Friedrich Engels ✆ Fidia |
1. L’‘ultimo Engels’: problemi di periodizzazione
Per definire correttamente il modo con cui l’ultimo Engels affronta sia il problema dello Stato che il problema della elaborazione di una strategia del movimento operaio per la conquista del potere è necessario, in primo luogo, risolvere, oltre alle difficoltà che sono proprie di uno studio rigoroso del pensiero dei fondatori del socialismo scientifico, una difficoltà specifica, consistente nel determinare in modo esatto l’argomento che si intende trattare, cioè, nel nostro caso, l’“ultimo Engels”. Così, l’esigenza di circoscrivere tale argomento può portarci, in prima istanza, ad estendere o a contrarre le frontiere cronologiche dell’indagine in funzione di criteri, che possono tutti risultare degni di interesse, senza però che nessuno di essi risulti pienamente soddisfacente. Se, ad esempio, si prende il 1890 come confine, abbiamo, ad un tempo, l’inizio di un decennio e il punto di partenza degli ultimi cinque anni della vita di Engels, in cui si còllocano almeno tre opere di capitale importanza: assieme alla Critica del programma di Erfurt (1891), l’Introduzione alla Guerra civile in Francia (1891) e l’Introduzione alle Lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 (1895), cioè due scritti con cui Engels non si limita a presentare le analisi socio-politiche di Marx, ma ne mette in rilievo il valore teorico e ne applica il metodo alla congiuntura specifica di quegli anni1 . Il limite di questa periodizzazione risiede tuttavia nel separare le opere testé citate da altri scritti che, per quanto anteriori, sono strettamente connessi a quelle opere dall’identità del tema, come la famosa Lettera a Bebel del 1875, da cui non si può prescindere se si intende svolgere un serio esame del pensiero di Engels sul problema dello Stato2.
Né miglior esito avrebbe l’assunzione, come discrimine, del 1883, anno della morte di Marx. Tale anno certamente costituisce un grande punto di svolta nell’opera di Engels, cioè nello sviluppo del marxismo, ma, oltre a non sfuggire al limite che condiziona il primo criterio, rischia di essere fuorviante, giacché sembra suggerire una cesura tra l’elaborazione di Marx e quella di Engels. Rimane la possibilità di fissare il confine al 1871, cioè alla Comune di Parigi, evento cruciale per i due fondatori del socialismo scientifico, in quanto banco di prova della efficacia esplicativa della teoria applicata alla lotta di classe e in quanto arricchimento della teoria con l’esperienza della lotta di classe. Ma, in tale ipotesi, la definizione dell’ultimo Engels coprirebbe uno spazio di tempo di un quarto di secolo, che appare eccessivo se misurato sulla produzione intellettuale di Engels e che ingloba, inoltre, in un unico gruppo opere diverse, come l’Antidühring (1878) eLe origini della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (1884).3
2. Dalla teoria alla politica: il rapporto tra Engels e la socialdemocrazia tedesca
Il tratto caratteristico dell’ultimo Engels è la costante attenzione alle principali questioni politiche del movimento operaio del suo tempo e, in primo luogo, del movimento operaio tedesco, che aveva raggiunto un alto grado di sviluppo: questioni sempre analizzate attraverso quello che si può definire un « uso strategico delle categorie teoriche del materialismo storico »5 . Fin dalla famosa lettera di Engels a Bebel (1875), da noi inclusa nel nostro campo di indagine in base al criterio dell’unità teorica, vengono affrontate, nel periodo dell’unificazione tra i due partiti socialisti in Germania, « questioni di principio » centrali come l’internazionalismo del partito, la sua concezione del mondo oscillante tra l’ideologia giuridico-morale e il materialismo, la sua tendenza ad aspettare da un intervento statale la soluzione dei problemi sociali e perfino l’instaurazione del socialismo, la necessità di costituire un partito di massa con dirigenti operai, pur combattendo l’operaismo (l’idea, ancora una volta lassalliana, che al di fuori della classe operaia non vi sia che una massa reazionaria). Si tratta della stessa critica dell’eclettismo della socialdemocrazia tedesca, i cui fondamenti teorici saranno oggetto della esemplare Critica del programma di Gotha, svolta da Marx6 . Il rapporto — definito « gioco di specchi »7 — fra il « centro teorico » del partito, cioè la coppia formata da Marx ed Engels, e il « centro politico » del partito, cioè la coppia formata da August Bebel e Wilhelm Liebknecht, non costituisce soltanto la prima figura storica del modo in cui si è atteggiato il nesso tra teoria e pratica nella vita del movimento operaio, ma ci permette anche di cogliere, attraverso gli scarti non meno che attraverso le corrispondenze, quello scorrimento biunivoco fra i due momenti che rende, ad esempio, la riflessione teorica di Engels tanto istruttiva sul piano politico per Bebel quanto lo è per lo stesso Engels, sul piano teorico, l’esperienza politica di Bebel. In questo senso, è opportuno ricordare che, se è vero che la teoria diventa forza materiale non appena si impadronisce delle masse, è altrettanto vero che la premessa di tale assimilazione è la rispondenza della teoria ai bisogni effettivi delle masse e che non solo il pensiero deve incalzare la realtà, ma la realtà stessa, a sua volta, deve incalzare il pensiero. Se si esamina la forma attraverso cui la teoria marxista si è affermata nel periodo che va dalla fine degli anni ’70 fino alla morte di Engels, giungendo a dominare il programma e la tattica della socialdemocrazia tedesca e della IIaInternazionale, si possono allora comprendere, per un verso, l’insistenza con cui si pone l’accento, negli scritti divulgativi dei maggiori esponenti del partito, sul nesso tra crisi economica, crisi generale della società e crollo del capitalismo (basti pensare che l’espressione preferita di Bebel negli anni ’80 era « il grande patatràc »)8 , per un altro verso il profilarsi del dilemma in cui si sarebbe dibattuto il socialismo internazionale nel corso dei due decenni e mezzo anteriori alla I guerra mondiale. Ora, se si ricerca la ragione per cui, anche negli stessi scritti di Kautsky, ossia di colui che dopo Engels fu ritenuto il principale esponente del socialismo scientifico, ciò che in Marx veniva posto come una tendenza appare come una legge storica pienamente dispiegata, mentre il principio della dialettica tende a configurarsi come pura evoluzione, occorre tenere presente il fatto che i principi fondamentali della teoria marxista sono stati elaborati nel quadro della Grande Depressione (come per altro risulta dalla stessa rielaborazione delle esperienze della crisi svolta nel programma di Erfurt del 1891)9 . La genesi del revisionismo socialdemocratico di Bernstein e della stessa « crisi teorica del marxismo » (più esattamente, della crisi di quella versione, tendenzialmente meccanicistica ed evoluzionistica, del marxismo) va infatti ricondotta all’ultima parte degli anni ‘90, quando ebbe inizio un periodo di prosperità economica sotto il segno della concentrazione monopolistica e dello sviluppo imperialistico. Fu questo un periodo — la cosiddetta “belle époque” — che, se da un lato conteneva già tutti i germi del futuro conflitto mondiale — del che Engels ebbe una chiara percezione10 —, dall’altra sembrava rivelare una nuova capacità di resistenza ed integrazione della società capitalistica. Nel 1899 il grande pensatore marxista Antonio Labriola così descrisse la svolta nello sviluppo socio-economico e le sue ripercussioni su quella versione del marxismo:
In verità, al di sotto di tutto questo rumore di disputa c’è una questione grave ed essenziale: le speranze ardenti, vivissime, precoci di qualche anno fa — quelle apettative dai dettagli e dai contorni troppo precisi — vengono a cozzare ora contro la più complicata resistenza dei rapporti economici e contro i più imbrogliati congegni del mondo politico 11 .
Kautsky non fu in grado di affrontare adeguatamente l’analisi dei nuovi fenomeni storici e, in particolare, dell’imperialismo in tutte le sue manifestazioni. Da questa insufficienza presero le mosse la critica revisionistica di destra e la critica rivoluzionaria di sinistra. Mentre revisionisti e rivoluzionari cercavano, in modo assai diverso, di affrontare un mondo profondamente mutato, l’ortodossia, ormai cristallizzata e sin dal 1910 ridotta a mero centrismo, aspettava ancora che i « piccioni arrostiti della rivoluzione » — come una volta li chiamò ironicamente Wilhelm Liebknecht — le volassero dritti in bocca come nel paese della cuccagna12 . D’altra parte, il meccanicismo, che irrigidisce ed impoverisce la teoria marxista nella versione di Kautsky, non è invece presente nella elaborazione di Engels, la quale, come dimostrano le Lettere sul materialismo storico, da lui indirizzate negli anni ’90 ad alcuni giovani intellettuali, è invece caratterizzata dal forte accento posto sui fattori soggettivi del processo rivoluzionario13 .
3. La sintesi strategica del nesso tra teoria e politica: l’ Introduzione di Engels alle Lotte di classe in Francia di Marx (1895)
I capisaldi della strategia formulata da Engels nella celebre Introduzione si possono così riassumere: 1) la vittoria del socialismo in Germania è inevitabile nel caso di un’evoluzione pacifica della situazione; 2) considerato il grado di sviluppo della tecnica militare, uno scontro armato avrà successo solo se la maggioranza dell’esercito si schiererà con i rivoluzionari; 3) l’arma più efficace del moderno proletariato è il suffragio universale, ma la sua utilizzazione, valida per dare inizio, in certe condizioni, al processo rivoluzionario, non esclude per nulla che, nella fase successiva di tale processo, la forma di lotta decisiva torni ad essere il combattimento di strada e l’insurrezione.
Le condizioni della lotta avevano subito un mutamento sostanziale. La ribellione di vecchio stile, la lotta di strada con le barricate che sino al 1848 erano state l’elemento decisivo, in ultima istanza erano considerevolmente invecchiate. Non facciamoci illusioni: una vera vittoria dell’insurrezione sull’esercito nella lotta di strada, una vittoria come tra due eserciti, è una delle cose più rare 14 .
L’Introduzione engelsiana non può essere assolutamente interpretata nel senso di una rinuncia alla concezione rivoluzionaria. Diversamente dalla direzione della SPD che generalizzò la tattica basata sul suffragio universale, per Engels questa poteva valere « solo per la Germania attuale, ed anche per essa solo con notevoli riserve »15 . Per la direzione della SPD l’obiettivo era unicamente quello di ottenere la maggioranza in parlamento; Engels invece partiva, sì, dalla premessa della inarrestabile crescita della socialdemocrazia, ma escludeva esplicitamente che « il partito socialista potesse ottenere la maggioranza e prendere il potere »16 . Egli sapeva che era una semplice illusione pensare che le classi dominanti avrebbero assistito passivamente all’ascesa del movimento operaio (e l’esperienza storica del colpo di Stato cileno del 1973 e della rivoluzione portoghese del 1975 gli ha dato completamente ragione). Ancora prima di una possibile maggioranza socialista esse sarebbero intervenute con la violenza e questo avrebbe condotto la socialdemocrazia dal « terreno della maggioranza elettorale al terreno della rivoluzione »17 . D’altra parte, l’ipotesi di un passaggio pacifico al socialismo non era nuova, giacché‚ lo stesso Engels l’aveva già contemplata nella Critica al programma di Erfurt (1891) relativamente alla Gran Bretagna, agli Stati Uniti e alla Francia e Marx l’aveva formulata relativamente alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti negli anni attorno al 187018 . Va osservato che le concezioni di Marx ed Engels si distinguono dalle concezioni dei riformisti innanzitutto perché, mentre per questi le forme di passaggio pacifico al socialismo rappresentano l’evoluzione “normale”, per i due fondatori del socialismo scientifico tali forme erano considerate possibili solo in « casi del tutto eccezionali », in alcuni paesi e in certi periodi in cui si trovavano riunite condizioni particolarmente favorevoli. Inoltre, tali condizioni, lungi dal garantire un passaggio pacifico (poiché le classi dominanti potevano sempre reagire con la violenza), ne indicavano solo la possibilità. Ma le concezioni di Marx ed Engels si oppongono radicalmente al riformismo innanzitutto perché affermano il carattere “inorganico” della rivoluzione, ossia il fatto che, a un dato momento, la crescita, più o meno pacifica della lotta di classe deve condurre ad una “rivoluzione”, ad un “salto di qualità”, caratterizzato dalla assunzione del potere da parte della classe operaia che se ne serve per eliminare la borghesia da tutte le posizioni economiche e politiche dominanti. Si tratta di una rivoluzione politica e sociale che è completamente esclusa dal riformismo (anche nelle sue espressioni più avanzate). Questo, infatti, concepisce lo sviluppo del socialismo come un processo “interno” alla società capitalistica, obliterando il fatto che in ogni società divisa in classi antagoniste necessariamente si avrà una classe dominante e una classe dominata; laddove ciò che costituisce una rivoluzione e dà un preciso contenuto storico a questa parola è appunto il passaggio del potere dalla classe dominante alla classe dominata, la quale se ne serve contro la prima.
4. Il problema dello Stato: la coercizione come condizione di “possibilità del consenso”
In questa seconda parte della relazione mi propongo di esaminare da un punto di vista teorico e generale lo stesso problema (al centro dell’elaborazione dell’ultimo Engels) che ho prima indagato da un punto di vista storico e particolare. Va da sé che la sintesi dinamica dei due punti di vista renderà sempre più concreta la conoscenza dei termini risolutivi del duplice problema costituito dall’analisi dello Stato capitalistico e dalla messa a punto di una strategia rivoluzionaria del movimento operaio. L’ottica, che caratterizza questo secondo momento della ricerca, da un lato ci permette di cogliere la validità permanente dell’analisi engelsiana, validità che si estende per l’intera epoca storica del modo di produzione capitalistico, dall’altro ci mostra da quali specifiche esperienze socio-politiche sbocci tale analisi, nel mentre ci offre la possibilità di estendere il raggio dell’indagine fino ai nostri giorni.
Per la teoria marxista — e per la strategia che ne dipende — la individuazione dei “confini” dello Stato ha un’importanza fondamentale. Il binomio ‘società civile-Stato’, istituito da Hegel, rielaborato da Marx alla luce della sua critica della filosofia hegeliana ed inserito nel sistema concettuale del materialismo storico, quindi ripreso da tutta la tradizione teorico-politica marxista-leninista e posto al centro delle riflessioni svolte neiQuaderni del carcere dallo stesso Gramsci, è una nozione-chiave. Come osserva Engels, soltanto lo Stato possiede un esercito e una polizia — gruppi di uomini specializzati nell’“esercizio” della repressione19 —. Ciò significa sia che il binomio ‘coercizione + consenso’ non è ugualmente presente nella società civile e nello Stato, sia che esiste sempre, nella distribuzione delle funzioni consensuali e coercitive del potere capitalistico, un’“asimmetria strutturale”. L’ideologia è comune allo Stato e alla società civile, la violenza appartiene allo Stato (come osserverà anche Weber, caratterizzando lo Stato in base al monopolio della violenza legittima). Naturalmente, il momento del consenso non va concepito idealisticamente come una libera scelta; esso è influenzato dai rapporti di produzione e dallo sviluppo o dalla crisi dell’economia, così come dall’intervento politico-ideologico delle classi dominanti. Vi sono forme di “coazione economica” la cui azione è diretta a rafforzare il potere borghese: si pensi, ad esempio, al timore della disoccupazione o del licenziamento che può dare origine fra le masse sfruttate ad una ‘maggioranza silenziosa’ di cittadini obbedienti e di elettori concilianti. Dunque, in Occidente, a causa dell’anzidetta asimmetria fra Stato e società civile, la coercizione è localizzata solo nel primo, il consenso in entrambi. Sotto questo profilo, è da rilevare l’erroneità della concezione gramsciana della società civile, che non si riferisce alla sfera delle relazioni economiche, ma si contrappone ad essa in quanto sistema di sovrastrutture situate a mezza strada fra l’economia e lo Stato (non a caso l’analisi gramsciana della egemonia nella società civile non si estende alle fabbriche e alle aziende, considerate come spazio neutro in cui si sviluppano neutre forze produttive)20 . Eppure, il funzionamento della democrazia borghese sembra confermare l’idea che il capitalismo avanzato si regga sul consenso della classe operaia. L’accettazione di questa tesi rappresenta, infatti, il fulcro della via parlamentare al socialismo, del ‘Nichtalsparliamentarismus’ (cioè ‘nient’altro che parlamentarismo’, secondo l’efficace formulazione con cui la Luxemburg definiva la teoria di Kautsky). Questa idea, che cioè in Occidente il potere borghese assuma essenzialmente la forma dell’egemonia culturale, è un classico dogma del riformismo (la cui versione italiana è rappresentata, nella sua forma più elaborata ed elegante, da alcuni nuclei centrali del pensiero di Gramsci, non a caso valorizzati dall’uso apertamente revisionistico che ne ha fatto Togliatti). In realtà, il modo scientificamente corretto di risolvere il problema del rapporto tra consenso e coercizione in Occidente consiste nel riconoscere che la struttura normale del potere politico negli Stati democratico-borghesi è, ad un tempo, “dominata” dalla cultura e “determinata” dalla coercizione. Negare il ruolo dominante della cultura nel sistema di potere del capitalismo contemporaneo significa sia cancellare la differenza più rilevante fra il parlamentarismo occidentale e il dispotismo orientale, sia ridurre il primo ad un mito. Si tratta invece di comprendere che il dominio culturale della borghesia si materializza in alcuni istituti estremamente concreti: elezioni periodiche, diritti civili, diritti di riunione, i quali tutti esistono in Occidente e nessuno dei quali minaccia direttamente il potere del capitale. Orbene, il ‘segreto’ di questa particolare forma — la repubblica democratica — del dominio di classe, di cui Engels e Marx hanno messo in rilievo la duplice funzione di forma più sviluppata del potere borghese, ma anche di terreno ottimale della lotta di classe del proletariato, è del tutto omologo al ‘segreto’ della produzione del plusvalore nella fase della ‘sussunzione reale’ del lavoro al capitale, cioè nella fase della estensione della legge del valore a sempre più numerosi settori della vita sociale. Questa particolare forma del dominio di classe si fonda sul consenso di massa, il quale acquista la forza di una convinzione ideologica: quella di esercitare l’autogoverno nello Stato rappresentativo. Tutto si svolge — ed in ciò consiste l’illusione della democrazia borghese — “come se” la violenza, ossia la coercizione dello Stato, non esistesse. Ma il ruolo della violenza all’interno della struttura di potere del capitalismo contemporaneo resta determinante. L’analogia tra il funzionamento dello Stato capitalistico ed il funzionamento del sistema monetario può essere particolarmente chiarificatrice. Nel modo di produzione capitalistico il sistema monetario si basa su “due” distinti mezzi di scambio: la carta-moneta e l’oro. Il sistema stesso non è la “somma” di questi due mezzi, poiché il valore delle emissioni fiduciarie che circolano ogni giorno e mantengono il sistema in condizioni normali “dipende” dalla quantità di metallo esistente in ogni dato momento nelle riserve della banca centrale, nonostante il fatto che questo metallo sia del tutto “assente” dal sistema come mezzo di scambio. Soltanto la carta-moneta, non l’oro, compare nella circolazione, ma la carta-moneta è in ultima istanza “determinata” dall’oro, senza il quale cesserebbe di avere corso legale. Che esista una relazione di questo tipo fra la carta-moneta e l’oro è dimostrato dal fatto che, quando subentra una crisi, si verifica un brusco ritorno a quello che gli economisti chiamano ‘tallone aureo’, cioè alla base che, per quanto invisibile, sempre sostiene la moneta. Un collasso del credito produce immancabilmente una corsa all’oro (o verso valute straniere più forti, il cui tasso di cambio con l’oro sia maggiore). Nel sistema politico esiste una relazione dello stesso tipo (non additiva e non transitiva) fra l’ideologia e la repressione, il consenso e la coercizione. Le normali condizioni di subordinazione ideologica delle masse — la vita quotidiana che si svolge nei regimi di democrazia parlamentare del nostro tempo — si basano su una coercizione silenziosa, invisibile, che costituisce la condizione di possibilità di tale subordinazione: si tratta del monopolio della violenza legale da parte dello Stato. Senza questa condizione di possibilità, il controllo ideologico e culturale della borghesia acquisterebbe la stessa consistenza che hanno rispetto ai comportamenti reali degli italiani i sermoni domenicali sull’etica sessuale cattolica e verrebbero meno le limitazioni poste ad iniziative di carattere antagonistico. Grazie a tale condizione di possibilità il sistema è invece così potente che può, paradossalmente, farne a meno: in effetti la violenza può normalmente non comparire affatto all’interno del sistema. Tuttavia lo svolgimento di una crisi rivoluzionaria rivela il passaggio della struttura del potere borghese dall’ideologia alla violenza. Nel corso di tale crisi la coercizione diventa insieme “determinante” e “dominante” e si manifesta con l’intervento dell’esercito. Il potere borghese si configura in questo senso come un sistema a geometria variabile: in ogni crisi avviene una dislocazione oggettiva di forze ed il sistema si ricompone attraverso la prevalenza degli apparati repressivi su quelli ideologici o, ancor più esattamente, attraverso la prevalenza, in tutti gli apparati statuali, della funzione repressiva su quella ideologica. Si realizza così un ritorno alla fonte originaria del potere: la forza, posta a protezione dei rapporti di produzione esistenti. Si tratta di una vera e propria legge del capitalismo a cui quest’ultimo non può sottrarsi, poiché l’alternativa è il dissolvimento21 .
5. “Tendere l’arco, ma non scagliare la freccia”: il problema del giusto rapporto fra difesa ed attacco nella strategia del movimento operaio
Abbiamo già sottolineato, nella prima parte della nostra relazione, il carattere rivoluzionario della elaborazione strategica di Engels. Non a caso l’oggetto su cui si imperniavano le osservazioni di Engels erano i ‘reggimenti-chiave’ dell’esercito prussiano. Come abbiamo già notato, Engels, che nel campo della scienza della guerra e della tattica militare era un esperto di prim’ordine, riteneva che, a causa del grado di sviluppo della tecnologia bellica, una rivoluzione avrebbe avuto un esito vittorioso solo se la maggioranza dell’esercito fosse passata dalla parte del socialismo. Per questa ragione egli attribuiva un’importanza determinante alla conquista della maggioranza politica fra le popolazioni rurali della Pomerania e del Meclemburgo, da cui venivano reclutate le truppe scelte dei ‘reggimenti-chiave’ dell’esercito prussiano22 .
Un allargamento del raggio della nostra indagine al periodo, di poco antecedente allo scoppio della prima guerra mondiale, in cui si svolge il celebre dibattito fra Kautsky e la Luxemburg sulla strategia del movimento operaio, ci permetterà di chiarire la portata sia teorica che pratica delle soluzioni proposte alla questione che aveva costituito l’asse del pensiero dell’ultimo Engels. Nel 1910 Kautsky sosterrà che la classe operaia tedesca avrebbe dovuto adottare nella lotta contro il capitale una ‘Ermattungstrategie’, una ‘strategia del logoramento’. Egli, polemizzando con la Luxemburg, aveva esplicitamente contrapposto questa concezione a quella che egli chiamava ‘Niederwerfungstrategie’, cioè ‘strategia del rovesciamento’. Questo dibattito era l’equivalente socialista del grande dibattito sulla storia militare che aveva coinvolto la Germania di Guglielmo II e la stessa terminologia era mutuata da Hans Delbrück, il grande storico della guerra, molto apprezzato da Engels e da Mehring. Nella prospettiva kautskiana della ‘Ermattungstrategie’ — così come nella ‘guerra di posizione’, teorizzata da Gramsci negli anni ’30 — il ruolo predominante è attribuito alla conquista dell’egemonia culturale, cioè al convincimento ideologico delle masse. Certamente, in una simile prospettiva il pericolo dell’avventurismo scompare, ma, insieme con esso, scompare anche il momento della distruzione della macchina dello Stato borghese, che per Marx, Engels e Lenin è inseparabile dalla rivoluzione proletaria. Secondo i princìpi del materialismo storico, la guerra di posizione corrisponde alla fase in cui un partito rivoluzionario cerca di conquistare ideologicamente le masse alla causa del socialismo, fase che precede quella in cui esso le guiderà politicamente verso l’insurrezione contro lo Stato borghese. In questo senso l’egemonia verrebbe esercitata nella società civile per la formazione di un blocco sociale degli sfruttati alternativo al capitalismo, mentre la dittatura verrebbe istituita nei confronti degli sfruttatori dopo la distruzione dell’apparato statuale che ne garantiva il dominio. L’esperienza storica ha dimostrato che la prospettiva della guerra di posizione, connessa alla dicotomia fra Occidente ed Oriente (con tutto ciò che ne consegue per quanto riguarda il modo di intendere sia il binomio ‘società civile-Stato’ sia il binomio ‘coercizione-consenso’), è sfociata in un vicolo cieco — così come tutta la tradizione teorico-politica che ad essa si ispira —. L’epitaffio di questa linea è stato scritto da Brecht, quando commemorò in questi termini il saggista Walter Benjamin, che aveva fatto propria la formula della ‘Ermattungstaktik’ (Benjamin si era suicidato in una località di frontiera tra la Francia e la Spagna, dove era fuggito per sottrarsi all’arresto dei nazisti): « La tattica del logoramento era ciò che ti dava conforto, ma il nemico che ti allontana dai tuoi libri / non si lascerà certo logorare da noi altri »23 . Vale la pena di osservare che il pessimismo storico-politico, di cui questa formula è nel contempo figlia e madre, tende inesorabilmente a degradare nell’adesione al liberalismo. D’altra parte, il pessimismo storico-politico è il tratto distintivo del cosiddetto ‘marxismo occidentale’ (rappresentato dalla scuola di Francoforte, da un certo Gramsci, dalla maggior parte degli esponenti delle due principali scuole marxiste fra anni ’60 ed anni ’70, quella italiana di Della Volpe e quella francese di Althusser). Non è un caso, bensì la necessaria conseguenza teorico-politica di una posizione sbagliata, se ciò che ha accomunato in una sorta di ‘discordia concors’ queste diverse tendenze è stato l’“anti-engelsismo”.
L’anti-engelsismo consiste nel rifiuto di riconoscere il carattere originale e fondamentale dell’apporto di Engels alla elaborazione, allo sviluppo e all’approfondimento della teoria marxista. Non è un caso, allora, se in Italia il prototipo dell’anti-engelsismo è fornito dall’interpretazione idealistico-attivistica del pensiero marxiano svolta nel suo saggio su La filosofia di Marx (1899) da Giovanni Gentile, che sarebbe divenuto poi l’ideologo ufficiale del regime fascista. L’anti-engelsismo, tuttavia, non è solo il sottoprodotto della posizione piccolo-borghese e idealistica degli epigoni, più o meno consapevoli, di Croce e Gentile, ma è anche — e soprattutto — la conseguenza della parabola del ‘marxismo occidentale’. Il tratto distintivo del ‘marxismo occidentale’ consiste infatti nella contrapposizione fra il materialismo dialettico (spesso identificato con il ‘Diamat’ sovietico in base ad un atteggiamento derogatorio e spregiativo) e il materialismo storico, nonché nello spostamento dell’asse della teoria marxista dal rapporto con la pratica della lotta di classe al confronto con il pensiero borghese contemporaneo. Engels, al contrario, non solo ha istituito una organica connessione fra materialismo dialettico e materialismo storico, ma ha sempre dedicato la massima attenzione al rapporto della teoria marxista con le esperienze concrete, socio-economiche ed anche ideologiche, della classe operaia. Ma è proprio questo spostamento che ha finito con il caratterizzare il ‘marxismo occidentale’, contribuendo ad accentuare la debolezza ideologica del movimento operaio occidentale24 .
Il ragionamento svolto finora dimostra che elaborare una strategia proletaria nei paesi capitalistici avanzati essenzialmente in termini di guerra di movimento significa ignorare l’unità dinamica e l’efficienza dello Stato borghese e condurre la classe operaia ad una micidiale sconfitta; elaborare, invece, una strategia proletaria essenzialmente in termini di guerra di posizione significa perdere di vista il carattere dirompente e non lineare delle situazioni rivoluzionarie (carattere il cui riconoscimento implica, tra l’altro, un attento esame del modo con cui opera, nel contesto della formazione imperialistica mondiale, quella legge dello sviluppo ineguale del capitalismo che determina, appunto, lo sviluppo ineguale delle rivoluzioni). Inoltre, proprio perché, data la loro natura, le situazioni rivoluzionarie non possono durare a lungo, esse richiedono la massima incisività nell’attacco, pena la perdita dell’opportunità di conquistare il potere. In tal senso Engels osserva — ed è questo un rilievo che sarà poi ripreso da Lenin sulla base delle esperienze rivoluzionarie russe — che la funzione delle barricate era morale piuttosto che militare:
Persino nell’epoca classica dei combattimenti di strada la barricata aveva dunque un effetto più morale che materiale. Essa era un mezzo per scuotere la resistenza dell’esercito. Se essa resisteva sino a che questo effetto era raggiunto, la vittoria era sicura. Se no si era battuti. 25
Lenin, fedele all’insegnamento di Engels, preciserà che il compito dell’avanguardia proletaria nel corso di una rivoluzione non è semplicemente quello di combattere “per” conquistare l’esercito. Come dimostreranno le rivoluzioni del XX secolo (in Russia, in Cina, a Cuba), un’insurrezione consegue il suo scopo solo se lo stesso apparato militare dello Stato si divide e si disintegra. Abbiamo già sottolineato che non a caso le riflessioni di Engels si concentrarono sul problema della conquista politica delle popolazioni della Pomerania e del Meclemburgo, da cui erano reclutate le truppe dei ‘reggimenti-chiave’ dell’esercito prussiano. La questione militare costituisce infatti il nucleo duro della concezione engelsiana. Fra questa concezione e gli orientamenti della direzione della socialdemocrazia tedesca vi era una differenza fondamentale, connessa alla prospettiva. L’uso dell’Introduzione come supporto teorico-politico del revisionismo si basava sul presupposto che l’adozione di una tattica legalitaria da parte di Engels segnasse un distacco di principio dalla teoria della rivoluzione socialista. Come è noto, il principale responsabile di tale uso volutamente deformante dell’Introduzione fu Bernstein, che si guardò bene dal rendere pubblico questo scritto nella sua versione integrale, poiché il suo scopo era quello di legittimare la via parlamentare e pacifica al potere con quello che lo stesso Bernstein, quale curatore delle opere postume di Engels, definì per l’appunto il ‘testamento politico’ di Engels. D’altra parte, il gruppo dirigente della socialdemocrazia — il cosiddetto ‘centro’ — tenderà sempre più a sostituire la teoria della rivoluzione con la strategia della conquista della maggioranza nel parlamento, il che spiega perché la critica dell’ala radicale della socialdemocrazia, raccolta attorno alla Luxemburg, si appuntasse in misura maggiore contro il ‘centro’ della socialdemocrazia, raccolto attorno a Kautsky, che non contro l’ala apertamente revisionista26 .
6. “Il movimento dell’immensa maggioranza... nell’interesse della immensa maggioranza”
Se è vero che il corretto significato del pensiero dell’ultimo Engels va còlto nell’intreccio dialettico fra il tema della insurrezione e il tema della utilizzazione del suffragio elettorale, è anche vero che tale intreccio ha la sua radice più profonda in un terzo tema: quello relativo al carattere di massa della rivoluzione proletaria. La ricognizione engelsiana delle forme storiche dello Stato borghese, degli apparati militari e della lotta fra le classi nel XX secolo fornisce un insegnamento che è tanto valido negli anni ’10 di questo secolo quanto lo fu negli anni ’90 del XIX secolo:
Se sono cambiate le condizioni per la guerra tra i popoli, non meno sono cambiate per la lotta di classe. E’ passato il tempo dei colpi di sorpresa, delle rivoluzioni fatte da piccole minoranze coscienti alla testa di masse incoscienti. Dove si tratta di una trasformazione completa delle organizzazioni sociali, ivi devono partecipare le masse stesse; ivi le masse stesse devono già aver compreso di che si tratta, per che cosa dànno il loro sangue e la loro vita. Questo ci ha insegnato la storia degli ultimi cinquant’anni. 27
Questo insegnamento costituisce il nucleo centrale dell’Introduzione. Esso va posto in rapporto con il complesso schema concettuale che orienta la riflessione engelsiana sulla strategia e, in particolare, con il pregnante asserto relativo al ‘diritto alla rivoluzione’ — Engels osserva, infatti, che “il diritto alla rivoluzione è l’unico “diritto storico” reale, l’unico su cui si basino, senza eccezioni, tutti gli Stati moderni”28 . Ciò significa che la legittimità dell’azione rivoluzionaria della classe operaia nasce dallo stesso terreno storico in cui si è affermata la legittimità dell’uso della forza da parte della borghesia nel corso della lotta per la conquista del potere e per la formazione degli Stati (e dei mercati) nazionali. Lo schema tattico engelsiano scaturisce, per un verso, dalla riflessione sul modello della ‘rivoluzione dall’alto’ di tipo bismarckiano e, per un altro verso, dalla previsione per cui, se la socialdemocrazia fosse arrivata al potere per via elettorale, ciò avrebbe sicuramente determinato la rottura della legalità da parte della borghesia, sicché il movimento operaio avrebbe potuto fare la rivoluzione difendendo nel contempo la legalità. Ancora una volta risulta evidente che non si trattava di una strategia legalistica: la minaccia di un colpo di Stato non era una semplice ipotesi dopo un periodo di legislazione antisocialista durato quasi 20 anni, ed in un momento in cui, proprio nell’aprile del 1895, la commissione per il progetto di legge sulla sovversione discuteva la possibilità di una nuova legge contro i socialisti. Trovano così spiegazione, alla luce delle anzidette premesse (politiche e storiche), due fatti: il primo consiste nella decisione, presa dal gruppo dirigente del partito, di eliminare dallo scritto di Engels, quando esso apparve sul Vorwarts, giornale della socialdemocrazia tedesca, i passi in cui l’autore sosteneva l’inevitabilità della violenza e la necessità dell’insurrezione; il secondo consiste nella indignazione che manifestò Engels di fronte alla pubblicazione di un estratto della sua Introduzione, che lo presentava come un fautore della legalità a tutti i costi. In realtà, nello scritto engelsiano non esiste alcuna contrapposizione fra una via parlamentare ed una via rivoluzionaria al socialismo, fra una via pacifica ed una via violenta al socialismo29 . La nostra indagine ci ha permesso di accertare che lo schema tattico engelsiano era legato alla previsione di una rottura della legalità da parte della borghesia, conseguenza di una crescita inarrestabile della socialdemocrazia. Engels riteneva giustamente che, in una congiuntura di questo tipo, i rapporti di forza sarebbero stati favorevoli al proletariato sia dal punto di vista politico — massima estensione del fronte delle alleanze — sia dal punto di vista tattico e organizzativo — massima accumulazione delle forze e trasformazione della quantità dei reparti militari controllati dalla SPD nella qualità di una rivoluzione vittoriosa30 .
Ma un altro tema fondamentale è sotteso al tema del carattere di massa del processo rivoluzionario: quello della politica di alleanze del marxismo-leninismo. Non a caso il VII congresso dell’Internazionale Comunista, celebrando nel 1935 il 40° anniversario della morte di Engels, assunse quest’ultimo come maestro e simbolo della strategia dell’unità e delle alleanze della classe operaia — di quella strategia che permetterà di sconfiggere il nazifascismo, di assicurare la vittoria delle rivoluzioni di nuova democrazia e di estendere il campo dei paesi socialisti ad un terzo del mondo31 .
Quali conclusioni possiamo dunque ricavare da questa indagine sulla elaborazione teorico-politica dell’ultimo Engels?
In primo luogo, tale indagine ci ha permesso di accertare che l’Introduzione è il ‘testamento politico’ di un grande rivoluzionario e più esattamente di uno stratega geniale, che non dimentica mai che il marxismo, in quanto teoria scientifica, non è un catechismo, ma una guida per l’azione, che nasce dall’azione e si risolve nell’azione. Lo stesso scritto che abbiamo collocato al centro dell’indagine rivela quella che è una caratteristica peculiare dell’ultimo Engels, ossia l’integrazione fra un’acuta sensibilità politica ed un uso strategico delle categorie marxiane. Questa integrazione riflette sul piano teorico la nuova fase di sviluppo del capitalismo, in cui l’estensione del modo di produzione capitalistico e il dominio di classe fondato su di esso determinano una nuova fase di sviluppo del movimento operaio. La riflessione di Engels ha un valore esemplare, proprio perché‚ affronta il nodo dell’“inizio” della rivoluzione in “questa” nuova fase32 .
In secondo luogo, la ricerca che abbiamo svolto ci ha rivelato la potenza del metodo dialettico adoperato da Engels nelle sue analisi: un metodo che consente di cogliere l’unità della teoria e della pratica (ossia, in termini dialettici, l’unità dell’unità e della divisione fra la teoria e la pratica), un metodo che può essere usato correttamente solo da chi, non perdendo mai di vista il grande principio enunciato da Eraclito, fondatore della dialettica, secondo cui “la via all’in su e la via all’in giù è una stessa via”, sa che la via va percorsa in entrambi i sensi.
In terzo luogo, l’allargamento del raggio dell’indagine al campo della teoria e dell’analisi dello Stato capitalistico ci ha consentito, sulle orme di Engels, di dare una solida base storica, concettuale e progettuale alla strategia del movimento operaio, individuando i termini esatti in cui si configurano tanto il rapporto tra Stato e società civile quanto il rapporto tra coercizione e consenso nelle democrazie parlamentari contemporanee.
In conclusione, il contributo di Engels, e segnatamente dell’ultimo Engels, si rivela fondamentale ed originale non solo perché esprime con chiarezza i problemi che sorgono da una nuova fase storica, che nelle sue linee generali è ancora quella in cui ci muoviamo, ma anche perché spesso fornisce risposte precise proprio a quei problemi che il proletariato ed i comunisti devono affrontare nel momento attuale.
Note
1 Cfr. K. Marx – F. Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma, 1969, rispettivamente alle pp.1165-79, 1149-63 e 1255-76.
2 K. Marx – F. Engels, op. cit., pp. 977-86. Un altro criterio per la periodizzazione, che va tenuto presente per situare nella giusta prospettiva la riflessione teorico-politica dell’ultimo Engels, è lo svolgimento della prima grande depressione economica del capitalismo, iniziatasi nel 1873 e protrattasi per un ventennio, depressione che segna il passaggio dal capitalismo della libera concorrenza al capitalismo dei monopoli, cioè la nascita dell’imperialismo. Dalla costatazione della parzialità di queste periodizzazioni, nessuna delle quali può essere considerata una frontiera esclusiva, consegue che l’unità della ricerca non va posta in un criterio puramente cronologico, bensì intellettuale. L’aggettivo ‘ultimo’ non va riferito a questa o a quella opera, ma al momento storico e al tipo di problematica (non soggettiva ma) oggettiva cui si connettono opere, che possono essere anche diverse per la loro data di stesura ma che hanno tuttavia una unità teorica di fondo.
3 Per quanto concerne la proposta di periodizzazione abbiamo tenuto presenti le calzanti riflessioni svolte nel saggio di A. Demichel, “Le problème de l’Etat et de la prise du pouvoir dans les derniers écrits d’Engels”, in Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 1976, pp. 67-84.
4 Ibidem, p. 69.
5 Oskar Negt, autore di un saggio importante, anche se per alcuni aspetti discutibile, sull’Ultimo Engels, afferma che, “nel suo uso strategico delle categorie marxiane, Engels esprime una nuova fase dello sviluppo del proletariato europeo” (cfr. Storia del marxismo, Einaudi, Torino, 1979, vol. 2, p. 112).
6 Cfr. K. Marx – F. Engels, Op. cit., pp. 951-75.
7 La definizione è usata nell’interessante saggio di E. Balibar, “Marx, Engels e il partito rivoluzionario”, in Critica marxista, a. 1978, n. 6.
8 L’espressione (che suona in tedesco “der grosse Kladderadatsch”) è citata da H. -J. Steinberg, Il socialismo tedesco da Bebel a Kautsky, Editori Riuniti, Roma, 1979, alle pp. 18 e 83.
9 Questo nesso è opportunamente sottolineato da H. -J. Steinberg, “Il partito e la formazione dell’ortodossia marxista”, in Storia del marxismo cit., p. 194.
10 F. Engels, “L’Europa può disarmare?”, in K. Marx – F. Engels, Op. cit., pp. 1181-1210.
11 A. Labriola, “Polemiche sul socialismo” (15 aprile 1899), ora in Id., Scritti politici, a cura di V. Gerratana, Laterza, Bari, 1970, p. 440.
12 Cfr., per la gustosa citazione, H.-J. Steinberg, “Il partito”, cit., in Storia del marxismo, cit., p. 195.
13 Cfr. “Lettere di Engels sul materialismo storico (1889-95)”, Editrice Iskra, Firenze, 1982.
14 F. Engels, Introduzione a “Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 di K. Marx”, in K. Marx – F. Engels, Op. cit., p. 1268.
15 Engels a Paul Lafargue, 3 aprile 1895, in K. Marx – F. Engels, Opere, Editori Riuniti, Roma, 1976, vol. 50, p. 493.
16 Engels a G. Bosio, 6 febbraio 1892, in K. Marx – F. Engels, Scritti italiani, Samonà e Savelli, Roma, 1972, pp. 142-44.
17 Ibidem, p. 143.
18 Cfr. F. Engels, “Per la critica del progetto di programma del partito socialdemocratico”, e K. Marx, “Discorso tenuto ad Amsterdam l’8 settembre 1872”, in K. Marx – F. Engels, Opere scelte, cit., rispettivamente a p. 1174 e a p. 936.
19 F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Editori Riuniti, Roma, 1971, p. 201.
20 Per la dimostrazione di questo assunto, relativo non solo ai limiti del pensiero teorico di Gramsci esposto negli scritti apparsi sull’Ordine Nuovo settimanale e sull’edizione piemontese dell’Avanti! tra il 1919 e il 1920, ma anche alle “Ambiguità della teoria gramsciana della rivoluzione” (titolo del 6° par. del cap. IX del volume qui appresso citato), cfr. R. Guastini, I due poteri, Il Mulino, Bologna, 1978, in particolare pp. 140-43 e 152-55.
21 Per una puntuale ricognizione delle forme e delle funzioni specifiche assunte dal concetto gramsciano di egemonia nei Quaderni del carcere, per un esame critico della sua validità come principio esplicativo delle strutture tipiche del potere capitalistico negli Stati democratico-borghesi dell’Occidente e per una corretta individuazione delle conseguenze strategiche di tale concetto ai fini della lotta della classe operaia per il socialismo, cfr. il saggio di P. Anderson, Ambiguità di Gramsci, Laterza, Bari, 1978, da noi utilizzato nella stesura di questo paragrafo e di parte del successivo.
22 Cfr. H.-J. Steinberg, Il socialismo tedesco, cit., pp. 88-89 (ma, più in generale, pp. 84-94).
23 Ibidem, p. 132.
24 Per un bilancio storicamente unitario (e per una valutazione critica) del ‘marxismo occidentale’ cfr. P. Anderson, Il dibattito nel marxismo occidentale, Laterza, Bari, 1977.
25 F. Engels, Introduzione, cit., in K. Marx – F. Engels, Op. cit., pp. 1269-70.
26 Cfr. H.-J. Steinberg, Il socialismo tedesco, cit., pp. 93-94.
27 F. Engels, Introduzione, cit., in K. Marx – F. Engels, Op. cit., p. 1272.
28 Ibidem, p. 1273.
29 E’ quanto osserva giustamente O. Negt, riferendosi alla versione integrale dell’Introduzione, nel saggio sull’Ultimo Engels, cit., in Storia del marxismo, cit., p. 135, nota 6.
30 H.-J. Steinberg, “Il partito...”, cit., in Storia del marxismo, cit., p. 198.
31 Cfr. L. Longinotti, “Friedrich Engels e la rivoluzione di maggioranza”, in Studi storici, 1974, n. 4, p. 775.
32 Cfr. O. Negt, “Introduzione all’Antidühring: affermazione o deformazione del marxismo?”, in Annali della Fondazione Lelio e Lisli Basso – Issoco Roma, vol. V, a cura di F. Zannino, Franco Angeli Editore, Milano, 1981, p. 27.
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