26/8/16

La critica marxista della scienza capitalistica: Una storia in tre movimenti? — I

Karl Marx ✆ Joaquín Bourdieu
Gary Werskey

Il mio obiettivo, con questo scritto, è comprendere, come partecipante e come osservatore, la storia e le prospettive della critica marxista della scienza capitalistica. Tale prospettiva – e le politiche da essa sostenute – hanno vissuto una breve fioritura, in particolare in Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti, negli anni Trenta e Quaranta, per poi essere riprese e trasformate solo negli anni Sessanta e Settanta. In entrambi i casi, i critici socialisti hanno attinto dalla propria esperienza personale, professionale e politica – influenzati dal marxismo della loro epoca – dando vita a nuovi e stimolanti resoconti circa la storia, la filosofia e le politiche della scienza. Tuttavia, nessuna corrente marxista ha condizionato, in modo significativo, la tendenza dominante nello sviluppo degli studi su scienza e tecnologia (STS) nella second meta del XX secolo. Ancora più importante per queste attività, i movimenti politici sui quali poggiavano sono interamente, e rispettivamente, crollati negli anni Cinquanta e ottanta.
 
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Ciò nonostante, come un fantasma infernale nella macchina degli STS, l’influenza di tali critici marxisti ha aleggiato nell’ombra, nelle memorie e nelle liste di lettura. Al culmine della Guerra fredda, Marx rappresentava una sorta di spirito non annunciato, che ossessionava i resoconti dell’epoca sulla rivoluzione scientifica del XVII secolo. Né certi sopravvissuti marxisteggianti – in particolare J.D. BernalJoseph Needham – avevano chiuso bottega del tutto.

Alcuni dei loro giovani accoliti sono stati, in seguito, in grado di ispirare una nuova generazione di studiosi, in un periodo di rinnovata agitazione politica, a intraprendere ricerche sullo sviluppo scientifico assai più critiche dal punto di vista sociale. Gli studenti di questo gruppo che hanno scelto di rimanere nell’ambito accademico hanno, a loro volta, agito come un legame costante a questa tradizione.Ciò nonostante, come un fantasma infernale nella macchina degli STS, l’influenza di tali critici marxisti ha aleggiato nell’ombra, nelle memorie e nelle liste di lettura. Al culmine della Guerra fredda, Marx rappresentava una sorta di spirito non annunciato, che ossessionava i resoconti dell’epoca sulla rivoluzione scientifica del XVII secolo. Né certi sopravvissuti marxisteggianti – in particolare J.D. BernalJoseph Needham – avevano chiuso bottega del tutto.

D’altro canto, la mia impressione è che, a partire dal 1980, l’influenza della critica marxista sulle discipline di tale campo di studi sia stata praticamente nulla. Il predominio dei resoconti sociologici della scienza post-kuhniani e postmodernisti ha fatto curiosamente eco alle storie “internaliste” degli anni Cinquanta, trasferendo semplicemente l’enfasi da ciò che gli scienziati hanno pensato a ciò che hanno fatto. Quindi mi colpisce l’ironia – conoscendo molti dei miti e apolitici desperados che hanno promosso il costruttivismo sociale negli STS – per la quale il loro dogma centrale è stato visto, in alcuni ambienti, come parte integrante degli sforzi di uno strambo assortimento di docenti femministe e “radicali” finalizzati a sovvertire la razionalità scientifica. Di gran lunga più preoccupante è il fatto che, mentre le cosiddette “science wars” hanno concentrato l’attenzione sulle dispute epistemologiche all’interno degli STS, i rapporti sociali della scienza venivano trasformati è sempre più subordinati a sostegno del potere e della redditività del capitale globale e, più specificamente, americano.

Eppure, all’inizio del XXI secolo, vi sono segni sia di un profondo disincanto rispetto a vari aspetti della “tecnoscienza” capitalistica, che di un certo disagio accademico circa la ristrettezza delle recenti indagini sugli studi storici e sociali della scienza. Possiamo dunque chiederci:
A quali condizioni tali tendenze potrebbero dar vita a nuova sinistra in ambito scientifico? Quale forma assumerebbe, e dove avrebbe le maggiori probabilità di prosperare?
Potrebbe una prospettiva marxista aiutarci a comprendere le origini e le sorti delle prime due fasi della sinistra in ambito scientifico? Nonché ispirare e arricchire anche la sua terza manifestazione?
Se la storia si ripete – la prima vota come tragedia, la seconda come farsa – la terza occasione potrebbe essere quella buona?
Questi sono gli interrogativi posti dal presente saggio.

Inevitabilmente, vincoli di tempo e conoscenza limiteranno la mia indagine.
Mi concentrerò prevalentemente sugli sviluppi britannici rispetto a quelli americani, e molto molto poco sulla Francia. Sino alla conclusione dovrò ignorare gran parte del resto del mondo.
Nel’ambito degli STS darò maggior rilievo alla storia della scienza, rispetto ad altre sottodiscipline, e alla prospettiva marxista.
Tra i marxismi concorrenti favorirò quello eclettico e libertario associato al  Radical Science Journal degli anni Settanta.
Pur soffermandomi spesso sulle circostanze che hanno coinvolto scienziati accademici e sulle analisi sociali che ne sono state fatte, lo spirito della mia ricerca consiste nell’incoraggiare una maggiore comprensione – e una sfida più efficace – della totalità dei rapporti sociali nella scienza e delle forme di vita sociali da essi supportate.
Questo saggio è inevitabilmente autobiografico. Ho speso un decennio della mia breve carriera di studioso tentando di comprendere le personalità, le azioni e il pensiero sociale della sinistra scientifica britannica. Dopo un intervallo di trent’anni, nella prima parte del saggio, ho rivisitato il mio libro The Visible College, ricollocando tale materiale in una cornice marxista, mi auguro, più coerente. La seconda parte tratta del movimento radicale nella scienza degli anni Settanta, nel quale sono stato impegnato sia come studioso che come attivista. Il mio punto di vista è necessariamente parziale, manifestamente laddove sono stato più coinvolto, ad esempio nel caso del Radical Science Journal. La sezione finale è puramente speculativa e basata in gran parte sulle mie speranze riguardo – più che su qualsivoglia conoscenza definitiva (o ottimismo circa) – all’emergere di una nuova sinistra in ambito scientifico, marxista o d’altro genere.

La mia conclusiva apologia metodologica riguarda l’ampiezza (e lunghezza) del saggio. Il contributo dei due precedenti movimenti agli STS era inseparabile dalla pratica politica che era loro propria, a sua volta indissolubilmente legata alle prospettive della scienza, del capitalismo e del socialismo in un epoca di straordinarie turbolenze globali. Poiché, come Robert Boyle, questi uomini e queste donne erano “a tal punto crucciati della mancanza di buon lavoro che essi hanno preso la cura dell’intero genere umano quale loro compito”, la loro teoria, così come la loro pratica, vanno collocati nel contesto della crisi di vasta portata nelle relazioni sociali, la quale ha agito da precipitante, e delle reazioni politiche e accademiche che hanno condotto alla loro scomparsa. Una volta individuatene e comparatene traiettoria e realizzazioni, è possibile una riflessione sull’eventualità che la loro storia e le loro idee, a determinate condizioni, possano contribuire a promuovere nuove tendenze di sinistra in campo scientifico nel prossimo decennio. A tal fine, concluderò con un interrogativo su quale ruolo gli studi su scienza e tecnologia (STS) potrebbero svolgere nel dotare, sia gli scienziati che i non scienziati, di una comprensione storicamente e criticamente più adeguata dei rapporti sociali della scienza contemporanea.

A parte ciò, desidero ringraziare Bob Young – cui è dedicato questo scritto – per averlo reso disponibile sul suo sito web. Con Bob siamo stati compagni di viaggio negli anni Settanta in quello che si è dimostrato un emozionante, sebbene spesso accidentato, percorso attraverso la riscoperta e trasformazione delle teorie e prassi marxiste. Ma egli ha rappresentato per me anche un modello da seguire oltreché un critico perspicace. Ho avuto modo di apprezzare sia la sua erudizione che la sua passione politica, entrambe le quali hanno contribuito a formare e guidare il mio lavoro e il mio impegno politico durante questo periodo. Alcuni hanno trovato le scelte personali e politiche di Bob, non di rado drammatiche, alienanti; io le ritengo stimolanti. dunque, questo saggio è un promemoria, per Bob e per altri, della capacità di guida da lui mostrata, così come del valore di ciò che egli, insieme d altri, ha creato in quell’epoca tanto diversa.

Primo movimento: la sinistra britannica nella scienza, 1936-1956
Allegro con brio
Vorrei iniziare descrivendo brevemente le circostanze del capitalismo globale e britannico nei periodi immediatamente precedente e successivo alla Prima guerra mondiale – incluso lo stato delle loro risorse tecnico-scientifiche – prima di passare ai principali catalizzatori della sinistra scientifica inglese degli anni Trenta. Delineerò in seguito la composizione sociale e le appartenenze politiche di tale movimento, le sue pratiche caratteristiche, e i suoi contributi teorici alla comprensione sociale e pubblica della scienza. L’analisi si conclude con un bilancio dei successi, delle sconfitte e del lascito del movimento nel dopoguerra.
Un capitalismo caotico
La prima sinistra inglese in campo scientifico è sorta, fiorita e crollata nel corso della fase più barbara di quello che Eric Hobsbawm ha definito come “il secolo più straordinario e terribile della storia dell’umanità”. Si tratta di un’epoca che ha suscitato in molti “quella passione tipica del XX secolo, l’impegno politico”; un’epoca testimone, in parte in conseguenza di ciò, di una “guerra dei trent’anni” globale, rispetto alla quale l’unica forma di grazia è consistita nelle soluzioni del dopoguerra, che hanno posto fine temporaneamente a quasi mezzo secolo di catastrofica instabilità economica internazionale e carneficina.

Le origini di gran parte di tale disordine risiedevano nelle crescenti sofferenze dell’economia mondiale capitalistica, nella quale non vi era, dal 1914, una potenza egemonica capace di mantenere la stabilità internazionale e un’ordinata espansione economica. Sebbene la Gran Bretagna fosse ancora la nazione più potente a livello mondiale, la sua egemonia globale era significativamente diminuita a fronte della sfida industriale e imperialista della Germania, della Francia e, sempre più, degli Stati Uniti. Un’importante manifestazione di queste rivalità imperialistiche , dal terzo quarto del XX secolo in poi, è stata la sempre maggiore preminenza dello stato nel proteggere i mercati nazionali e le colonie d’oltremare, attraverso il rafforzamento delle tariffe e delle forze armate. L’ascesa del nazionalismo economico stimolava sia la crescita di una moderna industria su larga scala e la finanza internazionale, che il restringersi delle opportunità di realizzare adeguati proventi economici da tali investimenti. La risultante crisi di “sovrapproduzione” incoraggiava ulteriori misure protezionistiche, il nazionalismo e le tensioni internazionali, da una parte, e incrementava l’opposizione della classe lavoratrice e del movimento socialista al sistema capitalista responsabile della crisi, dall’altra. Ironicamente ma inevitabilmente, le politiche di questi movimenti d’opposizione, nonostante il loro dichiarato internazionalismo, erano risolutamente nazionaliste e stato-centriche, al pari dei loro avversari di classe.

Quale tentativo di risoluzione di tali contraddizioni economiche e politiche, la Prima guerra mondiale è stata un completo e sanguinario disastro. Combattendo per la “vitoria totale”, Gran Bretagna, Germania e Francia si sono organizzate come potenti “warfare states”, mobilizzando e esponendo eserciti e popolazione civile al moderno terrore della “guerra totale”. In ultima analisi, il conflitto “ha condotto alla rovina sia i vincitori che i vinti, portando “gli sconfitti verso la rivoluzione e i vincitori alla bancarotta e all’esaurimento materiale”. Il solo, e relativamente indenne, potere capitalista che avrebbe potuto garantire una maggiore stabilità si era ritirato in un risoluto isolamento rispetto alle questioni della “vecchia Europa”; per poi accelerare, tramite il crollo di Wall Street, una depressione globale di scala inedita e la prospettiva di un’altra guerra mondiale. Sulla scia di un simile massacro e di tale caos, non è sorprendente come in molti in tutto il mondo, compresa l’aristocrazia intellettuale britannica, si siano sentiti disillusi dai propri capi politici, nonché più disponibili ad alternative collettiviste (e autoritarie) al capitalismo liberale e all’imperialismo.

Nel corso della fase di preparazione, così come nella conduzione e nell’indomani della “Grande guerra”, le capacità tecnico-scientifiche, l’organizzazione e la direzione delle grandi potenze capitalistiche vennero significativamente alterate. Si tratta del periodo nel quale gli stati imperialisti, soprattutto la Gran Bretagna, iniziavano a finanziare un’enorme espansione della manodopera tecnica, spesso proveniente dalle classi medio-basse e dai ceti professionali,  che andavano a formare le nuove e sempre più coscienti professioni scientifiche e ingegneristiche. La maggior parte avrebbe trovato lavoro nell’industria privata – in particolare nei settori chimico, elettrico e farmaceutico – e negli stabilimenti governativi – sia in patria che nell’impero, come insegnanti, ricercatori o amministratori. Una minoranza sarebbe rimasta in una manciata di università e istituti di ricerca a perseguire quella che era già nota come scienza “pura”, peraltro con grande successo, in particolare nelle scienze fisiche. In ognuno di questi aspetti dei rapporti sociali della scienza, la Germania d’anteguerra era generalmente considerata la più forte delle potenze imperiali, il che era causa di una certa agitazione nel rivale britannico. Tuttavia, prima del 1914, le preoccupazioni circa le capacità scientifiche nazionali non erano sufficienti a suscitare la ricerca nel campo che oggi definiamo STS, o un declino nell’internazionalismo scientifico.

Ciò nonostante, la Prima guerra mondiale ha fatto in modo che i belligeranti europei non solo militarizzassero e incorporassero ulteriormente  la scienza e la tecnologia al servizio del capitalismo e dell’imperialismo, ma ha conferito ai lavoratori scientifici una maggiore consapevolezza sociale. Una volta evidente che il conflitto non sarebbe finito rapidamente, lo stato britannico iniziava a mobilitare velocemente le risorse industriali e scientifiche nazionali, dispiegandole a fini militari sia nelle proprie fabbriche e stabilimenti di ricerca, che nell’industria privata. Alcuni scienziati accademici e tecnici vennero impiegati direttamente – e senza esprimere remore di sorta – nella produzione di armamenti quali gas tossici, aerei e munizioni; ma la scienza era anche coinvolta più direttamente nella produzione attraverso i nuovi criteri scientifici di gestione tayloristica. Nelle maggiori organizzazioni di ricerca e sviluppo, numerosi laureati tecnico-scientifici si ritrovavano a lavorare in squadra, sotto stretta supervisione, a problemi dettati da altri. Tali condizioni incoraggiavano una maggiore coscienza professionale e di classe, di cui è stata espressione, per esempio, la formazione della National Union of Scientific Workers (NUSW).

L’eredità della guerra per lo stato britannico e per alcune frazioni del capitale è consistita nell’assegnare un ruolo maggiore alla conoscenza tecnico-scientifica, e occasionalmente alle istituzioni scientifiche accademiche, nell’avanzamento dei loro interessi economici e imperialisti. Durante il periodo tra le due guerre, come sostenuto in modo convincente da David Edgerton, un vasto complesso militar-industriale diretto dallo stato venne stabilito, pari a un terzo o più di tutti i fondi pubblici in ricerca e sviluppo, agevolando reti e progetti di ricerca sempre più importanti col coinvolgimento di organismi scientifici accademici, industriali e statali. Un simile “warfare state” implicava anche una revisione della conduzione della politica scientifica, dell’organizzazione dei suoi stessi programmi di ricerca civili e del loro rapporto rispetto agli interessi dell’industria privata e dell’impero. Alla base di tutte queste iniziative vi era un’ulteriore espansione, finanziata dallo stato, dell’educazione tecnico-scientifica, con una conseguente triplicazione del numero di scienziati, giunto a 28.000 nel 1939.

Gli scienziati beneficiavano direttamente anche dell’espansione della ricerca e delle opportunità di insegnamento, mantenendo una sostanziale autonomia dallo stato attraverso il controllo dei finanziamenti provenienti dai consigli per la ricerca governativi e dallo Universities Grants Committee. Gli anni Venti sono stati un periodo particolarmente vivace per l’istituzione più favorita, Cambridge, e i suoi più validi istituti di ricerca, il Cavendish Laboratory sotto la direzione di Sir Ernest Rutherford e il Dunn Biochemical Institute guidato da  Sir Frederick Gowland Hopkins. L’entusiasmo che circondava la fisica nucleare era addirittura sufficiente a ricostruire le relazione tra accademici tedeschi e britannici, dopo quasi un decennio  nel quale la Germania era stata praticamente ostracizzata dalla scienza internazionale.

Nonostante la loro relativa prosperità e un’utilità ampiamente percepita, l’influenza politica/ideologica, la posizione culturale e lo status sociale della scienza britannica, nonché della sua comunemente assunta propaggine, la tecnologia, erano decisamente più ambigue. Politicamente e ideologicamente, la crescente identificazione degli scienziati con gli orrori della guerra chimica e le prospettive della disoccupazione tecnologica portavano ad appelli, da parte di vescovi e altre nobili figure, per una moratoria su nuove ricerche e innovazioni.

Probabilmente l’uso più ideologico della scienza verificatosi negli anni Venti fu il supporto dei biologi allineati alla Eugenics Society sia alla sterilizzazione degli inadatti – una categoria che avrebbe presto abbracciato i disoccupati – che all’incoraggiamento rivolto alle persone brillanti e rispettabili come loro, oltreché alla loro classe dirigente, a riprodursi di più. Forse non per caso, il Partito laburista aveva fallito nell’accogliere la scienza come un compagno ideologico nella lotta per il socialismo. Ma tale riluttanza era probabilmente legata culturalmente, quantomeno nelle menti degli umanisti scientifici e liberali associati a Nature di Sir Richard Gregory, all’abbraccio, al più parziale, della scienza e di chi la praticava da parte della cultura dominante. Causa di risentimento e preoccupazione, la cura proposta consisteva in una campagna nazionale di educazione al fine di instaurare un nuovo umanesimo scientifico nelle scuole e nella vita pubblica, attraverso la nascente disciplina della storia della scienza. Sappiamo ora, grazie all’innovativa ricerca di Anna-K. Mayer, che uno dei principali fautori di questo movimento era Charles Singer, già proiettato verso il secondo Congresso internazionale di storia della scienza e tecnologia di Londra nel 1931, nel corso del quale sperava di conquistare gli opinion maker politici e culturali alle rivendicazioni del liberalismo scientifico. Prima di tale data, il principale impegno della scienza nella cultura contemporanea erano stati gli sforzi di Arthur Eddington, James Jeans, e John Scott Haldane finalizzati a dimostrare come la teoria della relatività e la biologia vitalista riconciliassero le pretese di una scienza meno materialista con quelle del cristianesimo.

Probabilmente tali preoccupazioni “sovrastrutturali” dei sostenitori della scienza smentivano il rinnovato rispetto accordato all’élite scientifica nei corridoi del potere, nonché in alcuni consigli di amministrazione. Certamente i vertici della Royal Society, Sir Henry Dale e Sir A.V. Hill, e i loro colleghi della FRS (Fellow of the Royal Society), venivano regolarmente richiesti quali consulenti sia dei dipartimenti e comitati chiave del governo, sia – come nel caso di Dale – dalle principali case farmaceutiche. I più coinvolti fra questi membri dell’establishment scientifico erano sicuramente nei pensieri di Bertrand Russel quando questi condannava, nel 1931, “quegli uomini di scienza divenuti sempre più determinati sostenitori dell’ingiustizia e dell’oscurantismo sui quali il nostro sistema sociale è fondato”. Ciò che sicuramente non si trova, nel periodo tra i focolai di guerra e la depressione, è un qualunque scienziato di spicco che si sia espresso quale attivista socialista. Per quanto mi è dato sapere, il giovane Lancelot Hogben è stato l’unico scienziato (a parte Russel) incarcerato come obiettore di coscienza durante la Prima guerra mondiale, e il solo biologo ad affrontare gli eugenisti reazionari e gli scienziati con inclinazioni religioso-idealiste negli anni Venti. Dei successivi e più prominenti rappresentanti della sinistra scientifica, soltanto Hayman Levy era seriamente coinvolto sia nell’organizzazione sindacale per la NUSW, che negli sforzi per rendere il socialismo del Partito laburista più scientifico. Chi avrebbe potuto prevedere, ancora nel 1931, che la Gran Bretagna avrebbe presto assistito alla formazione di un importante movimento d’opposizione da parte di scienziati socialisti?
Convertitori catalitici
I movimenti sociali di opposizione formano una complessa miscela di speranze e insoddisfazioni, sia personali che sociali, e sembrano funzionare meglio tra l’euforia e la disperazione. Tuttavia, è assai improbabile che tali catalizzatori convertano chicchessia all’azione – tanto meno gli scienziati britannici al socialismo – sin quando figure rispettate non sono pronte a prendersi dei rischi e a creare spazi fecondi per l’agitazione. Questo sembrerebbe il modello in opera nella costituzione di una sinistra nel campo della scienza britannica nel corso degli anni Trenta. Come osservato da un ex funzionario del Partito comunista, incaricato di supervisionare l’attività degli scienziati naturali, “sollevare queste genere di persone richiede un enorme sforzo”.

La depressione globale é stata causa di diffusi malcontenti per i lavoratori scientifici, sia in Gran Bretagna che internazionalmente. Sul fronte interno, la crescente disoccupazione andava a colpire non solo la classe lavoratrice industriale ma anche i laureati in materie scientifiche e tecniche. Dopo l’euforia dovuta all’estendersi delle opportunità in Inghilterra negli anni Venti, era giunto il momento dei tagli ai contributi pubblici, alle borse di studio e ai fondi per la ricerca. All’estero, l’ascesa del fascismo, specie in Germania, segnalava l’incorporazione della scienza al”interno di una macchina militare finalizzata alla conquista globale e imbevuta in un’ideologia profondamente razzista, che avrebbe ben presto portato al’espulsione di eminenti scienziati ebrei tedeschi. La mancanza di immaginazione della risposta fornita dai principali partiti politici britannici a questa combinazione di crisi – inclusa la riduzione del sostegno alla ricerca civile – non poteva certo ispirare fiducia nel capitalismo e nella democrazia liberali. Inoltre, la reputazione delle professioni tecnico-scientifiche, ora ancor più invischiate nei rapporti sociali capitalistici e imperialisti, non era ben vista da coloro che individuavano nella scienza la causa della crescente “disoccupazione tecnologica” e della brutalità militare. L’insoddisfazione si sarebbe diffusa particolarmente tra i giovani scienziati accademici, laddove le loro speranze di un pieno coinvolgimento negli attesi grandi avanzamenti della fisica e della biologia si ritiravano a fronte di un’annunciata guerra europea.

Un simile ottimismo riguardo al futuro della scienza – e sul suo contributo al progresso del benessere dell’umanità – ha rappresentato naturalmente anche una grande fonte di ispirazione per la generazione di lavoratori scientifici tra le due guerre. Essi avevano “il futuro nelle loro ossa”, come osservato da C. P. Snow, in parte perché alcuni di loro stavano partecipando direttamente alla sua  creazione, attraverso l’entusiasmante lavoro compiuto sotto la guida di figure del calibro di Hopkins e Rutherford. La loro ampia visione della scienza come forza storica progressiva derivava da una tradizione intellettuale risalente a Francis Bacon, tradizione rafforzata nei loro anni formativi da scrittori di testi scientifici e romanzi, quali H. G. Wells in particolare. Per quanto tale ideologia potesse incoraggiare alcuni a ritenersi più attrezzati dei politici, privi di conoscenze scientifiche, a dirigere gli affari umani, questa fiducia in se stessi sarebbe stata difficile da sostenere in assenza di modelli reali in grado di confermarla.

Questo è il motivo per il quale l’esempio dell’Unione Sovietica, intesa quale apparente quintessenza del “socialismo scientifico”, ha avuto un simile effetto su alcuni intellettuali in campo scientifico negli anni Trenta. Come dimostrato da Loren Graham nel corso di quattro decenni, una combinazione di fede nel marxismo come scienza, e la brutale necessità della rapida modernizzazione di una società prevalentemente agraria, condussero il regime sovietico a divenire “il più entusiasta sostenitore della scienza e della tecnologia fra tutti i governi contemporanei”. Una dedizione espressa nella leniniana promessa per cui “nessun oscuro potere sarebbe stato in grado di resistere all’unione dei rappresentanti della scienza, del proletariato e della tecnica”. L’impegno dell’URSS nella causa del socialismo scientifico andava ben oltre il suo massiccio incremento di lavoratori scientifici, strutture di ricerca e industria pesante. Si trattava anche, infatti, del primo paese ad aver istituzionalizzato quelli che oggi chiamiamo STS, stabilendo un centro di ricerca dedicato alla storia della scienza e della tecnologia, strettamente connesso al pionieristico lavoro della pianificazione e politica scientifiche, sotto gli auspici del Consiglio superiore dell’economia e del primo piano quinquennale. Tuttavia, niente di tutto ciò avrebbe avuto la minima importanza per gli scienziati, o per chiunque altro, se non fosse stato per un unico e sconvolgente fatto: la sola nazione ad aver rotto col capitalismo liberale sembrava essere anche la sola immune dal “trauma del grande crollo”. Tra il 1929 e il 1940 la produzione industriale sovietica era più che triplicata, giungendo a rappresentare nel 1938 il 18 per cento della produzione manifatturiera mondiale. “Ancora più rilevante, non vi era disoccupazione”.

La notizia di questi risultati epocali – e della loro base nel supporto senza precedenti fornito dall’URSS alla ricerca tecnico-scientifica, compresi gli studi storici e sociali della scienza – raggiunsero Londra, nel luglio del 1931, grazie alla delegazione sovietica al Congresso internazionale di storia della scienza e della tecnologia. Il gruppo era costituito da importanti ricercatori dell’Istituto di storia della scienza dell’Università di Mosca, guidati da Nikolaj Bucharin e accompagnati da un supervisore del “partito”. Il contesto politico e le reazioni alle relazioni sovietiche, pubblicate nel giro di una settimana col titolo Science at the Cross Roads, sono state ampiamente discusse altrove. Ciò che va sottolineato in questa sede sono, la magistrale panoramica compiuta da Bucharin sulla sociologia marxista della scienza e sulla pratica sovietica della pianificazione scientifica; e l’iconoclastico saggio del suo collegaBoris Hessen “Le radici sociali ed economiche dei Principia di Newton”. Quest’ultimo costituisce, ovviamente, un punto di riferimento nella storiografia della scienza, la cui tesi così possono essere sintetizzate: 1) la storia della scienza può essere scritta come un movimento dialettico tra la base economica della società e la sua sovrastruttura ideologica; 2) distinzione tra il valore conoscitivo della scienza e le condizioni sociali che l’hanno ispirato; 3) necessità di sottolineare il significato sociale e politico della storia della scienza. Ma ciò che sia Bucharin che Hessen erano ansiosi di porre in evidenza, consisteva nel contrasto tra il pessimismo di una società capitalistica incapace di servirsi delle sue forze produttive, compresa la scienza,  e l’ottimismo di una società socialista nella quale “la scienza sta raggiungendo la vetta del riconoscimento sociale”.

Mentre l’ondata sovietica infrangeva le iniziali speranze nutrite da Chrles Singer che il congresso potesse favorire la promozione dell’umanesimo scientifico e della storia della scienza presso un pubblico più vasto, esso scuoteva positivamente alcuni dei suoi più giovani organizzatori e partecipanti – J. D. Bernal, Lancelot Hogben, Hyman Levy e Joseph Needham. Insieme al giornalista J. G. Crowther, ospitarono i sovietici, li aiutarono a tradurre e pubblicare i loro saggi, supportarono le loro relazioni tagliate al congresso, per poi promuovere queste nuove prospettive marxiste sia sulla stampa che tra i loro colleghi. “Il più importante incontro fra idee dai tempi della Rivoluzione”, questo l’entusiastico verdetto di Bernal sul congresso. Non sorprende che il corrispondente locale dell’agenzia di informazione russa TASS, telgrafasse a Mosca che, nonostante il generale disappunto dei delegati sovietici rispetto al congresso, questi rimasero “impressionati da una minoranza di giovani delegati, in particolare Hogben, Needham e David Guest”. La fiduciosa conclusione? “forse il congresso scientifico potrebbe divenire storico nel senso che esso… ha fornito un’enorme spinta [allo] studio [del] materialismo dialettico, specie in Inghilterra, tra le giovani generazioni di lavoratori scientifici”. Un punto di vista giornalistico confinante con la profezia.

Questa trentina di scienziati, tra i quali  J. B. S. Haldane e P. M. S. Blackett, avrebbe costituito informalmente la guida della sinistra scientifica negli anni Trenta e Quaranta, il suo “Visible College”. Il loro retroterra sociale variava dalla classe lavoratrice impoverita all’aristocrazia intellettuale liberale. Tutti erano stati profondamente influenzati e disillusi dalla Prima guerra mondiale, sia come ufficiali in servizio, sia come ricercatori per conto del governo o obiettori di coscienza, sia, infine, come studenti entrati in contatto con i veterani di ritorno a Cambridge nel dopoguerra. La fede religiosa era una vittima comune; a parte il quaccherismo di Hogben e l’idiosincratico anglo-cattolicesimo di Needham, ora erano tutti atei. Tutti tranne Haldane si erano convertiti al socialismo durante gli studi universitari, tuttavia erano stati largamente politicamente inattivi negli anni Venti. Tutto ciò che rimaneva del loro giovanile idealismo e passione lo investirono non nella politica, bensì nel perseguimento del fervore scientifico, che fosse attraverso la fisica nucleare, la genetica, o i confini tra la biologia, la chimica e la cristallografia a raggi x. Certamente per Bernal, “la sua fede nella scienza può essere meglio descritta come devozione religiosa”, la quale brilla attraverso le pagine del suo straordinario trattatello del 1929, The World, the Flesh and the Devil. Al di là del piacere dell’immersione nella vita di laboratorio, molti tra questi scienziati si sentirono liberi di estendere la loro curiosità intellettuale non solo alla “filosofia della natura”, prima che la specializzazione e la frammentazione conquistassero la scienza”, ma al freudismo, nonché a stili di vita e di matrimonio non convenzionali. Alcuni, come Blackett e Levy, erano più concentrati sulla loro scienza, oltreché più convenzionali nella loro vita privata. Ma tutti erano, comunque, figli dei disillusi e modernisti anni Venti.

Ciò che si sovrappose ben presto a questa mentalità, tipica degli anni Venti, furono le ideologie marxiste degli anni Trenta. Con la notevole eccezione di Lancelot Hogben, questi uomini si spostarono verso l’estrema sinistra, sia nel Partito laburista che nei partiti comunisti. A prescindere dall’appartenenza di partito, il comunismo attraeva gli scienziati di mentalità progressista del’epoca. Essi vedevano l’URSS come un potente esempio di socialismo scientifico, sia nella teoria che nella pratica – e una simile impressione, formatasi inizialmente durante il congresso del 1931, venne presto rafforzata dalle loro visite in Unione Sovietica. Il Comintern (l’Internazionale comunista) rappresentava se stesso quale movimento di tutta l’umanità, sposando un internazionalismo che faceva eco agli ideali scientifici di cooperazione globale. Più vicino a noi, i comunisti inglesi venivano percepiti come i più dediti, effettivi e duri avversari del fascismo e della guerra – un partito, e delle persone, i quali si organizzavano perché si facesse qualcosa di pratico per i disoccupati  e in opposizione all’inefficacia delle politiche dei governi nazionali.

È ovviamente significativo il fatto che tale risveglio politico degli scienziati abbia coinciso con la linea, profondamente lacerante e inefficace, della “classe contro classe” adottata dal Comintern, sulla base della quale i partiti socialdemocratici e i movimenti sindacali a loro affiliati venivano denigrati quali nemici “social-fascisti” della classe lavoratrice. Uno degli effetti specifici e negativi di una simile visione in bianco e nero consisteva nel suo incorporare la convinzione – certamente in Bernal – che i valori individuali e le libertà intellettuali fossero sia illusori che sacrificabili nella lotta per rovesciare il capitalismo e a difesa dell’URSS. D’altra parte, il messaggio secondo il quale il mondo si stava rapidamente dividendo in due campi e precipitando verso una catastrofe globale era decisamente galvanizzante. Ed era certamente il messaggio che P. M. S. Blackett comunicava ai suoi colleghi scienziati nel corso di una trasmissione della BBC nel marzo del 1931:
Credo vi siano solo due cammini da intraprendere, e quelo che oggi sembrerebbe esordire conduce al fascismo; con esso giungono le riduzioni della produzione, un’abbassamento degli standard di vita della classe lavoratrice e una rinuncia al progresso scientifico. Sono convinto che la sola altra via sia il compiuto socialismo. Il socialismo si servirà di tutta la scienza a disposizione per produrre la maggior ricchezza possibile. Gli scienziati probabilmente non hanno molto tempo per chiarirsi le idee su quale campo schierarsi.
Descritto come “il discorso “più rosso” mai trasmesso da… Broadcasting House”, con esso Blackett metteva in chiaro che una presenza militante della sinistra si stava facendo sentire nella comunità scientifica.

Attraverso gli interventi radiofonici, gli articoli sui quotidiani e i libri popolari, il Visible College era diventato il voto pubblico della sinistra scientifica per i successivi vent’anni. Tuttavia vi sono altre dimensioni, ugualmente, se non più importanti, in questa leadership. Si trattava di instancabili organizzatori dietro le quinte, attivi nella sinistra, nel senso più ampio del termine, come lo erano fra gli scienziati – non ultimo Bernal, “questo pozzo di ubiquità”, nelle parole di Hyman Levy. I principali scienziati schierati a sinistra trovarono anche il tempo per produrre uno straordinario corpus di pensiero politico e sociale circa i rapporti sociali della scienza, un lavoro pionieristico in quasi ogni aspetto di quelli che oggi chiamiamo STS. Ma la chiave della loro preminenza, efficacia e persuasività tra gli studenti e colleghi, risiedeva nella modalità tramite la quale avevano modellato il ruolo dello scienziato-attivista di successo. In essi si combinavano un alto status, e realizzazioni, scientifici, alla volontà di rischiare la loro reputazione allo scopo di ampliare le opportunità per i lavoratori scientifici – sia in quanto cittadini che esperti – di fare un buon lavoro del quale potesse beneficiare la società. Ad eccezione di Levy, tutti sarebbero divenuti membri della Royal Society. Persino nei primi anni Trenta, Blackett – futuro premio Nobel – e Bernal – riconosciuto padre della biologia molecolare del dopoguerra – erano considerati, insieme ad Haldane, scienziati di prim’ordine, eventualmente dei geni. La loro reputazione professionale contribuiva enormemente al peso delle loro opinioni politiche, almeno in alcuni ambienti accademici e perfino presso il grande pubblico.

Naturalmente, nell’assumere simili posizioni pubbliche riguardo al ruolo e alle prospettive della scienza nelle società capitalistica, fascista e socialista, il Visible College rischiava gravi danni di reputazione. Rutherford detestava Bernal, anche se probabilmente tanto per il suo taglio di capelli e la sua promiscuità sessuale che per il suo comunismo. Un costo di gran lunga superiore era dato dal fatto che il tempo speso nel’agitazione politica era tempo irrevocabilmente sottratto al perseguimento di ciò che era loro più caro – l’allargamento dei confini dei rispettivi campi. Come Needham avrebbe in seguito mestamente riconosciuto, “ho cercato di rimanere nel mio campo, ma la politica l’avrebbe infranto”. Perché, dunque, sacrificare almeno una parte del divertimento, dell’entusiasmo, delle realizzazioni e delle ricompense di cui avrebbero potuto godere se non avessero scelto di essere più attivi politicamente? Quantomeno nel caso di Bernal, una risposta l’ha fornita il suo amico fisico e comunista francese Paul Langevin, il quale ha osservato che “il lavoro scientifico che io posso fare, può essere, e sarà, realizzato da altri, forse presto, forse non ancora per alcuni anni; ma senza che il lavoro politico sia fatto non vi sarebbe scienza alcuna”.
Politica scientifica
La posizione sociale e la forza della sinistra scientifica britannica sono facilmente riassumibili. Il suo fulcro era Cambridge, sede della sinistra studentesca più forte degli anni Trenta. Il supporto da parte scientifica per le cause della sinistra proveniva largamente (e non per caso) dai principali e più prestigiosi centri di ricerca: il Cavendish Laboratory – dove sia Bernal che Blackett facevano base prima del loro trasferimento al Birkbeck College, a Londra, rispettivamente nel 1933 e 1937; e il Dunn Biochemical Institute, nel quale si trovavano Needham e, fino al 1932, Haldane. Il nucleo della sinistra scientifica era formato da dottorandi, con le donne proporzionalmente sovrarappresentate e assai attive nelle principali attività e campagne. In larga parte figli e figlie della classe professionale e dirigenziale, si erano gettati nella lotta, in parte perché i loro docenti si erano mostrati tolleranti riguardo alle loro attività extra-curricolari, mentre una chiara linea politica e professionale era stata tracciata, linea che li incoraggiava a concentrarsi sul percorso per divenire scienziati compiuti. Essi sono stati attratti verso il socialismo scientifico per ragioni simili a quelle dei loro modelli favoriti, dai quali traevano incoraggiamento, forza e indirizzo. A parte gli storici più giovani, erano i fisici nucleari, i cristallografi e i biochimici a essere più cospicuamente rappresentati a sinistra.

Il lato negativo di questa istantanea consiste nel fatto che la sinistra non aveva molta visibilità in altre università britanniche, certamente non nel campo scientifico. Persino a Cambridge non attirava più che un migliaio di studenti (il 20 per cento), dei quali forse un centinaio membri del Partito comunista. Quindi, come ha osservato più tardi Noel Annan, “con tutto il suo ardore la sinistra non ha conquistato la mia generazione – anche considerando che per un certo periodo ha conquistato la storia degli anni Trenta. Troppo innocente, ingenua e puritana”. Ma è anche un luogo comune, il quale trova origine nel riconoscimento di un’altro, illustre King’s man – John Maynard Keynes – che coloro che furono attratti dalla sinistra erano i giovani più brillanti degli anni Trenta. Come molte delle loro successive carriere come scienziati, storici e, sì, spie sovietiche, avrebbero ampiamente confermato.

Il Visible College e i suoi seguaci di Cambridge dividevano le proprie energie politiche tra campagne di portata generale, e quelle rivolte più specificamente ad altri lavoratori scientifici o a questioni nelle quali la competenza scientifica aveva un notevole peso. La frustrante fase della politica di sinistra all’insegna dello slogan “classe contro classe” lasciava il posto a quella del “Fronte popolare”, 1935-1939, nella quale forze laburiste, comuniste e liberali si combinavano, inizialmente per combattere il fascismo e la guerra, e successivamente a sostegno della guerra contro il fascismo… I loro sforzi si cristallizzavano, innanzitutto, intorno alla necessità di sconfiggere Franco nella Guerra civile spagnola, in seguito su quella del riarmo e della creazione di un fronte unitario con l’Unione Sovietica conto Hitler. Bernal era in prima linea nel dare un carattere scientifico a queste lotte, attraverso la formazione a Cambridge di un gruppo di scienziati contro la guerra che combinasse l’agitazione locale con ricerca e esperimenti, criticando i sistemi di difesa aerea del governo. Il supporto alle vittime del fascismo assumeva la forma di organizzazioni come For Intellectual Liberty, la quale promuoveva  la causa degli accademici rifugiati, e attaccava il razzismo pseudoscientifico dei nazisti e della Eugenics Society, rendendo decisivamente marginale l’influenza di quest’ultima.

Su un altro piano, la sinistra scientifica operava su tre fronti al fine di accrescere la coscienza di altri scienziati circa la loro condizione economica, il ruolo e le prospettive della scienza in quell’epoca travagliata. In primo luogo, sotto la guida di Bernal e Blackett, trasformando la NUSW di nuovo in un sindacato, la Association of Scientific Workers. La  AScW ora era in grado di organizzare scienziati e tecnici nel governo e nel settore privato, nonché divenire propagandista di primo piano per una espansione e riorientamento dei fondi pubblici per ricerca e sviluppo. In secondo luogo, ora che la sinistra scientifica disponeva di organizzazioni nazionali più solide, poteva esercitare una maggiore pressione sugli umanisti liberali di Nature, perché fornissero risposte più incisive alle preoccupazioni sullo stato della scienza britannica e internazionale. Ciò che ne emerse era un fronte popolare degli scienziati – anche conosciuto come movimento “Social Relations of Science” – il quale condusse, nel 1938, alla formazione di una Division for the Social and International Relations of Science all’interno della veneranda British Association for the Advancement of Science. Come l’intestazione della nuova divisione implicava, la terza dimensione dell’impegno della sinistra scientifica con gli scienziati professionali era internazionale nei suoi fini. Il suo contato più duraturo e significativo era, di gran lunga, quello con la sinistra scientifica francese, la quale annoverava tra le sue figure guida, Langevin, Jean Perrin e Frederic Joliot-Curie. Alleato a un partito comunista più forte e, brevemente, a un fronte popolare al governo, il movimento francese conseguì, effettivamente, vittorie maggiori rispetto all’omologo britannico.

I contatti con scienziati di sinistra americani, invece, erano più ad hoc, tuttavia comprendevano il supporto editoriale del Visible College alla fondazione di Science and Society, una delle principali riviste marxiste degli Stati Uniti. D’altra parte, mentre l’influenza della sinistra scientifica britannica si estendeva certamente ai Paesi Bassi, non vi erano legami con movimenti scientifici nelle società coloniali e meno sviluppate (a parte l’URSS).

Entro la fine degli anni Trenta, la presenza e l’influenza del Visible College nella sua stessa società si estendeva in due direzioni molto diverse. Da un lato, con l’accrescersi delle minacce di guerra, la loro consulenza diveniva sempre più richiesta dallo stato, sia su questioni tecniche che di natura più generale relative all’effettiva organizzazione degli scienziati in tempo di guerra. Blackett, già nel 1935, veniva contattato quale consigliere del Ministero dell’aeronautica riguardo lo sviluppo del radar. Alla fine degli anni Trenta, Bernal, Needham, Hogben, Blackett e Levy, si incontravano regolarmente con addetti ai lavori scientifici e del governo nel Tots & Quots Club di Solly Zukerman con sede a Londra. Dall’altro lato, i leader della sinistra scientifica si trovavano sulla buona strada per diventare intellettuali pubblici accreditati, in grado di scrivere e parlare con grande autorità del ruolo della scienza nella società, e su quale forma una Gran Bretagna riformata in senso più scientifico avrebbe potuto e dovuto assumere. A parte la loro presenza sui mass media – la rubrica settimanale di Haldane sul Daily Worker era un modello di lucidità – erano impegnati in giri di conferenze per promuovere i loro testi sui rapporti sociali della scienza. Mathematics for the Million (1936), seguito nel 1938 da Science for the Citizen, entrambi di Hogben, divennero dei best-sellers, scritti e promossi al fine di fornire ai lettori con sufficienti conoscenze le capacità per divenire cittadini a tutti gli effetti in un’era scientifica. Il saggio di Bernal The Social Function of Science, una pietra miliare pubblicata nel 1939, segnala l’approdo di questi scienziati al ruolo di commentatori dello stato della scienza, cultura e società britanniche. In proposito, essi ereditavano e proseguivano la tradizione inglese di ricerca civile “amatoriale”, sino ad allora dominata da umanisti in campo scientifico e letterario di orientamento liberale. Tale è stato il loro contributo peculiare a questa tradizione – quale, invece, l’apporto specifico al marxismo?
Teoria marxista
Il marxismo sovietico dell’epoca influenzò senza dubbio il pensiero sociale del Visible College, così come la sua prassi politica e, in misura minore e variabile, la pratica scientifica. Designato come “materialismo dialettico”, si trattava – quale che fosse il suo valore cognitivo – di un’ideologia di stato, la quale rifletteva chiaramente sia le sue origini politiche staliniste che gli imperativi dell’industrializzazione rapida. Come ebbe a definirlo Stalin stesso:
Il materialismo dialettico è la concezione del mondo del partito marxita-leninisra. Si chiama materialismo dialettico poiché il suo approccio ai fenomeni della natura, il metodo cui ricorre per studiarli, è dialettico, mentre la sua interpretazione degli stessi fenomeni… la sua teoria, è materialistica. Il materialismo storico costituisce… un’applicazione dei principi del materialismo dialettico ai fenomeni della vita e dela società…
Una concezione dell’eredità marxista che poneva gli scritti di Engels sulla scienza in primo piano, enfatizzando il primato delle leggi della dialettica nel guidare lo sviluppo sociale, e elevando le scienze naturali a una posizione ideologica, storica e pratica di massima importanza; (per esempio, l’esposizione fornita da Bucharin di tale dottrina al congresso del 1931, esaltava in particolare il ruolo della scienza sia nel marxismo che come forza produttiva). Il cosiddetto “diamat”, inoltre,  conferiva a Stalin e il partito una conveniente giustificazione scientifica della loro autorità e decisioni. Come versione sovietica del “materialismo storico” era inevitabilmente “economicistico” – sebbene non necessariamente “volgare” – nella sua raffigurazione dello sviluppo sociale come dialettica tra la “base economica” della società e la sua “sovrastruttura ideologica”, con le contraddizioni, interne alla base, tra “forze e rapporti di produzione”, a fare da propellente. La prova dell’utilità e solidità della teoria sovietica sarebbe stata, ovviamente, il suo contributo all’edificazione di una società socialista attraverso la leniniana alleanza tra scienza, proletariato e tecnica, ora saldamente sotto la custodia di Stalin.

Questa tipologia di marxismo veniva ora ricoperta e setacciata tramite la preesistente comprensione e esperienza della scienza – la loro “mentalità” – del Visible College, buona parte della quale non troppo differente da quella degli umanisti scientifici degli anni Venti. Il risultato è stato, in modo schiacciante nel caso di Bernal, l’identificazione del marxismo e del socialismo con la scienza. Come notoriamente affermato da Bernal in The Social Function of Science: “ovviamente troviamo nella pratica della scienza il prototipo di ogni comune attività umana. Il compito intrapreso dagli scienziati – la comprensione e il controllo della natura e dell’uomo stesso – è semplicemente l’espressione cosciente della società umana… nel suo sforzo la scienza è il comunismo”. Sia che il “bernalismo”, come l’ho definito altrove, venga considerato come una variante dell’umanesimo scientifico, o come distintiva di “anglo-marxismo” è materia di discussione. A mio modo di vedere rappresenta certamente un’idealizzazione e ideologia della pratica scientifica comunemente nota come “scientismo”. Se l’inverso del mantra di Bernal  è veritiero, allora il comunismo diviene anch’esso scienza, il che ha un enorme significato, non solo per Bernal e buona parte del pensiero sociale del Visible College, ma anche per la loro politica. Chris Freeman, uno dei più grandi ammiratori di Bernal, spiega:
[Bernal] idealizzava la scienza non solo come forma di conoscenza ma anche in senso politico, convinto che la gestione degli affari umani potesse essere più scientifica in virtù dell’essere socialista. Era dunque particolarmente incline ad accettare le pretese del marxismo sovietico di rappresentare la scienza in generale, e accordargli lo stesso grado di rispetto.
Sebbene Freeman sia nel giusto quando richiama l’idealismo scientifico (e politico) di Bernal quali “debolezze centrali” del suo pensiero sociale, egli è stato in ogni caso l’ispiratore degli sforzi del Visible College finalizzati a comprendere i rapporti sociali nella scienza in quasi tutte le loro manifestazioni.

Il lavoro sinottico della sinistra scientifica è stato senza alcun dubbio The Social Function of Science di Bernal, “il primo a intendere chiaramente la “scienza” come un sottosistema sociale, definendone e misurandone i confini nel suo complesso, ponendo tutto ciò in relazione al più ampio sistema sociale nel suo sviluppo storico e possibile futuro”. Nella prima parte (“‘What Science Does”) Social Function combina una vertiginosa revisione della storia sociale della scienza con un’analisi critica della sua corrente organizzazione e approccio all’educazione scientifica, l’efficienza con la quale viene condotta e applicata la ricerca a fini civili e militari e lo stato della scienza a livello internazionale. La seconda parte (“What Science Could Do”) fornisce una razionale e completa ricostruzione sociale – per non dire socialista – dei rapporti sociali della scienza, partendo dalla formazione degli scienziati ed estendendosi non solo alla riorganizzazione della ricerca, della comunicazione scientifica e del finanziamento, bensì a una nuova strategia per il progresso scientifico “al servizio dell’uomo” nonché della trasformazione sociale. L’ampiezza e gli argomenti espressi in Social Function sono ancora oggi audaci e stimolanti. Tuttavia questi sono in larga parte castelli di carta e sogni: il libro non offre alcuna strategia politica utile alla loro realizzazione. Coerentemente con la sua ideologia scientista, Bernal identifica la scienza come motore della trasformazione tecnologica e sociale. Ogni progresso è frutto dell’applicazione della scienza e del suo metodo. Una volta che la scienza è finanziata adeguatamente, organizzata e provvista del personale, tutto il resto segue. Un simile punto di vista, inoltre, colloca  i lavoratori scientifici nel cuore di una nuova società e dei suoi centri di potere, non da ultimo quali pianificatori dell’avanzamento del socialismo scientifico.

Le incursioni del Visible College nel materialismo dialettico, inteso quale utile cornice filosofica e comprensiva filosofia della scienza, hanno impressionato osservatori più qualificati di chi scrive. Bernal, Haldane e Levy hanno prodotto commenti di spicco circa i principi generali, e la loro utilità per i lavoratori scientifici, del “diamat”. Le connessioni tra l’enfasi posta dal materialismo dialettico sui processi e i rapporti, quali modalità utili a organizzare e percepire i fenomeni naturali – inclusa la relazione osservatore e oggetto dell’osservazione nella ricerca scientifica – probabilmente sono state d’aiuto: si vedano le speculazioni di Bernal riguardo all’origine della vita; Needham con la sua filosofia evolutiva dei “livelli integrativi”; e sia Bernal che Needham nei loro sforzi anteguerra finalizzati a cogliere i contorni di una nuova biologia molecolare. Per quanto mi è dato conoscere, solo Haldane ha fatto affermazioni specifiche sull’applicazione diretta del materialismo dialettico alla progettazione dei suoi esperimenti.

Di maggior interesse per lo storico sono i contributi del Visible College alla storia della scienza. I suoi componenti avevano compreso, grazie a Boris Hessen, che inserire le pratiche scientifiche in una più ampia spiegazione storica dell’emergere e del riprodursi del capitalismo aveva un grande significato politico. E al pari di Hessen, essi non avevano timore a utilizzare la storia per fini esplicitamente politici. Sfortunatamente, ad eccezione di Hessen, gli storici-scienziati britannici di sinistra non erano a conoscenza dei contributi, principalmente europei, a quello che, retrospettivamente, può ancora essere considerato il periodo “classico” della storia sociale della scienza. Comparati alla raffinatezza metodologica di, per esempio,  Benjamin Farrington e Edgar Zilsel, gli sforzi di Bernal e Crowther appaiono abbastanza rudimentali ed economicistici, mancando del tutto i tentativi di un Hessen miranti a collegare le teorie scientifiche alla loro impostazione ideologica. La definizione, fornita da Jerry Ravetz, delle parti storiche di Social Function e Science in History di Bernal, come storiografia “esternalista whig” forse non è troppo lontana dalla realtà.

Tuttavia, il contributo di Joseph Needham alla storia della scienza, in questo periodo e in quello successivo, non può essere così facilmente categorizzato o liquidato. Needham aveva fatto il suo ingresso negli anni Trenta come storico dalla mentalità enciclopedica, sotto la supervisione di Charles Singer. Il suo interesse per la giovane disciplina in seguito si approfondì in diversi modi. Egli collegò i suoi primi lavori sulla storia dell’embriologia alle nuove esigenze della storiografia della scienza post-Hessen. Inoltre, intravide il valore sia storico che propagandistico insito nello scrivere una resoconto di taglio popolare, per il Left Book Club, delle connessioni tra capitalismo, puritanesimo radicale e filosofia naturale del XVII secolo. Infine, tentò, insieme a Walter Pagel, di istituzionalizzare l’insegnamento della storia della scienza a Cambridge, nel 1936, come parte integrante di una formazione completa degli scienziati naturali. A dispetto di simili risultati, Needham rimase legato, in quest’epoca, ad alcuni assunti caratteristici degli storici della scienza tradizionali (e della sinistra scientifica); ad esempio, la visione della tecnologia come “scienza applicata”; la convinzione eurocentrica che le origini e, più specificamente, “la nascita della scienza moderna” andassero individuate, in Europa,  nella pratica dei filosofi naturali del XVII secolo. Quest’ultimo presupposto era stato parzialmente posto in discussione nel corso della visita, a Cambridge nel 1937, di tre biochimici cinesi – i quali gettarono nella mente di Needham i semi di quella che sarebbe divenuto uno delle più grandiose realizzazioni della storia della scienza del XX secolo.

Per la fine degli anni Trenta il Visible College aveva stabilito un promettente corpus di teorie – basato su una lettura dei rapporti storici e sociali nel campo della scienza che fondeva il marxismo sovietico con l’umanesimo scientifico – il quale forniva una base intellettuale alla politica di una vigorosa sinistra scientifica, in ascesa in termini di forza e sicurezza. Un clima di ascesa culturale vividamente colto, nel 1941, da C.H. Waddington in  The Scientific Attitude:
Il sistema economico razionale, alle cui doglie stiamo già assistendo, potrà essere pienamente utilizzato se vi verrà infusa una cultura il cui metodo d’approccio sia anch’esso razionale, intelligente ed empirico. La scienza ha finora omesso di confessare al mondo di aver generato una simile discendenza nelle meretrici scienze umane; ma questa neonata cultura sta iniziando a fare capolino – nel suo vigore di bastardo risiede l’unica speranza di un degno erede della cultura del passato.
Lo si potrebbe definire come umanesimo coi denti. Niente sembrava in grado di fermare la marcia verso il socialismo scientifico in Inghilterra; neanche le preoccupanti notizie provenienti dall’Unione Sovietica, come le purghe staliniane – che condussero agli omicidi giudiziari di Bucharin, Hessen e tanti altri – o più direttamente correlato alla sinistra scientifica, i primi attacchi di T. D. Lysenko alla scienza e al potere dei genetisti sovietici. tuttavia, tali sviluppi allarmavano alcuni scienziati, e non solo tra quelli politicamente schierati a destra.
Opposizione da destra a sinistra
Alla vigilia della Seconda guerra mondiale, un gruppo di opposizione alla sinistra scientifica – la Society for Freedom in Science (SFS) – iniziava a formarsi attorno allo zoologo di Oxford John R. Baker, e a un emigrato dalla Germania nazista, il chimico Michael Polanyi. Entrambi condividevano una profonda paura e disgusto per l’Unione Sovietica, sostenevano sorpassati e reazionari punti di vista su eugenetica e razza (nel caso di Baker) ed economia (Polany era membro del ristretto circolo di Fridrich von Hayek). Tuttavia, queste profonde motivazioni politiche vennero in larga parte soppresse sino alla fine del conflitto mondiale, in favore di attacchi pubblici alla visione bernalista della funzione sociale della scienza, nonché alla necessità di una “scienza pianificata”. Baker e Polany vedevano nel bernalismo sia una denigrazione della “scienza pura” – un mero strumento per soddisfare primarie necessità umane come cibo, riparo e vestiti- sia quale pericolo per la libertà individuale degli scienziati di decidere degli oggetti di ricerca, delle metodologie e conclusioni da perseguire. Non sorprende che definita la scienza come separata da qualsiasi applicazione pratica e base politica, o motivazione commerciale, la SFS attirasse numerosi accademici, sopratutto scienziati, ma anche molti dei principali storici della scienza britannici. In effetti, le cinque proposizioni della Society circa la libertà scientifica erano talmente anodine che persino Joseph Needham si sentiva di sottoscriverle.

Uno scienziato che rifiutò di unirsi alla SFS era il segretario della Royal Society, Sir A.V. Hill. Hill non era certo un simpatizzante della sinistra scientifica. Già nel 1933, durante la sua Huxley Memorial Lecture, si “rallegrava” della libertà inglese – “non possiamo immaginare altrimenti, a dispetto di tutti i nostri giovani comunisti e fascisti” – ammonendo i giovani scienziati circa i pericoli dell’immischiarsi in politica. Né il suo parere riguardo il Visible College sarebbe mutato in positivo assistendo alla sua crescente influenza a Cambridge e nei media. Ciò nonostante era convinto esistessero modi più efficaci per contenere il bernalismo rispetto all’opporvisi pubblicamente. Come ebbe a scrivere, nel 1941, a un sostenitore del SFS:
Haldane e Blackett, pur con tutte le loro bizzarre nozioni politiche, sono membri utili e cooperativi del Consigli della Royal Society: sono sicuro che così sarà per Bernal e Hogben quando verrà il loro turno di servire, dato che si sono sempre dimostrati della massima utilità ogniqualvolta interpellati su questioni scientifiche. Li possiamo tenere in riga meglio cooperandovi negli affari scientifici, anziché prendendo formalmente posizione contro le loro idee politiche in nome della scienza.
Il suo collega Sir Henry Dale concordava e rammentava cortesemente a Baker e Polany che, dal momento che l’URSS combatteva Hitler (salvando la Gran Bretagna), sarebbe stato controproducente per la Royal Society sostenere quella che esplicitamente, sebbene in sordina, si configurava come un’organizzazione antisovietica e anticomunista.

Ma le preoccupazioni riguardo alla repressione stalinista, e l’acritico supporto da parte degli scienziati comunisti per la scienza industrializzata sovietica, erano presenti anche nella sinistra scientifica. Tra i membri del Visible College, Lancelot Hogben era il meno intrigato dal marxismo sovietico. Aveva da tempo rigettato il materialismo dialettico in quanto filosoficamente incoerente e inutile per gli scienziati. L’esecuzione di Bucharin lo angosciava profondamente, ma era ancor più inquieto dalla promozione, da parte dell’Unione Sovietica e di Bernal, di quelli che considerava valori capitalistici nelle sfere della produzione e del consumo. Come i cosiddetti socialisti “utopisti” della generazione precedente, Hogben era convinto che le necessità umane non potessero essere valutate in termini di “preferenze del consumatore”, né che la loro soddisfazione richiedesse la distruzione della terra, al fine di creare il “paradiso della chimica” altamente urbanizzato prefigurato da Bernal. Tuttavia, Hogben era conscio che la sua visione di una società socialista “più verde” e agile, avrebbe avuto scarsa attrattiva, almeno in assenza di “una vasta riforma dei contenuti dell’educazione, finalizzata a dotare la ricerca della conoscenza di un nuovo senso di rilevanza sociale”. In proposito, quantomeno, egli andava a braccetto con gli umanisti scientifici degli anni Venti.

Joseph Needham condivideva la visione globale di Bernal molto più di Hogben, ma la sua preoccupazione riguardo l’impatto di quello che definiva “oppio scientifico” sulle prospettive e l’agire dei marxisti sovietici e dei bernalisti era, se possibile, ancor più profonda. Needham vedeva le due componenti di questa sostanza inebriante come “spietate” rispetto a deviazioni e imperfezioni, e “cieche” ai “numinosi” aspetti dell’esperienza umana. Egli temeva che una simile mentalità potesse “troppo facilmente applicarsi ai disadattati e ai deviazionisti nell’ordine mondiale socialista”, e si interrogava:
Dobbiamo sostituire all’oppio della religione un oppio della scienza? È sempre stata la convinzione tacita dei riformatori sociali e di coloro impegnati nell’applicazione pratica della conoscenza scientifica che attraverso lo sforzo umano, non solo il male minore, bensì anche quelli maggiori dell’esistenza possano essere superati. Ciò è ben espresso nella grandiosa affermazione di Marx: “I filosofi hanno discusso a lungo sull’universo; è giunto il momento di cambiarlo”. Ma il problema del male non è di così agevole soluzione.
Eppure, Needham ancora sosteneva (perlomeno nel 1935) che “il comunismo fornisce la teologia morale adeguata ai nostri tempi”.

Il carattere scientista del bernalismo, in particolare la sua fusione col marxismo, destava anche l’allarme del classicista comunista Benjamin Farrington. Il marxismo di quest’ultimo si era sviluppato nella lontana Città del Capo, molto prima del suo ritorno in Gran Bretagna alla metà degli anni Trenta. Egli ebbe modo di venire a contatto con diverse tendenze e tradizioni marxiste, non solo quelle provenienti dall’Unione Sovietica. Così, al suo ritorno a Londra, rimase sorpreso dal fatto che:
… almeno la meta dei marxisti che ho avuto modo di incontrare erano scienziati. Ma… il loro marxismo era di un tipo particolare. Essi sembravano convinti che il marxismo avesse origine nelle… scienze fisiche, e poco consapevoli del retroterra sociale e filosofico… Ho trovato un ottimismo totale circa il marxismo [come] la teoria in grado di dare alla scienza la sua opportunità… Sembrava che la scienza e il marxismo avessero un legame assoluto – che fossero la stessa cosa.
Un tale restringimento delle fonti e delle prospettive rendeva difficile, a coloro che abbracciavano un marxismo di ispirazione sovietica, l’impegno in un dibattito critico, in quanto socialisti, circa punti di vista alternativi e schemi nuovi e promettenti. Ad esempio, l’esposizione agli scritti di Gramsci sulla natura e gli effetti dell’egemonia capitalistica – i valori e i punti di vista della cultura dominante sia all’interno che al di là della scienza – avrebbero dovuto condurre a una valutazione più autocritica della teoria e pratica della sinistra scientifica, in particolare il tipo di critiche fornite da Hogben, Needham e Farrington riguardo ai valori da essa veicolati. Tuttavia, quand’anche una simile tradizione alternativa fosse stata più accessibile, la sinistra scientifica non avrebbe avuto l’energia e l’impeto di confrontarvisi in seguito alla Seconda guerra mondiale.
Una guerra “giusta”?
Per il Visible College e i suoi seguaci si trattava generalmente di una “guerra giusta”. Personalmente un certo numero di loro ha contribuito in maniera significativa allo sforzo bellico. Bernal e Blackett, per esempio, ottennero straordinari successi e riconoscimenti per il lavoro compiuto nel nuovo campo della ricerca operativa, rispettivamente presso l’ammiragliato e il Combined Operations di Mountbatten. Needham istituì l’Ufficio di cooperazione scientifica sino-britannica a Chunking, un’esperienza che non solo avrebbe cementerto la sua “storia d’amore” con la civiltà cinese, ma l’avrebbe ispirato, in seguito,a fare pressione a favore di un più ampio e progressivo internazionalismo scientifico all’interno dell’UNESCO. Persino Hogben, l’ex-obiettore di coscienza, divenne colonnello coll’incarico di riorganizzare il settore della statistica medica dell’esercito britannico. Quali che fossero le loro funzioni – nessuna delle quali implicava lo sviluppo di armamenti – fecero un buon uso collettivo della loro esperienza esercitando pressioni sul governo, attraverso Tots and Quots e la AScW, a favore di un impiego più efficace della scienza e dei consiglieri scientifici in tempo di guerra. In seguito, con l’avvicinarsi della fine del conflitto, si misero a lavoro così da garantire che né i politici, né l’opinione pubblica, potessero ignorare la lezione della “guerra degli scienziati”.

Al di là dei loro trionfi e soddisfazioni circa la condotta e i risultati di guerra, essa costituì un’esperienza amara per tutti coloro che vi presero parte. L’opportunità di passare dalle futili manifestazioni antifasciste a una propositiva azione contro Hitler era ovviamente gratificante, così come la possibilità di mettere in pratica alcune delle loro idee riguardo la pianificazione scientifica. D’altra parte, come notato più tardi da Bernal, “la sola occasione di mettere in qualche modo in pratica le mie idee nel mondo reale è stato al servizio della guerra. E, per quanto si trattasse di una guerra che ho sentito allora, e sento tutt’ora andasse vinta, il suo carattere distruttivo ha offuscato e viziato in me il piacere  di essere un membro attivo dell’umanità”. Analogamente, la soddisfazione politica di vedere gli antiscientifici nazisti sconfitti dall’Armata rossa del socialismo scientifico doveva essere bilanciata con la creazione, e l’uso, di quell’amaro frutto della fisica nucleare e dell’ingegneria bellica che è stata la bomba atomica. Gli scienziati potrebbero anche non aver “conosciuto il peccato” in seguito a Hiroshima, ma persino Bernal – un incurabile ottimista scientifico – rimase sconvolto da questa “sciagurata scoperta”. La bomba, ovviamente, ha segnato un momento cruciale nelle relazioni sociali e internazionali della scienza – nonché per le fortune politiche della sinistra scientifica.
Bilanci del dopoguerra
La “guerra dei trent’anni” del XX secolo si è conclusa con un enorme massacro di civili che è stato anche uno spettacolare trionfo d’ingenuità tecno-scientifica. ma ha anche inaugurato importanti cambiamenti storici. variamente descritti come: 1) la realizzazione, a lungo ritardata, delle speranze suscitate dalle rivoluzioni del 1848 di una riforma del capitalismo e del coronamento della libertà nazionale; 2) il sorgere di “un’epoca dell’oro” del capitalismo globale sotto l’egemonia statunitense, un “lungo boom” durato sino agli inizi degli anni Settanta; 3) “la fine dei sette o otto millenni di storia umana iniziati con l’invenzione del’agricoltura nell’età della pietra, considerato che – entro la fin del secolo – una maggioranza della popolazione mondiale non vive più coltivando cibo e allevando bestiame. Per il Visible College, queste trasformazioni si dimostrarono essere dei benefici di natura assai mista, dei quali ebbero esperienza tra il 1945 e il 1956 come di una serie di bilanci politici, scientifici, intellettuali, personali e storici interconnessi e spesso drammatici.

Politicamente, in un primo momento si ebbe una situazione molto incoraggiante per i socialisti europei che fossero socialdemocratici o comunisti. La liberal democrazia aveva prevalso contro il fascismo in europa occidentale. Le principali economie capitaliste venivano riformate attraverso la diffusa accettazione della necessità della pianificazione economica statale, nonché di politiche miranti alla piena occupazione. Per quanto il nazionalismo economico, che aveva tanto afflitto l’economia mondiale nella precedente meta del secolo, fosse ancora assai presente, i suoi effetti venivano sostanzialmente moderati dal supporto USA alla ricostruzione delle economie “occidentali” (Giappone incluso). Il risultato di queste politiche illuminate, sia nazionali che internazionali, fu un’onda lunga di crescita economica senza precedenti. Una prosperità che assicurava – sebbene non l’ispirasse – la creazione dello “stato sociale”, il quale sponsorizzò una maggiore mobilità sociale e potenziò i servizi sociali su entrambe le sponde dell’Atlantico. Gran parte del merito per questi progressi è dovuto alla rinascita della sinistra nel primo dopoguerra, in particolare in Francia, Italia e, naturalmente, Gran Bretagna dove il governo laburista di Attlee giunse al potere nel 1945 con un ampissimo mandato per il suo programma socialdemocratico. A est, i comunisti e i loro compagni di viaggio potevano rincuorarsi del nuovo status di superpotenza dell’Unione Sovietica, dell’adesione di comunisti e socialisti al governo  in Europa orientale e, fatto ancor più spettacolare, il successo della rivoluzione comunista in Cina nel 1949. Si trattava anche dell’epoca nella quale i grandi imperi coloniali europei iniziavano a dissolversi.

Per quanto incoraggianti, agli occhi della sinistra europea, questi sviluppi erano accompagnati dal molto meno gradito avvento della Guerra fredda. La risposta americana a quella che era percepita come una significativa minaccia sovietica (e in seguito sino-sovietica) prese rapidamente forma nel periodo 1947-1950, con la costituzione  della NATO, col Piano Marshall, oltre a una serie di iniziative culturali confluite infine sotto l’ombrello del Congress for Cultural Freedom (CCF) – con la CIA a reggere i cordoni della borsa. Questi programmi USA erano concepiti non solo come cuscinetti contro “la cospirazione comunista mondiale”, ma contro le rivolte sociali e il nazionalismo anti-americano negli stati clienti. Nel frattempo, Stalin si muoveva altrettanto rapidamente e più brutalmente per affermare il controllo sui “satelliti” est europei attraverso il Patto di Varsavia, oltreché rafforzando la repressione politica in URSS. La detonazione di un ordigno atomico da parte dell’Unione sovietica nel 1949 era una risposta inevitabile al maggiore potere militare ed economico degli USA. Sia la superpotenza capitalista che quella comunista – e i seguaci dei rispettivi campi – erano ormai fermamente divenuti warfare state impegnati in una costosa e pericolosa corsa agli armamenti nucleari.

Una delle prime vittime della Guerra fredda è stata la sinistra europea: i membri della sua al comunista rapidamente marginalizzati come simpatizzanti stalinisti, spie e sovversivi; quella socialdemocratica al contempo, irrevocabilmente disillusa dal comunismo sovietico, e costretta a destra dalla paura di apparire “morbida” nei confronti del comunismo. Nell’epoca in bianco e nero dei due campi contrapposti, delle due culture, i comunisti europei pagarono il prezzo del loro leale supporto a Stalin e all’Unione Sovietica, cessando di essere una forza politica maggiore per decenni. Lealtà che inizio a erodersi rapidamente nel 1956, quando Nikita Chruščëv rivelò, nei dettagli, i crimini di Stalin e la complicità del partito, rivelazione devastante per i comunisti britannici.

Tali sviluppi economico-politici trasversali influirono ampiamente, provocando cambiamenti nel dopoguerra, sui rapporti sociali della scienza britannica – con risultati ambivalenti per quanto riguarda la sinistra scientifica. Dal lato positivo della bilancia, “la Gran Bretagna ora si vedeva come una nazione scientifica, e gli argomenti per più scienza nella vita nazionale, associati in particolare con la sinistra scientifica, erano ormai luoghi comuni”. Il governo centrale finanziò  una massiccia espansione dei posti universitari, specialmente in campo scientifico, tecnologico e medico(STM), con corrispondente incremento della ricerca scientifica di “base” e “applicata”. La ricerca civile prosperava, sia nei grandi progetti basati sul partenariato pubblico-privato, sia nelle più affermate industrie tecno-scientifiche, in particolare nel settore farmaceutico. Si ebbero alcune spettacolari innovazioni intellettuali nei laboratori accademici, non ultimi quelli di alcuni allievi di Bernal nel campo della biologia molecolare. Questa nuova e crescente comprensione del ruolo strategico della scienza in una società capitalista socialmente riformata godeva di supporto bipartisan in  parlamento, ma proveniva soprattutto dal Partito laburista, sia nel’immediato dopoguerra che ai tempi dei governi di Harold Wilson negli anni Sessanta. (L’ultimo riaffermarsi di una socialdemocrazia a guida tecnocratica doveva qualcosa alle pressioni di Bernal e Blackett). Alla maggiore attenzione, e finanziamenti, accordati dai governi al campo degli STS, si accompagnava un crescente ruolo e influenza politici per consiglieri scientifici e per la “lobby della scienza2 più in generale.

L’effetto culturale di tutta questa attenzione e larghezza nazionali consisteva nel legittimare ulteriormente gli intellettuali scientifici come commentatori rispettati sulla società britannica, allo stesso livello dei letterati e degli umanisti liberali. I membri del Visible College non potevano che essere felici di ricoprire un simile alla BBC. Inoltre, essi iniziavano a prendere il loro posto in prima linea nella promozione di forme più progressive di internazionalismo scientifico. All’UNESCO, Joseph Needham patrocinava ambiziosi piani finalizzati sia ad assistere i paesi del terzo mondo nello sviluppo di proprie capacità scientifiche, che la ricerca nell’ambito della storia della scienza globale. Contemporaneamente, un’alleanza anglo-francese, guidata da Bernal, Blackett e Joliot-Curie, stabiliva nel 1946 la World Federation of Scientific Workers (WFSW), con l’obiettivo di promuovere la pace e l’uso pacifico della scienza.

Il contrappunto della Guerra Fredda a simili progressi è stata la crescente militarizzazione e segretezza della scienza, la rivelazione della totale ipoteca della biologia sovietica da parte di Lysenko e la completa rottura del fronte popolare degli scienziati, formatosi nel periodo d’anteguerra, sia in Gran Bretagna che a livello internazionale. La crescita del warfare state britannico significava che, per la metà degli anni Cinquanta, il 60 per cento del totale degli investimenti inglesi in ricerca e sviluppo era destinato a fini militari. A parte l’assorbimento di manodopera, risorse e obiettivi strategici, l’aumento del ricorso a competenze tecniche a fini di difesa (oltreché commerciali) comportava anche restrizioni senza precedenti alla libertà di pubblicazione, movimento e parola di numerosi lavoratori scientifici. Le preoccupazioni circa la sicurezza nazionale servivano anche da giustificazione per il progetto di bomba atomica britannica – la più spettacolare espressione della scienza capitalistica del dopoguerra.

Quali che fossero i vantaggi politici acquisiti dalla sinistra scientifica in seguito alla crescente paura di un conflitto nucleare, essi vennero in gran parte vanificati dalla sua associazione con l’ex alleato della Gran Bretagna, divenuto nemico da un giorno all’altro, l’Unione Sovietica, e più specificamente gli effetti del “totalitarismo” sulla libertà scientifica. Il trionfo finale del lysenkoismo nel 1948 non poteva giungere in un momento peggiore, specialmente per i membri comunisti del Visible College che tentavano di comprendere e difendere – in particolare nel contesto della crescente isteria anticomunista – l’indifendibile soppressione della genetica ortodossa. A questo punto Baker, Polany e la SFS erano liberi di levarsi il guanto di velluto e colpire quello che era sempre stato il tallone d’Achille del bernalismo: la disastrosa e ora fatale equazione tra scienza pianificata sotto il socialismo e qualsiasi cosa avvenisse in URSS. I componenti più moderati del fronte popolare degli scienziati anteguerra iniziavano a tirarsi fuori da precedenti coinvolgimenti con la sinistra scientifica. Le critiche pubbliche alle politiche del governo britannico, in particolare la sua sponsorizzazione della bomba e la sempre maggiore militarizzazione del settore ricerca e sviluppo, si ridussero drasticamente. Dopotutto, perché affondare la barca? Come candidamente ammesso da un barone della scienza del dopoguerra, questo era il periodo “nel quale decidevamo che avrebbe dovuto esserci un enorme innalzamento nei finanziamenti alla ricerca universitaria – una differenza di dieci volte tanto. Questo era una sorta di luna di miele per gli scienziati, e ovviamente, quando sei in luna di miele non inizi una protesta politica”.

Le iniziative internazionali della sinistra scientifica non ebbero esito migliore. Needham e i suoi ambiziosi piani per l’UNESCO vennero progressivamente marginalizzati e infine accantonati, in buona parte in seguito a pressioni statunitensi. La WFSW non fu mai in grado di estendersi al di là della sua base anglo-francese, sino a quando non venne tardivamente sostenuta dai sovietici nei primi anni Cinquanta, il che ne assicurò la stigmatizzazione quale “fronte” comunista dalla limitata influenza periferica. Nel frattempo, la destra scientifica diveniva globale, nel momento in cui Michael Polany – spalleggiato dal temibile intellettuale e crociato della Guerra fredda, nonchè cane da guardia americano della cultura inglese, Edward Shils – stabiliva il Committee for Science and Freedom ad Amburgo nel 1953. Il CSF era affiliato al  for Cultural Freedom, il quale a sua volta finanziava la fondazione del più famoso prodotto degli anticomunisti scientifici, la rivista internazionale Minerva.

Per gli studiosi del campo degli STS uno degli aspetti più affascinanti della Guerra fredda culturale consiste nel modo in cui le varie sotto-discipline si sono formate e costituite a partire dalle lotte politiche all’ordine del giorno. Ancora una volta, dal punto di vista della sinistra scientifica britannica, i risultati istituzionali e intellettuali erano ambivalenti. La storia della scienza, in un primo momento a Cambridge e in seguito più diffusamente, è stata fondata su di una storiografia esplicitamente anti-marxista e “internalista”. Lo storico Herbert Butterfield, il cui principale passatempo è sta definito da Noel Annan “l’intrigo accademico”, era l’architetto di tale trasformazione. In qualità di leader del conservatorismo militante del dopoguerra, un conservatorismo “radicale, riverente nei confronti del cristianesimo, irriverente col liberalismo e sprezzante con i socialisti”, Butterfield dirottò il Cambridge History of Science Committee durante la guerra e lo riempì di storici della scienza simpatetici con la Society for Freedom in Science. Egli era anche desideroso di escludere gli scienziati da questa impresa, poiché, a suo modo di vedere, non avrebbero mai compreso la storia. Il suo insediamento avveniva nel momento più opportuno, dato che alla facoltà di scienze di Cambridge era stata infine presa la decisione di fare della storia della scienza una matteria d’esame obbligatoria. La sua mossa successiva fu di escludere dal curriculum qualsiasi opzione al di fuori della storia della scienza intesa come movimento trainato dai successi di alcuni geni, isolati e aristocratici. Fornì, inoltre, un libro di testo iconico, che concentrava l’attenzione, per il successivo mezzo secolo, sulla decisamente inglese rivoluzione scientifica del XVII secolo. Consolidare la disciplina in questi termini richiedeva, da una parte, la protezione della nascente  British Society for the History of Science dalla maligna influenza di scienziati e storici di inclinazione marxista, e dall’altra, la nomina di un protetto fidato incaricato di portare avanti la controrivoluzione di Butterfield. Quest’ultimo requisito soddisfatto con la nomina del suo allievo Ruppert Hall alla prima cattedra ufficiale di storia della scienza a Cambridge. Hall soddisfaceva al meglio le aspettative di Butterfield, considerata la sua tesi di dottorato sulla balistica del XVII secolo – la quale negava l’influenza delle esigenze militari (nel senso di Hessen) su Galileo e colleghi.  Allo stesso tempo, promettenti storici della scienza marxisti come Sam Lilley e Stephen Mason non trovavano posti adeguati. Non sorprende che nel 1962 Hall si sentiva di affermare trionfalmente che “le spiegazioni esternaliste della storia della scienza hanno perso il loro interesse così come ogni capacità interpretativa”.

Altri aspetti del lavoro della sinistra scientifica sui rapporti sociali della scienza sarebbero sopravvissuti e fioriti, ma non prima degli anni Sessanta. In Gran Bretagna, il revival della prospettiva bernalista sulla politica scientifica e sulla formazione, all’epoca del governo Wilson, ha portato   alla creazione di quelli che erano destinati a essere centri dedicati agli “studi scientifici” concepiti in senso tecnocratico – la Science Policy Research Unit a Sussex, la Science Studies Unit dell’Università di Edimburgo e il Liberal Studies dello Science Department di Manchester. Quantomeno in questo senso, il Bernal di Social Function può essere accreditato come il padrino intellettuale degli studi sociali del movimento scientifico in Gran Bretagna. La tardiva influenza di Bernal si fece sentire, più o meno nello stesso periodo, anche in Unione Sovietica, quando alcuni responsabili della politica scientifica sovietici mostrarono crescente preoccupazione circa il ritardo nella performance scientifica dell’URSS. Sfruttando il prestigio di Bernal come campione di lunga data del comunismo sovietico, tennero importanti conferenze basate sulla sua Storia della scienza e, più particolarmente, le sue idee riguardo la natura della “rivoluzione scientifico-tecnologica” del dopoguerra. In tal modo, le idee di Bucharin e Hessen – bandite per oltre trent’anni in URSS – trovavano la via del ritorno verso la società che le aveva originariamente ispirate.

Come ci si può aspettare, il bilancio personale per i membri del Visible College era in delicato equilibrio fra onore e disonore, coraggio e ostracismo e continuità e svolte con un persistente attaccamento alle loro varie tipologie di socialismo. Si trattava, come rammentato da Hobsbawm, “di un brutto periodo per essere comunista nelle professioni intellettuali”. Tanto per iniziare, il loro status accademico nel dopoguerra raramente coincise con i loro risultati scientifici. Che il Birkbeck College – la più umile tra le istituzioni dell’Università di Londra – fosse un importante rifugio in momenti critici della carriera di Hogben, Blackett, Bernal e poi David Bohm, è indicativo di tale mancata coincidenza. Si ebbe anche una rapida caduta dell’influenza politica dal 1948 in poi, non da ultimo per Bernal e Blackett, ai quali – nonostante il conferimento delle più alte onorificenze civili del governo americano – ben presto venne negato l’ingresso negli Stati Uniti in quanto ritenuti pericolosi sovversivi. Queste alcune delle ricompense per il loro coraggio (o follia se si preferisce) nell’esprimere idee impopolari sulla condotta della scienza durante la Guerra fredda, con la conseguenza non solo dell’emarginazione politica nell’ambiente della scienza britannica, ma anche di feroci campagne di stampa contro alcuni di loro. Un effetto, perlomeno indiretto, di tali vicissitudini è stata l’initeressante discontinuità di alcune carriere: l’abbandono da parte di Blackett della fisica nucleare per la geofisica; il passaggio di Needham dalla biochimica alla storia della scienza cinese; e il trasferimento di Haldane in India dove passò il resto dei suoi giorni a capo dell’Indian Statistical Unit. Come questi percorsi indicano, i componenti del Visible College divennero molto più interessati al ruolo della scienza nella promozione dello sviluppo del terzo mondo. Tuttavia c’era anche continuità con i loro interessi anteguerra nella storia della scienza, il ruolo della guerra nello sviluppo scientifico e, più in generale, il contributo che i lavoratori scientifici avrebbero potuto dare all’avanzamento del benessere sociale. ancor più importante, come ebbe a dirmi Joseph Needham nel maggio 1968, “mi viene da pensare che tutti coloro i quali, negli anni Trenta, hanno creduto che le scienze naturali avrebbero alla loro perfetta fruizione in una società socialista, probabilmente, lo pensano tutt’ora”.

Dopo aver esaminato la traiettoria e le realizzazioni della sinistra scientifica – i suoi trionfi e le sue tragedie – cosa dire del suo lascito e del suo significato storici, politici e intellettuali? Senza dubbio, la sua eredità più rilevante è stata l’incoraggiamento a una maggiore integrazione della scienza nella vita economica, politica e culturale del capitalismo britannico. Attraverso il suo successo nell’organizzare i lavoratori scientifici, la sua pionieristica analisi dei rapporti sociali nel campo della scienza, il suo contributo allo sforzo bellico e l’attività lobbistica nei confronti del governo, la sinistra scientifica ha fornito gli argomenti e le condizioni che hanno rafforzato altre tendenze favorevoli alla crescita della scienza, tendenze risalenti alla Prima guerra mondiale. In conseguenza di ciò, le risorse tecnico-scientifiche sono state ampliate, il potere politico e lo status culturale delle élite scientifiche è aumentato, e la necessità di comprendere i rapporti sociali della scienza ha finalmente condotto all’istituzionalizzazione e professionalizzazione degli STS.

Si tratta, ovviamente, di una “eredità ambigua e problematica”. I proventi economici del investimento del dopoguerra nella rivoluzione tecnico-scientifica si sono dimostrati deludenti, in parte a causa del suo modello unidimensionale d’innovazione basato sull'”impulso della scienza”, in parte a causa della scoperta per cui rendimenti migliori possono essere ottenuti attraverso progressi non scientifici, ad esempio, la qualità del management. Inoltre, la stretta integrazione della scienza accademica nelle politiche pubbliche non è stata un puro beneficio, in particolare per quelli come Bernal e Polany la cui mentalità scientifica si era formata negli ambienti, estremamente liberi, della cristallografia a raggi x degli anni Venti. Sorprendentemente uniti nel dopoguerra dal disincanto rispetto agli effetti della segretezza del governo e commerciale sulla libertà dello scambio scientifico,  i due vecchi antagonisti si trovavano a fare causa comune nei loro separati appelli a porre fine alla militarizzazione della scienza, nonché alla riforma delle leggi sui brevetti, al fine di incoraggiare la libera circolazione delle informazioni scientifiche e un più rapido avanzamento della conoscenza. Tuttavia, nessuno dei due si mostrò pubblicamente schietto quanto Lancelot Hogben, il quale condannò la crescente natura autoritaria dell’educazione scientifica e il soffocante clima intellettuale di molti laboratori universitari.

L’eredità politica derivante dalla creazione di una scienza globale pianificata e capitalistica, in particolare quella fiorente nel contesto del warfare state, era se possibile, ancor più preoccupante per i futuri socialisti. Come osservato da Patrick Petitjean, “il bernalismo ha trionfato col capitalismo. La sua analisi della funzione sociale della scienza non contraddice il capitalismo… Cosa ne è dunque del socialismo?” Innanzitutto, come una sempre più larga percentuale di lavoratori scientifici trovava impiego al di fuori dei centri d’élite della scienza accademica, la probabilità di un loro impegno nelle lotte socialiste si restringevano. Questo divenne il destino della AScW. Come risultato dell’incremento, fra i suoi membri, di lavoratori di organizzazioni industriali e governative – principalmente tra i tecnici anziché tra i laureati in scienze  – gli obiettivi politici divenivano sempre più centristi, sino al suo assorbimento nel 1968 in un sindacato ancora più mainstream. La sempre più stretta identificazione delle attività tecnico-scientifiche con la guerra nucleare aveva appannato, in modo permanente, l’immagine bernalista della scienza come forza intrinsecamente progressiva, segnando la fine di una tradizione assai antica. “Con Bernal, una linea di profeti che risaliva indietro, attraverso Huxley e Condorcet, a Bacon, giungeva a termine”; di qui il giudizio di Jerry Ravetz su Bernal quale “figura tragica” nella storia della scienza. A partire dagli anni Sessanta la politica degli scienziati socialisti iniziò a basarsi sull'”uso/abuso di un modello di scienza il quale concepiva quest’ultima come una forma socialmente innocente di conoscenza, immune da interessi e valori, una casta vittima dell’abuso altrui.

Quest’immagine di una scienza socialmente “pura” no nera poi cosi differente da quella spacciata dalla tradizione dominante degli STS negli anni Cinquanta e Sessanta. I nuovi centri di studi scientifici ereditavano una concezione della scienza essenzialmente tecnocratica, intesa come oggetto di politiche e di applicazione – depurata della sua funzione critica e di qualsivoglia orpello marxista – mentre gli storici della scienza internalista continuavano a ridurre l’impresa scientifica sino alla sua essenza più immateriale e idealistica. Uno dei più incisivi critici dell’internalismo rimaneva Joseph Needham. Egli si dilettò nel rimproverare gli internalisti come manichei ai quali “non piace ammettere che gli scienziati hanno un corpo, mangiano e bevono, e conducono una vita sociale tra il oro simili, ai cui problem pratici non possono rimanere indifferenti”. Più seriamente, egli imputava loro il rigetto di una storia della scienza più socialmente orientata, da cui l’incapacità a spiegare perché la scienza moderna avesse avuto origine nell’Europa del XVII secolo e non altrove – non come risultato della pura casualità o dell’assunto razzista che solo il genio europeo fosse all’altezza di un simile compito. Ciò che Needham non contestava era la stessa distinzione esternalista/internalista (E/I), distinzione che avrebbe strutturato la pratica degli storici per i seguente quarto di secolo. Come giustamente sostenuto da Steven Shapin, questo discorso si è costruito su una grande incoerenza di teorie e concetti, incompiuti e irrisolti, la quale ha condotto la disciplina in una serie di vicoli ciechi e dibattiti infruttuosi.  Ciò che Shapin ha probabilmente sottostimato è quanto gli storici marxisti, nel corso della Guerra Fredda, si siano visti costretti ad adottare una simile rettorica – invece di ignorarla modellando una propria storiografia esplicitamente post-Hesssen e anti E/I – semplicemente come strategia per essere ascoltati o pubblicati. Anche una tale mossa non è stata sufficiente a salvarli, laddove qualsiasi cosa anche remotamente “esternalista” veniva immancabilmente bollata come “marxista”.

Questa dunque l’eredità lasciata dalla sinistra scientifica britannica, eredità ben presto raccolta e trasformata dal movimento della scienza radicale negli anni Settanta. Il supporto dalla vecchia sinistra ad alcuni aspetti chiave della ridefinizione della scienza britannica avvenuta nel dopoguerra, rendeva certo che la nuova sinistra avrebbe dovuto rompere coi suoi predecessori, dovendosi confrontare con nuove sfide e lottare per sviluppare prospettive inedite. Nel far questo, il prossimo movimento guarderà più a Needham che a Bernal, come guida in questo suo percorso.

Título original en inglés: “The Marxist Critique of Capitalist Science: A History in Three Movements?
http://human-nature.com/
https://traduzionimarxiste.wordpress.com/