25/7/17

El oficio del periodista en Karl Marx y Vladimir Lenin

Natalia N. L. Brezina

Karl Marx & Vladimir Lenin
© Vito Potenza
El periodismo ahora devenido en una carrera terciaria o universitaria se caracterizó por ser un oficio donde sus profesionales se formaban en la práctica misma, en la vorágine de la información y en la necesidad de crearse una base cultural que se fomentaba en el mismo trabajo del día a día.

La lectura era una adicción laboral. Los autodidactas suelen ser ávidos y rápidos, y los de aquellos tiempos lo fuimos de sobra para seguir abriéndole paso en la vida al mejor oficio del mundo… como nosotros mismos lo llamábamos. (…) La creación posterior de las escuelas de periodismo fue una reacción escolástica contra el hecho cumplido de que el oficio carecía de respaldo académico. (…) las empresas se han empeñado a fondo en la competencia feroz de la modernización material y han dejado para después la formación de su infantería (…) La deshumanización es galopante.”, así describía el oficio del periodista, Gabriel García Márquez en la 52° asamblea de la Sociedad Interamericana de Prensa, SIP, en Los Ángeles, U.S.A., octubre 7 de 1996.

Karl Marx y Vladimir Lenin también signaron un precedente en materia de periodismo: el estilo panfletario que denunciaba la desigualdad social y exponía los intereses de la burguesía. La clase dominante cuenta no sólo con el Estado como herramienta de dominación que ante un conflicto falla a favor de sus intereses, ya sea por cooptación o a través de su aparato represivo, sino que además también es poseedora en muchos casos de los medios de comunicación que se forjan para mantener su discurso como hegemónico. De aquí la importancia en –como lo hicieron Marx y Lenin- en desarrollar un estilo panfletario, contestatario, y que se articule en un conjunto de tácticas que respondan a una estrategia conjunta que represente la lucha de los oprimidos.

14/7/17

Introduzione al "Capitale"

Karl Korsch

I. Come l’opera di Platone sullo Stato, il libro di Machiavelli sul Principe, il Contratto sociale di Rousseau, anche l’opera di Marx, Il capitale deve la sua grande e duratura efficacia al fatto che ad una svolta storica ha colto ed espresso in tutta la sua pienezza e profondità il nuovo principio irrompente nell’antica configurazione del mondo. Tutti i problemi economici, politici e sociali, attorno ai quali si muove teoricamente l’analisi marxiana del Capitale, sono oggi problemi pratici che muovono il mondo e intorno ai quali viene condotta in tutti i paesi la lotta reale delle grandi potenze sociali, gli Stati e le classi. Per aver compreso a tempo che questi problemi costituivano la problematica determinante per la svolta mondiale allora imminente, Karl Marx si è rivelato ai posteri come il grande spirito preveggente del suo tempo. Ma neppure come massimo spirito del suo tempo egli avrebbe potuto cogliere teoricamente questi problemi e incorporarli nella sua opera, se essi non fossero già stati nello stesso tempo posti in qualche modo anche nella realtà di allora, come problemi reali. Il destino singolare di questo tedesco del Quarantotto fece sì che egli, scagliato fuori dalla sua sfera d’azione pratica dai governi assoluti e repubblicani d’Europa, grazie a questo tempestivo allontanamento dalla retriva e limitata situazione tedesca, venisse inserito proprio nel suo autentico peculiare spazio storico d’azione. Proprio in seguito a questi molteplici spostamenti violenti del suo campo d’attività, prima e dopo la fallita rivoluzione tedesca del 1848, l’allora appena trentenne pensatore e ricercatore Marx, che attraverso la discussione teorica della filosofia hegeliana aveva già elaborato un sapere vasto e profondo di respiro mondiale in forma filosofica prettamente tedesca, nei suoi due periodi successivi di emigrazione, prima in Francia e in Belgio, poi in Inghilterra, poté entrare nel rapporto più diretto, pratico e teorico, anche con le due nuove forme del mondo di allora più gravide di conseguenze per il futuro. Queste erano, da un lato, il socialismo e comunismo francese, che al di là delle conquiste della grande rivoluzione borghese giacobina spingevano verso nuove mete proletarie; dall’altro, la forma avanzata della moderna produzione capitalistica, e dei rapporti di produzione e di scambio corrispondenti, nata in Inghilterra dalla rivoluzione industriale degli anni 1770 - 1830.

12/7/17

El idealismo moral revolucionario inherente al materialismo práctico de Karl Marx

Karl Marx ✆ David Levine
Miguel Candioti
1. Un nuevo enfoque: la distinción entre materialismo práctico y materialismo histórico
Nuestro estudio de la obra de Marx nos ha llevado a la conclusión de que, para una adecuada comprensión de sus ideas, es necesario ser capaz de distinguir básicamente entre dos marcos teóricos generales que han llegado a coexistir en su pensamiento: el materialismo práctico y el materialismo histórico. El primero, que es también el más antiguo, resulta de una traducción social de las críticas feuerbachianas de la enajenación religiosa y filosófico-especulativa; es el enfoque predominante en la etapa que va desde su Crítica de la filosofía del derecho de Hegel (1843) hasta las llamadas Tesis sobre Feuerbach (1845) inclusive. El segundo, que prevalece a partir de La ideología alemana (1845-46) y recibe su más famosa formulación en el prefacio de la Contribución a la crítica de la economía política (1859), es el producto de una transposición a la economía del concepto hegeliano del desarrollo histórico, y pretende subsumir al materialismo práctico bajo leyes generales del movimiento social 1 .

Si el presupuesto básico de la moral y de la ética normativa es algún tipo de diferenciación entre “ser” y “deber ser”2 , entonces quizás hay que descartar desde el inicio que el llamado materialismo histórico 3 suponga alguna relación constitutiva con aquéllas. Porque esta teoría se encuentra fuertemente inspirada por la noción hegeliana de que «lo que es racional es real y lo que es real es racional»4 o, dicho de otro modo, que sólo es lo que debe ser, y viceversa. Según esta perspectiva, resulta completamente vano y “utópico” enfrentar a la realidad social con un ideal de transformación; se trata más bien de descubrir, describir y suscribir las transformaciones que “de hecho” se están dando ya en esa realidad, las cuales siempre se corresponden con lo que “racionalmente” debe ser. Un conocido pasaje de La ideología alemana reza así:

Teoria del valore

Karl Marx ✆ J. Bauwens 

Giorgio Lunghini & Fabio Ranchetti

Introduzione
Per 'teoria del valore' si possono intendere due cose distinte: la determinazione quantitativa dei rapporti secondo cui le merci vengono scambiate sul mercato, cioè dei loro prezzi relativi; oppure la ricerca dell'origine del valore delle merci, dunque l'indagine circa il fondamento stesso, l'oggetto e il metodo del discorso economico. Circa la sostanza che conferisce valore alle merci, le due spiegazioni rivali possono essere definite l'una 'oggettiva', l'altra 'soggettiva'. La prima riconduce il valore delle merci al lavoro che direttamente o indirettamente è stato impiegato per produrle: essa sarebbe oggettiva in quanto il lavoro impiegato per produrre una merce dipende dalle tecniche di produzione adottate, e queste in ogni dato momento sono date. La seconda spiegazione del valore delle merci nega che questo dipenda da loro proprietà intrinseche: il valore delle merci dipenderebbe dall'apprezzamento, da parte dei singoli soggetti, dell'attitudine dei beni economici a soddisfare i bisogni.
La teoria del valore utilità intende spiegare i prezzi delle merci a partire da quanto appare sul mercato; la teoria del valore lavoro, a partire da quanto avviene nella sfera della produzione. Le due teorie sottendono una diversa visione del mondo, per quanto riguarda lo scopo della produzione. La teoria del valore utilità assume che scopo della produzione sia la produzione di valori d'uso, il soddisfacimento dei bisogni dei consumatori. La teoria del valore lavoro assume invece che scopo della produzione sia la produzione di valori di scambio, in vista della realizzazione di un profitto. La teoria del valore lavoro e la teoria del valore utilità sono dunque contrapposte nelle premesse e nelle conclusioni; se però si concepisce il sistema capitalistico come un sistema storicamente determinato, esse hanno una implicazione comune.

10/7/17

Ciò che ha veramente detto l’‘ultimo Engels’

Friedrich Engels ✆ Fidia 
Eros Barone

1. L’‘ultimo Engels’: problemi di periodizzazione
Per definire correttamente il modo con cui l’ultimo Engels affronta sia il problema dello Stato che il problema della elaborazione di una strategia del movimento operaio per la conquista del potere è necessario, in primo luogo, risolvere, oltre alle difficoltà che sono proprie di uno studio rigoroso del pensiero dei fondatori del socialismo scientifico, una difficoltà specifica, consistente nel determinare in modo esatto l’argomento che si intende trattare, cioè, nel nostro caso, l’“ultimo Engels”. Così, l’esigenza di circoscrivere tale argomento può portarci, in prima istanza, ad estendere o a contrarre le frontiere cronologiche dell’indagine in funzione di criteri, che possono tutti risultare degni di interesse, senza però che nessuno di essi risulti pienamente soddisfacente. Se, ad esempio, si prende il 1890 come confine, abbiamo, ad un tempo, l’inizio di un decennio e il punto di partenza degli ultimi cinque anni della vita di Engels, in cui si còllocano almeno tre opere di capitale importanza: assieme alla Critica del programma di Erfurt (1891), l’Introduzione alla Guerra civile in Francia (1891) e l’Introduzione alle Lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 (1895), cioè due scritti con cui Engels non si limita a presentare le analisi socio-politiche di Marx, ma ne mette in rilievo il valore teorico e ne applica il metodo alla congiuntura specifica di quegli anni1 . Il limite di questa periodizzazione risiede tuttavia nel separare le opere testé citate da altri scritti che, per quanto anteriori, sono strettamente connessi a quelle opere dall’identità del tema, come la famosa Lettera a Bebel del 1875, da cui non si può prescindere se si intende svolgere un serio esame del pensiero di Engels sul problema dello Stato2.

¿“El Capital” solo para los días de fiesta?

Original de El Capital, que se encuentra en la casa-museo de Karl Marx
en Tréveris, Alemania
 
Rolando Astarita

En el Programa de Transición Trotsky dijo que la socialdemocracia solo hablaba del socialismo en los días de fiesta. Aunque seguramente se refería al ala derecha de la Segunda Internacional -¿alguien puede decir que Rosa Luxemburgo, Lenin o Liebknecht hablaban de socialismo solo los días de fiesta?-, la frase hoy se aplica a partidos políticos que se llaman a sí mismos socialistas, pero solo hablan de las cuestiones fundamentales del socialismo en los Primero de mayo. Pues bien, a la vista de las reacciones que ha provocado mi último post –“La lucha por las ocho horas de trabajo y la tradición socialista”, aquí– debería agregar que también existen los defensores de “El Capital para los días de fiesta”. En otros términos, el texto de Marx sería apropiado para los aniversarios (como fue por estos días la conmemoración de los 150 años de su primera edición), pero no para la lucha política e ideológica cotidiana.

Para ver por qué, recordemos lo que dije en ese post. Afirmé que el socialismo, orientado por Marx o Engels, consideraba que la lucha por la reducción de la jornada de trabajo era una importante consigna reformista, destinada a mejorar las condiciones de la clase obrera en su lucha por el socialismo. Aclaré que, sin embargo, no la consideraban una panacea, a diferencia de lo que hacían los reformistas. Dije también que Marx o Engels jamás sugirieron que reduciendo la jornada de trabajo pudiera acabarse la desocupación. Y expliqué que el desempleo se recrea en el capitalismo por dos vías principales, la introducción de la máquina, y las crisis periódicas.

Palimpsestos: El Estado en el Manifiesto Comunista

Palimpsesto. Del lat. palimpsestus, y este del gr. παλίμψηστος palimpsestos. 1...m. Manuscrito antiguo que conserva huellas de una escritura anterior borrada artificialmente. DRAE (1)

Karl Marx ✆ Roberto de Vicq de Cumptich
Ariel Mayo

La relectura de un clásico produce una sensación extraña: cada vez que volvemos al texto nos encontramos con un libro “distinto” al que conocimos la vez anterior. Las frases, cuyo sentido creíamos haber fijado de una vez y para siempre, se transforman ante nuestros ojos, convirtiéndose en algo diferente a la forma que encontramos la primera vez. El misterio de esta particularidad se disipa (o cobra nuevo significado) cuando se piensa que la metamorfosis del sentido de las frases es una expresión más de la complejidad de la realidad y del esfuerzo realizado por el autor para asir la complejidad mediante ese torpe instrumento que es el lenguaje. Un texto clásico es así un palimpsesto interminable, que oculta múltiples escrituras detrás de una superficie árida o sencilla. Ninguna de esas escrituras, de esos textos dentro de otro texto, es la definitiva. Así como el mundo es una totalidad inabarcable, pero que estamos obligados a conocer, cada texto clásico es un reflejo de esa totalidad y, como todo reflejo, padece las limitaciones de la copia. Nosotros, que pretendemos comprender el mundo como totalidad, encontramos en esas copias lo que buscamos (o creemos buscar) en un momento determinado de nuestra búsqueda. Por eso leemos palimpsestos, porque el conocimiento huye de lo definitivo.

Afirmar que el Manifiesto del partido comunista (1848) es un clásico no requiere de ninguna fundamentación. Escrito por Karl Marx (1818-1883) y Friedrich Engels (1820-1895) para dar a conocer los fundamentos de la concepción política y el programa de la Liga de los Comunistas, tuvo un destino singular. Publicado poco antes del estallido de las revoluciones europeas conocidas como “la primavera de los pueblos”, fue ignorado prolijamente hasta bien entrada la década de 1860. A partir de allí sirvió para difundir los principios generales de la concepción marxista de la sociedad y para convencer a propios y extraños acerca de la necesidad de luchar contra el capitalismo. Si bien varias de sus afirmaciones han envejecido y tienen un interés principalmente histórico, el grueso de su argumentación conserva todo su valor teórico y político. En especial, la concepción del Estado resulta de notable actualidad. Pero, para ello, es preciso leer el texto como un palimpsesto: