1/9/15

Costanzo Preve e il medio-marxismo (1914-1956)

Karl Marx en rojo ✆ A.d. 
Enrico Galavotti   |   Quei due periodi di storia che Costanzo Preve, nella sua Storia critica del marxismo (ed. La Città del Sole, Napoli 2007), chiama "medio-marxi­smo" (1914-56) e "tardo-marxismo" (1956-91), per lui non hanno "alcun rapporto con la teoria originale di Marx", per cui il discorso, col marxismo classico, è praticamente già chiuso. Preve rifiuta persi­no la rivoluzione d'Ottobre, e pensa di poterlo fare a buon diritto, visto ch'essa è fallita. In sostanza l'ultimo Preve riteneva d'esserel'unico interprete adeguato di Marx, l'unico a non averlo né frainteso né censurato né strumenta­lizzato. D'altra parte lui stesso se ne vantava: "la mia riesposizione criti­ca è talmente diversa e talmente 'dirompente' in rapporto a tutte le principali correnti del marxismo... da apparire non tanto 'folle' quan­to strana ed eccentrica" (pp. 166-7).

Tuttavia, a fronte dei 150 anni di storia del marxismo, un mi­nimo di umiltà o di circospezione sarebbe quanto meno desiderabile. Il fatto che il cosiddetto "socialismo scientifico" sia andato incontro a cocenti sconfitte storiche, non ci autorizza a sottovalutare le capa­cità intellettuali di chi ci ha preceduto o a valorizzare soltanto le idee che più somigliano alle nostre. 

Se uno volesse davvero fare, oggi, una storia del marxismo, di un testo così "folle" come questo di Pre­ve, non saprebbe davvero che farsene. È difficile immaginare che il compito di prospettare il socialismo futuro dovrà tener conto soltan­to dei testi scritti da Carlo Marx e... da Costanzo Preve. Non foss'al­tro che per una ragione: il Marx di Preve è del tutto fantasioso (p. 168).

Marx non fu solo uno "scienziato sociale", ma anche un giornalista e un politico, la cui attività uscì sconfitta dalla storia; in tal senso non si sarebbe mai accontentato d'essere un "filosofo idea­lista-prassista", neppure se "di tipo nuovo", proprio perché aveva ca­pito tutta l'impotenza della filosofia; per cui è profondamente sba­gliato ritenerlo più interessato alla "libertà" che non all'"uguaglian­za" (semmai è l'inverso). E tanto meno ha senso etichettarlo come "hegeliano di sinistra": non avrebbe mai accettato di limitarsi a fare il discepolo di Hegel, neppure coi connotati del "ribelle", pro­prio perché, per lui, il senso della vita non si sarebbe mai potuto rac­chiudere in una questione di tipo filosofico; e se è vero che quan­do criticava l'utilitarismo non usava "argomenti morali e antropolo­gici", è anche vero che, all'infuori degli aspetti tecnico-scientifici, egli non salvava nulla del capitalismo, e anche quando si trovava a esaminare delle questioni etiche, non era mai così sprovveduto da te­nerle separate dalle sottese questioni economiche. Marx non è mai stato un moralista: semplicemente perché sapeva che, sotto il capita­lismo, è molto facile che i valori teorici siano strettamente collegati a degli interessi materiali.

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Purtroppo è proprio sul versante pratico che il volume di Preve è maggiormente deficitario. Di fatto non si riesce mai a capire che tipo di socialismo egli voglia realizza­re. Dentro il pentolone della sua iper-critica Preve infatti mette non solo lo Stato (che ovviamente ci può stare), ma anche ilpartito, cioè non solo il "socialismo burocratico" (quello amministrato dall'alto), ma anche il socialismo rivoluzionario.

Con questo non è ch'egli voglia negare la necessità della ri­voluzione bolscevica: semplicemente nega ch'essa sia stata davvero "socialista". Cioè egli è disposto ad ammettere che "per la prima vol­ta le classi dominate sono veramente andate al potere", ma per lui non l'hanno potuto fare che "per più di qualche settimana" (p. 178), dopodiché hanno lasciato che il partito e lo Stato si sostituissero alla loro volontà.

Secondo Preve ciò è avvenuto perché la Russia, non avendo vissuto una vera transizione dal feudalesimo al capitalismo, non po­teva averne una dal capitalismo al socialismo. Lenin fece bene a fare la rivoluzione per abbattere l'autocrazia zarista e porre fine alla guer­ra imperialistica che la Russia stava conducendo nell'ambito del pri­mo conflitto mondiale. Ma a partire dal momento in cui pensò di po­ter "costruire" il socialismo con un partito unico, monolitico, privo di correnti interne, Lenin s'era già posto fuori del socialismo.

E con Lenin - secondo Preve - si pose fuori dal socialismo anche un altro grande intellettuale che lo volle imitare, Gramsci, che, coi suoi Quaderni del carcere, ipotizzò la realizzazione di un partito che diventasse culturalmente egemone nella società, prima di poter compiere la rivoluzione politica. Preve lo critica dicendo che Gram­sci prese a modello di tale partito il Principe del Machiavelli, che di umano non aveva nulla. E aggiunge che Gramsci non si rendeva conto di ciò che stava dicendo.
D'altra parte per Preve anche Stalin è una conseguenza della "rivoluzione totalitaria" di Lenin (p. 193). Quindi, come non c'è "tra­dimento" in Gramsci, così non c'è in Stalin. Entrambi vogliono "co­struire" il socialismo. Singolare però è il fatto che Preve escluda, nello stesso tempo, che il proletariato, così "profondamente subalter­no e non-intermodale" (p. 194), possa governare senza burocrazia. Le sue conclusioni quindi non lasciano molte vie d'uscita: o si elimi­na il concetto di proletariato e quindi si giustifica il capitalismo, sep­pur riservandosi di criticarlo, oppure è inevitabile una qualunque in­voluzione verso lo stalinismo. Se si accetta lo stalinismo (che per lui in sostanza coincide con leninismo, gramscismo, trotzkismo ecc.), alla fine è comunque inevitabile che il proletariato venga sostituito dalla burocrazia dello Stato centralizzato, il che comporta la realiz­zazione non del socialismo, ma di una nuova forma di capitalismo.

Si può essere più superficiali di così? Nella Russia di quel periodo l'unico partito a non essere violento fu proprio quello bol­scevico, tant'è che la rivoluzione del '17 fu la più indolore della sto­ria: non ci fu alcun massacro. La violenza vera e propria iniziò solo con la controrivoluzione, spalleggiata dall'interventismo straniero. Gli anni terribili del comunismo di guerra furono certamente un sa­lasso per il mondo rurale, ma se la reazione avesse vinto, il destino dei contadini poveri - che con Lenin avevano ottenuto la terra gratui­tamente - sarebbe stato sicuramente peggiore. Durante quegli anni i partiti si misero fuori gioco da soli, comportandosi come criminali di guerra.

Tutto ciò forse impedì il dibattito dentro il partito bolscevi­co? Preve avrebbe dovuto rileggersi le ultime opere di Lenin, quelle in cui si delineano gli ampi dibattiti sulla prosecuzione della guerra contro la Germania, sulla necessità di adottare una nuova politica economica a favore dell'iniziativa privata, sulla necessità di non bu­rocratizzare le funzioni dello Stato e di non esasperare le tensioni in­terne al gruppo dirigente del partito, sulla necessità di non fare del­l'elemento "russo" qualcosa di mortificante per tutte le altre naziona­lità dello Stato, sulla necessità di non essere ideologicamente estre­misti, facendo dell'ateismo scientifico un'arma per discriminare i cre­denti, sull'urgenza di sviluppare la cultura e l'elettrificazione del paese, ecc. Si può praticamente sostenere che all'interno del partito bolscevico non si è mai smesso di discutere, almeno sino a quando, sotto Stalin, non si cominciarono a espellere dal partito i militanti che avevano contribuito a crearlo, cioè sino a quando non si pensò di far pagare interamente ai contadini lo sviluppo industriale della nazione.

Dunque da che parte stava Preve? Qual era la sua idea di sociali­smo? Con quali mezzi e strumenti pensava di edificarlo, visto che il verbo "costruire" non lo sopportava? Nel testo in oggetto l'unica idea che esprime, ol­tre al brevissimo riferimento all'esperienza anarchica, paragonata, ecletticamente, a quella essenica di duemila anni fa, è relativa al cosid­detto "comunismo dei consigli", quello di A. Pannekoek, K. Korsch e P. Mattick, anch'essi ritenuti idealmente discepoli di quella comu­nità essenica irriducibile allo strapotere delle legioni romane.

Qui non è possibile prendere in esame questi tre intellet­tuali, che sicuramente hanno dato - soprattutto i primi due - un con­tributo molto importante alla storia del marxismo. Si può soltanto dire che se anche avessero avuto ragione nell'attribuire ad organi più democratici, rispetto allo Stato o al partito, come i consigli di fabbri­ca o i soviet, la gestione della transizione al socialismo, il fatto che Preve si rifaccia a loro, sic et simpliciter, senza aggiungere altro, è indicativo dei limiti delle sue concezioni sedicenti marxiste. Quanto meno avrebbe dovuto chiedersi il motivo per cui, sulla base di quelle posizioni, ritenute più democratiche, non si sia mai compiuta in Eu­ropa occidentale (che certamente, quanto a forze e rapporti produtti­vi, era molto più avanzata della Russia) alcuna rivoluzione sociali­sta.

Preve inoltre avrebbe dovuto precisare che, alla luce del fal­limento del cosiddetto "socialismo reale", è oggi impensabile una semplice democratizzazione della vita operaia di fabbrica, senza fare alcun riferimento alle esigenze del mondo rurale, che non possono non essere considerate come prioritarie. Anzi, oggi ci si dovrebbe addirittura chiedere che senso abbia continuare con l'industrializza­zione della società, quando possiamo da tempo constatare gli effetti particolarmente nocivi del macchinismo sulla natura.

Infine, se si nega un qualunque valore al "socialismo stata­le" - come è giusto che sia -, bisogna poi delineare un'ipotesi alterna­tiva, la cui fattibilità non faccia uscire dai limiti del socialismo; altri­menti si rischia - com'è successo in Russia - di ripiombare negli antagoni­smi del capitalismo, oppure di creare - come in Cina - delle forme di capitalismo di stato, gestite paradossalmente dallo stesso partito co­munista.

Quindi non si può che essere d'accordo sull'idea che il "con­siglio di fabbrica" vada considerato come "l'espressione di una de­mocrazia diretta che possa essere congiuntamente autogoverno poli­tico e autogestione economica", e che quindi "ogni altra struttura (sindacato, partito, stato, ecc.) non è adatta allo scopo dell'emancipa­zione dei lavoratori" (p. 186). Ma poi bisogna aggiungere - se si vuole uscire dall'astrazione delle belle frasi - che l'unica vera alterna­tiva possibile al mercato è l'autoconsumo, ovvero il primato del valore d'uso, con possibilità di scambio delle eccedenze sulla base del baratto. Se davvero vogliamo parlare di "autogoverno politico" e di "autogestione economica", dobbiamo per forza prospettare l'edifi­cazione di autonome, autosufficienti, autosussistenti comunità di vil­laggio, la cui collocazione è in ambitorurale. Il socialismo o è una forma di libera autogestione di risorse agrarie, o non è. In tal senso ci è più utile la "preistoria" della "storia", l'uomo primitivo piuttosto che quello civilizzato. Se questo è vero, saremmo andati oltre Marx Engels Lenin Stalin Mao..., senza uscire dai limiti delsocialismo de­mocratico.
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