26/6/15

Da ‘Rappresentanza’ a ‘Rappresentazione’ – L’involuzione della politica nel capitalismo flessibile

Piero della Francesca
Doble retrato de los duques de Urbino
Roberto Finelli   |   Da Rappresentanza a Rappresentazione: in questa formula si può riassumere, a mio avviso, la trasformazione più rilevante che ha subito la Politica nella modernità dell’ultimo quarantennio. Ma non per ragioni autonome, o per una presunta virtù e capacità propria di modificarsi comunque e di assumere con ciò nuove forme – quasi a celebrare la fantasia di tutti coloro che hanno interpretato il moderno come autonomia del Politico -, bensì a seguito di quella trasformazione dell’Economico, che, a mio avviso, l’ha guidata e l’ha fondata quanto a precedenza ontologica nella costituzione della vita sociale, e che è ormai ben nota come passaggio dal fordismo al postfordismo. 
Un mondo rovesciato
Come ormai da più tempo vengo scrivendo questo passaggio epocale va inteso, nel linguaggio della filosofia, come l’approfondimento e la radicalizzazione dell’Astrazione in cui si compendia l’Economico capitalistico, con lo svuotamento del Concreto che ne consegue e la superficializzazione del Mondo che ne costituisce l’esito. 

Vale a dire che con il passaggio dal sistema “macchina meccanica-forza lavoro corporea” al sistema “macchina dell’informazione-forza-lavoro mentale” la valorizzazione della ricchezza astratta attraverso estrazione di plusvalore avviene, almeno nel capitalismo avanzato, non più attraverso costrizione fisica e lavoro corporeo alla catena, ma attraverso consenso e partecipazione, data la messa in gioco nel processo produttivo da parte del lavoratore della conoscenza delle competenze, attitudini e abilità della propria mente. Per cui il processo di lavoro maschera la sua essenza profonda di sfruttamento ed erogazione di lavoro astratto attraverso la messa in scena dell’attivazione di un lavoro, invece, concreto e intenzionalmente partecipe: attraverso cioè l’apparenza di una superficie che dissimula in senso contrario quanto avviene nella profondità dell’essere sociale.

In effetti per intendere il postfordismo io credo sia necessario sbarazzarsi della teoria del feticismo di Marx, legata com’è nel suo parlare di rovesciamento di soggetto e predicato ad una tematica ancora antropocentrica e soggettocentrica, ed elaborare una teoria dell’ideologia che prenda a fondamento quanto F. Jameson ha concepito, nella sua interpretazione della postmodernità, come «effetto-simulacro»: appunto la messa in pratica di processi di svuotamento del valor d’uso e del mondo del concreto che lasciano come realtà apparente solo residui pellicolari di superficie, abbelliti istericamente di ornamenti e veste fittizie per compensare la vuotezza e mancanza ad essere del loro contenuto. Credo cioè sia necessario, al fine di assumere un vertice teorico capace di stringere criticamente postfordismo e postmodernismo, riattualizzare la teoria marxiana del Soggetto storico «Capitale» con una teoria della rappresentazione e dell’immaginazione legata ad una topologia del dentro/fuori, del vuoto/pieno, del contenitore/contenuto, del corpo/pelle. E che dunque sia indispensabile liberarsi dal monopolio lacaniano sull’Immaginario come catturazione e precipitazione simbiotica nel desiderio dell’Altro, con tutte le assunzioni in chiave esistenzialistica/teologica della vita umana come strutturale mancanza ad essere, per accedere, invece, ad una identificazione dell’Altro con il Capitale e seguirlo in tutte le sue mosse di «valore in processo» che non può che colonizzare e ridurre alla sua logica astratta ogni dimensione di vita del concreto.

Senza questa mossa preliminare – di una rifondazione marxiana dell’immaginario che lasci morire la teoria del feticismo e in pari tempo un metter da canto lo schema lacaniano di Immaginario, Simbolico e Reale –, senza una sociologia critica dell’immaginario che muova da una ontologia sociale, da nonconiugarsi, si badi, secondo le categorie arcaiche dell’homo faber lukacsiano, non si riuscirà, io credo, a porre nei giusti termini il tema/problema cui ci consegna questo numero di «Consecutio temporum», vale a dire il nesso tra verità e politica. Ci si accontenterà, al massimo, anche per chi è lontano dall’aver partecipato al coro dell’autonomia del politico, del vecchio e logoro paradigma marxiano di struttura e sovrastruttura, che ha pensato quel nesso sempre nei termini dell’esteriorità e della giustapposizione spaziale, come del causalismo e del meccanicismo più estrinseco. Mentre postfordismo e postmodernismo vanno letti secondo una consustanzialità che li lega intrinsecamente: come, potremmo dire, secondo la connessione dialettica per cui essenza sta ad esistenza, o interno sta ad esterno, nel senso che il secondo termine è sempre l’espressione/rappresentazione opposta e capovolta del primo. Tanto da poter affermare – secondo l’ipotesi che più volte abbiamo già formulato – che il postfordismo è la realtà vera, o verità reale: di cui il postmodernismo è la verità deformata e doxastica, la rappresentazione ed espressione più esteriore e superficiale. Giacché se il postfordismo, come passaggio dalla tipologia storica dell’accumulazione rigida alla tipologia storica dell’accumulazione flessibile, consiste essenzialmente, insieme a molte altre trasformazioni dell’organizzazione produttiva, nell’applicazione di lavoro mentale a macchine informatiche, la produzione di lavoro astratto, linguistico-calcolante che lo caratterizza, appare immediatamente, invece e all’opposto, come impiego di lavoro intellettuale e conoscitivo, di attitudini individualizzanti e personalizzate, di una capacità diproblem solving concreta e particolareggiata1.
Una produzione permanente di empirismo
Né vale dire, io credo, dire che il secolo del linguistic turn sembra ormai essersi esaurito, ossia che di fronte, alla durezza reale e inesorabile della crisi economica e della dilatazione in ogni sfera della vita accumulativa del capitale, il tempo della riduzione dell’Essere a Linguaggio, della frammentazione e decostruzione postmoderna, sembra ormai sorpassato. E che sarebbe tornato il tempo del Reale, rispetto a quello del Simbolico e dell’Immaginario. Perché, a mio avviso, c’è un effetto di deformazione iconico-rappresentativa strutturale immanente al capitalismo postfordista: quale che sia poi la coniugazione e l’interpretazione specifica che i diversi maitres à penser danno di volta in volta di quella riduzione del mondo a superficie. Infatti la radicalizzazione della produzione e della commercializzazione dell’Astratto, riducendo la logica del vivente alla logica accumulativa della propria Quantità, non può che condurre alla catastrofe del valor d’uso e alla conseguente e compensatoria isterizzazione del superficiale e dell’esterno. Ma valorizzazione dell’esteriorità significa negazione e rifiuto dell’interiorità: cioè rinuncia ad una profondità di pensiero e di riflessività. In particolare quando la mente connessa alla tecnologia informatica è per principio volta all’esteriorizzazione linguistico-calcolante e impedita all’interiorizzazione, nel senso peculiare di capacità di mediare logos e pathos, ordine dei significanti linguistici ed alfa-numerici e ordine dei significati, dimensione del conoscere e dimensione del sentire. Tale assenza di risonanza interiore impedisce che, a partire dal proprio più intimo sentire e dalla più propria esperienza di vita, si possa percepire e definire il più proprio essere di parte e, secondo quella parzialità, costruire un senso complessivo del mondo e delle relazioni/opposizioni delle parti. Per cui è definitiva l’atrofia di categorie come totalità, sistema, relazione parte-tutto, a favore di una superficie dell’esperire che si frantuma in un molteplice, le cui singolarità appaiono senza radici e senza connessioni.

È dunque la produzione permanente di empirismo, come preteso conoscere di un mondo composto solo di cose e individui separati, ciò che connota la produzione postfordista come produzione, simultanea, e della ricchezza economica e dei paradigmi percettivo-conoscitivi dell’anthroposmoderno. Ed è appunto tale disposizione generalizzata del nostro apparato psichico a percepire e a conoscere secondo un orizzonte empiristico che sta a fondamento del passaggio della sfera politica dall’ambito della rappresentanza a quello della rappresentazione. Perché la generalizzazione dell’empirismo fa divieto di considerare la vita sociale, e in essa la vita politica, secondo il darsi di relazioni tra classi, o meglio, secondo il darsi dell’esistenza di classi. La categoria marxista è radicalmente esclusa dalla considerazione empirista della storia e della vita sociale: a muovere dall’assunto ontologico ed epistemologico fondamentale dell’empirismo secondo il quale l’universale non è mai reale, in rem, ma sempre e solo nella mente, post rem, quale prodotto e strumento di astrazione concettuale.
Un gioco delle parti
Lo Stato democratico moderno è fondato sulla rappresentanza finché l’Economico è fondato sul Capitalismo Fordista. Perché nel fordismo si dà contrapposizione di classe, attraverso la lotta che si svolge attorno al corpo della forza-lavoro e alla sua normazione. Nel fordismo la costrizione sulla forza-lavoro, perché eroghi lavoro astratto – ossia lavoro regolarizzato ed esente da interferenze soggettive -, è realizzata attraverso la costrizione esterna messa in campo dal sistema di macchine e dal disciplinamento dello spazio e del tempo corporei che esso dispone. Per cui fin quando si dà l’organizzazione fordista del lavoro esistono oggettivamente le classi e la politica deve essere di necessità fondata sulla rappresentanza. Ossia su partiti, che nelle istituzioni rappresentative dello Stato democratico, rappresentano gli interessi di quei corpi collettivi che sono le classi. Certo rappresentanza non significa organicità e continuità d’interessi tra classe e partito politico, giacché nelle democrazie moderne in genere il partito ha espropriato la classe rappresentata dei suoi più propri interessi ed ha interpretato la rappresentanza come un’alienazione del rappresentato a favore della perpetuazione del rappresentante come ceto politico dirigente. Ma rimane comunque, nella democrazia fordista, anche se solo a parole, un contrapporsi di ideologie e di opposte visioni della società e dello Stato che non possono non riferirsi a quell’opposizione, reale ed irriducibilie, che tra le classi si svolge attorno al corpo materiale della forza-lavoro.

Con il postfordismo scomparse le classi, residuono solo gli individui, identificati ormai e trasformati unicamente in cittadini, liberi agenti del mercato, imprenditori di sé medesimi. Con la conseguenza che la politica, perduto il radicamento nella classi, diventa di necessità, da rappresentanza, rappresentazione: cioè messa in scena di uno spettacolo in cui i protagonisti, venuta meno una loro rappresentatività incarnata nei conflitti e delle lotte del mondo esterno, prendono senso unicamente dal gioco reciproco delle loro parti. Destra e sinistra non mettono più in discussione il Reale Economico che si svolge secondo propri automatismi e proprie autoregolazioni, che pertengono alle leggi, sempre più estese all’ambito mondiale, intrinseche all’accumulazione di lavoro e di ricchezza astratti. Ai rappresentanti politici compete solo la gestione di margini di ricchezza distributiva, che non contraddicono i princìpi dell’Economia Politica Privata, e che costituiscono il campo di una messa in scena dell’interesse pubblico ed universale, il confliggere sul quale è praticato e risolto a colpi di retorica. Per cui, a ben vedere, i logoi della politica, decidendosi altrove la sostanza delle relazioni sociali, hanno una destinazione essenzialmente autoriflessiva. Servono, ammantandosi sotto la parvenza dell’interesse universale, ad alimentare e a legittimare la sussistenza e la riproduzione di un ceto politico, la cui divisione tra sinistra e destra, a questo punto, è del tutto interna a un gioco delle parti strutturato dialetticamente, nel quale ciascun opposto ha necessità, per la sua più propria identità, dell’esistenza dell’altro.

Ed è talmente vera questa identità solo negativa del partito politico, che trova le ragioni del suo essere di parte non in sé, e dunque nella propria ragion d’essere sociale, ma solo per l’altro, ossia attraverso la negazione/esclusione dell’altro, che nella più recente storia italiana, quando la sinistra ha cessato di essere partito di classe per tradursi in partito democratico dei cittadini, ha avuto l’obbligo, per legittimarsi come tale, di legittimare nello stesso tempo una destra, altrimenti impresentabile, in quanto lontana perfino da ogni parvenza d’universalità e invece tutta immersa nella difesa, in qualsiasi modo e con qualsiasi mezzo, del «particulare». Ma appunto, se la sinistra vive ormai, anziché di radici reali, solo di vita speculativa in un gioco di rispecchiamento rovesciato con la destra, lo speculum le è strumento imprescindibile ed essenziale.

Per altro la spettacolarizzazione della politica nel transito da rappresentanza a rappresentazione non si esaurisce nel passaggio dei partiti da uno statuto ideologico a uno statuto speculativo. Perché la spettacolarizzazione comporta anche una tendenza inarrestabile alla personalizzazione e al cesarismo: ossia, nel linguaggio delle istituzioni, un prevalere sempre più marcato del potere governativo e una marginalizzazione conseguente del potere legislativo. Il passaggio della società civile dal marxismo della classi al (neo-)empirismo dei cittadini infatti non può che generare un effetto di plusvalore simbolico che precipita su singole personalità, producendo quella che in termini hegeliani si potrebbe definire una fallace «infinitizzazione di un finito»2. Quando la società delle relazioni di classe cede alla società dei molti uno, coincidenti e chiusi nel loro interesse privato, la tessitura delle relazioni universali che pure attraversa e riproduce la vita di ogni singolo, rimossa completamente dall’orizzonte visivo d’ognuno, ritorna proiettata inconsciamente sull’Uno cesareo, che nella sua individualità gode di un plusvalore d’universalità. Proprio l’esclusione di ogni relazione dal campo individualistico dei molti uno conduce, pena il fantasma di una disgregazione atomistica, al plusvalore dell’Uno, simbolo e, insieme, incarnazione dell’universale delle relazioni. Vale a dire che di tanto si approfondisce il privato dei molti uno di tanto aumenta per compensazione la pregnanza di valore e di autorità dell’Uno cesareo.

È il paradigma della governance, dell’efficacia di un’azione di governo di uno o di pochi, a tutti i livelli decisionali possibili dell’ambito pubblico, in quanto non ostacolata o rallentata dalla discussione e dal confronto di chiacchiere nelle più vaste assemblee elettive3. È il paradigma dell’agire, e della necessità della sua pronta e risoluta efficacia, di contro al paradigma, estenuante e paralizzante, del confronto e dello scontro tra diversi valori ideali. È il paradigma della competenza e della risolutezza del logos contro le traversie e le lungaggini del dialogo.

K. Marx, in quel suo manoscritto giovanile del 1843 a cui è stato dato il titolo Critica del diritto statuale hegeliano, ancora intriso di spiritualismo antropocentrico ma vivido d’intuizioni geniali, in un tempo storico relativamente prossimo alla Rivoluzione francese, poteva scrivere: «Il potere legislativo ha fatto la Rivoluzione francese; esso, dove è apparso nella sua particolarità come il dominante, ha fatto in generale le grandi, organiche, rivoluzioni universali; esso non ha combattuto la costituzione, ma una particolare, antiquata costituzione, proprio perché il potere legislativo era il rappresentante del popolo, della volontà del genere [Gattungswillen]. Il potere governativo invece ha fatto le piccole rivoluzioni, le rivoluzioni retrograde, le reazioni; esso non si è rivoltato contro una costituzione vecchia per una costituzione nuova, ma contro la costituzione, proprio perché il potere governativo era il rappresentante della volontà particolare, dell’arbitrio soggettivo, della parte magica della volontà»4. Ora, in un tempo storico che ha visto sottrarre ogni traccia di senso, anche in una pacifica valenza metaforica, al termine e al concetto di rivoluzione, l’argomentazione marxiana vale in chiave rovesciata. Il potere governativo sta esautorando sempre più il potere legislativo, in ogni luogo delle istituzioni pubbliche, sia legiferanti che amministrative, sia a livello nazionale, che nei vari ambiti locali. Anche e perché, come si diceva, la caduta dell’interesse alla relazione da parte degli individui trasformati in cittadini atomizzati, crea, come si diceva, un surplus di valore simbolico di cui godono i «governatori» della cosa pubblica, che nella loro individualità si trovano proiettata e depositata quella competenza, confidenza e pratica con l’universale, cui per principio hanno rinunciato i molti uno, conchiusi e specializzati ormai nell’imprenditorialità di sé medesimi.
Politica e metafisica
Tutto ciò conferma che la politica ha profondamente a che vedere con la metafisica e con le problematiche dell’inconscio e dell’invisibile, se per oggetto della metafisica si concepiscono i temi, non immediatamente percepibili attraverso l’esperienza sensibile, dell’Uno e dei molti, dei nessi tra particolare e universale, delle coerenti e delle fallaci infinitizzazione dei finiti. Ovviamente a meno di non intenderla secondo l’ingenuità neoliberale di una prassi decisionale formata da individui che agirebbero secondo motivazioni e scelte razionali in corrispondenza dei loro bisogni e interessi consapevoli. Ovvero secondo la prospettiva neocontrattualistica che vede la politica come il complesso di istituzioni e strumenti tecnici della mediazione tra le libere volontà di soggetti presupposti autonomi e individuali5.

Della necessità di non sottovalutare la natura metafisica della questione politica si era, del resto, ben reso conto, in filosofia moderna, Hegel quando aveva teorizzato, contro la tradizione individualistica e contrattualistica della filosofia politica anglosassone che il nesso tra individualità private della società economica e dimensione e interesse universale della società politica non poteva darsi secondo una comunicazione e un transito immediato tra le due sfere, come se appunto un privato individuale pretendesse di avere conoscenza e competenza, nella limitatezza del suo interesse, della complessità e della vastità dell’universale. Di qui la necessità di corpi intermedi tra particolare e universale che valessero appunto a graduare e a mediare l’eterogenità di società economica, basata sulla libera iniziativa del singolo, e Stato politico quale complesso d’istituti che prendono ad oggetto l’universale. Altrimenti non poteva che darsi, come nel passaggio nell’antica Roma dalla repubblica all’impero, la consegna, da parte della moltitudine dei molti uno, della res publica al potere, smisurato e infinito, dell’autocrate imperiale.

Tale paradigma della spettacolarizzazione come inconscia infinitizzazione di un finito si affianca alle teorizzazioni della vita psichica collettiva svolte da Freud in Psicologia delle masse e analisi dell’Io, indirizzate, com’è ben noto, allo studio di fenomeni di totalitarismo e di mobilitazioni di massa attraverso il meccanismo psichico dell’identificazione e dell’innamoramento narcisistico con il proprio Ideale dell’Io. «La mancanza di autonomia e d’iniziativa del singolo, il coincidere della reazione del singolo con quella di tutti gli altri, l’abbassamento del singolo – per così dire – a individuo massificato»6, spiegano, con la debolezza dell’autostima individuale la formazione di uno spirito gregario collettivo e il riconoscimento di massa nella figura di capi, che personificano l’Ideale dell’Io fantasticato ma non realizzato da ciascuno.

Ma qui, attraverso il riferimento ad Hegel, stiamo introducendo un automatismo di rimozione/scissione legato non tanto a forme politiche di totalitarismo verso le quali sembra maggiormente dirigersi l’analisi freudiana quanto alla struttura di fondo della stessa democrazia moderna. È l’autorappresentazione, nel proprio foro interiore, di ciascun soggetto della società civile moderna come libero soggetto agente sul mercato dell’economia – è questa rappresentazione fallace e doxastica del sé individuale – a generare la rappresentazione, parimenti fallace, nel foro pubblico, di istituzioni rappresentative come luogo della presunta cura e trattazione dell’interesse universale (salvo, come s’è detto, il riempirsi di questo contenitore universale della ri/produzione, assai di parte, del ceto politico), fino a giungere, di teatro in teatro, ad incarnare in un singolo attore la funzione dell’universalità.

Il passaggio da rappresentanza a rappresentazione è dunque il modo specifico nel quale il Politico contemporaneo attua e realizza la superficializzazione e lo svuotamento del mondo che l’Economico capitalistico sta generando come dimensione generale del vivere nel nostro tempo. Di tale modo specifico e della sua logica peculiare, ho provato in queste brevi pagine a riassumere quelle che, a mio avviso, ne costituiscono alcune delle movenze strutturali. Per uscire dall’impasse di una riflessione solo critica e provare a far circolare paradigmi diversi e alternativi della politica, non posso che rinviare il lettore ai diversi editoriali e saggi che su «Consecutio temporum» hanno provato ad affrontare il tema.
Note
1 Cfr. A. Honneth, Autorealizzazione organizzata. Paradossi dell’individualizzazione, tr. it. di V. Santoro, in «post filosofie», anno I, n. 1, Cacucci editore , Bari 2005, pp. 27-44.
2 Su questo concetto si è basata la mia ricostruzione della giovinezza di Hegel, cui mi permetto di rinviare: R. Finelli, Mito e critica delle forme. La giovinezza di Hegel. 1770-1801, Editori Riuniti, 19 (nuova edizione, Pensa, Lecce..).
3 Cfr. su ciò A. Barbera, La rappresentanza politica: un mito in declino?, in «Philosophia. Rivista della Società Italiana di Storia della filosofia», IX, 2/2013, pp. 57-100.
4 K. Marx, Critica del diritto statuale hegeliano, tr. it. e commentario di R. Finelli e F.S. Trincia, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1983, p. 127.
5 Cfr. su ciò il saggio, sempre valido, di D. Ferreri, Inattualità di Gramsci?, in Percorsi della ricerca filosofica. Filosofie tra storia, linguaggio e politica, Gangemi, Roma-Reggio C. 1990, pp. 197-213.
6 S. Freud, in Opere, tr. it., vol. 9, Boringhieri, Torino 1977, p. 305.




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