Aldo Trotta
Manca
ormai da tempo un dibattito teorico-politico sullo stato di salute e sulle
prospettive del marxismo in Italia e non solo. Un dibattito tanto più
necessario e urgente a fronte di una sinistra residuale che, dopo più di un
quarto di secolo di abiure e di congedi dalla propria storia, continua ad
annaspare nelle sabbie mobili di un “nuovismo” esasperato ed esasperante, alla
ricerca affannosa e inconcludente di “nuovi” orizzonti teorici, di “nuovi”
linguaggi, di “nuove” forme e pratiche politiche, di “nuove” identità, e via
declinando. L’ultimo volume di Domenico Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque,
come morì e come può rinascere, può senza dubbio fornire un contributo prezioso per
provare a rianimare una discussione che vada oltre le pur importanti
contingenze politiche. Pubblicato da poco per i tipi della Laterza, il testo si
presenta nel panorama editoriale nel centenario della Rivoluzione d’Ottobre, in
una fase storica in cui sullo scenario internazionale piovono bombe come
fossero coriandoli, i focolai di crisi aumentano e i rischi di una
conflagrazione bellica su ampia scala si addensano sempre più pericolosamente
all’orizzonte, nella preoccupante assenza di un movimento pacifista in grado di
far sentire preventivamente la sua voce prima che l’incendio divampi. Dalla prima guerra mondiale e dalla Rivoluzione d’Ottobre, atti di nascita rispettivamente del marxismo occidentale e di quello orientale, prende le mosse la ricostruzione storico-filosofica che l’autore compie analizzando ragioni oggettive, aspetti culturali e questioni di natura teorica che fin dagli inizi hanno portato i due marxismi a intraprendere strade diverse.
Agosto 1914 e ottobre 1917: marxismo occidentale e marxismo orientale
La denuncia della
guerra e la lotta contro l’utilizzo delle masse popolari come carne da macello
da inviare nelle trincee sono i temi prioritari che spiegano l’origine e lo
sviluppo del marxismo ad Ovest. Più che lodevoli, questi motivi si
intrecciavano però con una diffusa incomprensione della questione coloniale,
con toni di carattere anarcoide – dalla demonizzazione dello Stato ad una
generale sfiducia nei confronti della scienza e della tecnica – e ancor più con
aspettative di redenzione del mondo, le cui radici Losurdo colloca nel
messianismo della tradizione ebraico-cristiana. Comprensibili dinanzi alle
devastazioni della guerra, le attese di palingenesi sociale e l’impronta
messianica erano purtroppo destinate ad avere una lunga durata nell’ambito del
marxismo occidentale.
Motivi
e speranze utopiche si avvertivano anche in Russia e nel gruppo dirigente
bolscevico, prima, durante e dopo la Rivoluzione d’Ottobre: diffusa era la
convinzione della imminente sconfitta del capitalismo e del trionfo
dell’internazionalismo proletario, da cui sarebbe scaturito un mondo liberato
per sempre dal flagello della guerra e della miseria. E tuttavia, le incalzanti
esigenze di gestione amministrativa del potere e forse anche il ricordo della
tragica fine cui erano andati incontro pochi decenni prima i comunardi di Parigi,
comportavano tempestivamente il dissolversi delle illusioni. Si innescava così
un «processo di apprendimento» che consentiva a quasi tutto il gruppo dirigente
bolscevico di acquisire la consapevolezza che la rivoluzione mondiale non era
lì dietro l’angolo, che il progetto di costruzione di un nuovo ordine
economico-sociale era questione complessa e di lunga durata. E che di tale
progetto era parte essenziale la lotta per la liberazione dei popoli
colonizzati. Ciò spiega l’appello di Lenin agli schiavi delle colonie a
spezzare le catene della loro plurisecolare oppressione, appello da cui
traevano linfa vitale le speranze di libertà dei popoli soggiogati dal
colonialismo/imperialismo e lo sviluppo del marxismo orientale. Quest’ultimo,
consapevole che da parte del movimento comunista occidentale c’era una
sostanziale sottovalutazione delle terribili condizioni in cui versavano paesi
e popoli oppressi, fin dalla sua prima formazione assumeva un carattere più
realistico, rimanendo con il trascorrere del tempo pressoché immune agli slanci
astrattamente utopistici propri del marxismo occidentale.
Il
corpo a corpo teorico-politico con le aspettative messianiche e con la
incomprensione o rimozione della questione coloniale da parte del marxismo
occidentale è il leitmotiv del libro ed investe, con toni che in alcune pagine
si fanno delicatamente e piacevolmente beffardi, un pantheon di illustri
personalità spesso oggetto di grande ammirazione da parte della sinistra
post-moderna. Un’incomprensione/rimozione tanto più grave se si considera che
lo scontro tra rivoluzione dei popoli coloniali e controrivoluzione
colonialista ha attraversato tutto il Novecento, rappresentandone di fatto il
contenuto principale. Un scontro che ha inoltre oltrepassato il mondo coloniale
propriamente detto travolgendo in pieno anche l’Europa. Di chiara impronta
colonialista era il progetto di costruzione di un impero coloniale che la
Germania hitleriana si accingeva a realizzare schiavizzando i popoli
dell’Europa orientale, con il dichiarato intento di riaffermare il dominio
della razza bianca messo in pericolo dal bolscevismo e dalla Rivoluzione
d’Ottobre. E non era difficile capire che tra le vittime designate dell’infame
progetto vi fosse l’Unione Sovietica, costretta suo malgrado a una eroica
guerra patriottica e a pagare un prezzo altissimo in termini di vite umane e di
distruzione del proprio territorio.
Desta
perciò stupore apprendere che nel 1942, mentre la potente macchina bellica
tedesca era già ampiamente penetrata in territorio sovietico, Horkheimer
trovava addirittura il coraggio di rammaricarsi con i dirigenti del paese
aggredito dalla furia nazista di aver tralasciato il tema dell’estinzione dello
Stato per concentrare le energie nella industrializzazione del paese, di non aver
realizzato la «democrazia consiliare» bensì «la forma più coerente di Stato
autoritario». In definitiva, già prima del clima ideologico della guerra fredda
cominciava a restringersi lo spazio per le doverose differenze tra vittime e
carnefici. Certo, due anni dopo, Dialettica dell’illuminismo, scritto da
Horkheimer insieme ad Adorno, esprimeva una condanna del colonialismo, ponendo
anche una certa attenzione al legame tra esso e il nazismo. Ma di lì a poco
questi lampi di consapevolezza si sarebbero dileguati, e non solo in Horkheimer
e Adorno.
Nell’immediato
dopoguerra, con l’imporsi della categoria di totalitarismo, il nesso tra
tradizione colonialista e nazifascismo, di cui erano pienamente consapevoli i
popoli coloniali o ex-coloniali, lasciava il posto ad una equiparazione, tanto
diffusa quanto storicamente infondata e moralmente deplorevole, tra la Germania
nazista e l’Unione sovietica, e ad una celebrazione innocentista dell’Occidente
liberale e degli Usa, come sedi incontaminate della libertà e del rispetto dei
diritti umani. Il radicale ribaltamento di posizioni cui andava incontro Arendt
nei primi anni della guerra fredda, del tutto evidente anche dalle incoerenze
interne del noto Le origini del
totalitarismo del 1951, esprime chiaramente il mutamento di clima
ideologico-politico e l’accodarsi di molti intellettuali.
Il mancato incontro tra marxismo occidentale e rivoluzione anticoloniale
Ma è
negli anni anni ’60, allorché una nuova ondata di lotte di liberazione tornava
ad alimentare le speranze dell’Africa, dell’America Latina e dell’Asia, che la
mancata comprensione della questione nazionale raggiungeva il culmine. Dal
disinteresse per la sorte dei popoli coloniali si arrivava addirittura a
posizioni filo-colonialiste. Se dichiarata era l’avversione di Arendt per il
Terzo Mondo, che ai suoi occhi appariva una categoria pregna di «ideologia»,
«un’illusione» e non una «realtà», riprendendo la tesi anarchica della
soppressione dello Stato, Horkheimer giungeva nientemeno che ad appoggiare la
brutale aggressione americana del Vietnam, così come poco tempo prima aveva
giustificato, in quanto «preventiva», la guerra dei sei giorni che Israele
aveva combattuto nei primi di giugno del 1967 contro Egitto, Giordania e Siria.
E non certo di sostegno era la sua posizione nei confronti della lotta degli
afroamericani contro la discriminazione razziale negli Usa. Tutt’altro che
appoggio alla causa del popolo vietnamita esprimeva anche Adorno. L’anno dopo
il massacro di civili inermi a My Lai, nel 1968, egli dichiarava la sua
indisponibilità a «credere a uno qualunque, che dice che la guerra in Vietnam
gli toglie il sonno», e per rincarare la dose aggiungeva: «ogni oppositore
della guerra coloniale sarebbe tenuto a sapere che i Vietcong, dal canto loro,
torturano al modo cinese».
Ha
gioco facile Losurdo a rimarcare la stridente contraddizione tra le
manifestazioni che nelle strade e nelle piazze esprimevano solidarietà alle
lotte del popolo vietnamita, del popolo palestinese e del Terzo Mondo nel suo
complesso, e il notevole seguito di cui godevano i filosofi della «teoria
critica», avversari della rivoluzione anticoloniale in pieno svolgimento, delle
rivoluzioni dei paesi e dei popoli impegnati nella lotta per il riconoscimento
di un’identità nazionale. Analoga ammirazione suscitava in Italia il padre
dell’operaismo, Tronti, anch’egli dichiaratamente fiero di essersi mantenuto a
distanza dalle lotte dei popoli coloniali, di non essere caduto – per dirla con
le sue parole – nella «trappola del terzomondismo, delle campagne che assediano
le città, delle lunghe marce contadine». In sintesi: «non fummo mai “cinesi”».
Anche in questo caso, puntuale è la sottolineatura di Losurdo di un altro degli
«equivoci di massa» della stagione della contestazione libertaria, vale a dire
la contraddizione tra l’ampio sostegno di cui nella sinistra occidentale godeva
la rivoluzione culturale, lanciata (incautamente) da Mao per ridare slancio
allo sviluppo economico-industriale del paese e recuperare il ritardo anche
tecnologico nei confronti delle potenze capitalistiche, e gli onori tributati
al contempo al testo centrale dell’operaismo, Operai e capitale del
1966, che invece auspicava l’eliminazione del lavoro, a cui avrebbe fatto
seguito la scomparsa del «dominio di classe»: «Soppressione operaia del lavoro
e distruzione violenta del capitale sono dunque una cosa sola», sentenziava
Tronti.
Netta
era invece la condanna dell’aggressione al Vietnam espressa da Marcuse,
un’aggressione di «disumana violenza» che a suo avviso rendeva ancor più
evidente la natura oppressiva degli USA anche al proprio interno, come il
trattamento riservato agli afroamericani dimostrava. E tuttavia, esprimendo
forti perplessità in merito alle capacità dei popoli ex-coloniali di realizzare
modelli di industrializzazione nuovi e differenti da quelli capitalistici, egli
– osserva Losurdo – non riusciva a cogliere fino in fondo la carica
emancipatrice della rivoluzione anticoloniale, inerente la radicale
ridefinizione della divisione internazionale del lavoro e la messa in
discussione del monopolio della tecnologia da parte dei paesi capitalistici,
piuttosto che la realizzazione di un differente sistema di produzione
industriale. Una parziale incomprensione della questione coloniale viene
rilevata anche in altri autori meritevolmente schierati e impegnati contro il
colonialismo. È il caso di Althusser, la cui piattaforma teorica all’insegna
dell’anti-umanismo gli impediva di comprendere che le lotte di classe vanno ben
oltre la dimensione economica-redistributiva essendo, in particolar modo per i
popoli coloniali, lotte per il riconoscimento della dignità umana. Ma anche di
Sartre, il cui anticolonialismo, centrato esclusivamente sulla fase della
liberazione dal dominio coloniale, tralasciava del tutto la seconda tappa della
rivoluzione anticoloniale, quella cioè dello sviluppo economico, presupposto
ineludibile per il consolidamento dell’indipendenza acquisita. Anche in
Timpanaro l’appoggio pieno all’anticolonialismo aveva il suo tallone di
Achille: la rivendicazione anarchica dell’estinzione dello Stato. Piuttosto
diffusa in quel periodo marcatamente segnato dalla cultura postmoderna, tale
rivendicazione risultava in lampante contraddizione con l’aspirazione dei
popoli impegnati a costituirsi come Stati nazionali indipendenti, segnalando
un’altra delle stranezze dei movimenti di contestazione della società
capitalistica.
Žižek e la condanna dell’anti-imperialismo
Ad
arricchire lo scenario dei protagonisti dell’autodissoluzione del marxismo
occidentale, troviamo Foucault, altro autore di riferimento della stagione
1968-77. L’analisi del filosofo francese sull’onnipresenza e pervasività del
potere risulta, secondo Losurdo, basata su una ricostruzione storica
«esoterica» del razzismo e della biopolitica, che sorvola pressoché del tutto
sul dominio coloniale, che pure dovrebbe essere un’espressione eclatante del
potere, e finisce indirettamente per celebrare l’Occidente liberale. In tempi
più recenti, tale celebrazione diviene perfino esplicita in Negri e Hardt,
persuasi che quella americana è fin dalle sue origini – così scrivono in Impero –
«una democrazia fondata sull’esodo, sui valori affermativi e non dialettici,
sul pluralismo e la libertà», e dunque pressoché estranea all’imperialismo e al
colonialismo, fenomeni ai loro occhi di marca esclusivamente «europea».
L’indifferenza per la lotta tra colonialismo e anticolonialismo trova un’altra
recentissima testimonianza in Žižek. Epigono di Arendt, è anch’egli ostile al
Terzo Mondo e ai paesi che si richiamano all’antimperialismo, tra cui,
ovviamente, non può mancare la Cina. Sbalorditiva è la sua posizione sulle
terribili conseguenze del Grande balzo in avanti voluto da Mao alla fine degli
anni Cinquanta, che il filosofo sloveno attribuisce alla volontà sanguinaria
del leader cinese «di far morire di fame dieci milioni di persone» (nella
versione originale in inglese – tiene a precisare Losurdo – si parla
addirittura di «decine di milioni di persone»). Si tratta di un’accusa del
tutto priva di fondamento, smentita da personalità distanti dal comunismo e
perfino da autori suoi irriducibili avversari, che colloca Žižek nel solco di
quanti sono impegnati a screditare la Repubblica popolare cinese, non poche
volte riprendendo le balle dell’industria imperialista della menzogna.
L’esito
politico più evidente della rovinosa parabola del marxismo occidentale è
l’odierna inadeguatezza della sinistra a cogliere e interpretare problemi e
contraddizioni del presente. Essa, non solo è stata incapace di resistere al
canto ammaliante che, con la svolta del 1989-91 e la chiusura della parentesi
sovietica, preannunciava l’ingresso in un mondo di pace e di benessere per
tutti, canto destinato ad essere rapidamente sconfessato dalla realtà e dal
riaffacciarsi della guerra anche nel cuore dell’Europa. Ma nel suo ambito non
sono mancati autori di rilievo che hanno annunciato la fine dell’imperialismo –
pur dinanzi alla sua esplicita e rivendicata riabilitazione – e l’affermazione
della pace universale (Negri e Hardt). In alcuni settori culturali e politici
che pur si richiamano al comunismo, ad essere espressione di imperialismo e di
neo-colonialismo è a quanto pare la Repubblica popolare Cinese, sorta da una
grande rivoluzione anticoloniale. Finalizzati di fatto ad abbattere governi e a
smembrare Stati non proni alle direttive dell’Occidente e del suo paese guida,
gli interventi militari della Nato sono stati talvolta interpretati anche da
parte di esponenti del marxismo occidentale come operazioni umanitarie:
l’azione bellica della Nato che nel 1999 e senza alcuna autorizzazione dell’ONU
si accingeva a distruggere ulteriormente la Jugoslavia, già smembrata nel corso
del conflitto del 1992-95, veniva letta e descritta da Hardt come una guerra
«finalizzata a tutelare i diritti umani», che dunque nulla aveva a che fare con
l’«imperialismo americano» e con i «limitati interessi nazionali degli Stati
Uniti». E una certa complicità nei confronti dell’interventismo Nato emergeva
anche in occasione dell’aggressione neo-coloniale alla Libia del 2011, evidenziando
ancor più la débâcle della sinistra. Losurdo non esita a ricordare la presa di
posizione favorevole di Rossanda e di Camusso. Forse è troppo perentorio quando
afferma che «non mi risulta che ci sia un esponente di rilevo del marxismo
occidentale ovvero del “marxismo occidentale libertario” che abbia denunciato»
l’orrore della distruzione e delle vittime del paese guidato da Gheddafi. E
tuttavia, ha ben ragione a rimarcare la sostanziale inerzia nella denuncia e
nel contrasto delle nuove avventure imperiali e delle politiche neocoloniali
dell’Occidente. Inerzia che peraltro si riflette drammaticamente nella totale
assenza di iniziative in difesa della pace mondiale, a conferma del legame
strettissimo, nel bene e nel male, tra marxismo e lotta per la pace: nato
contro il massacro imperialista della Grande Guerra, dopo aver mancato di fatto
l’appuntamento con la rivoluzione anticoloniale mondiale, il marxismo
occidentale sembra attualmente emanare i suoi ultimi respiri nell’incapacità di
comprendere, denunciare e soprattutto contrastare efficacemente le guerre
scatenate o fomentate dall’Occidente.
Riprendere una discussione di cui c’è urgente bisogno
Ad
ogni modo, sebbene il quadro diagnostico tracciato nel volume sia decisamente
grave, la prognosi non pare essere completamente infausta. Per quanto molto
difficoltosa, una rinascita è comunque possibile. Coerentemente con l’impietosa
diagnosi, è necessario recuperare il rapporto mancato con la rivoluzione
anticoloniale mondiale, essere consapevoli che lo scontro tra colonialismo (con
vecchie e nuove vesti) e anticolonialismo è tutt’altro che concluso e risulta
tuttora decisivo sullo scenario internazionale. L’impegno per il superamento
del capitalismo sarebbe monco senza il sostegno – anche aspramente critico se
necessario, ma non superficialmente liquidatorio, come purtroppo spesso capita
– nei confronti di quei popoli faticosamente impegnati a difendere e
consolidare la possibilità di autodeterminare liberamente il proprio cammino.
Ma
l’eventuale e auspicata rinascita del marxismo a Ovest è evidentemente compito
di natura anche teorica, oltre che politico. Tre sono le lezioni principali che
il libro invita a riattualizzare. La lezione di Hegel, secondo cui fare
filosofia è tutt’altra faccenda che indossare i panni del profeta, sempre
pronto a ritrarsi sdegnato dalla prosaica realtà in nome di orizzonti tanto
immacolati quanto irraggiungibili; fare filosofia significa sforzarsi di
comprendere il proprio tempo con un armamentario di categorie da realizzare accollandosi
la fatica della conoscenza della realtà storica, delle sue contraddizioni e
conflitti. Quella di Marx, secondo la quale è inoltre indispensabile collocare
ogni pensiero filosofico e autore nel contesto del suo tempo, evitando sia di
cadere in quella che Losurdo definisce l’«ermeneutica dell’innocenza» (come è
accaduto a non pochi intellettuali di sinistra nei confronti di Heidegger e di
Nietzsche), sia di stigmatizzare movimenti e lotte reali come privi di
qualsiasi rilevanza ai fini di una trasformazione sociale pura e incontaminata.
Chi aspira a questo tipo di rivoluzione e a mondi paradisiaci – questa la
lezione di Lenin – può essere certo che essi rimarranno soltanto un prodotto
della sua immaginazione. Tre utili lezioni, in un libro ricco di stimoli, per
prendere definitivo congedo dalle aspettative messianiche e utopiche che hanno
contraddistinto (e continuano a contraddistinguere) le riflessioni di
importanti esponenti del marxismo occidentale e le rivendicazioni politiche di
settori non marginali del movimento operaio e comunista, e per rianimare una
discussione di cui c’è urgente bisogno.
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