Theodor W. Adorno ✆ Minnio |
◆ Per il 50º anniversario della pubblicazione di Dialettica Negativa
Sandro Dell’Orco
Diciamolo subito. Adorno è stato sostanzialmente dimenticato
dalla cultura mondiale dall’anno della sua morte. Come il marxismo, a cui si
ispirava, è stato spazzato via dai luoghi della cultura istituzionale e
mediatica. Il processo è stato graduale ma inesorabile e ha riguardato, oltre
lui, Horkheimer, Marcuse, Mitscherlich, Pollock, Schmidt e tanti altri suoi
sodali e allievi. Si è salvato dall’oblio solo colui che lo ha rinnegato, sia
che non fosse stato più d’accordo con lui, sia che, fiutando la nuova aria, si
fosse affrettato a scendere dal carro del marxismo francofortese prima che
fosse troppo tardi. Parlo di Habermas, naturalmente. Non conosco ciò che è
accaduto nelle istituzioni culturali tedesche a partire dagli anni settanta del
secolo scorso, ma se è accaduto lì ciò che è avvenuto in tutto il mondo (e che
è rilevato magistralmente dal massimo sociologo italiano Luciano Gallino,
purtroppo recentemente scomparso, in Finanzcapitalismo (2011) e L’impresa irresponsabile (2005)) e cioè
la colonizzazione di ogni istituzione culturale da parte dell’ideologia
neoliberista, l’epurazione progressiva del marxismo francofortese si può
spiegare come momento della controffensiva planetaria del capitale finanziario
per la riconquista dell’egemonia economica, sociale e spirituale messa in crisi
dal proletariato.
Di fatto, a partire dagli anni ottanta e soprattutto dal
1989, il marxismo da teoria egemone nelle istituzioni culturali, politiche e
sociali, diviene una teoria di nicchia, come ai suoi primordi; sociologicamente
una sorta di riserva indiana in cui pochi e attempati superstiti o reduci, in
attesa di scomparire, ripetono alla luna le loro verità. Adorno, marxista, si
eclissa, come tutti gli altri autori marxisti (Lukàcs, Althusser, Gramsci,
Lenin, ecc.) che risplendevano, magari offuscandosi a vicenda, all’orizzonte
dell’imminente riscatto dell’umanità.
Il neoliberismo non fa distinzioni, è totalitario, con un
solo colpo di scopa spazza via Marx e tutti i marxismi. Non con la forza delle
idee, naturalmente, ma con quella del denaro, con cui si compra governi, media
e istituzioni culturali in ogni parte del pianeta.
Per valutare meglio questa operazione di conquista conviene
vedere quali sono le teorie che prendono il posto, nel mainstream accademico e mediatico
dell’Europa continentale, dell’obsolescente marxismo. Abbiamo da un lato il
Post-strutturalismo e dall’altro la Teoria dell’agire comunicativo del già
citato Habermas. Entrambe si contraddistinguono per un convinto antimarxismo,
che si concretizza in un attacco al nucleo stesso della teoria del filosofo di
Treviri e della Scuola di Francoforte, cioè al concetto di soggetto autonomo,
nato, nella filosofia ufficiale, con Descartes, e giunto a Marx e Adorno
attraverso l’Idealismo.
Ora, il Post-strutturalismo, nelle sue varie versioni, nega
semplicemente che esista qualcosa come un soggetto autonomo e razionale, un Io
padrone dei suoi pensieri e delle sue azioni, rimandando invece pensieri e
azioni umane a un fondo oscuro, naturale, caotico e inconoscibile; mentre la
teoria habermasiana (in ciò meno radicale dei post-strutturalisti,
autointerpretandosi come erede dell’illuminismo) tenta di sussumere il soggetto
autonomo (e quindi libero e autocosciente) alla situazione sociale e
comunicativa in cui è da sempre necessariamente inserito, e che diventa così la
sua ragion d’essere. Incorrendo ovviamente nella fatale contraddizione logica
per cui la libertà e l’autonomia (che pure vengono da Habermas riconosciute al
soggetto umano) non si possono mai sussumere direttamente (non dialetticamente)
senza in pari tempo negarle. Habermas è costretto a questo passo falso, cioè al
mutamento di paradigma, dal soggettivo al sociale-comunicativo, perché, in
definitiva, ha il terrore della libertà e della razionalità umana, che allucina
(distorcendo il pensiero di Horkheimer e Adorno) come condannate in eterno
all’autoconservazione e al dominio violento sulla natura e sugli altri uomini.
Pone perciò una mitica “seconda ragione”, sopra a quella normale che tutti
conosciamo, che chiama ragione comunicativa, entro la quale sarebbe possibile
ciò che nella ragione normale non potrebbe mai accadere, e cioè la
conciliazione tra gli uomini e fra questi e la natura. In sintesi, la libertà
umana viene aporeticamente dedotta dal contesto sociale-comunicativo per
metterle le dande, o meglio la camicia di forza, nella certezza e nel timore
della sua irrimediabile ed eterna follia.
Tra il dichiarato, disumano e anarcoide irrazionalismo dei
Post-strutturalisti, e la inconfessata, contraddittoria e socialdemocratica
metafisica social-comunicativa di Habermas, non si saprebbe cosa scegliere.
Certo, per una politica emancipatoria del proletariato, è molto meno pericoloso
il primo, come attesta il contributo obbiettivo dato dalla teoria
habermasiana alla revisione antimarxista dei partiti della sinistra europea
negli ultimi decenni.
Il motivo di fondo dell’opzione irrazionalista da parte
delle élites del capitale finanziario è chiaro. E’ il miglior sistema per
convincere i singoli che non si può cambiare nulla. Infatti se la ragione viene
riconosciuta inabile per natura a comprendere la realtà e rappresentarla in
giudizi che le corrispondono, non potrà neppure cambiarla, e l’uomo torna
semplicemente in balia della realtà, come lo era stato nella preistoria, – in
balia cioè di quell’hic et nunc smemorato, attonito e impotente che
appunto costituisce la regola di comportamento principale per la stragrande
maggioranza della popolazione mondiale.
L’obbiettivo della borghesia è cambiato, non potendo più
convincere gli uomini (per le evidenti prove in contrario) che il suo mondo è
quello del benessere e della giustizia, tenta di spostarlo nelle nebbiose
regioni del caos e del clinamen, fuori dalla portata dell’Io
razionale che potrebbe mutarlo. Un altro trucco, per palati fini e filosofici,
che comunque, a poco a poco, fa, come si dice, mainstream, e si instilla
impercettibilmente nella mente degli uomini, confermato a iosa dall’apparente
caos senza fine e senza scopo che scorre davanti ai loro occhi.
La generazione del sessantotto, che nel mondo occidentale
s’infatuò di Adorno, se ne sbarazzò prestissimo – se non in senso fisico (come
pure polemicamente suggeriva Beckett)[1] certamente in senso intellettuale. I
sessantottini desideravano agire immediatamente, passare all’azione, e chi li
invitava a illuminare la propria prassi col pensiero, venne messo nella lista
dei «nemici» e dimenticato. La fine che fece poi quella prassi cieca la si
conosce, e Adorno che l’aveva ampiamente prevista e combattuta[2], invece di essere apprezzato, fu escluso
dalla teoria rivoluzionaria della sinistra extraparlamentare ancor più
radicalmente di quanto non lo fosse stato dalla cultura ufficiale. Insomma una
sorta di cane morto che tutti respingevano. Da un lato come “revisionista” e
dall’altro come “cattivo maestro”. Ricordo che già nei primi anni settanta il
suo nome era impronunciabile nelle assemblee universitarie e nelle riunioni dei
gruppi della sinistra radicale.
Tuttavia, voler ricondurre esclusivamente a queste cause
contingenti, e a quelle più generali viste all’inizio, l’oblio dell’opera di
Adorno, non sarebbe del tutto esatto. Poiché esso ha a che fare anche con il
notevole sforzo a cui costringe il lettore, con le straordinarie doti di
intelligenza, forza morale e integrità dell’Io che gli richiede, e quindi con
le tendenze del processo sociale complessivo che, negli ultimi cinquant’anni,
sia per ragioni obbiettive che imputabili all’industria culturale, hanno
favorito sempre meno la formazione e lo sviluppo di quelle facoltà.
Un rapporto con la sua opera che vada più a fondo delle
formule stereotipe con cui si usa contraddistinguere la «scuola di
Francoforte», convincerebbe facilmente che essa non solo non è invecchiata o
superata, ma costituisce tuttora una delle punte più alte della riflessione
sull’individuo e sulla società. Fenomeni quali la globalizzazione
capitalistica, la decadenza dell’autonomia individuale, il riemergere del
fondamentalismo religioso e del razzismo, la mercificazione della cultura e
dell’arte da parte di un’industria culturale che occupa ormai tutti i varchi
spirituali lasciati liberi dall’attività lavorativa, sono stati non solo
previsti dalla teoria critica, ma spiegati nella loro più intima origine.
Spiegati con la ragione, voglio dire, con il discorso razionale, rifiutando
ogni ricorso a metafisiche o a verità rivelate. Al punto che se si volesse
racchiudere in una sola frase la teoria di Adorno, l’unico modo sarebbe quello
di dire che egli ha fiducia solo nel pensiero, nella razionalità, e che quindi,
in fondo, è uno degli ultimi eredi – se non l’ultimo – dell’Illuminismo.
Questa definizione potrebbe ulteriormente completarsi
dicendo che il pensiero di cui tratta è proprio il pensiero comune, quello che
tutti adoperiamo ogni giorno, dominato dal principio di non contraddizione. Dal
principio cioè che governa anche le scienze e la matematica. L’unica
particolarità che lo distingue dal pensiero comune, e a cui allude il
misterioso aggettivo «dialettico» che lo caratterizza, è che si tratta di un
pensiero insaziabile, irrefrenabile, affamato sempre di verità, e quindi
irrispettoso, che non si ferma davanti a nulla: tabù, autorità, tradizioni,
ogni esistente viene afferrato nelle sue maglie e costretto a dichiarare la sua
connessione logico-causale con gli altri esistenti. L’uomo ha la ragione,
sembra dire Adorno, e allora che l’adoperi fino in fondo, senza compromessi,
per capire il male e abolirlo, nella misura del possibile, e anche per godere
di essa, perché, come artisti e filosofi hanno sempre saputo, può esser fonte
autonoma di gioia.
Dunque, il pensiero dialettico, secondo Adorno, non ha una
differenza di principio dal pensiero ordinario, ma solo di intensità ed
estensione. Conformemente al detto hegeliano che «il vero è il tutto». Questa
illimitata estensione fa sì che il pensiero rivolga fatalmente le sue
attenzioni anche a se stesso. Infatti anch’esso è reale e va messo in rapporto
con il tutto. I giganti Descartes, Kant, Hegel e Marx hanno infatti sentito
l’esigenza di pensare il pensiero, e cioè di includere – con una rivoluzione
copernicana – il soggetto stesso che pensa nella realtà pensata. Adorno,
seguendo la loro scia, porta avanti la riflessione sul pensiero. E riflettendo
col pensiero sul pensiero, sul suo principio fondamentale, il principio
d’identità, giunge alla conclusione che il pensiero razionale – che è alla base
dell’autoconservazione umana e del suo sviluppo – non può mai afferrare
l’intera realtà delle cose, ma solo quegli aspetti identici, ripetitivi,
nomologici, che sono i soli a potersi rispecchiare in esso, cioè nel discorso
logico, non contraddittorio e sistematico. In breve, il pensiero razionale,
applicato a se stesso, scopre la sua magagna ed è costretto a dichiararla. E
con ciò è posta la possibilità di rimediarvi. Non nel senso di cercare un
«altro» pensiero che non esiste (come nei Post – strutturalisti e in Habermas),
né in quello di abbandonarsi a una verità rivelata o all’esoterismo, ma nel
senso di rinunciare alla pretesa sistematica e totalitaria del pensiero.
Pretesa che si risolve sempre in una paranoica camicia di forza messa sulla
realtà piuttosto che nella sua rivelazione.
Che la tesi adorniana sia esatta ognuno può verificarlo
senza tanta fatica con una semplicissima esperienza: l’esperienza dell’autoriflessione.
In questa ogni persona normale può immediatamente scoprirsi come un’autonoma
coscienza e volontà, cioè come un Io, come un soggetto. La certezza che dà una
tale esperienza è talmente al di là di ogni dubbio che Descartes e gli
idealisti l’hanno posta addirittura alla base delle loro filosofie. Di tutto
posso dubitare tranne che io sia «un centro» autonomo di coscienza e volontà.
Questa certezza, ottenuta nel nostro modestissimo laboratorio interiore,
accessibile a tutti perché non richiede alcuno sforzo né mentale né fisico,
recepita da ogni sistema giuridico esistente, e da tutti gli uomini così
profondamente e tacitamente acquisita che difficilmente ci riflettono sopra –
questa certezza, dicevo, è precisamente la singolarità (per usare un termine
della fisica) che manda all’aria la continuità e la coerenza del pensiero
razionale, cioè la sua pretesa di connettere l’intera realtà con le catene del
concetto, del giudizio e del sillogismo.
L’Io, questa cosina impertinente, addirittura inesistente[3], in cui pure indubitabilmente
consistiamo, è la pietra dello scandalo per il pensiero. Perché se questo
volesse spiegare, dedurre l’Io dalla natura (dove pure esso nasce), non
potrebbe mai raggiungere il suo scopo. E ciò per la buona ragione che il
pensiero può solo rilevare le leggi della natura, cioè la subordinazione della realtà
alle leggi naturali, mentre ciò che qui bisogna dedurre è esattamente
l’opposto: la libertà e l’autonomia da quelle leggi. Per questo si può star
tranquilli che nessuna ricerca sul cervello riuscirà mai a «spiegare» l’Io,
perché essa lo può cercare solo dove non si trova: nella sfera dell’eteronomia,
mentre esso è autonomia. L’Io può esser verificato da ogni uomo normale
immediatamente, con la riflessione; ma il pensiero non è in grado di derivarlo
dal mondo.
Il tentativo opposto, di fondare sulla certezza dell’Io il
mondo, cioè di dedurre la natura dall’Io (che è stato il tentativo
dell’idealismo), incorre in aporie altrettanto insormontabili. Perché l’Io
stesso, pur essendo una certissima realtà, non è assolutamente un principio
primo, poiché presuppone un uomo vivo e vegeto che appunto riflette, e per
astrazione si scopre come Io: dunque presuppone sempre ciò che invece, secondo
l’idealismo, dovrebbe essere dedotto da lui: cioè il corpo e la natura.
La pretesa di coprire il mondo con un’unica rete razionale,
sotto un’unica legge coerente che tutto spieghi, tutto chiarisca, fallisce
dunque a causa della singolarità dell’autodeterminazione umana, della sua
coscienza e volontà. Il monismo, nella doppia forma del materialismo scientista
o della metafisica, non regge di fronte all’indubitabile libertà dell’uomo. Il
pensiero dovrà allora rinunciare a dedurre razionalmente i fini della vita
umana (i cosiddetti «valori») dalla struttura generale del cosmo o dell’essere,
come pure dallo studio scientifico della società e della natura.
Ciò naturalmente non conduce affatto all’irrazionalismo, ma
al pacato riconoscimento che la legge che governa la realtà non è una sola.
Poiché la realtà, da quando c’è l’uomo, è sottoposta al dominio simultaneo di
due leggi, di due volontà autonome che se ne contendono il controllo per i
propri fini: la volontà naturale e quella umana, irriducibili l’una all’altra.
In qualsiasi punto dello sviluppo storico si ha un preciso rapporto tra il
dominio della «volontà» naturale (della natura tout court) e quello della
volontà umana. Il termine dialettica – che deriva da «dialogo» – rappresenta
perfettamente questo stato di cose, perché allude alla presenza di due distinte
individualità, di due coscienze e volontà autonome, che mirano a far vincere
ognuna il proprio punto di vista, cioè il proprio fine o interesse.
Il pensiero non ci è abituato, ma visto che le leggi che
governano l’esistente sono due, sono veramente due, non può più esercitare il
suo ovvio e antichissimo mestiere di ricavare la legge che governa le
cose, perché questa sarebbe appunto una legge.
Il pensiero che abbandona il sistema deve assumere
tranquillamente, senza sensi di colpa, la responsabilità di essere unicamente
«ragione strumentale», cioè studio delle regolarità naturali per fini
tecnologici, utili all’uomo. Diventa strumento – scusate se è poco – di
benessere per l’uomo. Per questo non deve rimpiangere di aver perso «il cielo»
sulle cui immaginarie rotte orientava la vita. Una volta scoperto con la
riflessione di essere un individuo autodeterminantesi, «un’autocoscienza»,
l’uomo può, in linea di principio, e in accordo solidale con gli altri uomini,
determinare a partire da nient’altro che da se stesso il suo cammino e i suoi
fini. Per i quali non occorre davvero una grande scienza o teoria, perché
essendo egli un essere di natura, coincidono innanzitutto con la conservazione
della vita ed il benessere fisico e psichico possibile in relazione al livello
raggiunto dallo sviluppo delle forze produttive.
L’Io è dunque il nerbo, o comunque uno dei punti
irrinunciabili del discorso adorniano. La sua nascita, formazione, sviluppo,
decadenza e patologia, sono illustrati soprattutto in Dialettica dell’illuminismo, nel lavoro ad essa preparatorio, Interpretazione dell’Odissea e in Dialettica negativa. Tolto l’Io,
tolta l’autodeterminazione umana, tolta la Teoria critica, che è appunto
critica di un assetto del mondo che non solo non sviluppa l’autodeterminazione
del singolo, ma addirittura tende ad annullarla, rendendolo in effetti simile
al concetto che se n’è sempre fatto ogni metafisica o scientismo: il mero
particolare di un universale.
Non si tratta, per il Nostro, di «perorare» la causa dell’Io
per adesione preconcetta a un determinato punto di vista (l’Io non ne ha
bisogno, essendo una realtà immediatamente evidente per ognuno), si tratta
invece di ricordare a ognuno che ha in sé una realtà misteriosa (sì,
misteriosa, perché incomprensibile per principio dal pensiero) che lo eleva
dalla condizione di animale in preda al ciclo naturale a quella di individuo
cosciente e autonomo che pone da sé la sua legge di sviluppo. Tale
consapevolezza, la consapevolezza di ogni uomo di essere (sia pure nei limiti
della sua vita) causa sui,lo rende perennemente insoddisfatto finché
questa sua essenza è sacrificata dalle leggi universali della natura e della
società.
Dove il singolo Io umano viene «dedotto», come nella
metafisica, o più semplicemente accantonato quale concetto falso e mitologico,
come accade nello scientismo e nel Post-strutturalismo, si tratta sempre di
tentativi di oggettivizzare l’uomo, in modo esplicito nella metafisica e nel
Post-strutturalismo, in modo implicito e inconsapevole nello scientismo. Non
sfugge a questo esito il pensiero di Habermas, che al di là della esplicita
professione di prosecutore della Teoria critica, l’affossa nei fatti
proponendo, come si è visto, la sussunzione diretta (non dialettica) dell’Io
alla natura, o, che è lo stesso, ad una sorta di superiore e naturale ragione
sociale-comunicativa. Che è quanto dire che Habermas non si rassegna
all’impossibilità di una teoria oggettiva del reale rilevata da Adorno e
Horkheimer (sulla scorta di Marx). Egli sembra credere che senza una teoria
oggettiva che dimostri scientificamente la possibilità di una società libera,
solidale e conciliata, non si abbia diritto di criticare la società esistente.
Non so se sia operante in lui il genuino bisogno della fondazione razionale
dell’utopica «associazione di uomini liberi», oppure il riflesso condizionato
dell’uomo di scienza che rifiuta la dialettica come oscura minaccia all’assetto
sistematico dei suoi pensieri e del mondo. Ciò che è certo è che Adorno ed
Horkheimer non hanno mai legato la teoria critica alla «fondazione» razionale
di un assetto futuro del mondo, ad una sua formulazione in termini di teoria
scientificamente verificabile. Per loro, al contrario, più una teoria sociale è
vera scientificamente, più è falsa. Più essa è verificabile e predittiva, più è
mistificante. In effetti, una vera teoria della società ne rispecchia la reale
legge di funzionamento, una legge cui tutti uomini devono obbedire. Ma proprio
per questo essa è falsa, poiché i singoli uomini – che sono sempre, nonostante
tutto, soggetti autodeterminantisi -, sono sussunti ad un universale (la legge
sociale) che invece li determina. L’espressione «teoria critica della società»
significa letteralmente che la teoria sociale è vera solo come critica, critica
di se stessa, della sua «verità», della sua cogenza. In parole povere, la
teoria sociale è vera perché effettivamente un universale domina e riduce i
singoli uomini a sue mere appendici, ma è falsa perché tale universale sono gli
uomini stessi a crearlo e a potenziarlo giorno dopo giorno con la propria
attività vitale.
Comunque, sia che Habermas non condivida tale prospettiva,
sia che non la comprenda, egli – fin dagli anni sessanta – ritiene di poter
costruire una teoria generale che fondi scientificamente una forma di
interazione umana che giustifichi un assetto migliore della società. Gli si oppone
però il discorso appena fatto sull’aporeticità di ogni teoria sociale –
aporeticità basata a sua volta sulla irriducibile autonomia dell’Io e sul suo
costitutivo conflitto dialettico con il Non – Io. Conseguentemente è costretto
a rigettare en bloc il «paradigma della filosofia della coscienza»
(cioè l’idealismo che passando per Descartes, Leibniz, Kant, Fichte, Schelling,
Hegel, Marx, arriva fino ad Husserl) e a procedere nel tentativo di sussunzione
immediata dell’Io alla dimensione sociale-comunicativa[4] intesa come physei. In sostanza
Habermas, per amore di una teoria oggettiva della ragione, regredisce da una
visione dialettica della realtà (di cui bisogna fargli credito, visto il suo
sodalizio con Adorno), in cui la natura si scinde in Io e Non-Io, in Soggetto e
Oggetto, fra loro in conflitto, ad una visione positivistico-metafisica in cui
la natura genera immediatamente l’Io (e la ragione umana) come sua mera
appendice. Insomma, è un ritorno al passato di almeno quattro secoli che solo
l’appartenenza del suo autore alla koinè della Scuola di Francoforte
ha finora impedito di vedere, e che qualifica tecnicamente la teoria
habermasiana come una teoria reazionaria.
Habermas pensa di potersi liberare del “paradigma della
filosofia della coscienza” a livello concettuale, come se quattrocento anni di
filosofia fossero solo questione di concetti e di ragionamenti più o meno
esatti e non anche e soprattutto di esperienze. Nella sua hybris di voler rifondare una
teoria sociale generale e cogente, in cui universale e particolare, individuo e
società, siano armoniosamente uniti, egli scotomizza (dietro una pletora di
razionalizzazioni logico-scientifiche) l’esperienza interiore più
immediata, semplice e chiara (accessibile “a cani e porci” per così dire),
quella del Cogito, dell’Io penso, dell’Autocoscienza. Attraverso la quale
appare in modo inequivocabile la dialettica, cioè l’opposizione di me, in
quanto Io, a un Non-Io, di me come Soggetto a un Oggetto. Così si rende le cose
facili, e fa quadrare i conti. Quei conti che all’Idealismo e alle filosofie
collegate – che quell’esperienza prendono giustamente sul serio e vogliono
spiegare – non tornano e non possono tornare.
Il «rimprovero» di «aver lasciato indeterminato il concetto
di conciliazione» fu rivolto (nel 2000) ad Adorno anche da Stefano Petrucciani,
nella sua introduzione a Interpretazione
dell’Odissea[5]. Ad esso si può rispondere quanto appena
argomentato a proposito di Habermas, aggiungendo – visto che in questo caso più
che di scientismo si tratta forse di decostruzionismo – che ipotizzare «uno
strato buio dell’esserci umano, difficilmente sondabile dall’analisi razionale»
per spiegare «la logica dell’autoaffermazione feroce e assolutizzata» significa
non solo negare l’autonoma volontà e coscienza dell’uomo, ma la sua stessa non
idoneità primaria, non specializzazione (K. Lorenz), la quasi totale totale
plasticità delle sue pulsioni (A. Mitscherlich).
Il darwinismo sociale che traspare in questa concezione ha
la sua origine ultima non nell’«esserci umano», ma nel rispecchiamento acritico
di come gli uomini necessariamente appaiono hic et nuncnell’ordinamento
sociale vigente. Ma così gli uomini sono l’ideologia di se stessi, direbbe
Adorno.
Ciò non significa, naturalmente, eludere il problema
dell’ereditarietà animale – biologica dell’antagonismo umano. Essa è certamente
possibile (anche se tuttora indimostrata ), ma ciò non autorizza a «trarre la
conseguenza apologetica che la costrizione è immutabile e insopprimibile»[6]; poiché accanto ad essa esistono (queste
sì dimostrate) «l’apertura biologica della natura umana» (A. Mitscherlich) e
l’Io cosciente e volontario.
Questo è un punto così importante del pensiero adorniano che
vale la pena riportarlo integralmente[7].
Ora, nonostante tutta l’enfasi posta sull’Io, non è a
quest’ultimo che va il reale interesse di Adorno, ma al suo portatore, all’uomo
in carne ed ossa, e al dolore o alla gioia che questo può provare. Questa è la
semplicissima motivazione del suo pensiero: che la sofferenza, innanzitutto
quella fisica, abbia a diminuire e cessare, nei limiti del possibile. In questa
sofferenza, di cui è costellata la storia umana, qual è il ruolo dell’Io?
Perché gli uomini, che possono determinare coscientemente le proprie azioni e i
propri scopi, si procurano catastrofi, sofferenze ed odio, piuttosto che
benessere e pace? Perché Auschwitz? Queste sono le domande che stanno a cuore
ad Adorno, che, sfuggito al terrore illimitato, sente come suo principale
compito quello di fissarlo e chiamarlo per nome, affinché ciò che è accaduto
non debba ripetersi. Sociologia, psicologia, gnoseologia vengono chiamate in
causa. Insieme daranno quel che singolarmente non possono dare. Le prime due
riscatteranno la terza, la teoria filosofica dell’Io, dalle sue radici
idealistiche, mentre quest’ultima libererà a sua volta le altre dai lacci del
positivismo in cui sono costrette. Questo il programma di Interpretazione dell’Odissea, Dialettica dell’illuminismo e Dialettica Negativa.
Natura ed Io – mito e illuminismo nella terminologia
adorniana -, hanno un principio comune. Il principio del dominio. Ciò con cui
l’Io si costituisce, staccandosi dal dominio del mito, è a sua volta dominio.
Essendo l’uomo natura, può liberarsi dal dominio naturale solo dominando se
stesso. Tutto l’esistente, cose, piante, animali, sono agganciati alla ruota
del mito che li trascina in eterno; l’uomo riesce a liberarsi solo dominando i
propri impulsi naturali – i ganci appunto che lo avvincono alla ruota.
L’autodeterminazione dell’uomo, la sua coscienza e volontà, l’Io, sono
intrecciati con questo atto di violenza sulla propria natura interna, collegata
istintualmente a quella esterna.
L’Io dunque, sotto la lente materialistica della sociologia
e della psicologia, si connota come dolore, repressione degli impulsi vitali
umani per l’autodeterminazione.
Già da questa schematica concettualizzazione è percepibile
l’irretimento dell’Io, dell’autodeterminazione, della libertà, nel suo
contrario. L’uomo si libera dall’eteronomia, dal dominio naturale,
intronizzando il dominio dentro di sé: eseguendo, per così dire, da sé e su di
sé il verdetto cui è sottoposto tutto l’esistente. La libertà dal ciclo naturale
è pagata con la schiavitù della natura umana al potere rappresentato
dall’istanza dell’Io.
Ma la contrapposizione tra Io e natura (illuminismo e mito),
che si risolve sempre nel dominio dell’uomo su se stesso, non è eterna, fondata
antropologicamente, bensì essenzialmente storica. La società umana si
contrappone alla natura (interna ed esterna) solo perché deve trasformarla con
il lavoro, con la ratio strumentale, al fine di umanizzarla, renderla cioè
fonte di sopravvivenza, sicurezza e benessere. Raggiunto tale scopo, la
contrapposizione totale dell’Io con la natura potrebbe progressivamente
togliersi, e con ciò allentarsi la morsa con cui l’uomo stritola se stesso.
Ciò che Adorno chiama «conciliazione» e rifiuta con buone
ragioni di rappresentare, è uno stato del mondo in cui, sconfitte ovunque la
fame e la miseria, l’uomo inizi a ridurre la sua giornata lavorativa e ad
«abbandonarsi» alla natura – ma ormai senza pericolo, perché essa è stata
umanizzata dal lavoro nel corso della storia.
L’accusa di utopismo che una tale prospettiva si tira
immediatamente addosso, è a sua volta irreale in rapporto allo stato attuale di
sviluppo delle forze produttive: già ora, se a tutta l’umanità in grado di
farlo fosse consentito di lavorare e utilizzare senza limiti i mezzi di
produzione esistenti, la fame e la miseria scomparirebbero dal mondo; e non
sarebbe lontana la prospettiva di una riduzione della giornata lavorativa. Ma,
disgraziatamente, nella società umana non è mai stata solo questione di forze
produttive, ma anche e sempre di rapporti di produzione; e rispetto allo stato
attuale di questi ultimi la prospettiva della «conciliazione» giustifica se non
proprio l’accusa di utopismo, una posizione di grande pessimismo e scetticismo.
In effetti, nel quadro dei rapporti di produzione esistenti,
la contrapposizione di Io e natura (lo sfruttamento della natura esterna e la
repressione di quella interna che ne consegue), non potrà maicessare. E
ciò per la semplice ragione che, in questo quadro, lo sfruttamento della natura
non ha un obbiettivo finito e raggiungibile – qual è quello, sia pur arduo, di
soddisfare i bisogni di base dell’intera umanità; bensì ne ha uno per
definizione infinito e irraggiungibile: la crescita dello sfruttamento stesso.
Il mezzo (il lavoro, il dolore, la violenza sulla natura interna ed esterna),
sorto per soddisfare i bisogni umani, si capovolge in fine, diventa fine a se
stesso, e mira a permanere e a ingrandirsi all’infinito, indipendentemente
dalla volontà dei singoli.
Ma così l’Io, l’Illuminismo, si trasformano proprio in quel
mito da cui si erano con estremo sforzo distanziati e che per millenni avevano
combattuto: diventando fine a se stessi, mirando solo alla propria sussistenza
e crescita, perpetuano all’infinito e senza ragione il dominio sull’uomo, né
più né meno di come faceva il cieco potere naturale trasfigurato nel mito.
La barbarie, che era il vero terminus a quo del
discorso adorniano, trova qui la sua radicale spiegazione. L’irrazionalità – la
follia – di un’associazione di uomini che non vivono e lavorano per il loro
benessere, ma per accrescere continuamente la loro pena e il loro sfruttamento
è ciò che sta alla base di ogni altra possibile follia.
Ora, scavando ben dentro a questa follia sociale, proprio al
fondo, si trova il bellum omnium contraomnes, così ben riconosciuto
da Hobbes e mistificato positivamente da Adam Smith in poi. Infatti, ciò che
costringe gli uomini a tale irrazionalità è il loro stesso comportamento
egoistico, il fatto cioè che l’azione di ogni uomo è ispirata unicamente alla
propria autoconservazione e al proprio interesse. La cecità verso gli altri,
visti unicamente in funzione e come mezzo del mio interesse; la cecità
animalesca che non mi permette di percepire come gli altri siano me ed io sia
loro – tale cecità (che è abdicazione dell’Io, della coscienza e della volontà
di fronte all’istinto), rende possibile il sorgere di una legge sociale
oggettiva sugli uomini come sintesi della totalità dei loro comportamenti
egoistici. Lo sviluppo dall’economia schiavistica a quella feudale e a quella
borghese, fino alle leggi dell’accumulazione, concentrazione e centralizzazione
del capitale, da cui oggi dipende la vita umana del pianeta, è la risultante
storica, il prodotto inconsapevole, delle azioni antagonistiche, egoistiche,
animalesche, che vigono fra gli uomini. «Ognuno per sé e Dio per tutti» è stata
la massima di ogni società storica finora; ma Dio ha dato il libero arbitrio
agli uomini, e questi oltre che di se stessi devono occuparsi anche di tutti
gli altri, se non vogliono essere dominati non da Dio, ma dalla propria vita
estraniata. Debbono limitare l’egoismo e considerarsi quali in effetti sono:
l’uno l’essenza dell’altro, l’uno la condizione di possibilità dell’altro,
l’uno la vita dell’altro, secondo il millenario concetto aristotelico dello
zoòn politikón.
Con ciò Adorno ci ha portato al nocciolo della teoria
critica: gli uomini sono dominati, nel comportamento, nella mente e nell’anima
– e qualunque sia la loro opinione in proposito -, da una legge irrazionale
oggettiva che essi stessi producono inconsapevolmente, giorno dopo giorno,
conformandosi, da vittime o da carnefici, alla massima homo homini lupus (ai
«rapporti di scambio» nella sua terminologia).
I termini usati da Adorno per definire tale situazione sono
tratti dal linguaggio filosofico. La legge sociale, sintesi inconsapevole dei
comportamenti umani istintuali, viene definita come universale, essenza, ens
realissimum, società in sé, perché solo questi termini rendono conto di ciò che
accade. Tali parole indicano infatti non tanto e non solo una legge cui gli
uomini debbono obbedire, quanto la sostanza, la ragion d’essere, la condizione
di possibilità dell’esistenza degli uomini stessi.
In effetti, ciò da cui la vita di ogni uomo non può prescindere,
senza cui sarebbe un uomo morto, quindi la sua essenza, sono le cose utili che
l’attività degli altri uomini mette a sua disposizione, e quelle che lui stesso
mette a sua disposizione degli altri. Senza queste cose e questa cooperazione
non ci sarebbero uomini vivi.
A partire da un contesto sociale di antagonismo, di
liberazione egoistica delle pulsioni, le cose utili, in una vicenda da «storia
naturale», si concentrano progressivamente sotto il controllo di una parte
esigua dell’umanità (oggi l’1% della popolazione detiene una ricchezza maggiore
del restante 99%), lasciando agli altri uomini il mero controllo della loro
nuda vita, separandoli dalla loro essenza, da ciò che li fa vivere.
Questo immane accumulo di lavoro umano cristallizzato in
res, sotto il controllo di pochissimi, diventa allora esattamente ciò che una
volta la filosofia chiamava universale, sostanza, ens realissimum: da esso
dipendono infatti la vita, la morte e il destino di sette miliardi di persone.
Esso è l’essenza degli uomini, separata dagli uomini, che si contrappone agli
uomini come una entità estranea.
Ora, il fatto notevole, scoperto da Marx, e ripreso con
forza da Adorno, è che questa massa immane di ricchezza, in un quadro di
rapporti umani antagonistici, diviene una potenza autonoma (quasi fosse dotata
di vita propria) che obbliga tutti gli uomini – e i proprietari per primi – ad
ingrandirla incessantemente con la propria attività lavorativa. La figura del
Moloch è quella che viene subito in mente: gli uomini, nella loro follia
egoista, si creano da soli e con i più grandi sacrifici una divinità, solo per
sacrificarsi ad essa perennemente.
La visione della società che la teoria critica schiude
all’intelletto non è quella di una consapevole unione di uomini liberi che
provvedono l’un l’altro alla loro vita, ma quella di una entità quasi animata –
composta essenzialmente di lavoro cristallizzato in cose utili – che mantiene
in vita, con i suoi miliardi di rivoli, gli uomini isolati, ricevendone da
questi molte più cose utili di quante ne dà. L’unità della società è pertanto
rappresentabile come un polo centrale (l’universale, l’essenza, la società in
sé) da cui si dipartono miliardi di linee collegate agli uomini, attraverso le
quali si attua lo scambio ineguale di cose utili. Ai singoli viene lasciato –
quando va bene – quanto basta a ricostituire la propria vita, mentre il
sovrappiù da essi prodotto va ad ingrandire l’universale, la montagna di res.
Questa struttura «stellare» della società è vera e insieme falsa, cioè è «apparenza
socialmente necessaria». È vera perché ognuno può esperire che effettivamente
non sono gli altri uomini che lo fanno vivere, che si curano di lui, ma è
appunto il capitale, il datore di lavoro, che lo fa sopravvivere. Gli altri,
anzi, gli appaiono o indifferenti o come pericolosi concorrenti
all’accaparramento delle sempre più limitate fonti di sopravvivenza che
l’universale mette a disposizione dei suoi sudditi. Questa esperienza – che è
alla base dell’ideologia del darwinismo sociale – rappresenta tuttavia
l’apparenza necessaria delle cose, non la loro essenza. Cioè il fatto che la
vita di ogni uomo gli è fornita – oggi e da sempre – da tutti gli altri uomini;
e che solo l’interposizione tra di essi di una classe dominante che si
appropria dei prodotti del loro lavoro scherma loro tale verità.
Ma l’ammasso di lavoro umano che s’insedia a sovrano degli
uomini a livello planetario, non è in grado di ottemperare al primo dovere del
sovrano: quello di mantenere in vita i propri sudditi. Infatti l’ininterrotta
espansione cui mira il capitale – da cui dipende la sopravvivenza degli uomini
– è impedita dal meccanismo cieco e schizoide del capitale stesso, che riduce
la capacità di consumo degli uomini – con i bassi salari, l’automazione e la
disoccupazione -, mentre dovrebbe aumentarla per realizzare appunto
l’espansione. Come bene aveva visto Marx nei Lineamenti (e come la
realtà attuale della globalizzazione neoliberista mostra in maniera lampante) “Il
capitale è esso stesso la contraddizione in processo: da una parte si sforza di
ridurre il tempo di lavoro a un minimo, e dall’altra pone il tempo di lavoro
come la sola fonte e la sola misura della ricchezza”. Il sistema tuttavia ha
retto, contraddicendo le previsioni di Marx – dice Adorno in un’epoca ancora keynesiana
– perché «nella prospettiva di un annientamento totale i rapporti di produzione
non hanno incatenato le forze produttive», ma le hanno stimolate
consapevolmente con l’intervento economico dello stato. Pertanto,
«nell’interventismo si è confermata la forza di resistenza del sistema, ma
indirettamente anche la teoria del crollo: il passaggio al dominio indipendente
dal meccanismo del mercato è il suo telos»[8].
Che fare? Qual è la prassi giusta per affrontare e cambiare
tale assetto del mondo? La profondità a cui Adorno ha spinto l’analisi del
capitalismo gli fa escludere il modello proposto dalle varie dittature del
«socialismo reale» e dai partiti comunisti che vi si ispirano. Il problema
infatti non è solo abolire il capitalismo, ma lo stesso comportamento
istintuale egoistico, il bellum omnium contra omnes, che lo produce e da
cui è continuamente riprodotto. L’abolizione meramente economica del
capitalismo – come i paesi socialisti hanno dimostrato – non solo non produce
automaticamente la fine della condizione di possibilità del dominio, ma è
compatibile con la sua degenerazione più brutale e totalitaria. La fine del
dominio ha bisogno di un atto consapevole e volontario (spontaneo, autonomo) di
uomini che sappiano tenere testa al proprio naturale impulso egoistico, prima
che a quello degli altri. Solo uomini siffatti, che abbiano saldato i conti col
proprio egoismo, e che abbiano esperito nella loro vita rapporti umani così
gioiosamente amorevoli, delicati, gratuiti e solidali, da esserne legati più
che a qualunque altra soddisfazione, – solo uomini siffatti potrebbero essere i
soggetti credibili di una trasformazione radicale oltre il capitalismo e il
dominio. Ma dove sono uomini così? E come pretendere che tutti gli uomini siano
così? Perché tutti gli uomini debbono esserlo affinché il bellum omnium non ricominci.
Queste domande ci avvicinano moltissimo ai famosi concetti di «dialettica
bloccata» o di «rifiuto della prassi» di Adorno.
Il fatto è che la società – dice Adorno – si crea gli uomini
di cui ha bisogno. Se li stampa a propria immagine e somiglianza. Ciò è
accaduto da sempre oggettivamente, e nel Novecento anche intenzionalmente e
sfruttando tutte le tecnologie possibili.
Oggettivamente, il singolo si trova in una condizione di
solitudine e impotenza. Egli fa l’esperienza che è solo, che nessuno può
aiutarlo perché ogni altro è altrettanto solo e privo di risorse come lui:
tutti sono separati da tutti e bisognosi di aiuto che nessuno può dare, perché
essi non dipendono l’uno dall’altro, ma dall’universale che continuamente li
espropria mantenendoli in vita. Tutto ciò avviene necessariamente, nel senso
che il singolo, se vuole sopravvivere, deve adattarsi a questa situazione non
amorevole, non empatica, non gratuita, non solidale. Se non lo facesse,
andrebbe immediatamente in rovina. Il rapporto che lo fa sopravvivere è
unicamente il rapporto di do ut des, di scambio, peraltro truffaldino e
ineguale, con chi gli lesina la vita.
Gli appelli alla solidarietà e all’amore sono così spesso
trascurati dal singolo a causa dell’impotenza cui è stato ridotto. Gli altri
uomini non possono curarsi di lui perché debbono badare a se stessi, come lui,
per lo stesso motivo, non può curarsi di loro. Ognuno ha appena il tempo e le
risorse sufficienti per la propria continuamente minacciata autoconservazione.
Gli uomini nascono, crescono e si formano in questo etere
«egoistico», mentre le tradizionali e pur deboli controtendenze in cui
vivevano, come in una serra, l’amore e la solidarietà – la famiglia, le
associazioni spontanee, la religione, l’arte e la filosofia – regrediscono
progressivamente. Se a ciò si aggiunge l’istituzione a livello planetario di
un’industria culturale che ripropone incessantemente agli stanchi sudditi,
durante le ore libere, il medesimo animalesco mondo che si sono appena lasciati
dietro le spalle, si capirà come la società stia diventando – come dice Adorno
– un blocco dentro e fuori gli uomini, e come l’egoismo, essenza e base del
capitale, venga da quest’ultimo riprodotto nei singoli quasi senza più
ostacoli.
Ma allora, se da un lato la società conciliata non può esser
la meccanica conseguenza dell’abolizione economica del capitalismo, e d’altra
parte il soggetto sociale che potrebbe spontaneamente realizzarla è pressoché
inesistente e in via di estinzione, nessuna prassi politica di radicale
trasformazione sociale è possibile.
Adorno, inflessibilmente, da illuminista tenace, non arretra
di fronte a questa paralizzante conclusione cui la teoria lo conduce. Non si
lascia intimidire dalle accuse di disfattismo, di tradimento, di intellettualismo,
che gli studenti – per non parlare dei partiti comunisti – gli lanciano. Né
approda al riformismo, «che dal canto suo è complice nei favorire la
continuazione della cattiva totalità»[9]. Piuttosto che contribuire ad attuare una
ribellione cieca, votata alla catastrofe e immancabilmente incanalata e
strumentalizzata dal potere stesso, preferisce «segnare il passo» ed
illuminare, fino agli ultimi istanti della sua vita, gli ambiti di esperienza
«non egoistici», sottratti al «rapporto di scambio» (quali l’arte, la
letteratura, la filosofia), che possano contribuire a formare individui in
grado di far sperare in un futuro migliore.
Nota dell’autore
Questo saggio
costituisce l’aggiornamento, l’ampliamento e la radicale revisione teorica
dell’articolo “Adorno e L’interpretazione
dell’Odissea” apparso sul n. 1 del 2002 di Critica Marxista, Editori Riuniti, Roma. L’attualità di Adorno in
campo estetico, qui non trattata, sarà oggetto di un prossimo lavoro.
Note
[1] André Bernold, L’amitié de Beckett 1979-1989, Hermann,
1992.
[2] Cfr. Theodor W. Adorno, Parole chiave. Modelli critici, Milano,
SugarCo, 1974, pp. 233-263.
[3] Le azioni fisiche e mentali che si
producono nel mondo animale, in linea di principio, non sono del
singolo animale, ma del suo Dna, delle leggi naturali di specie. Gli animali debbono seguirle.
La loro legge di comportamento è fuori di loro, non in loro.
Nell’uomo, come da Kant in poi si è cominciato a capire
meglio, esiste invece la possibilità che si formi un principio d’autorità, di
comando, «interno», capace – entro limiti ristretti – di contrastare il mito,
il ciclo naturale. Tale principio è l’Io. Esso presuppone la memoria, cioè la
capacità di trattenere come ricordi gli eventi che ci capitano, di ordinarli
nel tempo e nello spazio, di connetterli in catene logico-causali, senza mai
smettere di sentirli misteriosamente nostri, assolutamente diversi dai ricordi
o contenuti mentali di qualsiasi altro Io. L’Io come tutta la vita spirituale
ha qualcosa di paradossale: esso indubitabilmente è reale, ma non esiste.
Permette l’esistenza per noi delle cose, ma non è una cosa. Esso, benché non si
tocchi e non si veda, è una realtà. In questo tipo di riflessioni il pensiero
coerente raggiunge delle contraddizioni che deve accettare, perché esse sono
contraddizioni della realtà stessa, e non del pensiero. L’Io nasce dal mondo,
dalla costituzione biologica dell’uomo, dal suo sviluppo storico-sociale, ma
non è un quid, una cosa del mondo, solo ha nel mondo la condizione della sua
possibilità. Il mondo a sua volta, che pure non nasce dall’Io (come invece
pensa l’idealismo), essendo conosciuto solo mediante l’Io, è un nonsenso senza
quest’ultimo, senza l’attività spirituale dell’uomo che unifica nella propria
coscienza tutta la sua concreta esperienza di vita che appunto costituisce il
mondo. Dunque, sebbene in misura minore dell’Io, anche il mondo ha la sua
condizione di possibilità nel suo opposto. L’Io non esiste senza il mondo, e
questo senza l’Io. Da soli sono semplicemente inconcepibili. I loro
«significati hanno reciprocamente bisogno l’uno dell’altro, fino al punto che è
impossibile comprendere l’uno senza porlo in rapporto con l’altro (T.W. Adorno, Parole
chiave, cit. p. 211). Che l’Io sia l’Io e simultaneamente il Non-Io, e che il
Non-lo sia il Non- Io e simultaneamente l’Io, è un fatto reale, da ognuno
constatatile in se stesso, che si fa beffe del principio di identità o di non
contraddizione richiesto da ogni discorso logico-sistematico, sia esso quello
comune, scientifico o matematico.
[4] Jürgen Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, vol. I,
Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 455-529.
[5] In Theodor W. Adorno, Interpretazione dell’Odissea, cit., pp.
25-28.
[6] Theodor W. Adorno, Scritti sociologici, Torino, Einaudi,
1976, p. 310.
[7] «In
favore della sacra teoria [cioè, autoironicamente, in favore della stessa
teoria critica della società] non si può affatto esorcizzare la possibilità che
la costrizione sociale sia un’eredità animale-biologica; il bando senza via
d’uscita del mondo animale si riproduce nel dominio brutale di una società che
rientra ancor sempre nella storia della natura. Ma di qui non è lecito trarre
la conseguenza apologetica che la costrizione è immutabile e insopprimibile»
(Theodor W. Adorno, Scritti
sociologici, cit. pp. 309, 310. Cfr. anche id., Dialettica negativa, Torino, Einaudi, 1970, pp. 288-290).
[8] Theodor W. Adorno, Scritti sociologici, cit. , pp. 327,
328.
[9] Theodor W. Adorno, Parole chiave, cit., p. 247.
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