fare Obama.

C’è di più il 20.9.13 la Fed ha spiazzato tutti affermando che il piano di lento e graduale rientro della politica degli acquisti e bonds (che tutti si attendevano) era rinviato a data da destinarsi, evidentemente l’economia americana non può fare a meno di una stampella di sostegno di 85 miliardi di dollari mensili. Questa posizione ha suscitato però le critiche di Warren Buffet famosissimo finanziere che però non è privo di atteggiamenti liberal, il quale ha rilevato che la Fed si comporta come un fondo speculativo ad altissimo rischio: il suo portafogli titoli è passato da 879 miliardi nel 2007 ai 3.600 attuali, ma i titoli in questione potrebbero devalorizzarsi esponendo la Fed a perdite anche di 500 miliardi poiché i tassi di interesse dei bond americani tendono a salire e per contro i loro prezzi tendono a deprimersi165. La preoccupazione di Buffet è tutt’altro che infondata poiché la situazione dell’indebitamento globale dell’economia americana è pesantissima: già nel 2009 tale indebitamento era vicino al 400% del PIL166 e da allora la situazione si è incancrenita, inoltre la concorrenza sul mercato mondiale per accaparrarsi i capitali necessari al finanziamento del debito pubblico dei vari paesi si sta acuendo per cui è prevedibile una crescita della concorrenza tra i paesi fondata sulla crescita dei tassi di interesse, è probabile quindi che titoli con tassi di interesse ritenuti bassi si devalorizzino. Come si vede la situazione dell’economia americana è un intrico di contraddizioni quanto mai esplosivo ed insolubile davanti al quale il governo, l’opposizione e la Fed sono del tutto impotenti, si procede per palliativi perché soluzioni strutturali, ipotesi di sviluppo praticabili non ne esistono.
D) Eurozona ed UE
La situazione in Europa, come arguibile dai dati sulla crescita del PIL, dopo il 2008 è sempre più pesante. A marzo 2013 l’ILO rileva che la disoccupazione nella UE a 27 è a 26 milioni contro i 10,2 milioni del 2008, e ancora una volta dobbiamo ricordare che questi dati sono pesantemente sottostimati. La disoccupazione giovanile a gennaio 2013 è al 24,4% nell’Eurozona e al 23,5% nella UE a 27 (Eurostat). Il debito e il deficit non accennano a calare, siamo a fine 2012 al 90,6% nella media dell’Eurozona per ciò che attiene il rapporto debito PIL mentre la media del rapporto deficit-PIL annuo è al 3,7%, ma anche i ricchi paesi del nord Europa o l’Inghilterra, estranea all’Eurozona, sono in una situazione difficile, la Germania, il paese più forte della UE ha un rapporto debito-PIL all’81,9% cresciuto di 1,5% rispetto al 2011 (Eurostat). Gli squilibri sono enormi e l’Eurostat riferisce che fatta base 100 il PIL procapite della UE a 27 siamo al 98 per l’Italia contro 108 (media Eurozona), 121 per la Germania, 271 per il Lussemburgo e il 47 per la Bulgaria (giugno 2013).

L’evasione fiscale è insultante: il commissario europeo Bailly afferma pubblicamente che le tasse evase sono pari a 1000 miliardi l’anno di euro167, cifra confermata da Barroso davanti al Parlamento europeo168.

Il fatto è che nessuno riesce a mettere in piedi una politica antievasione per i problemi che abbiamo già visto in precedenza parlando del G8, infatti il peso delle IM è immenso, secondo una recente indagine 387 colossi controllano 12.206 miliardi di dollari di fatturato con 32 milioni di addetti169, inimicarseli significa subire delocalizzazioni o sabotaggi delle aste dei bonds e gli Stati fanno a gara per ingraziarseli proprio dal punto di vista fiscale, così a maggio 2103 vari giornali pubblicano che la Fiat e la Apple mettono le loro sedi a Londra, dove si pagano meno tasse e tutti ricordano come quando Hollande minacciò la tassa del 75% sui redditi più elevati, altri paesi europei, dall’Inghilterra al Belgio si offrirono come rifugio ai poveri capitalisti espropriati da Stalin-Hollande. Avviene inoltre che la Tobin tax, che avrebbe dovuto partire nel 2013, viene rinviata di 6 mesi per mancanza di accordo tra i governi, qualcuno dice che è una tassa morta ancor prima di nascere170.

Ora se i bilanci soffrono (e tutti soffrono) a causa dell’evasione fiscale non hai mezzi per fare una politica seria e consistente, per sostenere i consumi, per aumentare i posti di lavoro etc.171; si delinea anzi un circolo vizioso, siccome i bilanci sono in deficit sei ricattabile e non puoi lottare contro gli evasori fiscali, che potrebbero non sottoscrivere le emissioni dei bonds, per cui finisci all’arrenderti all’evasione fiscale.

E se l’evasione fiscale dilaga , dilaga anche la corruzione che è la sua sorella gemella: a fine 2012 la Commissione europea pubblica i dati sul peso della corruzione e dell’economia sommersa nei principali paesi dell’Eurozona172.

Come si vede la tesi che l’Italia sia un paese eccezionalmente corrotto è campata in aria, la corruzione è un fenomeno generale e la UE impotente contro di essa come contro l’evasione fiscale. Degli Stati deboli, ricattabili finanziariamente e cioè a sovranità economica limitata, non possono fare una politica forte contro la corruzione, ammesso che questo nel capitalismo sia possibile173.

Ma chi non ha soldi non può fare nessun tipo di politica economica autonoma nel campo del lavoro e nella lotta agli squilibri: senza carburante non ti muovi. Così alla UE non rimane che fare l’unica politica che può fare: porre vincoli di bilancio “austeri” ai singoli paesi senza proporre alcuna soluzione positiva; eppure questa politica folle viene sempre più criticata sinanche il capo economista dell’OCSE prof. Padoan ne rileva l’assurdità174. Con i conti in ordine non crei posti di lavoro ma al massimo avrai la soddisfazione di affondare con i conti in ordine come capitò ad Hoover nel 1932, e c’è il rischio che alla fine neanche i conti siano in ordine perché se la ripresa non riparte e l’economia continua a ristagnare, le entrate fiscali si contraggono e i conti possono ritornare in rosso, cosa che sta accadendo nella UE.

Anche nella UE gli Stati e quel minimo di potere sovrannazionale creato con i vari trattati europei sono paralizzati ed impotenti, nessuno opera scelte di alternative di sviluppo perché alternative non ce ne sono.
E) Cina e Giappone
La Cina è chiaramente in fase di decelerazione, al punto più basso degli ultimi 13 anni la tabella che segue illustra chiaramente la tendenza in atto175

I dati si commentano da sé e alle anime candide per cui un 7% è tanto, ricorderò che per la Cina il 7% è poco: infatti l’indice PMI che monitora lo sviluppo di industria e servizi contiene un dato spartiacque che è 50, al di sopra c’è lo sviluppo al disotto il ristagno o la recessione, ebbene nel corso del 2012 e nella prima metà del 2013 questo indice si è collocato nella maggior parte dei casi sotto 50176, in altre parole l’1 % di sviluppo americano o tedesco ha ben altro valore di un 5-6% cinese177. La Cina, dunque, è vicinissima al ristagno e le previsioni di un rapporto fatto per conto del governo cinese dicono che negli anni prossimi saremo ad un tasso di sviluppo del 6,5%178 il che significa ristagno stabile, sempre che il paese non abbia una frenata di tipo indiano che non può escludersi, peraltro siamo lontanissimi dal picco del 14,2% del 2007. E questo ragionando sempre e solo in termini quantitativi poiché è noto che la qualità cinese è molto bassa spesso formata da falsi grossolani179, e questo è normale per un paese che ha una produttività media pari al 5% di quella dei paesi avanzati, con punte massime di appena il 15%180. E qui si pone il nodo insolubile dell’economia cinese: raggiungere l’occidente significa produrre con la nostra produttività, ma farlo, lo rilevo da anni, significherebbe rendere “esuberanti” 700 milioni di lavoratori cinesi181. Impensabile.

Inoltre il debito delle famiglie e delle imprese è al 207% del PIL182 ed è altresì in crescita il debito pubblico183, in altre parole la situazione debitoria della Cina si avvicina a quella dei paesi di capitalismo avanzato pur avendo la Cina stessa un PIL procapite molto più basso di quello dei paesi ricchi.

Anche qui ci troviamo ad un groviglio di contraddizioni assolutamente inestricabili per il governo cinese che non è meno impotente dei governi democratici. Cambia solo la fenomenologia della crisi: in Occidente assistiamo a conflitti e lacerazioni e ad un’instabilità estrema (le fibrillazioni della nostra politica, oppure Obama che deve vedersela con l’ostruzionismo repubblicano al Congresso), mentre in Cina un governo autoritario siede immobile sui propri problemi senza sapere come affrontarli e senza affrontarli: cambia la fenomenologia ma l’impotenza è la stessa.

Infine il Giappone. Paese che viene da 15 anni di ristagno di cui 5 con sviluppo negativo. Il premier Abe lancia la politica delle massicce iniezioni di liquidità e della sottovalutazione dello yen per sfondare sui mercati mondiali. Il prof. Sachs, consulente del segretario generale dell’ONU, è un estimatore del premier giapponese, ma la sua speranza nella politica di Abe ci sembra decisamente malriposta. Innanzitutto il fine di Abe è uno sviluppo dell’1-2% nei prossimi 10 anni e cioè una crescita modesta e moderata e le stime OCSE per il 2013 non sono esaltanti mentre il debito pubblico è arrivato al 240% del PIL (record mondiale)184. Inoltre puntare sui mercati mondiali mentre l’economia ed i consumi globali ristagnano non sembra una soluzione esaltante (il calo del PIL cinese sbilanciato verso le esportazioni è indicativo), anche perché se tieni lo yen basso riduci anche le potenzialità dei consumi interni dei lavoratori giapponesi, e quindi perdi all’interno quello che potresti guadagnare all’estero185.

C’è poi da considerare che per essere competitivi all’estero devi potenziare la tecnologia, che nel capitalismo deprime l’occupazione, oppure puoi imporre salari da fame come in Cina ma anche questa soluzione deprime i consumi interni. Nel caso di un paese tecnologicamente avanzato come il Giappone, la soluzione più logica è quella della competitività fondata sulla tecnologia e sulla produttività; il guaio è che però una simile soluzione urta con la necessità di espandere l’occupazione, in Giappone infatti, come già abbiamo notato, la disoccupazione supera di poco il 4% semplicemente perché c’è una massa enorme di donne (18-20 milioni) che viene chiamata pudicamente “inattiva”. Un paio di anni fa la Banca mondiale attribuì al Giappone il 74° posto nel mondo per l’occupazione femminile, sinanche dietro all’Italia (il che è tutto dire) e nell’intervista al prof. Sachs l’intervistatore gli fa notare che per quel che concerne il rapporto pari opportunità uomo-donna il Giappone è al 101° posto nel mondo su 135 paesi censiti186. Il prof. Sachs osserva che però le donne sono una risorsa se, infatti, la loro occupazione si avvicinasse ai livelli maschili, il PIL giapponese crescerebbe del 15%187.

Verissimo, anche da noi se l’occupazione femminile fosse a livello di quello maschile avremmo lo stesso risultato; a livello mondiale se il 50% della forza lavoro non fosse sottoccupata potremmo raddoppiare il PIL e così via elencando. Diceva Gaetano Salvemini: “Se mia nonna avesse avuto il trolley sarebbe stata un tram”. In altre parole se dai per scontato che i problemi si possano risolvere e trasformi la possibilità in realtà hai risolto il problema, chi però avanza queste ipotesi dovrebbe avere l’accortezza di spiegare come queste ipotesi possono concretamente realizzarsi: se in Giappone l’occupazione femminile è depressa, qualche motivo ci sarà e presumibilmente ciò sarà dovuto, in Giappone come in altri paesi, al carattere estremamente capital intensive e labour saving della produzione, sostanzialmente le donne pagano il prezzo di un sistema che produce sempre di più con meno addetti, che è un problema mondiale. Nel caso del Giappone poi la scelta di essere competitivi a livello mondiale puntando sulle esportazioni non può che spingere quel paese ad esasperare l’uso della tecnologia e della competitività. Anche nel caso del Giappone le politiche proposte sono armi spuntate prive di qualunque prospettiva. In occidente come in oriente gli Stati hanno esaurito le munizioni e rimangono seduti sulla loro impotenza.

Note

1 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2008: nel tunnel senza uscita, in www.crisieconflitti.it, 2009; ID. Capitalismo 2009: la via verso il crollo,  ID. Capitalismo 2010: uomo morto che cammina,  ID. Capitalismo 2011: decomposizione in atto, 2012 e in http://connessioni-connessioni.blogspot.it, 2012; ID, La putrescenza del capitalismo contemporaneo e la teoria del crollo.

2 Su ciò v. A. CARLO, Economia, potere, cultura, Liguori, Napoli, 2000, pp. 540 e sgg.

3 Vedi gli articoli citati alla nota 1 ma in realtà sostengo questa tesi a partire da una monografia edita per la prima volta nel 1980, v. A. CARLO, La società industriale decadente, Liguori, Napoli, 2001, 3ª ed., cap. II e IV.

4 In realtà si sente parlare a vanvera di seconda o terza Repubblica, dimenticando che una Repubblica si fonda su una Costituzione, e la nostra è sempre ferma a quella del 1948.

5 Infatti sono state abrogate per incompatibilità le norme che facevano riferimento all’ordinamento corporativo, mentre, in tema soprattutto in famiglia, altre sforbiciate ha operato la Consulta.

6 C’è poi il licenziamento per giusta causa dovuto ad atti compiuti dai dipendenti fuori dal rapporto di lavoro e che minano la fiducia in lui: ad esempio si scopre che nel tempo libero il dipendente va in giro a rapinare banche.

7 Fonte ISTAT.

8 Vedi A. CARLO, La putrescenza cit. par. 6. Come si vede 4-500 cause contro poco meno di 2 milioni di licenziamenti in due anni

9 Vi fu un caso, subito dopo l’emanazione dello Statuto dei lavoratori assai indicativo: un datore di lavoro trovò un dipendente che scopava allegramente con la propria moglie (quella del datore di lavoro) e lo licenziò in tronco, ma un simpatico Pretore del lavoro ne ordinò la riassunzione perché non c’era nessuna giusta causa o giustificato motivo.

10 Tale sistema si regge sullo sfruttamento del lavoro salariato, v. A. CARLO, La società industriale cit., cap. 1°.

11 Quando ero un giovane studente leggevo gli scritti antifascisti dell’esiliato Gaetano Salvemini, che sghignazzava sul “dovere di lavoro” previsto dalle norme fasciste che non impedivano ai disoccupati di rimanere tali ed ai rentiers di continuare a crogiolarsi al sole. La stessa ironia può valere per l’art. 4 della nostra Costituzione.

12 Vedi G. ZAGREBELSKY, Fondata sul lavoro, Einaudi, Torino, 2013, pp. 39 e sgg.

13 Su ciò v. A. CARLO, Ricerche di sociologia negativa, Liguori, Napoli, 1994, pp. 134 – 5, dove ripubblico un mio vecchio saggio del 1977.

14 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2008 cit., par. 2.

15 Sono infatti costituite con i contributi versati durante la vita produttiva del lavoratore.

16 Su questo vedi la mia analisi, A. CARLO, Il capitalismo impianificabile, Liguori, Napoli, 1979 ,
2ª ed. , dove analizzo le cause strutturali del fallimento della programmazione in Italia.

17 Oltre al lavoro citato alla nota precedente sono ritornato varie volte sull’argomento. Vedi A.
CARLO, La società industriale cit.; ID. Il leviatano morente, Liguori, Napoli, 2001, 3ª ed. , cap.
1°; ovviamente sono tornato varie volte sul tema negli articoli indicati alla nota 1 e in svariati altri
casi.

18 Vedi A. CARLO, Il Capitalismo impianificabile cit., pp. 270-71.

19 Su ciò v. i miei articoli citati alla nota 1 ed infra par. 8.

20 Vedi A. CARLO, op. ult. cit. , pp. 249 e sgg.

21 Ivi , pp. 244 e sgg.

22 Vedi G. MANN, Storia della Germania moderna, Sansoni, Firenze, 1964, p. 275.

23 Sul perché v. infra part. 3.

24 Vedi K. MARX, Storia delle teorie economiche, II, Einaudi, Torino, 1955, p. 631.

25 Vedi K. MARX, Il Capitale, I, Ed. Riuniti, Roma, 1964, p. 491. Vedi anche vol. III, p. 317 dove si dice che gli operai salariati crescono in cifra assoluta ma decrescono in senso relativo.

26 Vedi W. BEVERIDGE, La libertà solidale, Donzelli, Roma, 2010, alle pp. VII e sgg. una introduzione lucida ed informata di Michele Colucci.

27 Vedi G. KOLKO, Ricchezze e potere in America, Einaudi, Torino, 1964, p. 55. Per inciso qualche tempo fa RaiNews 24, una delle poche trasmissioni TV decenti, ricordò agli sprovveduti che non tantissimo tempo fa in USA la tassazione sui redditi più elevati arrivava al 90%.

28 Vedi A. PIETTRE, Le grandes problémes de l’économie contemporaine . Où va le capitalisme?, Cujas, Paris, 1976 pp. 63 e sgg.; per inciso si leggono con un sorriso le ultime pagine del volume sulla ricerca di una nuova moneta internazionale (pp. 297 e sgg.) o sulla necessità di una nuova giustizia fiscale (pp. 204 e sgg), dal lontano 1976 sono passati quasi quarant’anni e siamo fermi su questi punti nodali senza aver progredito di un centimetro.

29 Vedi A. FORNI, I fuorilegge del fisco, Ed. Riuniti, Roma, 1981, p. 78.

30 Ivi , p. 92.

31 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2009 cit., par. 5; ID. Capitalismo 2010 cit., par. 4; ID. Capitalismo 2011 cit., par. 4

32 Ibidem.

33 Ibidem.

34 Vedi su ciò E.M. CAPECELATRO, A. CARLO, Contro la “questione meridionale”, Savelli,
Roma, 1975, 3ª ed. , pp. 157 e sgg.

35 Vedi A. CARLO, Il capitalismo impianificabile, pp. 82 sgg.; G. ARE, Radiografia di un partito,
Rizzoli, Milano, 1980, p. 90 ove tabella.

36 Vedi A. CARLO, La società industriale cit., pp. 66 e 71.

37 Vedi H. MAGDOFF, Problemi del capitalismo americano , in “Critica marxista”, n. 1, 1966, pp.
13 e sgg., a p. 27.

38 Vedi A. CARLO, Studi sulla crisi della società industriale, Loffredo, Napoli, 1984, p. 110 testo
e nota 13.

39 I ricercati dell’ILO parlano di un settore “fuori mercato” che cioè non opera secondo una logica
capitalistico-mercantile, ciò, però non mi sembra del tutto esatto poiché la logica della politica
dell’assunzione della PA, pur essendo opposta a quelle delle imprese private, è funzionale e
complementare ad essa: siccome le imprese creano disoccupazione la PA, per sostenere il mercato
ed i consumi, opera assunzioni anche in fase di crisi, ciò che giova indirettamente anche le imprese
capitalistiche.

40 Vedi G. ARE, op.cit., pp. 297-98.

41 Vedi su ciò A. CARLO, Il leviatano cit., pp. 208 e sgg.

42 Vedi G. ARE, op. cit., p. 301.

43 Ovviamente c’è chi , come i leghisti impreca contro questo clientelismo assistenziale, il guaio è
però , che il sistema non produce più posti di lavoro e il disoccupato disperato può essere spinto ad
arruolarsi nella criminalità organizzata e questo potrebbe costare al sistema molto di più.

44 Vedi infra, par. 5.

45 Vedi su ciò G. TAMBURRANO, Storia e cronaca del centro sinistra, Feltrinelli , Milano , 1973, 3ª ed., pp. 42 sgg.

46 La scelta del PCI fu tanto più assurda perché in Sicilia quel partito condusse lotte molto dure contro la mafia, che contrastano con il moderatismo che PCI e CGIL manifestarono nel resto d’Italia. Tuttavia tale lotta era inficiata alla base dalla scissione tra mafia e capitalismo, assolutamente insostenibile poiché la criminalità organizzata economica è una componente normale e strutturale del capitalismo (su ciò vedi A. CARLO, Studi sulla crisi cit., pp. 149 e sgg.); inoltre la scivolata tattica del PCI, che univa i suoi voti della destra monarco-fascista, non aiutava certo i sindacalisti che in quegli anni rischiarono la vita (50 morirono) nella lotta alla mafia stessa. Intendiamoci in politica ti puoi alleare con il diavolo, Lenin e Mao erano maestri in ciò, ma a patto che finisca arrosto il diavolo, se invece è il diavolo ad ingannarti allora la spregiudicatezza tattica si chiama imbecillità.

47 Vedi in tal senso G. GALLI, Il bipartitismo imperfetto, Il Mulino, Bologna, 1966 p. 217.

48 Vedi La politica economica italiana, 1945-75. Orientamenti e proposte dei comunisti, edito a cura della Sezione centrale scuole di partito del PCI, Roma, 1976, 2ª ed., p. 26, si tratta di un’antologia di 40 documenti di politica economica approvati dalla direzione del PCI nel periodo 1945-75 con in più alcuni articoli di Palmiro Togliatti che citeremo tra breve.

49 Ivi, pp. 10-11.

50 Ivi, p. 11.

51 Inoltre a p. 15 Togliatti esorta i sindacata a non essere solo organi conflittuali ma a porsi problemi relativi alla produzione. Si noti, però, che si tratta di una produzione capitalistica, sicchè Togliatti esorta a collaborare con il capitale per risolvere i problemi della produzione. Collaborazione di classe, dunque, normale in un partito socialdemocratico, strana per un partito che vorrebbe essere comunista.

52 Ivi, p. 59.

53 Vedi A. CARLO, Il leviatano cit., p. 194; per ulteriori critiche al piano del lavoro v. S. TURONE, Storia del sindacato in Italia 1943-80, Laterza, Roma-Bari, 1981, pp. 180 sgg.

54 Vedi La politica economica italiana cit., pp. 99-160 ove tale politica è esposta; per una critica alla stessa v. E.M. CAPECELATRO, A. CARLO, op. cit., p. 213 e sgg.

55 Vedi E. BERLINGUER, La questione morale, Aliberti, Roma-Reggio Emilia, 2012, p. 36; in senso analogo v. N. COLAJANNI, L’economia italiana tra ideologia e programmi, Laterza, Roma-Bari, 1983, p. 193. Tuttavia in materia si potrebbero fare decine di citazioni su questa posizione che nel PCI è univoca.

56 Vedi E. BERLINGUER, op. cit., pp. 37-38.

57 Vedi La politica economica italiana cit., pp. 235 sgg. Quanto al fallimento delle politica antimonopolio è evidente dalla crescita gigantesca delle concentrazioni industriali e finanziarie dell’ultimo secolo su cui v. A. CARLO, La putrescenza del capitalismo contemporaneo cit., par. 11 dove analizzo la sfacciata e dilagante prepotenza delle IM.

58 Per una critica di questi progetti v. A. CARLO, Il capitalismo impianificabile cit. , pp. 38 e sgg.

59 Vedi in tal senso E. BERLINGUER, op. cit. , p. 73.

60 Su ciò v. A. CARLO, op. ult. cit., cap. II; c’è però un’eccezione (isolatissima) nel PCI rappresentata da L. BARCA in AA. VV. Il capitalismo italiano e l’economia internazionale,I, Ed. Riuniti , Roma, 1970, pp. 234-5, che insiste su un legame organico ed inscindibile tra profitto e rendita ma si tratta di una posizione del tutto isolata.

61 Vedi La politica economica italiana cit., pp. 169 e segg. e 198 e sgg. ove i vari documenti sulla politica europea del PCI prodotti nell’arco di vari anni.

62 È questa la caratteristica del Pci che, periodicamente, esibisce grandi anime di combattenti che avevano donato la propria vita al partito (Terracini, Li Causi, Di Vittorio, Grieco, Vidali, Teresa Noce, Negarville, etc.) cui fa firmare iniziative di bassissimo livello e di cui sfrutta il prestigio enorme per una politica di piccolo cabotaggio elettoralistico.

63 Per un’analisi della genesi e della natura dello Statuto dei lavoratori e dei vari progetti che vennero presentati v. A. CARLO, Ricerche cit., pp. 217 e sgg, ove ripubblico un mio saggio del 1973 sull’origine dello Statuto dei lavoratori.

64 Vedi su ciò G. TREVISANI, Storia del movimento operaio italiano, II, Ed. del Gallo, Milano, 1965, pp. 292 e sgg.

65 Ivi II, p. 316.

66 Ivi, III, pp. 59 e sgg. e 78 e sgg..

67 V. retro nota 46.

68 Su ciò v. A. CARLO, Studi sulla crisi cit., pp. 201 e sgg. ove un saggio sulle grandi lotte che
caratterizzano il periodo 1968-1980 e sull’evoluzione, seguita poi da un’involuzione del sindacato.

69 Su ciò v. G. GALLI, Storia del partito comunista italiano, Schwarz, Milano, 1958, p. 239 dove
si rileva che questa spiegazione fu avanzata come alibi per giustificare il moderatismo del PCI.

70 Su ciò v. A. CARLO, Economia, potere, cultura cit., pp. 214-15.

71 Vedi D. F. FLEMING , Storia della guerra fredda, Feltrinelli, Milano, 1964 , pp. 249 ed sgg.

72 Ivi, pp. 257 e sgg.; v. anche J. GUILLERMAZ, Storia del partito comunista cinese 1921-1949,
Feltrinelli, Milano, 1970, pp. 387-401

73 Su ciò v. A. CARLO, Economia, potere, cultura cit., pp. 218 e sgg.

74 Vedi retro testo e note 24 e 25.

75 Vedi su ciò A. CARLO, La società industriale cit., p. 158, testo e nota 58 ove citazione di Kautzky.

76 Per le posizioni di Togliatti v. P. TOGLIATTI, La politica di Salerno, Ed. Riuniti, Roma, 1969, pp. 15 e sgg.

77 Vedi il lavoro citato alla nota 75 ove dati sul censimento italiano del 1951.

78 Vedi La politica economica italiana cit., pp. 27 e segg. dove è riproposto il famoso discorso di Togliatti.

79 Vedi G. DI VITTORIO, in AA. VV., Lo stato operaio, II, Ed. Riuniti, Roma, 1964, pp. 221 e sgg., l’articolo è del 1934. Più in generale per quel che concerne le differenze di interessi tra operai e ceti medi nella società capitalistica sviluppata, v. A. CARLO, La società industriale cit., pp. 29 e sgg., la mia analisi del 1980 si riferiva alla situazione allora esistente ma già allora rilevavo come la crisi incipiente della società tardo-industriale, che produceva sempre meno occupazione e sempre più inflazione, tendesse a erodere i privilegi che la società capitalistica concedeva ai ceti medi, fenomeno questo che negli ultimi anni è diventato estremamente evidente.

80 Vedi su ciò G. BOCCA, Palmiro Togliatti, Laterza, Roma-Bari, 1973, p. 520.

81 Ivi, pp. 512 e sgg.

82 Vedi P. ALLUM, Potere e società a Napoli nel dopoguerra, Einaudi, Torino, 1975, pp. 195265; a livello più generale l’analisi di Antonio Baldassarre sui gruppi parlamentari del PCI dal dopoguerra agli anni ’70 ha evidenziato come in essi predominassero personaggi di chiara estrazione borghese mentre gli operai veri e propri fossero praticamente assenti, v. A. BALDASSARRE, in AA. VV., Il partito comunista italiano. Struttura e storia dell’organizzazione, 1921-1970, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Milano, 1982, pp. 445 e sgg.

83 Vedi C. DE PALMA, Sopravvivere senza governare, Il Mulino, Bologna, 1978; ho criticato le tesi di De Palma già nel 1981, v. A. CARLO, Il leviatano cit., p. 192 e sgg.

84 Su ciò vedi infra par. 6 e 7.

85 Su ciò v. A. CARLO, Economia, potere, cultura cit., p. 268.

86 Vedi E. TODD, L’illusione economica, Tropea, Milano, 1999, p. 157.

87 Vedi A. CARLO, Il leviatano cit., p. 150.

88 Vedi su ciò G. CHIAROMONTE, Quattro anni difficili, Ed. Riuniti, Roma, 1984, p. 112, dove si rileva che la scala mobile copre solo i redditi fino a 500.000 lire mensili.

89 Vedi A. CARLO, Studi sulla crisi cit., p. 219.

90 Vedi A. CARLO, Ricerche cit., pp. 134-5 , testo e nota 87.

91 Vedi su ciò A. BULGARELLI, L. RICOLFI, Le tendenze del lavoro in Italia: meno lavoro,
meno lavoro stabile, più lavoro precario, in “Monthly Review”, ed. it., n. 4, 1978, pp. 23 e sgg.; A. CARLO, Saggi di sociologia marxista, Cues, Salerno, 1979, pp. 52 e sgg.

92 Vedi C. GHINI , Il terremoto del 15 giugno, Feltrinelli, Milano, 1976, p. 11.

93 Vedi A. CARLO, Studi sulla crisi cit., p. 220 e 217.

94 Su ciò vedi A. CARLO, La società industriale cit., pp. 128 sgg.

95 In quegli anni venne pubblicata anche una ricerca del prof. J.P. MOCKERS, L’inflation en France, Cujas, Paris, 1975, in cui questo studioso di estrazione liberale faceva carico dell’inflazione alla politica dei monopoli e non alle lotte operaie, egli osservava che così facendo dava ragione ai marxisti, ma se i marxisti avevano ragione la colpa non era sua. A quel tempo in Italia chiunque sostenesse le lotte operaie non causavano inflazione era guardato come un evaso da un manicomio, o come un estremista il che era anche peggio. Tentai disperatamente di far pubblicare il libro in italiano ma non vi riuscii e dovetti limitarmi a recensirlo, v. A. CARLO, Saggi cit. , pp. 265 e sgg.

96 Vedi G. NAPOLITANO, “Non tirarsi indietro” ma spingere a scelte coraggiose , in “Rinascita” n. 30, 1978, p. 8; tesi analoghe vennero sostenute da Luciano Lama v. S. BEVILACQUA, G. TURANI, La svolta del ’78, Feltrinelli, Milano, 1978. Come si vede Napolitano (PCI) e Lama (CGIL) procedono di conserva con buona pace della tanto sbandierata autonomia sindacale. La CGIL, sindacato autonomo dal PCI, è però a maggioranza comunista e da sempre il segretario del sindacato è un uomo del PCI che dice autonomamente cose confluenti con la politica del PCI. La verità è che l’autonomia fu una strada tentata, dopo il 1968, sotto la spinta di lotte operaie veramente autonome, ad opera di alcuni sindacati dell’industria che da tali lotte erano investiti. Ma, alla fine degli anni ’70 le lotte della sinistra sindacale sono in ripiegamento ed il vecchio sindacalismo confederale, collaterale ai partiti e moderato, sta riprendendo il sopravvento

97 Ciò che ho ribadito più volte agli articoli citati alla nota 1 e che era evidente per me sin dalla fine degli anni ‘70.

98 Su ciò vedi A. CARLO, Saggi cit., pp. 64 e sgg.

99 Ivi, p. 74.

100 Ivi, p. 76.

101 Vedi La politica economica italiana cit., p. 269.

102 Vedi G. GALLI, L’Italia sotterranea. Storia, politica, scandali, Laterza, Roma-Bari, 1983, pp. 210-11.

103 Il programma comune delle sinistre francesi fu pubblicato in Italia, ad iniziativa di un gruppo si
socialisti milanesi, vedi, Un documento da studiare: il programma comune delle sinistre in Francia, in “Rivoluzione socialista”, 30.4.1977, p. 22 e sgg. Il PCI si guardò bene dal farlo.

104 Vedi A. CARLO, La società industriale cit., , pp. 209 e sgg.

105 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2008 cit., par. 2.

106 In genere i difensori degli sciagurati anni dell’unità nazionale rilevano che almeno un risultato il PCI l’avrebbe ottenuto: salvare la democrazia, messa in pericolo dall’attacco delle brigate rosse e delle forze oscure che operavano alle loro spalle. Ora, che io sappia, gli unici casi di una democrazia liberale consolidata buttata giù e sostituita da una dittatura sono quelli dell’Italia fascista e della Germania nazista, dove i becchini della democrazia liberale furono due movimenti reazionari di massa che avevano un largo consenso popolare (piaccia o no). Nel nostro caso non credo le BR potessero neanche lontanamente paragonarsi al fascismo e al nazismo e quanto alle forze reazionarie che eventualmente le manovravano è appena il caso di rilevare che il modo migliore per opporsi ad esse è la mobilitazione delle masse e non l’accettazione passiva del programma della peggiore destra economica che fu fatto proprio da PCI. Il PSI degli anni eroici (1892-1900) che operava in una situazione drammatica dove era normale l’eccidio operaio e l’uso dei cannoni contro gli scioperi nonché le leggi eccezionali, non reagì calandosi le braghe ma con la lotta popolare e vinse.

107 Su ciò vedi S. TURONE, op. cit.

108 Vedi R. STAFANELLI, Metà dei redditi non è dichiarato al fisco, ne “L’Unità”, 15.4.81, p. 7. Sono cose vecchie di trent’anni e più eppure quest’articolo sembra scritto oggi.

109 Vedi M. CACIAGLI, Democrazia cristiana e potere nel mezzogiorno, Guaraldi, Rimini-Firenze, 1977, pp. 297 sgg.

110 Vedi infra nel testo.

111 Vedi ad esempio la prefazione di Luca Telese al volume di Berlinguer già citato sulla “questione morale”.

112 Vedi E. BERLINGUER, op. cit., pp. 28-29.

113 Vedi G. GALLI, L’Italia sotterranea cit. p. 106; l’articolo de “L’Unità” a cui allude Galli è di R. STEFANELLI, Scandalose evasioni: ecco l’Italia cui bisogna chiedere dei sacrifici, ne “L’Unità”, 16.4.81, pp. 1 e 16.

114 Vedi G. BARBACETTO, P. GOMEZ, M. TRAVAGLIO, Mani pulite, Ed. Riuniti, Roma, 2002, p. 45; il libro in questione è letteralmente infarcito quasi a ogni pagina di notizie relative a uomini del PCI o di organismi collegati al PCI che sono implicati nelle vicende di “mani pulite”, risparmio perciò al lettore l’indicazione di qualche centinaio di pagine, perché di questo si tratterebbe.

115 Per una critica alle teorie funzionaliste di R. K. Merton e della sua scuola , v. A. CARLO, Studi
cit. , pp. 150 e sgg.

116 Vedi G. GALLI, op.ult. cit. , pp. 169 e sgg.

117 Vedi A. CARLO, Economia, potere, cultura cit., p. 125 ove indicazioni.

118 Vedi A. NEVINS, H.S. COMMANGER, Storia degli Stati Uniti, Einaudi, Torino, 1960, pp. 278 e sgg; la situazione non è cambiata nel ‘900, durante gli anni di Kennedy, che la sinistra perbene idealizza (quelli come Veltroni per intenderci) la corruzione e gli intrecci con la criminalità organizzata erano cose normali e banali, su ciò vedi il documentatissimo libro di R. FAENZA, Il malaffare, Mondadori, Milano, 1978.

119 Vedi retro paragrafo 2.

120 Vedi M. WEBER, Economia e società, I, Comunità, Milano, 1968, 2ª ed. , p. 334.

121 Ibidem.

122 Vedi G. GALLI, op.ult.cit.

123 Su ciò vedi A. NEVINS, H.S. COMMANGER, Storia cit., p. 194.

124 Vedi su ciò H. M. ENZENSBERGER, Politica e gangsterismo, Savelli, Roma, 1979, pp. 119 e sgg.

125 Il PCI si scatenò contro i sostenitore del referendum del ’78 accusandoli di connivenza con i neo-fascisti, che semplicemente cavalcarono lo scontento popolare, che si esprimeva in una iniziativa che era un cavallo di battaglia dei radicali. Il malcontento popolare tuttavia, era un dato reale e larga parte dell’elettorato dei partiti al potere votò per un’iniziativa che riteneva giusta e che non molti anni dopo venne riproposta e passò con maggioranze bulgare e con il sostegno dello stesso PDS erede del PCI. Emerse in quel caso (referendum del ’78) l’abitudine del PCI di insultare chiunque mettesse in campo iniziative che lo ponevano in imbarazzo e che veniva accusato di essere di volta in volta strumentalizzato dai neofascisti, provocatore, fiancheggiatore delle BR e così via insultando; abitudine vergognosa e disgustosa che non ha salvato il PCI da una fine ingloriosa quanto meritata.

126 Un fiore che è stato citato e riproposto varie volte ad esempio da Sabina Guzzanti in “Viva Zapatero”. Come si vede rasentiamo quasi la dichiarazione d’amore nei confronti di Berlusconi, il che ci dà la misura di quanto sia pezzente la nostra sinistra o presunta tale.

127 Peraltro dai diari di Ciampi, che egli ha ceduto ad un giornalista perché li commentasse e li illustrasse, risulta che nel periodo 2001-2006 vi furono notevoli conflitti con Berlusconi, che interferiva moltissimo nel campo della politica estera tentando di esautorare il ministro Ruggiero, arrivato lì con la benedizione di Gianni Agnelli e di Kissinger; come è noto la cosa finì con le dimissioni di Ruggiero che venne sostituito con un lungo interim dallo stesso Berlusconi che si appiattì sulle posizioni di politica estera del suo caro amico G.W. Bush, v. U. GENTILONI SILVERI, Contro scettici e disfattisti, Laterza, Roma-Bari, 2013, pp. 160 e sgg. Non sembra proprio che B. fosse così a corto di poteri come si lamenta.

128 Si ricordi che all’inizio degli anni ’80 alcuni pretori “indisponenti” oscurarono le televisioni del nostro, ma Craxi, allora presidente del Consiglio, intervenne con un D.L. che regolarizzò la posizione di Berlusconi, risolvendogli il problema.

129 Vedi E. SCALAFARI, Un incubo di meno, in “La Repubblica”, 31.3.2013, pp. 1 e 27, a p. 27.

130 Su ciò vedi A. CARLO, Capitalismo 2010, par. 4, lett. C).

131 Vedi N. PENELOPE¸ Soldi rubati. Salani, Milano, 2011.

132 Vedi S. FASSINA, Il lavoro prima di tutto, Donzelli, Roma, 2012, p. 18

133 Vedi infra, par. 8.

134 S. FASSINA, op. cit., p. 48.

135 Vedi S. CESARATTO, L’agenda che non c’è, note sul programma economico del centrosinistra , in “MicroMega”, n. 2, 2013, pp. 117 e sgg.

136 Vedi A. CARLO , Capitalismo 2011 cit., par. 4.

137 Su ciò v. A. CARLO, La putrescenza cit., par. 6.

138 Su ciò v. idibem.

139 Su ciò v. M. PASSARELLA, L’agenda Monti ai raggi X, in “MicroMega”, n. 2, 2013, pp. 128
e sgg.

140 Vedi V. GIACCHE’, Grillonomics, ivi, pp. 107 e sgg.

141 Nell’ormai lontanissimo 1976 una rivista (“La biblioteca della libertà”) pubblicò un numero monografico sui programmi dei partiti per le drammatiche elezioni del 1976 e dette al numero il titolo “le scatole vuote”. Anche “MicroMega” nella sua puntuale rassegna sui programmi dei partiti per le elezioni del 2013, avrebbe potuto usare lo stesso titolo.

142 Fonte Dipartimento del Commercio Americano ed Eurostat.

143 Vedi infra nel testo.

144 Le fonti ovviamente sono l’OCSE e FMI. Si noti che a inizio settembre FMI ha diramato le sue previsioni per il 2013-2014. Nel 2013 dovremmo crescere a livello mondiale del 2,9%, contro una crescita superiore al 5% del 2010. Per il 2014 si prevede una lieve accelerazione senza escludere la possibilità di stime al ribasso che sembrano quanto mai probabili.

145 Sugli USA v. F. RAMPINI, E’ tornata l’America del lavoro, Wall Street record trascina le borse, in “La Repubblica”, 4-5-13, p. 15. Come spesso accade il contenuto dell’articolo è assai meno trionfalistico del titolo. Quanto all’Italia nel corso del 2013 la situazione è ulteriormente peggiorata: luglio 2013 disoccupazione 12% , tasso di attività 55,8% (ISTAT).

146 Vedi A. CARLO, La putrescenza cit., par. 3 dove cito i dati del Nobel Krugman.

147 Vedi retro par. 2.

148 Vedi L. GALLINO, I debiti della Germania e l’austerità della Merkel , in “La Repubblica”, 22.8.13 , p. 2.

149 Vedi V. da ROLD, Ocse: PIL italiano a -1,8% nel 2013, ne “Il Sole 24 ore”, 4.9.13, p. 4.

150 Vedi infra nel testo.

151 Vedi infra nel testo.

152 Vedi su ciò A. CARLO, Capitalismo 2009 cit., par. 2, lett. F).

153 Vedi K. MARX, Discorso sulla questione del libero scambio, in appendice a K. MARX, Miseria della filosofia, Samonà e Savelli, Roma, 1968, pp. 243 e sgg.

154 Vedi retro testo e nota 2.

155 Vedi E. OCCORSIO, “Non facciamoci troppe illusioni. L’Europa è ferma e i Bric frenano”, in
“La Repubblica”, 1.8.13, p. 10, ove intervista al prof. Roubini.

156 Alludo al fatto ben noto che le imprese (ma ciò accade anche alle famiglie) a causa del ristagno
della domanda non rinnovano le scorte se non quando gli scaffali sono vuoti, si ha allora una
ripresa degli acquisti del tutto momentanea e congiunturale che si affloscia subito dopo.

157 L’anno scorso il Centro studi della Confindustria pubblicò una ricerca che valutava il tasso di
inutilizzo degli impianti nell’Eurozona equivalente ad una perdita del 2,6% del PIL, ovviamente
tale perdita non è considerata nelle ormai criticatissime stime del PIL stesso.

158 Vedi A. CARLO, Crisi del lavoro e tramonto del capitalismo, in www.crisieconflitti.it , 2005,
par. 2.

159 Il prof. Krugman osserva che per tornare ai livelli pre-crisi occorrerebbe un incremento di 300.000 posti al mese, per cui conclude amaramente: “La piena ripresa appare tuttora molto di là da venire. E, per quanto mi riguarda, torno a temere che possa non venire. Vedi P. KRUGMAN, Lo stimolo della ripresa, in “La Repubblica” , 11.7.13, p. 27.

160 Vedi su ciò Disoccupazione USA al 7,4% minimo da 4 anni, in “La Repubblica”, 3.8.13, p. 23, articolo anonimo. La vastità del fenomeno della disoccupazione (reale o ufficiale) e della sottoccupazione spiega perché dal 2007 sia esploso il fenomeno dei buono pasto pari a 4,45 dollari a persona e al giorno, che sono coperti dal governo USA per sfamare chi non ha nulla: il loro numero passa da 26 milioni a 48 milioni di assistiti dal 2007 all’estate 2013 (v. P. KRUGMAN, Gli americani liberi ma di morire di fame, in “La Repubblica”, 24.9.13, p. 39). Si noti che in India il governo ha varato un piano di assistenza alimentare per 800 milioni di persone (il 67% della popolazione) con un costo di 20 miliardi di dollari (v. R. BULTRINI, Il giovane guru della finanza al capezzale della rupia in crisi, ivi, 5.9.13, p. 31), epperò l’India è un paese con un PIL procapite tra i 1000 e i 2000 dollari contro i 50.000 degli USA , paese che raccoglie tra 1/5 e 1/4 del PIL mondiale, col 5% circa della popolazione. Ciò posto il 15% della popolazione USA assistita (48 milioni sono tanto) fa più impressione del 67% degli assistiti indiani, e l’India sarebbe per alcuni il nuovo colosso economico.

161 Vi ho accennato varie volte negli articoli citati alla nota 1, qui mi limiterò a ricordare che qualche anno fa fu abbandonato il progetto faraonico ed odioso di una “cortina di ferro” al confine tra USA e Messico con lo scopo di bloccare l’immigrazione clandestina. La “nuova grande muraglia” si fermò verso l’ottantesimo miglio, non c’era più un dollaro.

162 Vedi A. ZAMPAGLIONE, Sanità, voli, parchi, difesa, gli USA sono a rischio paralisi, in “La Repubblica”, 25.2.13, p. 13, la manovra consiste in 85 miliardi di dollari di tagli che colpiranno gli stipendi di 800.000 dipendenti del Pentagono fino alle spese per i parchi nazionali e per i controlli igienici sulla carne.

163 Mentre concludo questo articolo la situazione della finanza pubblica americana si è drammatizzata; il 30 settembre 2013 non si è raggiunto l’accordo per il bilancio federale ed è stato necessario ricorrere allo shutdown cioè al taglio di tutte le spese pubbliche considerate inessenziali, pertanto 800.000 dipendenti civili federali corrono il rischio di rimanere a casa senza stipendio, chiusi i musei, i parchi e sinanche la statua della libertà, mentre l’Istituto Nazionale Americano per la Salute ha dovuto sospendere le cure oncologiche sperimentali per 30 bambini e 200 adulti , cosa che potrebbe significare per loro una condanna a morte. Si badi che non siamo ancora al default che si avrà di qui a un paio di settimane se non si raggiungerà un accordo con i repubblicani moderati del congresso al fine di alzare il tetto del debito federale.

164 Vedi su ciò A. CARLO, Capitalismo 2009, par. 3, lett. E)

165 Vedi M. LONGO, Buffet “la Fed è un’enorme hedge fund”, ne “Il Sole 24 ore”, 21.9.13, p. 8.

166 Vedi lavoro citato alla nota 164.

167 Vedi Televideo Rai, 4.4.13, p. 827.

168 Ivi, 21.5.13, p. 135; per una tabella riassuntiva dell’evasione fiscale in Europa e nel mondo vedi F. RAMPINI, G8 oggi il vertice sul lavoro e Siria, spiati i leader, in “La Repubblica” 17.6.13, p. 3 ove pubblicati i dati del Tax Justice Network cui abbiamo accennato pocanzi.

169 Dati come questi non meravigliano più, negli ultimi 40-45 anni ne ho trovati di simili a iosa e sempre in crescita, si noti poi che questi colossi realizzano qualcosa come 1/6 del PIL mondiale con 32 milioni di addetti e cioè lo 0,1-0,2% della occupazione mondiale.

170 Vedi P. ROMANO, Europa, la Tobin tax verso il rinvio, ne “Il Sole 24 ore”, 26.6.13, p. 25; W. RIOLFI, Una tassa fallita prima di nascere, ibidem.

171 E’ sintomatico che il programma per l’occupazione giovanile preveda 3 miliardi da spendere entro il 2015 per tutti i paesi della UE, un miliardo e mezzo l’anno che diviso tra i componenti dell’unione è una cifra irrisoria.

172 L’unico organo di informazione che ha pubblicato la tabella che segue all’inizio del 2013 è “Il Sole 24 ore”, giornale della nostra Confindustria, che a volte è assai meno perbenista e conformista di altri giornali che si vorrebbero espressione della borghesia illuminata e che hanno taciuto su questo punto.
173 Su ciò vedi retro par. 5.

174 Vedi E. OCCORSIO, “Basta con i sacrifici, si allenti il rigore, la UE dia più tempo a tutti i paesi”, ne “La Repubblica”, 25.4.13, p. 12, ove intervista a Padoan. C’è da chiedersi perché tanti governi perseguano una politica così palesemente ottusa, e la risposta è facile: non sanno che altro fare e continuano a praticare una politica di galleggiamento senza prospettive , anche perché è più facile prendersela con lavoratori e pensionati piuttosto che con le IM.

175 Fonte FMI e OCSE.

176 Vedi G. VISETTI, Dal PIL in frenata alle banche ombra, a Pechino il tramonto dell’età dell’oro”, in “La Repubblica”, 26.6.13, p. 20.

177 Qualche mese fa in una intervista a RaiNews 24 il prof. D. Salvatore osservò che una crescita dell’1% in Germania o in USA equivaleva ad un 5-6% cinese.

178 Vedi M. WOLF, Per Pechino una strada accidentata, ne “Il Sole 24 ore” , 3.4.13, p. 11.

179 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2010 cit., par. 1.

180 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2011 cit., par. 5.

181 Vedi i miei articoli pubblicati negli ultimi anni e citati alla nota 1.

182 Vedi F. RAMPINI, Ora tremano India e Brasile, capitali in fuga, in “La Repubblica”, 21.8.13, p. 23.

183 Vedi il lavoro citato alla nota 180 dove riporto i dati del prof. Roubini.

184 Vedi P. D’EMILIA, Non dubitate dell’Abenomics, ne “L’Espresso”, 4.6.13, pp. 106 e sgg, dove
intervista al prof. J. Sachs

185 E’ il limite di tutte le politiche fondate sul binomio esportazione-svalutazione, finchè il mercato
internazionale tira possono funzionare ma se il mercato ristagna i nodi vengono al pettine.

186 Vedi P. D’EMILIA, op.cit., p. 107.

187 Ivi, p. 108.

◆ El que busca, encuentra...

Todo lo sólido se desvanece en el aire; todo lo sagrado es profano, y los hombres, al fin, se ven forzados a considerar serenamente sus condiciones de existencia y sus relaciones recíprocasKarl Marx

Not@s sobre Marx, marxismo, socialismo y la Revolución 2.0

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Pierre-Yves Quiviger: Marx ou l'élimination des inégalités par la révolution — Le Point
Hernán Ouviña: Indigenizar el marxismo — La Tinta
Emmanuel Laurentin: Les historiens américains et Karl Marx — France Culture
Adèle Van Reeth: Le Capital de Karl Marx: La fabrique de la plus-value — France Culture
Manuel Martínez Llaneza: Reproches a Marx acerca de El Capital (Bajo la égida de Friedrich Engels) — Rebelión
Victoria Herrera: Marx y la historia — Buzos
Alejandro F. Gutiérrez Carmona: La vigencia del pensamiento marxista — Alianza Tex
Víctor Arrogante: El Capital y las aspiraciones de la clase trabajadora — Nueva Tribuna
Mauricio Mejía: Karl Marx, el poeta de la mercancía — El Financiero
Emmanuel Laurentin: Karl Marx à Paris: 1843-1845 — France Culture
Jacinto Valdés-Dapena Vivanco: La teoría marxista del Che Guevara — Bohemia
Aldo Casas: El marxismo como herramienta para la lucha — La necesidad de la formación en la militancia — La Tinta
Evald Vasiliévich Iliénkov: La dialéctica de lo abstracto y lo concreto en El Capital de Marx — Templando el Acero
Vincent Présumey: Suivi des écrits de Karl Marx / 1837-1848 - Part I, Part II, Part III & Part IV — Mediapart
Roman Rosdolky: Marx ésotérique et Marx exotérique — Palim Psao
Lepotier: Marx, Marxisme, Cui bono? — Bella Ciao
Andrea Vitale: La critica di Pareto a Marx: una abborracciatura — Operai e Teoria
Annelie Buntenbach: Marx provides us with a glimpse behind the scenes of capitalism — Marx 200
Antoni Puig Solé: La Ley del Valor y la ecología en Marx — Lo que somos
Vladimiro Giacché: Note sui significati di "Libertà" nei Lineamenti di Filosofia del Diritto di Hegel — Il Comunista
Salvador López Arnal: Manuel Sacristán (1925-1985) como renovador de las tradiciones emancipatorias — Rebelión
Paúl Ravelo Cabrera: Marx, Derrida, el Gesto Político y la supercapitalización mundial — Scribb
Dino Greco: In difesa del marxismo — Sollevazione
Alberto Quiñónez: Arte, praxis y materialismo histórico — Rebelión
Josefina L. Martínez: Feminismo & Socialismo marxista - Eleanor Marx, la cuestión de la mujer y el socialismo — Rebelión
John Bellamy Foster: Marx y la fractura en el metabolismo universal de la naturaleza — Scribb
José Manuel Bermudo Ávila: Concepto de Praxis en el joven Marx — Scribb
Carlos Oliva Mendoza: Adolfo Sánchez Vázquez: ¿marxismo radical o crítica romántica? — InfoLibre
Bernardo Coronel: ¿El marxismo es una ciencia? — La Haine
Sylvain Rakotoarison: Le capitalisme selon Karl Marx — Agora Vox

— Notas y comentarios sobre El Capital
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Horacio Tarcus: Traductores y editores de la “Biblia del Proletariado” - Parte I & Parte II — Memoria
Emmanuel Laurentin: Le Capital, toujours utile pour penser la question économique et sociale? — France Culture
J.M. González Lara: 150 años de El Capital — Vanguardia
Roberto Giardina: Il Capitale di Marx ha 150 anni — Italia Oggi
Alejandro Cifuentes: El Capital de Marx en el siglo XXI — Voz
Marcela Gutiérrez Bobadilla: El Capital, de Karl Marx, celebra 150 años de su edición en Londres — Notimex
Mario Robles Roberto Escorcia Romo: Algunas reflexiones sobre la vigencia e importancia del Tomo I de El Capital — Memoria
Antoni Puig Solé: El Capital de Marx celebra su 150° aniversario — Lo que Somos
Jorge Vilches: El Capital: el libro de nunca acabar — La Razón
Carla de Mello: A 150 años de El Capital, la monumental obra de Karl Marx — Juventud Socialista del Uruguay
Rodolfo Bueno: El Capital cumple 150 años — Rebelión
Diego Guerrero: El Capital de Marx y el capitalismo actual: 150 años más cerca — Público
José Sarrión Andaluz & Salvador López Arnal: Primera edición de El Capital de Karl Marx, la obra de una vida — Rebelión
Sebastián Zarricueta: El Capital de Karl Marx: 150 años — 80°
Marcello Musto: La durezza del 'Capitale' — Il Manifesto
Esteban Mercatante: El valor de El Capital de Karl Marx en el siglo XXI — Izquierda Diario
Michael Roberts: La desigualdad a 150 años de El Capital de Karl Marx — Izquierda Diario
Ricardo Bada: El Capital en sus 150 años — Nexos
Christoph Driessen: ¿Tenía Marx razón? Se cumplen 150 años de edición de El Capital — El Mundo
Juan Losa: La profecía de Marx cumple 150 años — Público
John Saldarriaga: El Capital, 150 años en el estante — El Colombiano
Katia Schaer: Il y a 150 ans, Karl Marx publiait ‘Le Capital’, écrit majeur du 20e siècle — RTS Culture
Manuel Bello Hernández: El Capital de Karl Marx, cumple 150 años de su primera edición — NotiMex
Ismaël Dupont: Marx et Engels: les vies extravagantes et chagrines des deux théoriciens du communisme! — Le Chiffon Rouge
Jérôme Skalski: Lire Le Capital, un appel au possible du XXIe siècle - L’Humanité
Sebastiano Isaia: Il Capitale secondo Vilfredo Pareto — Nostromo

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Samuel Jaramillo: De nuevo Marx, pero un Marx Nuevo — Universidad Externado de Colombia
Sergio Abraham Méndez Moissen: Karl Marx: El capítulo XXIV de El Capital y el “descubrimiento” de América — La Izquierda Diario
Joseph Daher: El marxismo, la primavera árabe y el fundamentalismo islámico — Viento Sur
Francisco Jaime: Marxismo: ¿salvación a través de la revolución? — El Siglo de Torreón
Michel Husson: Marx, Piketty et Aghion sur la productivité — A l’encontre
Guido Fernández Parmo: El día que Marx vio The Matrix — Unión de Trabajadores de Prensa de Buenos Aires
Cest: Karl Marx y sus "Cuadernos de París" toman vida con ilustraciones de Maguma — El Periódico
Leopoldo Moscoso: 'Das Kapital': reloading... — Público
Laura "Xiwe" Santillan: La lucha mapuche, la autodeterminación y el marxismo — La Izquierda Diario
José de María Romero Barea: Hölderlin ha leído a Marx y no lo olvida — Revista de Letras
Ismaël Dupont: Marx et Engels: les vies extravagantes et chagrines des deux théoriciens du communisme! — Le Chiffon Rouge Morlai
Francisco Cabrillo: Cómo Marx cambió el curso de la historia — Expansión
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Marc Sala: El capitalismo se come al bar donde Marx y Engels debatían sobre comunismo — El Español

— Notas sobre debates, entrevistas y eventos
Fabrizio Mejía Madrid: Conmemoran aniversario de la muerte de Lenin en Rusia — Proceso
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Debate entre Andrew Kliman & Fred Moseley — Tiempos Críticos
David McNally & Sue Ferguson: “Social Reproduction Beyond Intersectionality: An Interview” — Marxismo Crítico
Gustavo Hernández Sánchez: “Edward Palmer Thompson es un autor que sí supo dar un giro copernicano a los estudios marxistas” — Rebelión
Alberto Maldonado: Michael Heinrich en Bogotá: El Capital de Marx es el misil más terrible lanzado contra la burguesía — Palabras al Margen
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Entrevista con István Mészáros realizada por la revista persa Naghd’ (Kritik), el 02-06-1998: “Para ir Más allá del Capital” — Marxismo Crítico
Rosa Nassif: “El Che no fue solo un hombre de acción sino un gran teórico marxista” Agencia de Informaciones Mercosur AIM
Entrevista a Juan Geymonat: Por un marxismo sin citas a Marx — Hemisferio Izquierdo
Juliana Gonçalves: "El Capital no es una biblia ni un libro de recetas", dice José Paulo Netto [Português ] — Brasil de Fato
Entrevista a Michael Heinrich: El Capital: una obra colosal “para desenmascarar un sistema completo de falsas percepciones” — Viento Sur
Alejandro Katz & Mariano Schuster: Marx ha vuelto: 150 años de El Capital. Entrevista a Horacio Tarcus — La Vanguardia
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Jorge L. Acanda: "Hace falta una lectura de Marx que hunda raíces en las fuentes originarias del pensamiento de Marx" — La Linea de Fuego

— Notas sobre Lenin y la Revolución de Octubre
Guillermo Almeyra: Qué fue la Revolución Rusa — La Jornada
Jorge Figueroa: Dos revoluciones que cambiaron el mundo y el arte — La Gaceta
Gilberto López y Rivas: La revolución socialista de 1917 y la cuestión nacional y colonial — La Jornada
Aldo Agosti: Repensar la Revolución Rusa — Memoria
Toni Negri: Lenin: Dalla teoria alla pratica — Euronomade
Entretien avec Tariq Ali: L’héritage de Vladimir Lénine — Contretemps
Andrea Catone: La Rivoluzione d’Ottobre e il Movimento Socialista Mondiale in una prospettiva storica — Marx XXI
Michael Löwy: De la Revolución de Octubre al Ecocomunismo del Siglo XXI — Herramienta
Serge Halimi: Il secolo di Lenin — Rifondazione Comunista
Víctor Arrogante: La Gran Revolución de octubre — El Plural
Luis Bilbao: El mundo a un siglo de la Revolución de Octubre — Rebelión
Samir Amin: La Revolución de Octubre cien años después — El Viejo Topo
Luis Fernando Valdés-López: Revolución rusa, 100 años después — Portaluz
Ester Kandel: El centenario de la Revolución de octubre — Kaos en la Red
Daniel Gaido: Come fare la rivoluzione senza prendere il potere...a luglio — PalermoGrad
Eugenio del Río: Repensando la experiencia soviética — Ctxt
Pablo Stancanelli: Presentación el Atlas de la Revolución rusa - Pan, paz, tierra... libertad — Le Monde Diplomatique
Gabriel Quirici: La Revolución Rusa desafió a la izquierda, al marxismo y al capitalismo [Audio] — Del Sol

— Notas sobre la película “El joven Karl Marx”, del cineasta haitiano Raoul Peck
Eduardo Mackenzie:"Le jeune Karl Marx ", le film le plus récent du réalisateur Raoul Peck vient de sortir en France — Dreuz
Minou Petrovski: Pourquoi Raoul Peck, cinéaste haïtien, s’intéresse-t-il à la jeunesse de Karl Marx en 2017? — HuffPost
Antônio Lima Jûnior: [Resenha] O jovem Karl Marx – Raoul Peck (2017) — Fundaçâo Dinarco Reis
La película "El joven Karl Marx" llegará a los cines en el 2017 — Amistad Hispano-Soviética
Boris Lefebvre: "Le jeune Karl Marx": de la rencontre avec Engels au Manifeste — Révolution Pernamente

— Notas sobre el maestro István Mészáros, recientemente fallecido
Matteo Bifone: Oltre Il Capitale. Verso una teoria della transizione, a cura di R. Mapelli — Materialismo Storico
Gabriel Vargas Lozano, Hillel Ticktin: István Mészáros: pensar la alienación y la crisis del capitalismo — SinPermiso
Carmen Bohórquez: István Mészáros, ahora y siempre — Red 58
István Mészáros: Reflexiones sobre la Nueva Internacional — Rebelión
Ricardo Antunes: Sobre "Más allá del capital", de István Mészáros — Herramienta
Francisco Farina: Hasta la Victoria: István Mészáros — Marcha
István Mészáros in memoriam : Capitalism and Ecological Destruction — Climate & Capitalism.us