Karl Marx ✆ Kirinuke |
Roberto Finelli
1. E’ la questione dell’individuazione, della
messa in valore della soggettività, rispetto ad una più tradizionale questione
sociale, che costituisce oggi, io credo, la linea più durevole e feconda dei
movimenti di emancipazione dell’ultimo cinquantennio e la linea di apertura di
un possibile futuro in cui le relazioni umane non debbano continuare ad essere
mediate e consentite dalla sola mondializzazione delle merci e del capitale.
Sulla questione della soggettività, delle sue istanze più esistenziali ed
emozionali che non sociali, molto ha avuto a dire e pensare la tradizione più
illuminata e rigorosa del femminismo, del pensiero di genere e della
differenza, malgrado la resistenza all’ascolto e al confronto praticata al
riguardo da molti ambiti dell’emancipazione intellettuale e sociale. Ma, a mio
avviso, è soprattutto alle scienze della psicoanalisi nel loro complesso,
guardando con maggiore attenzione al freudismo e allo junghismo e con molto
maggiore sospetto verso il lacanismo, che siamo debitori di acquisizioni nuove
e ulteriori rispetto al tema della costituzione della soggettività personale,
in una linea di debito che anche qui spesso non è riconosciuta quanto invece
combattuta e marginalizzata. Le scienze psicoanalitiche ci consegnano infatti un
arricchimento e una complicazione del concetto di libertà come di quello di
società che arricchiscono e nello stesso tempo complicano la già ricca
tradizione moderna su questi temi. Libertà ora viene a significare, più che
assenza o riduzione da vincoli esterni, limitazione o affrancamento da vincoli
interni.
Ossia possibilità o meno per ogni soggetto di dialogare con
la propria corporeità emozionale al minor grado possibile di autoritarismo
interiore. Possibilità per ogni soggetto di accogliere o meno l’indicazione di
senso e di valore del proprio sentire col minor grado possibile di repressione
e censura. Possibilità di riconoscersi nella complessità di un proprio mondo
interiore generato da una strutturale contraddittorietà e ambivalenza
affettiva, fatta di pulsioni che generano e costruiscono legami intrecciate con
pulsioni che invidiano e distruggono relazioni e solidarietà.
2. Del
resto sentire non è conoscere. Anche la filosofia ci dice
infatti che sentire non è conoscere, perché sono due facoltà eterogenee ma
compresenti a comporre kantianamente la specificità dell’essere umano tra le
altre specie viventi, di essere uno e bino nello stesso tempo. Per
cui la psicoanalisi sottolinea e radicalizza che ‘libertà’, nella nostra
coscienza antropologica più avveduta, è termine di una profonda pregnanza che,
oltre una relazione esterna con gli altri da sé, non può non includere
anche una autorizzazione interiore a connettersi e a comunicare con quell’altro
di sé, costituito dal senso dei nostri affetti rispetto alla nostra mente
conoscitiva e logico-linguistica. Ed è appunto tale alterità interiore,
verticale, kantiana tra pathos e logos che ci obbliga ormai
a scoprire e a rilevare una societas, non solo all’esterno, ma all’interno
di ogni essere umano, in quanto essere uno e bino e ad assegnare a tale societas interiore
un grado variabile di libertà, fino alla sua patologica assenza, conseguente al
modo in cui quelle diverse parti del Sé dialogano o confliggono tra loro,
esercitano collaborazione ed armonia o dominio autoritario di una sull’altra.
Ma da tutto ciò deve conseguire, a mio avviso, che la filosofia e
l’antropologia politica, le pratiche dell’emancipazione e della trasformazione
sociale, non possano ormai che confrontarsi con tale ridefinizione categoriale ed antropologica dei concetti di società e di
libertà, con tale raddoppiamento della presenza e della funzione di due
ambiti di socialità (rispettivamente uno esterno e l’altro interno), con una
complicazione e un arricchimento della definizione di libertà, che, oltre
quella classicamente liberale di libertà proprietaria e privata dal
pubblico, oltre quella classicamente comunista di libertà egualitaria e solidale dal bisogno, introduca
nell’ambito della cultura etico-politico e giuridico — costituzionale una terza
definizione di libertà, quale libertà esistenziale, ossia quale diritto di
ognuno di godere della facoltà di riconoscersi, di mettere in atto il
riconoscimento del più proprio singolare, irripetibile ed incomparabile Sé.
3. Ora è evidente
che, alla luce di tali considerazioni, la libertà comunista e l’antropologia
comunista concepita originariamente da Karl Marx non possano non evidenziare un deficit teorico
radicale rispetto a temi come quelli, appena accennati, dell’individuazione e
del diritto di ognuno a star dentro di sé come a casa propria. La visione del
mondo di Marx nasce ab imis, nei suoi fondamenti, come prospettiva
etico-politica ed antropologica che privilegia un soggetto collettivo ed
organico e che vede, all’opposto, l’individualità del singolo come il luogo
della regressione privata e del disvalore. In questa visione Marx è stato
preceduto dalla filosofia di L. Feuerbach e dalla critica che questi ha mosso
alla dialettica antropologica e logica di Hegel a muovere dalla presupposizione
di una umanità fondata sull’unità di “Genere”, nella quale non c’è mai
conflitto tra i singoli, perché ciascuno integrerebbe armonicamente ciò che manca
nell’altro. Così tutta la storia dei marxismi è rimasta intrappolata in una
celebrazione che vede la linea teorica progressiva Hegel-Feuerbach-Marx, senza
avvertire di quale povertà teorica e politica fosse il mito del
Genere/Proletariato/Classe quale soggettività storica di spessore e di destino
universale, perché appunto “privata” della proprietà privata e con ciò
consegnata a un agire senza egoismi e senza individualismi. Del resto non è un
caso che, nella necessità, troppo rapida e convulsa, di superare l’egemonia
nella cultura tedesca contemporanea della filosofia hegeliana – e poi, va
sottolineato, inopinatamente della filosofia in quanto tale - Marx, nella
lettura critica che fa della Fenomenologia
dello spirito di Hegel nei Manoscritti
economico-filosofici del ’44 trascuri completamente le pagine, che poi
sarebbero divenute celeberrime, sulla dialettica del riconoscimento tra signore
e servo. A testimonianza di quanto la riflessione sulla natura e struttura
della soggettività individuale, rispetto a quella collettiva e sociale, sia
stata, fin dall’inizio, assai stentata, per non dire inesistente, nell’opera
giovanile di Marx. E come tale assenza di sensibilità e di attenzione nei
confronti delle problematiche dell’esistenziale personale e individuale si sia
prolungata, a dire il vero, per tutta l’opera di Marx, favorendo un lascito di
valorizzazione organicistica e collettivistica di cui l’intera tradizione dei
marxismi ha poi sciaguratamente e dogmaticamente sofferto. Giacchè è qui,
io credo - senza ovviamente voler tracciare linee di ferrea continuità nella
catena delle idee – che si colloca, sul piano della riflessione filosofica
antropologica, il fondamento, il principio del fallimento dei
comunismi cosiddetti reali del sec. XX., fatte salve tutte le altre condizioni
e circostanze storiche che hanno giocato in tale vicenda epocale. Nell’aver
coltivato cioè, in modo ossessivo e monoculturale, il solo valore
dell’eguaglianza e del “collettivo”, senza fecondarlo e integrarlo con quello
della individuazione e dell’irriducibilità dell’esistenza d’ognuno a quella
degli altri. Nell’aver contrapposto, semplicisticamente, al valore
dell’individualismo e del consumismo borghese, il valore della solidarietà e
dell’abnegazione proletaria. Molto si è scritto, per altro, ed anche da menti
assai acute, che l’antropologia di Marx non può essere ridotta all’antropologia
organicistica di Feuerbach, come documentano in modo indubbio sia le pagine
della Deutsche Ideologie che
le celebri tesi su Feuerbach, di cui com’è noto la seconda e la sesta suonano
rispettivamente….. Ora è certo indubitabile che in quei testi Marx dichiari
esplicitamente il superamento del feuerbachismo in quanto ora con la nuova
scienza conquistata del materialismo storico il “Genere umano” che Feuerbach
presuppone come natura universale e collettiva immanente in ogni essere umano
diventa il complesso dei nessi sociali, da studiare di volta in volta secondo
la loro diversità di epoca in epoca. Ed è dunque evidente che con quei testi il
discorso di Marx sull’individualità umana abbandoni un piano di essenza
comunitaria, data per assunzione meramente presupposta e speculativa, come era
avvenuto invece in tutti i suoi scritti giovanili precedenti, per cui ora si
abbandona una socialità antropologia interiore, data per scontata, e si
trapassa a un’antropologia tutta attraversata dalla concretezza dei rapporti
sociali esterni e storicamente dati: si passa cioè dalla filosofia alla scienza
materialistica della storia. Ma è appunto proprio tale risoluzione compiuta e
definitiva di ogni individualità umana nella trama dei rapporti sociali che fa
dell’essere umano un essere solo storico, privo di ogni dimensione biologica
che pretenda invece per la singola individualità vivente una datità genetica,
insieme corporea e psichica, che ne fa una composizione unica e irripetibile
nella storia più ampia della vita. Come a voler dire insomma che il Marx del
1845-1846 proprio per superare ogni naturalità filosofica ed universale
presupposta come originariamente data nell’essere umano, come predicava quel
feuerbachismo in cui egli si era riconosciuto fin’allora, è giunto ad opporre
radicalmente e definitivamente la storia alla natura: dipingendo
un essere umano, assai poco connotato di animalità e complessità corporea, quanto
invece tutto esposto e plasmato dalle relazioni economico lavorative, in prima
istanza, oltre che politiche e culturali, con gli altri esseri umani. La
corporeità dell’essere umano, con l’enorme bagaglio emozionale ch’essa porta
con sé, con la specificità del piccolo dell’uomo di una lentezza di maturazione
psico-fisica diversa da tutte le altre specie, con i molti e contrastanti modi
dell’accendersi del rapporto verticale e interiore tra emozioni e coscienza,
con le possibili relazioni di riconoscimento e disconoscimento che quella
verticalità porta con sé (insomma tutto quanto è poi divenuto oggetto e campo
di scoperta della scienza psicoanalitica) rimane ignota – né poteva essere
diversamente dato il grado di svolgimento della cultura del primo Ottocento –
al materalismo marx-engelsiano. Per cui “materialismo storico” non
poteva significare che porre l’accento sulla fabbrilità dell’essere umano,
sulla dominanza assoluta delle pratiche dilavoro che lo attraversano nelle sue
relazioni con la natura e con gli altri esseri umani, e non certamente
sottolineare e mettere in gioco la complessità biologico-emozionale della sua
bisognosità. Tanto che, nel difetto di tale considerazione dello spessore
esistenziale e verticale dell’essere umano, lo storicismo di Marx torna
paradossalmente a coincidere con l’umanismo di Feuerbach, nella valorizzazione
di un’identità dell’individuo che è appunto solo per grandi gruppi e classi,
socio-collettiva e orizzontale1.
La lettura delle classi subalterne fatta da Antonio Gramsci
s’è, felicemente, mossa all’opposto di tale deficit antropologico fondante il
pensiero di Marx. All’opposto cioè di tutti i marxismi, passati e futuri,
fondati sul mito di una positività e bontà originaria del proletariato e della
classe, quali individui resi solidali dalla comune povertà legata
all’espropriazione storica dai mezzi di produzione e dalla partecipazione
collettiva, in quanto forza produttiva comune, ai processi di lavoro.
Gramsci ha incluso nelle relazioni di classe una dipendenza
non solo economica ma anche ideologica e culturale delle classi subalterne. E
conseguentemente è giunto a formulare una filosofia della prassiassai
diversa da quella di Marx, dove prassi sta non per processo di lavoro bensì per
processo di formazione di una soggettività collettiva: dove cioè, assai ben
prima della teorizzazione della Arendt,praxis è termine che si distingue
da poiesis.
Gramsci ha inteso quanto l’espropriazione economica delle
classi subalterne non si rovesci per principio e secondo una dimensione d’immediatezza
in un fattore positivo e di generazione di una soggettività capace di
trasformazione e d’innovazione. Ha cioè teorizzato, in modo anticipato rispetto ad ogni possibile operaismo, che non
v’è transito immediato tra condizione economico-produttiva di classe e
condizione d’iniziativa ed egemonia politica. Fino a giungere a concepire una
teoria della politica, potremmo dire forzando i termini del suo discorso, come
terapia, come elaborazione di un inconscio che alberga ed opera nelle classi
subalterne, per definizione scisse tra il loro modo d’esistenza reale e la loro
coscienza di rappresentarselo e di definirlo2. Ma anche i suoi Quaderni
del carcere non sono giunti a mettere a fuoco la pervasività e la tendenza
a farsi totalità sociale della produzione di capitale, né la riduzione ad
apparenza che una società di merci fa della libera individualità, svuotandola
quanto ad autonoma e interiorità e riducendola, invece, a contenitore di
funzioni di mera recezione.
4. Ma a muovere
dalla ridefinizione e complicazione dei concetti di libertà e società, di cui
s’è appena detto, le scienze psicoanalitiche ci insegnano, nel progresso di
questa nuova e fondamentale acquisizione antropologica, che il dialogo tra
mente e corpo - quella descensio ad
inferos - non è per nulla facile che si accenda in una mente debole e
gracile, esposta a un’esperienza limitata con il proprio mondo-ambiente:
ovvero, aggiungeremmo noi, in una mente
subalterna, con una generalizzazione di senso che ci fa uscire ovviamente
dal confine di uno spazio specificamente psicoanalitico. Per dire cioè che è
assai difficile che quella liberalità rispetto al proprio mondo interiore possa
accendersi in una mente fin dall’origine consegnata all’angustia del proprio
esperire e, di conseguenza, all’accoglimento delle identificazioni e
interiorizzazioni più superficialmente gruppali e collettive.
Quello che voglio dire è che, se individualizzazione
significa riconoscimento come capacità di riconoscersi, - di sentire il proprio sentire, attingendo
di lì il senso e la costruzione del più proprio progetto di vita - il
riconoscersi rimanda, a sua volta, alla necessità del riconoscimento come essere
riconosciuto. E ciò significa che insieme alla Critica della Ragion pura come compresenza eterogenea ed
armonica di più facoltà abbiamo necessità di far ricorso alla Fenomenologia dello spirito di
Hegel e alla sua teorizzazione dell’identità di un Io, di una autocoscienza che
viene a prodursi solo attraverso l’essere riconosciuta da un’altra
autocoscienza. Abbiamo bisogno cioè, oltre alla sintesi trascendentale di Kant,
della sintesi dialettica di Hegel per riuscire a comprendere che un“Io penso”
si può costituire solo attraverso “un altro Io penso” e che dunque
un’individualizzazione, sull’asse verticale, della soggettività può avvenire
solo attraverso una socializzazione che, sul piano orizzontale di costituzione
di quella stessa soggettività, la aiuti a riconoscersi e a proporsi come
individualità unica e irripetibile. Nella psicoanalisi freudiana di
terza generazione W. Bion ha teorizzato la necessità di una mente al
quadrato perché possa nascere una mente capace dell’ascolto e dell’intesa
con le proprie emozioni. Così, collocando l’intersoggettività nel cuore
della infrasoggettività, egli ci ha detto che una mente ad un livello
ancora gracile di formazione può essere invasa facilmente e sedotta dalla
propria emotività a meno che un’altra mente più formata e matura della sua
accolga dentro di sé le sue emozioni, le riconosca e le restituisca moderate e
tollerabili alla prima mente. Visto appunto che il fine della formazione di una
soggettività è quello di generare una individualità che non abbia, per così
dire, paura di rimanere sola con se stessa3.
5. Io credo che
una nuova formulazione della politica, nel senso elevato del termine o, se si
vuole, nel significato più classico e originario del termine, come politèia,
come partecipazione del cittadino, debba paradossalmente partire proprio da
questo incrocio tra asse verticale e asse orizzontale di costituzione della
soggettività. E riuscire a proporsi come complesso, esteso all’intera
articolazione sociale, dipratiche eistituzioni del riconoscimento. Dove cioè
possano aver luogo forme comunitarie di vita in cui socializzazione e
individuazione possano incontrarsi e crescere insieme, anziché escludersi ed
opporsi reciprocamente, come è accaduto in genere finora. Una politica del
riconoscimento contro una politica della rappresentanza, che ormai ha
visto estenuati e svuotati di senso i suoi valori e significati, visto che la
rappresentanza si è trasformata in rappresentazione: messa in scena cioè,
illudente e ingannevole, di un consenso democratico, di una legittimazione dei
più, ad una gestione sempre più autoritaria ed oligarchica del potere
politico-amministrativo.
Da tale punto di vista - dello scarto cioè tra paradigma del
riconoscimento e paradigma della rappresentanza – io credo si possa considerare
ormai esauriti, almeno quanto a implicazione di un futuro possibile, l’istituto
e la funzione del partito politico. Perché, se è certamente oggi assai
difficile pensare a istituzioni e modalità nuove della rappresentanza politica,
è per altro indubitabile, a mio avviso, che, venuta meno ogni possibilità
ideale, culturale, sociale ed economica della società del capitale, i partiti
politici sono divenuti solo segmenti concorrenziali di una politica concepita
comegovernance: cioè come imposizione giuridico-legislativa, la più possibile
rapida ed efficace, di un liberismo e di un automatismo economico
che hanno ormai a diffondersi, senza più limite alcuno, in tutti i campi,
sociali e individuali, del vivere contemporaneo. Del resto il partito politico
del ‘900, se è stato, sopratutto nelle formazioni a ispirazioni comunista, un
vettore fondamentale di alfabetizzazione e di organizzazione
culturale-politica, lo è stato sempre nel verso autoritario della dominanza di
un ceto intellettuale-burocratico nei confronti di una base di massa: nel senso
di una pratica del riconoscimento unilaterale che dal vertice procedeva verso
il basso senza un movimento reciproco di direzione opposta e di pari rilevanza.
Con la funzione storica del partito ciò che viene meno è
anche la rappresentazione paternalistica che appunto da padre a figlio ha
connotato la rappresentazione del nesso tra partito e classe, per la quale la
classe è sempre stata vista come la positività dell’homo faber, dei gruppi
sociali produttori, capaci, per la dignità del loro fare, di bontà
antropologica ed etica, ma con la necessità di essere guidati
nell’emancipazione dalla loro minorità sociale. Oggi il tempo storico della
egemonia a tutto tondo dell’economia e della società del Capitale impone non
una filosofia della forza e dell’esaltazione di presunte soggettività comuni e
collettive (coniugate eventualmente come nuovo lavoratori della mente e delle
tecnologie informatiche o, ma è lo stesso, come moltitudine pronta all’esodo o
alle virtù raffinate dell’ozio e del non-fare).
Perché, all’opposto, il tempo della socializzazione
capitalistica impone una filosofia della povertà, ovvero una filosofia
della debolezza antropologica in cui oggi intristano masse di uomini e donne
attraversate dall’astrazione del Capitale, che come accumulazione di ricchezza
solo quantitativa e astratta penetra, informa e governa le loro vite. Abbiamo
bisogno cioè di una filosofia del riconoscimento della miseria di vita in cui
vive, non tanto l’essere umano escluso dal mondo del lavoro (per il quale è
ovvio parlare di emarginazione e di miseria), quanto invece proprio l’essere
umano che partecipa del mondo del lavoro: subordinato a pratiche di lavoro
informatico, codificate e anaffettive, ma celebrate come conclusione della
vecchia fatica fisica e inaugurazione di un lavoro liberato solo mentale e
intellettuale. Per citare di nuovo la retorica del “comune”,
dell’intellettualità collettiva e messa in rete, della potenza già comunista
dell’homo faber, che affetta e danneggia la visione dell’antropologia
comunista, da quando Marx l’ha celebrata in quella sua visione schematica e
semplificata della storia, definita “materialismo storico”, e basata
sull’arcaica dialettica della contraddizione tra un polo della storia, sempre
positivo (appunto lo sviluppo delle forze produttive, dell’homo faber,
nella dignità collettiva e comunitaria del suo fare) e un altro polo, sempre
negativo, della storia, costituito dalla natura privata ed egoistica dei rapporti di proprietà e di produzione.
Lasciar cadere un marxismo
della forza, un marxismo istituito sulla contraddizione, sulla
valorizzazione presupposta dell’homo faber e della classe, è stato del
resto – dispiace citarsi ma questa volta è indispensabile – il fine costante e
strutturale della mia attività di ricerca da cinquant’anni a questa parte.
E ad essa rimando4, a chi volesse meglio intendere quanto a mio avviso leggere
il tempo della modernità come il tempo dominato, non dalla classe, ma dal
Capitale significhi, da un punto di vista filosofico e teoretico, lasciar
cadere la struttura inutilizzabile, sul piano della realtà storica come delle
leggi della logica, della contraddizione e comprendere, con l’aiuto – ahimè! –
della Logica hegeliana dell’Essenza,
cioè della logica del nesso di Essenza e Apparenza,
quanto la struttura della modernità sia organizzata secondo l’accumulazione di
una soggettività astratta, come quella del Capitale. E’ una soggettività
storica impersonale che svuota dall’interno le nostre vite ma che in pari
tempo, proprio per questo svuotamento dall’interno del concreto ad opera
dell’astratto, lascia loro un’apparenza, una pellicola di superficie, che ci
autorizza e ci illude nel parlare di libertà, di soggettività e di democrazia.
Ora, appunto, accogliere la fecondità di una filosofia della povertà e della
miseria, di contro a una filosofia della storia fondata sulla forza dell’homo
faber, significa a mio avviso svuotare il marxismo della violenza del paradigma
della contraddizione e riconiugarlo secondo il paradigma
dell’astrazione/svuotamento.
6. Ma come
pensare forme e istituzioni del riconoscimento, come concepire azioni e
pratiche che, mentre producono beni e servizi di cui tutti debbono partecipare,
producano, contemporaneamente figure e forme di individualità in un cammino di
individualizzazione?
Io credo abbandonando il terreno e il percorso
dell’antropologia psicoanalitica che fin qui ci ha accompagnato e in pari tempo
conservandolo: tentando di concepire forme nuove della società economica e
civile in cui quell’ideale di cura personale si possa generalizzare
coniugandosi fecondamente con i valori della tradizione democratica e
socialista della cittadinanza quale luogo dell’universalità e dell’eguaglianza.
Abbandonando cioè l’ambito della relazione a due proprio del rapporto e della
terapia psicoanalitica per proporre il tema del gruppo, della comunità
di lavoro, quale luogo possibile di un incontro tra la produzione e il
riconoscimento di un bene (di un
prodotto, di un servizio) comune e il riconoscimento, nell’orizzonte
di tale bene comune, del bene
privato, ovvero dei tempi emozionali ed esistenziali, delle motivazioni e
delle passioni, del più proprio e incomparabile progetto di vita, proprio di
ognuno. Visto che la pretesa di rilanciare oggi un progetto sociale e politico
di emancipazione che valorizzi i
soli beni comuni senza una sufficiente messa in valore di ciò che
invece non è comune, di ciò che individualizza e differenzia, significa
ripercorrere, a mio avviso, qualcosa di antico e sorpassato, appartenente a
un’antropologia culturale della sinistra che non vuole riconoscere, e con ciò
uscire, dalle sconfitte epocali del
‘900.
La proposta del gruppo o della comunità di lavoro, che qui
avanzo, vuole evitare l’esposizione del singolo a una socializzazione troppo
universalizzante o astrattamente generica e nello stesso tempo impedire la
dimensione simbiotica e gerarchizzante di un rapporto troppo ravvicinato a due.
La proposta del gruppo vuole essere infatti la proposta di una comunità di riconoscimento orizzontale che
impedisca la genesi di gerarchie verticali di relazione e di subordinazione
proprio per accendere e consentire la verticalizzazione
individualizzante d’ognuno.
Ecco perché , di nuovo, la proposta gramsciana del partito -
come comunità di unificazione tra chi “’sente’ ma non comprende né sa” e chi
“sa, ma non comprende e specialmente non sente” (Gramsci, Quaderni, I, pp.
451-452) – appare ormai improponibile e storicamente superata. Perché è venuta
meno, in primo luogo, la figura dell’intellettuale come preteso funzionario
dell’universale capace di portare luce e sintesi al popolo subalterno, immerso
nelle prassi lavorative e conseguentemente privo di ogni strumentazione
concettuale e culturale. Con la rivoluzione informatica e con il passaggio
epocale della forza-lavoro da erogatrice di lavoro manuale a erogatrice di
lavoro mentale che lavora, anziché su oggetti materiali, su contenuti
alfa-numerici, la figura dell’usufruitore dell’intelletto ormai viene
generalizzata. Ma solo per costituire una sorta di intellettualità collettiva,
per definizione incapace di egemonia e di capacità di emancipazione, perché, a
ben vedere, è forza lavoro mentale formata e disciplinata ad attitudini
essenzialmente linguistico-comunicative-calcolanti e prive di una relazione di
senso con il proprio corpo emozionale.
Se il fordismo ha significato, parlando schematicamente,
messa a lavoro di un corpo senza
mente, la nuova tipologia dell’accumulazione flessibile di capitale e la
tecnologia informatica significano la messa a lavoro di una mente senza corpo, ossia di una mente
che prende i suoi significati dai programmi e dalle schede di lavoro
precodificate nella mente artificiale deposta al suo esterno anziché dal corpo
emozionale posto al suo interno. Per dire cioè che la tecnologia informatica in
un contesto di accumulazione capitalistica produce, almeno a mio parere, una
soggettività fondamentalmente astratta e autoingannata in se medesima per
quanto concerne la messa in valore delle sue attitudini più personali e
creative.
L’egemonia dell’antropologia capitalista sull’antropologia
comunista si è sempre realizzata, del resto, attraverso una messa in valore e
un’attenzione molto maggiore al tema del soggettivo e dell’individuale rispetto
al collettivo e al pubblico-statuale. Non importa che tale messa in valore sia
stata di fondo nella storia della società borghese e capitalistica solo
apparente e che si sia venuta riducendo sempre di più nel nostro mondo
contemporaneo ad una silhouette riempita dal volere e dall’agire di
altri. Perché proprio in ciò consiste il cuore del processo egemonico. Nel dare
valore e mettere in scena autonomia e libertà d’azione come attributi e facoltà
di un soggetto individuale proprio nel medesimo tempo in cui, alle spalle,
tutto ciò gli viene sottratto e negato. Un nesso dialettico di opposti, che,
invece della dissoluzione della soggettività pretesa da strutturalismo e post-strutturalismo
francesi, richiede ancora, come dicevo la vecchia lezione del nesso
hegeliano di apparenza ed essenza, di Schein e Wesen, riletti
alla luce marxiana di una dialettica tra un mondo concreto di cose ed esseri
umani ed un mondo di ricchezza astratta e quantitativo-accumulativa.
Le libertà del mercato economico e le libertà della
democrazia politica sono luoghi indispensabili cui la società dello
sfruttamento di classe non può rinunciare, pena la rinuncia alla sua
legittimazione e alla sua riproduzione. Ma appunto io credo non nel verso della
metastruttura e di una sfera della contrattualità in qualche modo esterna ed
autonoma rispetto al capitale di cui ci parla da molti anni Jacques Bidet5,
bensì nel verso di uno specchio indispensabile alla società borghese per
riconoscersi e occultarsi nello stesso tempo.
A mio parere il fondamento dell’autonomia individuale in una
società a totalizzazione mercantile e capitalistica non può che essere
materialistico, agito cioè dalle necessità del capitale, ma tale da apparire
come generato invece da una codificazione giuridica di diritto economico e di
diritto politico fondata sul valore originario della persona. Per dire insomma
che la messa in valore del capitale non può che compiersi attraverso la messa
in valore della persona e della sua riduzione nello stesso tempo ad autonomia
amministrata6. Del resto già il soggetto consumatore, inaugurato agli inizi del
‘900 dagli alti salari di Ford in compenso del lavoro a catena, significava una
valorizzazione di iniziativa personale di consumo apparentemente libera e
dotata, sempre in sede di apparenza,di un forte potere, per dirla nel
linguaggio della filosofia analitica oggi dominante, di “agency”.
7. Ecco perché,
concludendo, una ripresa del discorso emancipativo, che si faccia più agile
tesaurizzando le indicazioni più feconde dei movimenti e dei conflitti della
seconda metà del Novecento, deve tornare a pensare e ad agire su tale nesso
cruciale, di individuazione e socializzazione, per provare a concepire una pratica
della soggettività più egemonica ed emozionalmente assai più ricca, di quella
fantasmatica ma pur sempre dominante della soggettività capitalistica. Insomma
per provare a trasformare la sede dell’apparenza nella sede di una possibile
verità, muovendo dall’assunto che il mito della libertà soggettiva appena si
confronta con la realtà della società totalitaria in cui sempre più viviamo si
frantuma e va in polvere, di fronte a meccanismi ormai sempre più invasivi di
negazione e cancellazione dell’interiorità. della differenza.
Oggi l’unico spazio possibile per una ripresa dell’utopia
sta nella capacità d’inserirsi tra il sistema della totalizzazione
capitalistica della vita, che ci pervade da ogni dove, e l’ombra di
individualità e di autonomia che tale totalità non può che necessariamente
evocare: provandosi a rompersi il cervello e il cuore nel pensare come sia
possibile tradurre quel fantasma in un principio di realtà.
In tale senso si potrebbe pensare che, di contro all’attuale
produzione di un’intellettualità diffusa e povera d’interiorità, tutta
obbligata dall’informazione-comunicazione che proviene dall’esterno, significa,
non si possa che proporre l’utopia dicomunità e istituzioni del riconoscimento.
Provandosi a concepire, ad esempio, il possibile uso di una terapia comunitaria
del riconoscimento, strutturata secondo socializzazione individualizzante, in
quella filiera dell’istruzione pubblica, nei suoi vari gradi, che nell’ultimo
trentennio è stato, accanto al mondo del lavoro, il luogo sociale per eccellenza
da svuotare di profondità di contenuto, e dove lo studente da cittadino in
formazione è divenuto utente di un sistema di debiti e crediti ed è
stato sempre più inserito in un sistema di valutazione basato sulla prestazione
individuale.
In tale ambito, ad esempio, la messa in valore di un “gruppo
classe” che formasse una comunità di accoglienza delle differenze al suo
interno e facesse valere la sua forza di gruppo contro il mondo degli adulti e
contro le gerarchie verticali cui quel mondo omologa a sé una gioventù in
formazione potrebbe essere la prima di una serie di mosse di pura utopia contro la
produzione capitalistica di soggettività.
Qualsiasi ipotesi di trasformazione sociale oggi, dunque,
non può che pensare di coniugare insieme socializzazione e individuazione.
Ossia pensare a un qualsivoglia modo di produrre bene, servizi, cultura in cui
il fine di non entrare in contraddizione con i bisogni e gli interessi
dell’intero genere umano sia raggiunto con una contemporanea produzione di
soggettività, che provi a realizzare se stessa con il grado più basso
possibile di repressione della propria interiorità. E dire interiorità, si
torna a dire, significa riferirsi a una dimensione che non è tutta risolubile
nella storia e nei rapporti sociali: significa riferirsi a una storia biologica
che appartiene specificamente a ogni individuo in quanto tale e che lo
identifica come unicità incomparabile. E’ appunto tale dimensione e
valorizzazione dell’individuale che oggi deve essere rimessa in gioco in una
coniugazione coerente e non repressiva con quella della socialità e degli
interessi più generali.
La proposta del gruppo o della comunità di riconoscimento,
in qualsiasi ambito possibile, attraverso l’assunzione di obiettivi comuni ma
perseguiti da ciascuno secondo la progettualità del più proprio e personale
progetto di vita, vorrebbe evitare l’esposizione del singolo a una
socializzazione troppo universalizzante o astrattamente generica – vuole
evitare cioè la riduzione dell’individuo a concetto - e impedire nello stesso
tempo la dimensione simbiotica e gerarchizzante di un rapporto troppo
ravvicinato a due. Vorrebbe evitare cioè la retorica del comunismo, come
trionfo della solidarietà sul desiderio individuale, e, insieme, la retorica
del cristianesimo, come pretesa dell’amore di risolvere i problemi sociali.
Vorrebbe essere la proposta di una comunità di riconoscimento orizzontale che,in tanto impedisce la genesi di
gerarchie verticali di relazione e di subordinazione, proprio in quanto riesce
ad accendere e consentire la vericalizzazione individualizzante d'ognuno.
Ma questi scarsissimi accenni di un tempo avvenire non
possono che essere, essi stessi, fantasmatici e di ben povera autorevolezza.
Eppure il tempo storico che stiamo vivendo, a mio avviso, per ora non consente
altro.
La forza di svuotamento del concreto da parte dell’astratto
capitalistico, con le rappresentazioni e le compensazioni fallaci e ingannevoli
di superficie che genera, sarà egemone ancora per molti anni, certo per
decenni. C’è ancora mezza Asia e quasi l’intera Africa da conquistare al mondo
delle merci e alla violenza progressista del capitale. E, come diceva il
vecchio Marx, una formazione economico-sociale non tramonta fin quando non ha
esaurito spazi e risorse da sfruttare e utilizzare. A ciò si aggiunga che nel
nostro paese il disprezzo e la paura, che il marxismo comunista tradizionale ha
mostrato fin dall’inizio negli anni ’60 e ’70 verso culture, certo anche
confuse ed estremistiche, dell’individuazione, ha condotto a un definitivo
isterilimento di una tradizione comunista monoculturale, caratterizzata da
un’antropologia del solo egualitarismo ed ha consentito, nello stesso tempo, al
suo gruppo dirigente di passare dallo stalinismo democratico alla coltivazione
più esasperata e feroce del liberismo: con un entusiasmo di neofiti che,
attraverso riforme distruttive del mondo del lavoro e della scuola-Università,
hanno condotto all’attuale miseria antropologica, culturale e civile.
Dunque il tempo del prossimo futuro non potrà che essere il
tempo barbarico del Capitale, con la scissione dell’umanità in una
superborghesia sovranazionale, unificata quanto a stili di vita e livelli
raffinati di consumo, e la stragrande maggioranza degli esseri umani condannati
a consumi dequalificati di massa e alla dilatazione sempre più invasiva del
tempo di lavoro.
In questa weberiana gabbia d’acciaio, in questo rinnovato
medioevo del superficializzarsi del mondo e dell’isterilirsi delle interiorità,
rimarranno possibili, come luoghi dell’autenticità e dell’alternativa
esemplare, solo i “conventi” laici, quali occasioni possibili del cum-venio,
del convenire e convivere insieme. Dove comunità locali e parziali di
un’umanità avvenire potranno, forse, provare a coniugare, con l’aiuto di una
rinnovata filosofia e di più approfondite scienze umane, nuove possibilità
della relazione umana e dell’individuazione umana.
Cioè a praticare un comunismo dionisiaco, che, sappia
ben tenere in una mano, non l’antropologia, ma la scienza del Capitale di
Karl Marx, e nell’altra tutto ciò che nella mente di quell’uomo di genio, ma
pieno di ambivalenze e di contraddizioni, come avviene per ciascun di noi, non
poteva aver luogo.
Note
1 Di questioni del genere discuto amabilmente da anni con l’amico Luca Basso, ottimo studioso di Leibniz e soprattutto di Marx. L. Basso che ha scritto ottimi libri sull’argomento (Socialità e isolamento: la singolarità in Marx, Carocci; Agire in comune. Antropologia e politica nell’ultimo Marx, ombre corte) è il più strenuo sostenitore oggi, nel campo degli studi marxisti, della presenza di una teoria dell’individualità in Marx. Ovvero una tesi radicalmente opposta a quella che io, di contro, da molti anni sostengo. Che ci siano nei testi marxiani, sopratutto a partire dall’Ideologia tedesca e abbandonata la dipendenza dall’uomo comunitario di Feuerbach, degli accenni testuali alla realizzazione nel comunismo degli «individui come individui», contrariamente alla realizzazione solo collettiva-di classe che ha luogo nel capitalismo e nelle società precapitalistiche, che nelManifesto del partito comunista possa affermare che la libertà di ciascuno è la condizione della realizzazione della libertà di tutti, che Marx abbia fatto studi etno-antropologici, come testimoniano gli appunti etno-antropologici dei quaderni B 146 e B 150 redatti tra il 1881 e il 1882, non confuta, a mio avviso, l’obiezione fondamentale da muovere a Marx e ai marxismi che risolvono l’essenza dell’essere umano nell’insieme dei rapporti sociali come afferma la VI tesi su Feuerbach (“Ma l’essenza umana non è qualcosa di astratto che sia immanente all’individuo singolo. Nella sua realtà essa è l’insieme dei rapporti sociali”). Questa tesi disegna un’antropologia solo orizzontale, di relazione quanto mai storicamente e socialmente varia, con gli altri esseri umani. Non mette a tema, non considera per nulla l’interiorità dell’essere umano, la sua peculiare dimensione verticale, non riducibile a relazioni orizzontali, ma sostanziata da quella relazione mente-corpo, in cui il corpo e il suo tessuto emozionale costituiscono un’alterità interna (o altro-di-me) profondamente diversa dall’alterità che si colloca sul piano orizzontale (o altro-da-me). Gli accenni marxiani allo sviluppo della libera individualità di ciascuno mi sembrano legittimi appelli, ma solo retorici, perché non basati su una teoria dell’individualità dei corpi.
2 Per questa interpretazione dell’opera gramsciana mi permetto di rinviare ai miei saggi, Gramsci tra Croce e Gentile, «Critica marxista», n. 5, 1989, pp. 79-92; Antonio Labriola e Antonio Gramsci: variazioni sul tema della prassi,in A. Burgio (a cura), Antonio Labriola nella storia e nella cultura della nuova Italia, Quodlibet, Macerata 2005, pp. 329-341; Antonio Gramsci. La rifondazione di un marxismo senza corpo, in P. P. Poggio (a cura), L’ALTRONOVECENTO. Comunismo eretico e pensiero critico, Jaca Book, Milano 2010, vol. I, pp. 321-334. Ma cfr. anche D. Ferreri, Inattualità di Gramsci, in Aa. Vv:, Percorsi della ricerca filosofica, Gangemi, Roma-Reggio Calabria 1990, pp. 197-213. Per una interpretazione assai diversa, se non opposta, alla mia, che giunge a proporre una lettura postmoderna della prassi gramsciana, sciolta nelle trame infinite della contingenza e di una relazionalità sociale costantemente rinnovantesi e in divenire, cfr. F.Frosini, Da Gramsci a Marx. Ideologia, verità e politica, Derive e approdi, Roma 2009.
3 A mio avviso è l’esclusione della verticalità intrapsichica e della socialità interiore propria dell’essere umano che impedisce di accogliere e di utilizzare ogni teorizzazione del cosiddetto “transindividuale”, su cui ha scritto e tematizzato negli ultimi anni sopratutto E. Balibar (cfr. E. Balibar – V. Morfino, IL TRANSINDIVIDUALE, Soggetti, Relazioni, Mutazione, Mimesis, Milano-Udine 2014).Transindividuale, general intellect,intelletto comune, individuo sociale, moltitudine, linguaggio come funzione comunitaria della specie, a me sembra che siano tutte coniugazioni ed esaltazioni di un’antropologia univoca e monca che non si impegna nel voler dar conto dell’individualità e dell’unicità dell’essere umano. V’è una dimensione dell’interiorità di ciascuno – a muovere dal materialismo biologico del corpo pulsionale ed emozionale – che non può essere sciolta e risolta nella relazionalità storico-sociale e tanto meno nel linguaggio. Ma dire ciò significa proporre un materialismo che è al di là del materialismo storico e che ha a che fare con un doppio e distinto concetto di alterità: l’altro fuori di me (o socialità esterna) e l’altro dentro di me (o socialità interna). A meno di non rivolgersi alla rilettura, compiuta da G. Simondon, in chiave schellinghiana dell’Uno di Parmenide-Melisso inteso come ricchezza inesauribile del “Poter-Essere” e derivarne, non si sa in quale modo e con quale legittimità e coerenza di passaggi, la molteplicità delle individualità particolari.
4 Cfr. Traduzione e commento a K.Marx, Critica del diritto statuale hegeliano, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1983; Astrazione e dialettica dal romanticismo al capitalismo (Saggio su Marx),Bulzoni, Roma 1987; Un parricidio mancato,Hegel e il giovane Marx,Boringhieri, Torino 2004; Mito e critica delle forme. La giovinezza di Hegel. 1770-1803, Pensa, Lecce 2010; Un parricidio compiuto. Il confronto finale di Marx con Hegel, Jaca Book, Milano 2014.
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