Piero
della Francesca
✆ Doble retrato de los duques de Urbino |
Roberto Finelli |
Da Rappresentanza a Rappresentazione: in questa formula si può
riassumere, a mio avviso, la trasformazione più rilevante che ha subito la
Politica nella modernità dell’ultimo quarantennio. Ma non per ragioni autonome,
o per una presunta virtù e capacità propria di modificarsi comunque e di
assumere con ciò nuove forme – quasi a celebrare la fantasia di tutti coloro
che hanno interpretato il moderno come autonomia del Politico -, bensì a
seguito di quella trasformazione dell’Economico, che, a mio avviso, l’ha
guidata e l’ha fondata quanto a precedenza ontologica nella costituzione della
vita sociale, e che è ormai ben nota come passaggio dal fordismo al
postfordismo.
Un mondo rovesciato
Come ormai da più tempo vengo scrivendo questo passaggio
epocale va inteso, nel linguaggio della filosofia, come l’approfondimento e la
radicalizzazione dell’Astrazione in cui si compendia l’Economico capitalistico,
con lo svuotamento del Concreto che ne consegue e la superficializzazione del
Mondo che ne costituisce l’esito.
Vale a dire che con il passaggio dal sistema
“macchina meccanica-forza lavoro corporea” al sistema “macchina
dell’informazione-forza-lavoro mentale” la valorizzazione della ricchezza
astratta attraverso estrazione di plusvalore avviene, almeno nel capitalismo
avanzato, non più attraverso costrizione fisica e lavoro corporeo alla catena,
ma attraverso consenso e partecipazione, data la messa in gioco nel processo
produttivo da parte del lavoratore della conoscenza delle competenze,
attitudini e abilità della propria mente. Per cui il processo di lavoro
maschera la sua essenza profonda di sfruttamento ed erogazione di lavoro
astratto attraverso la messa in scena dell’attivazione di un lavoro, invece,
concreto e intenzionalmente partecipe: attraverso cioè l’apparenza di una
superficie che dissimula in senso contrario quanto avviene nella profondità
dell’essere sociale.
In effetti per intendere il postfordismo io credo sia
necessario sbarazzarsi della teoria del feticismo di Marx, legata com’è nel suo
parlare di rovesciamento di soggetto e predicato ad una tematica ancora
antropocentrica e soggettocentrica, ed elaborare una teoria dell’ideologia che
prenda a fondamento quanto F. Jameson ha concepito, nella sua interpretazione
della postmodernità, come «effetto-simulacro»: appunto la messa in pratica di
processi di svuotamento del valor d’uso e del mondo del concreto che lasciano
come realtà apparente solo residui pellicolari di superficie, abbelliti
istericamente di ornamenti e veste fittizie per compensare la vuotezza e
mancanza ad essere del loro contenuto. Credo cioè sia necessario, al fine di
assumere un vertice teorico capace di stringere criticamente postfordismo e
postmodernismo, riattualizzare la teoria marxiana del Soggetto storico «Capitale» con una teoria della
rappresentazione e dell’immaginazione legata ad una topologia del dentro/fuori,
del vuoto/pieno, del contenitore/contenuto, del corpo/pelle. E che dunque sia
indispensabile liberarsi dal monopolio lacaniano sull’Immaginario come
catturazione e precipitazione simbiotica nel desiderio dell’Altro, con tutte le
assunzioni in chiave esistenzialistica/teologica della vita umana come
strutturale mancanza ad essere, per accedere, invece, ad una identificazione
dell’Altro con il Capitale e seguirlo in tutte le sue mosse di «valore in
processo» che non può che colonizzare e ridurre alla sua logica astratta ogni
dimensione di vita del concreto.
Senza questa mossa preliminare – di una rifondazione
marxiana dell’immaginario che lasci morire la teoria del feticismo e in pari
tempo un metter da canto lo schema lacaniano di Immaginario, Simbolico e Reale
–, senza una sociologia critica dell’immaginario che muova da una ontologia
sociale, da nonconiugarsi, si badi, secondo le categorie arcaiche dell’homo
faber lukacsiano, non si riuscirà, io credo, a porre nei giusti termini il
tema/problema cui ci consegna questo numero di «Consecutio temporum», vale a
dire il nesso tra verità e politica. Ci si accontenterà, al massimo, anche per
chi è lontano dall’aver partecipato al coro dell’autonomia del politico, del
vecchio e logoro paradigma marxiano di struttura e sovrastruttura, che ha
pensato quel nesso sempre nei termini dell’esteriorità e della giustapposizione
spaziale, come del causalismo e del meccanicismo più estrinseco. Mentre
postfordismo e postmodernismo vanno letti secondo una consustanzialità che li
lega intrinsecamente: come, potremmo dire, secondo la connessione dialettica
per cui essenza sta ad esistenza, o interno sta ad esterno, nel senso che il
secondo termine è sempre l’espressione/rappresentazione opposta e capovolta del
primo. Tanto da poter affermare – secondo l’ipotesi che più volte abbiamo già
formulato – che il postfordismo è la realtà vera, o verità reale: di cui il
postmodernismo è la verità deformata e doxastica, la rappresentazione ed espressione
più esteriore e superficiale. Giacché se il postfordismo, come passaggio dalla
tipologia storica dell’accumulazione rigida alla tipologia storica
dell’accumulazione flessibile, consiste essenzialmente, insieme a molte altre
trasformazioni dell’organizzazione produttiva, nell’applicazione di lavoro
mentale a macchine informatiche, la produzione di lavoro astratto,
linguistico-calcolante che lo caratterizza, appare immediatamente, invece e
all’opposto, come impiego di lavoro intellettuale e conoscitivo, di attitudini
individualizzanti e personalizzate, di una capacità diproblem solving concreta
e particolareggiata1.
Una produzione permanente di empirismo
Né vale dire, io credo, dire che il secolo del linguistic
turn sembra ormai essersi esaurito, ossia che di fronte, alla durezza
reale e inesorabile della crisi economica e della dilatazione in ogni sfera
della vita accumulativa del capitale, il tempo della riduzione dell’Essere a
Linguaggio, della frammentazione e decostruzione postmoderna, sembra ormai
sorpassato. E che sarebbe tornato il tempo del Reale, rispetto a quello del
Simbolico e dell’Immaginario. Perché, a mio avviso, c’è un effetto di
deformazione iconico-rappresentativa strutturale immanente al
capitalismo postfordista: quale che sia poi la coniugazione e l’interpretazione
specifica che i diversi maitres à penser danno di volta in volta di
quella riduzione del mondo a superficie. Infatti la radicalizzazione della
produzione e della commercializzazione dell’Astratto, riducendo la logica del
vivente alla logica accumulativa della propria Quantità, non può che
condurre alla catastrofe del valor d’uso e alla conseguente e compensatoria
isterizzazione del superficiale e dell’esterno. Ma valorizzazione dell’esteriorità
significa negazione e rifiuto dell’interiorità: cioè rinuncia ad una profondità
di pensiero e di riflessività. In particolare quando la mente connessa alla
tecnologia informatica è per principio volta all’esteriorizzazione
linguistico-calcolante e impedita all’interiorizzazione, nel senso peculiare di
capacità di mediare logos e pathos, ordine dei significanti
linguistici ed alfa-numerici e ordine dei significati, dimensione del conoscere
e dimensione del sentire. Tale assenza di risonanza interiore impedisce che, a
partire dal proprio più intimo sentire e dalla più propria esperienza di vita,
si possa percepire e definire il più proprio essere di parte e, secondo quella
parzialità, costruire un senso complessivo del mondo e delle
relazioni/opposizioni delle parti. Per cui è definitiva l’atrofia di categorie
come totalità, sistema, relazione parte-tutto, a favore di una superficie
dell’esperire che si frantuma in un molteplice, le cui singolarità appaiono
senza radici e senza connessioni.
È dunque la produzione permanente di empirismo, come preteso
conoscere di un mondo composto solo di cose e individui separati, ciò che
connota la produzione postfordista come produzione, simultanea, e della
ricchezza economica e dei paradigmi percettivo-conoscitivi dell’anthroposmoderno.
Ed è appunto tale disposizione generalizzata del nostro apparato psichico a
percepire e a conoscere secondo un orizzonte empiristico che sta a fondamento
del passaggio della sfera politica dall’ambito della rappresentanza a quello
della rappresentazione. Perché la generalizzazione dell’empirismo fa divieto di
considerare la vita sociale, e in essa la vita politica, secondo il darsi di
relazioni tra classi, o meglio, secondo il darsi dell’esistenza di classi. La
categoria marxista è radicalmente esclusa dalla considerazione empirista della
storia e della vita sociale: a muovere dall’assunto ontologico ed
epistemologico fondamentale dell’empirismo secondo il quale l’universale non è
mai reale, in rem, ma sempre e solo nella mente, post rem, quale
prodotto e strumento di astrazione concettuale.
Un gioco delle parti
Lo Stato democratico moderno è fondato sulla rappresentanza
finché l’Economico è fondato sul Capitalismo Fordista. Perché nel fordismo si
dà contrapposizione di classe, attraverso la lotta che si svolge attorno al
corpo della forza-lavoro e alla sua normazione. Nel fordismo la costrizione
sulla forza-lavoro, perché eroghi lavoro astratto – ossia lavoro regolarizzato
ed esente da interferenze soggettive -, è realizzata attraverso la costrizione esterna messa
in campo dal sistema di macchine e dal disciplinamento dello spazio e del tempo
corporei che esso dispone. Per cui fin quando si dà l’organizzazione fordista
del lavoro esistono oggettivamente le classi e la politica deve essere di
necessità fondata sulla rappresentanza. Ossia su partiti, che nelle istituzioni
rappresentative dello Stato democratico, rappresentano gli interessi di quei
corpi collettivi che sono le classi. Certo rappresentanza non significa
organicità e continuità d’interessi tra classe e partito politico, giacché
nelle democrazie moderne in genere il partito ha espropriato la classe
rappresentata dei suoi più propri interessi ed ha interpretato la
rappresentanza come un’alienazione del rappresentato a favore della
perpetuazione del rappresentante come ceto politico dirigente. Ma rimane
comunque, nella democrazia fordista, anche se solo a parole, un contrapporsi di
ideologie e di opposte visioni della società e dello Stato che non possono non
riferirsi a quell’opposizione, reale ed irriducibilie, che tra le classi si
svolge attorno al corpo materiale della forza-lavoro.
Con il postfordismo scomparse le classi, residuono solo gli
individui, identificati ormai e trasformati unicamente in cittadini, liberi
agenti del mercato, imprenditori di sé medesimi. Con la conseguenza che la
politica, perduto il radicamento nella classi, diventa di necessità, da
rappresentanza, rappresentazione: cioè messa in scena di uno spettacolo in cui
i protagonisti, venuta meno una loro rappresentatività incarnata nei conflitti
e delle lotte del mondo esterno, prendono senso unicamente dal gioco reciproco
delle loro parti. Destra e sinistra non mettono più in discussione il Reale
Economico che si svolge secondo propri automatismi e proprie autoregolazioni,
che pertengono alle leggi, sempre più estese all’ambito mondiale, intrinseche
all’accumulazione di lavoro e di ricchezza astratti. Ai rappresentanti politici
compete solo la gestione di margini di ricchezza distributiva, che non contraddicono
i princìpi dell’Economia Politica Privata, e che costituiscono il campo di una
messa in scena dell’interesse pubblico ed universale, il confliggere sul quale
è praticato e risolto a colpi di retorica. Per cui, a ben vedere, i logoi della
politica, decidendosi altrove la sostanza delle relazioni sociali, hanno una
destinazione essenzialmente autoriflessiva. Servono, ammantandosi sotto la
parvenza dell’interesse universale, ad alimentare e a legittimare la
sussistenza e la riproduzione di un ceto politico, la cui divisione tra
sinistra e destra, a questo punto, è del tutto interna a un gioco delle parti
strutturato dialetticamente, nel quale ciascun opposto ha necessità, per la sua
più propria identità, dell’esistenza dell’altro.
Ed è talmente vera questa identità solo negativa del partito
politico, che trova le ragioni del suo essere di parte non in sé, e dunque
nella propria ragion d’essere sociale, ma solo per l’altro, ossia attraverso la
negazione/esclusione dell’altro, che nella più recente storia italiana, quando
la sinistra ha cessato di essere partito di classe per tradursi in partito
democratico dei cittadini, ha avuto l’obbligo, per legittimarsi come tale, di
legittimare nello stesso tempo una destra, altrimenti impresentabile, in quanto
lontana perfino da ogni parvenza d’universalità e invece tutta immersa nella
difesa, in qualsiasi modo e con qualsiasi mezzo, del «particulare». Ma appunto,
se la sinistra vive ormai, anziché di radici reali, solo di vita speculativa in
un gioco di rispecchiamento rovesciato con la destra, lo speculum le
è strumento imprescindibile ed essenziale.
Per altro la spettacolarizzazione della politica nel
transito da rappresentanza a rappresentazione non si esaurisce nel passaggio
dei partiti da uno statuto ideologico a uno statuto speculativo. Perché la
spettacolarizzazione comporta anche una tendenza inarrestabile alla
personalizzazione e al cesarismo: ossia, nel linguaggio delle istituzioni, un
prevalere sempre più marcato del potere governativo e una marginalizzazione conseguente
del potere legislativo. Il passaggio della società civile dal marxismo della
classi al (neo-)empirismo dei cittadini infatti non può che generare un effetto
di plusvalore simbolico che precipita su singole personalità, producendo quella
che in termini hegeliani si potrebbe definire una fallace «infinitizzazione di
un finito»2. Quando la società delle relazioni
di classe cede alla società dei molti uno, coincidenti e chiusi nel loro
interesse privato, la tessitura delle relazioni universali che pure attraversa
e riproduce la vita di ogni singolo, rimossa completamente dall’orizzonte visivo
d’ognuno, ritorna proiettata inconsciamente sull’Uno cesareo, che nella sua
individualità gode di un plusvalore d’universalità. Proprio l’esclusione di
ogni relazione dal campo individualistico dei molti uno conduce, pena il
fantasma di una disgregazione atomistica, al plusvalore dell’Uno, simbolo e,
insieme, incarnazione dell’universale delle relazioni. Vale a dire che di tanto
si approfondisce il privato dei molti uno di tanto aumenta per compensazione la
pregnanza di valore e di autorità dell’Uno cesareo.
È il paradigma della governance, dell’efficacia di
un’azione di governo di uno o di pochi, a tutti i livelli decisionali possibili
dell’ambito pubblico, in quanto non ostacolata o rallentata dalla discussione e
dal confronto di chiacchiere nelle più vaste assemblee elettive3. È il paradigma dell’agire, e della
necessità della sua pronta e risoluta efficacia, di contro al paradigma,
estenuante e paralizzante, del confronto e dello scontro tra diversi valori
ideali. È il paradigma della competenza e della risolutezza del logos contro le
traversie e le lungaggini del dialogo.
K. Marx, in quel suo manoscritto giovanile del 1843 a cui è
stato dato il titolo Critica del diritto statuale hegeliano, ancora
intriso di spiritualismo antropocentrico ma vivido d’intuizioni geniali, in un
tempo storico relativamente prossimo alla Rivoluzione francese, poteva scrivere:
«Il potere legislativo ha fatto la Rivoluzione francese; esso, dove è apparso
nella sua particolarità come il dominante, ha fatto in generale le grandi,
organiche, rivoluzioni universali; esso non ha combattuto la costituzione, ma
una particolare, antiquata costituzione, proprio perché il potere legislativo
era il rappresentante del popolo, della volontà del genere [Gattungswillen]. Il
potere governativo invece ha fatto le piccole rivoluzioni, le rivoluzioni
retrograde, le reazioni; esso non si è rivoltato contro una costituzione
vecchia per una costituzione nuova, ma contro la costituzione, proprio perché
il potere governativo era il rappresentante della volontà particolare,
dell’arbitrio soggettivo, della parte magica della volontà»4. Ora, in un tempo storico che ha
visto sottrarre ogni traccia di senso, anche in una pacifica valenza metaforica,
al termine e al concetto di rivoluzione, l’argomentazione marxiana vale in
chiave rovesciata. Il potere governativo sta esautorando sempre più il potere
legislativo, in ogni luogo delle istituzioni pubbliche, sia legiferanti che
amministrative, sia a livello nazionale, che nei vari ambiti locali. Anche e
perché, come si diceva, la caduta dell’interesse alla relazione da parte degli
individui trasformati in cittadini atomizzati, crea, come si diceva, un surplus
di valore simbolico di cui godono i «governatori» della cosa pubblica, che
nella loro individualità si trovano proiettata e depositata quella competenza,
confidenza e pratica con l’universale, cui per principio hanno rinunciato i
molti uno, conchiusi e specializzati ormai nell’imprenditorialità di sé
medesimi.
Politica e metafisica
Tutto ciò conferma che la politica ha profondamente a che
vedere con la metafisica e con le problematiche dell’inconscio e
dell’invisibile, se per oggetto della metafisica si concepiscono i temi, non
immediatamente percepibili attraverso l’esperienza sensibile, dell’Uno e dei
molti, dei nessi tra particolare e universale, delle coerenti e delle fallaci
infinitizzazione dei finiti. Ovviamente a meno di non intenderla secondo
l’ingenuità neoliberale di una prassi decisionale formata da individui che
agirebbero secondo motivazioni e scelte razionali in corrispondenza dei loro
bisogni e interessi consapevoli. Ovvero secondo la prospettiva
neocontrattualistica che vede la politica come il complesso di istituzioni e
strumenti tecnici della mediazione tra le libere volontà di soggetti
presupposti autonomi e individuali5.
Della necessità di non sottovalutare la natura metafisica
della questione politica si era, del resto, ben reso conto, in filosofia
moderna, Hegel quando aveva teorizzato, contro la tradizione individualistica e
contrattualistica della filosofia politica anglosassone che il nesso tra individualità
private della società economica e dimensione e interesse universale della
società politica non poteva darsi secondo una comunicazione e un transito
immediato tra le due sfere, come se appunto un privato individuale pretendesse
di avere conoscenza e competenza, nella limitatezza del suo interesse, della
complessità e della vastità dell’universale. Di qui la necessità di corpi
intermedi tra particolare e universale che valessero appunto a graduare e a
mediare l’eterogenità di società economica, basata sulla libera iniziativa del
singolo, e Stato politico quale complesso d’istituti che prendono ad oggetto
l’universale. Altrimenti non poteva che darsi, come nel passaggio nell’antica
Roma dalla repubblica all’impero, la consegna, da parte della moltitudine dei
molti uno, della res publica al potere, smisurato e infinito,
dell’autocrate imperiale.
Tale paradigma della spettacolarizzazione come inconscia
infinitizzazione di un finito si affianca alle teorizzazioni della vita
psichica collettiva svolte da Freud in Psicologia delle masse e analisi
dell’Io, indirizzate, com’è ben noto, allo studio di fenomeni di totalitarismo
e di mobilitazioni di massa attraverso il meccanismo psichico
dell’identificazione e dell’innamoramento narcisistico con il proprio Ideale dell’Io.
«La mancanza di autonomia e d’iniziativa del singolo, il coincidere della
reazione del singolo con quella di tutti gli altri, l’abbassamento del singolo
– per così dire – a individuo massificato»6, spiegano, con la debolezza
dell’autostima individuale la formazione di uno spirito gregario collettivo e
il riconoscimento di massa nella figura di capi, che personificano l’Ideale
dell’Io fantasticato ma non realizzato da ciascuno.
Ma qui, attraverso il riferimento ad Hegel, stiamo
introducendo un automatismo di rimozione/scissione legato non tanto a forme
politiche di totalitarismo verso le quali sembra maggiormente dirigersi
l’analisi freudiana quanto alla struttura di fondo della stessa democrazia
moderna. È l’autorappresentazione, nel proprio foro interiore, di ciascun
soggetto della società civile moderna come libero soggetto agente sul mercato
dell’economia – è questa rappresentazione fallace e doxastica del sé
individuale – a generare la rappresentazione, parimenti fallace, nel foro
pubblico, di istituzioni rappresentative come luogo della presunta cura e
trattazione dell’interesse universale (salvo, come s’è detto, il riempirsi di
questo contenitore universale della ri/produzione, assai di parte, del ceto
politico), fino a giungere, di teatro in teatro, ad incarnare in un singolo
attore la funzione dell’universalità.
Il passaggio da rappresentanza a rappresentazione è dunque
il modo specifico nel quale il Politico contemporaneo attua e realizza la
superficializzazione e lo svuotamento del mondo che l’Economico capitalistico
sta generando come dimensione generale del vivere nel nostro tempo. Di tale
modo specifico e della sua logica peculiare, ho provato in queste brevi pagine
a riassumere quelle che, a mio avviso, ne costituiscono alcune delle movenze
strutturali. Per uscire dall’impasse di una riflessione solo critica e provare
a far circolare paradigmi diversi e alternativi della politica, non posso che
rinviare il lettore ai diversi editoriali e saggi che su «Consecutio temporum»
hanno provato ad affrontare il tema.
Note
1 Cfr. A. Honneth, Autorealizzazione organizzata. Paradossi
dell’individualizzazione, tr. it. di V. Santoro, in «post filosofie», anno
I, n. 1, Cacucci editore , Bari 2005, pp. 27-44.
2 Su questo concetto si è basata la
mia ricostruzione della giovinezza di Hegel, cui mi permetto di rinviare: R.
Finelli, Mito e critica delle forme.
La giovinezza di Hegel. 1770-1801, Editori Riuniti, 19 (nuova edizione,
Pensa, Lecce..).
3 Cfr. su ciò A. Barbera, La rappresentanza politica: un mito in
declino?, in «Philosophia. Rivista della Società Italiana di Storia della
filosofia», IX, 2/2013, pp. 57-100.
4 K. Marx, Critica del diritto statuale hegeliano, tr. it. e commentario di R.
Finelli e F.S. Trincia, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1983, p. 127.
5 Cfr. su ciò il saggio, sempre
valido, di D. Ferreri, Inattualità
di Gramsci?, in Percorsi della
ricerca filosofica. Filosofie tra storia, linguaggio e politica, Gangemi,
Roma-Reggio C. 1990, pp. 197-213.
6 S. Freud, in Opere, tr. it., vol. 9, Boringhieri,
Torino 1977, p. 305.
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