Karl Marx ✆ Amarjeet Malik |
Martin Heidegger ✆ Davide Calandrini |
La dialettica si può dire, assai schematicamente, studia la
costruzione della realtà attraverso nessi di opposizione e di distinzione: a
partire dalla definizione platonica per cui la dialettica è l’arte di dividere
secondo generi e specie e di conoscere quali idee si connettano tra di loro e
quali invece si distinguano e si escludano. In Hegel la dialettica rimanda alla
tessitura di una realtà che si costruisce solo mediante opposizione, e questa
è, di fondo, la medesima concezione di Marx, anche se con un profondo
cambiamento di categorie oppositive rispetto a quelle teorizzate da Hegel. In
Heidegger il motivo teorico fondamentale è invece, anziché quello dell’opposizione-contraddizione,
quello della differenza: cioè della differenza radicale, quanto a statuto e
qualità di realtà, che si dà tra Essere, Esserci ed Ente, e che concerne
appunto l’abisso di distanza ed eterogeneità di piani che si dà il Sein, il
Dasein e il Seiendes.
Ontologia dell’opposizione e ontologia della differenza sono
a fondamento di filosofie profondamente divergenti e infatti, non a caso, nel
testo sul comunismo ermeneutico è sia ben più presente e dominante il
riferimento al pensiero di Heidegger che non a quello di Marx. Né mi sembra
avrebbe potuto essere diversamente: a motivo delle differenti epistemologie e
concezioni della verità che quelle ontologie divergenti implicano. Da un lato
la concezione di Marx che afferma esservi una struttura oggettiva e vera della
realtà, da lui definita “Das Kapital”, la quale costituisce un fatto e non
un’interpretazione e che, come tale, in quanto struttura oggettiva di relazioni
sociali e di dinamiche sociali, può essere studiata con la precisione di
un’indagine scientifica. Cioè secondo quanto viene riportato dallo stesso Marx,
nel Poscritto alla seconda edizione del Capitale, citando la recensione del
Viestnik Evropy di Pietroburgo: «Marx considera il movimento sociale come un
processo di storia naturale retto da leggi che non solo non dipendono dalla
volontà, dalla coscienza e dalle intenzioni degli uomini, ma anzi determinano
la loro volontà, la loro coscienza e le loro intenzioni». Dall’altro, dal
versante heideggeriano, il rifiuto di concepire l’attingimento di una possibile
verità oggettiva, perché l’esistenza dell’essere umano è sempre attraversata
dalla differenza ontologica tra Essere, Esserci ed Ente, e l’Essere, per la sua
distanza abissale dagli altri due termini, si svela solo occultandosi,
sottraendosi cioè a qualsiasi identificazione e definizione. Tanto che il senso
delle diverse epoche storiche va inteso come invio destinale dell’Essere e
interpretato attraverso un’ermeneutica, lontana da ogni sapere scientifico e da
ogni pretesa di verità capace di permanenza e di stabilità .
Di fronte a queste due prospettive ontologiche, quella
marxiana e quella heideggeriana, il comunismo ermeneutico sceglie senza ombra
alcuna di dubbio la via heideggeriana. Verità è sinonimo di autoritarismo e di violenza,
in quanto è la pretesa di imporre all’Essere la dimensione dell’Ente,
dell’oggetto, e di ridurlo con ciò ad una mera presenza oggettiva. Una pretesa
che ha caratterizzato, sul piano filosofico, tutta la storia della metafisica
occidentale da Platone ad oggi e che, sul piano sociale e politico, si traduce
in società chiuse ed autoritarie, che, assegnano alle classi dominanti il
privilegio di conoscere la vera struttura della realtà e a derivarne, così,
prestigio e differenziazione sociale. Fino a giungere al nostro mondo
contemporaneo, dove l’Essere stato definitivamente rimpiazzato e sostituito
dagli enti, lasciando spazio incontrastato alla tecnica, quale riduzione a mero
fondo di energia disponibile ed accumulabile sia della natura che dello stesso
essere umano. La scelta heideggeriana è così risoluta – e coerente con la
biografia intellettuale di almeno uno dei due autori, qual è Gianni Vattimo –
che, conseguentemente, per il «comunismo ermeneutico», credo si possa parlare
di un comunismo senza marxismo, e, specificamente, di un comunismo senza Il
capitale. Operazione ovviamente legittima sul piano dell’infingimento d’idee e
della creatività intellettuale, ma assai problematica quanto ad adeguatezza ed
efficacia storico-politica rispetto alla realtà effettiva del mondo in cui
viviamo.
Il cosiddetto pensiero debole, o ermeneutico, unito con
altre prospettive teoriche, quali l’esegesi genealogica d’ispirazione
nietzschiano-foucaultiana e il decostruzionismo di Derrida, nel loro comune
rifiuto della filosofia come scienza degli universali e delle strutture del
permanere, hanno avuto il grande merito di mettere radicalmente in discussione,
con tutta la cultura postmoderna, il marxismo del ‘900 in quanto fondato sul
presupposto di una soggettività forte, organica e compatta, della storia e
della società moderna, quale avrebbe dovuto essere la classe operaia della
grande fabbrica e del fordismo. Pensiero ermeneutico, di area germanica, e
pensiero genealogico-decostruzionista, di area francese, hanno positivamente
continuato, in tal senso, l’opera del cosiddetto marxismo eretico del ‘900 che,
in particolare nella seconda metà del secolo, contro il togliattismo e il suo
storicismo continuista da un lato e dall’altro contro l’operaismo e la sua
esaltazione della rude razza pagana del proletariato operaio, aveva, con varie
voci, già criticato un marxismo provvidenzialista da filosofia della storia,
con la mitologia di una soggettività presupposta all’evolversi storico-sociale.
Ed hanno contribuito, pensiero ermeneutico e decostruzionismo, anche qui
positivamente, a chiarire quanto parlare di soggettività implichi ormai, in
modo irrefutabile, considerare tutta la tematica dell’esistenziale accanto ed
oltre a quella del sociale: includere cioè la dimensione della vita pulsionale
e della dinamica degli affetti, della finitudine dell’esistenza umana, della
natura del desiderio, del rapporto corporeità/logicità.
Ma gli aspetti positivi del pensiero debole si fermano qui.
Giacché esistenziale e sociale, dimensione intersoggettiva e dimensione
infrasoggettiva, asse verticale ed asse orizzontale dell’essere umano, vanno
integrati, in una ricerca teorica e pratica, che sappia coniugarli insieme,
invece che metterli in opposizione. A me sembra infatti che tutta la filosofia dell’esistenziale,
da Kierkegaard a Nietzsche, da Heidegger a Derrida, ha sempre visto il sociale
come il luogo dell’inautentico e del falsificante: come il luogo di una vita
gregaria e massificata, a cui opporre l’autenticità dell’individuazione. Insomma
come il luogo delle false verità e dei fallaci universali – il luogo della
supposta verità oggettiva -, cui opporre, come Leben contro Logos, esistenza
contro essenza, il valore, unico e irripetibile, dell’individualità.
Dunque accogliere l’arricchimento che il pensiero debole ed
ermeneutico ha apportato quanto ad esplorazione della dimensione esistenziale
ed emozionale dell’essere umano ma contemporaneamente non rifiutare una
prospettica realistica di verità, obbligata dal darsi di strutture oggettive e impersonali
dell’essere sociale: questa è, a mio avviso, il campo di ricerca di un nuovo
progetto etico-politico di trasformazione e di emancipazione. Perché la trama
della società capitalistica moderna e contemporanea non rimanda a un processo
senza soggetto, come ha preteso un Althusser, più esposto alle seduzioni del
pensiero di J. Lacan e dello strutturalismo che non alle ragioni di Marx. Il
soggetto della modernità è Il capitale, di cui Marx ha identificato le leggi e
la struttura generale. Tanto più oggi quando l’economico è divenuto soggetto
globale, pur nella varietà proteiforme dei mille capitali, ma tutti rispondenti
alla logica dell’accumulazione dell’Unico Capitale. Anche perché è solo con la
società moderna che l’economico si fa effettivamente struttura dominante e
condizionante l’intero essere sociale, diversamente dalla teorizzazione che lo
stesso Marx, ancora filosofo e metafisico della storia prima della stesura
dell’opera matura, ha voluto fare con la dottrina del materialismo storico e
con la semplicistica riduzione dell’agire umano, nell’intero corso della sua
evoluzione, alla metafora geologico-edilizia di struttura e sovrastruttura (su
ciò mi sia consentito rimandare al mio ultimo testo: Un parricidio compiuto. Il confronto finale tra Marx ed Hegel, Jaca
Book 2015).
Insomma i limiti del comunismo ermeneutico mi sembra
consistano nella debolezza del suo progetto di emancipazione e nella
difficoltà, per non dire impossibilità, di trovare un nesso di articolazione
tra soggettivo ed oggettivo, tra individuazione e socializzazione. Perché ciò
che oggi sarebbe necessario, quanto a un progetto di rinnovamento e di
fuoriuscita dalla gabbia d’acciaio della società del capitale, è, a mio avviso
una teoria della soggettività adeguata al confronto con la soggettività per
eccellenza della modernità che è quella del Capitale. Ed appunto perciò non
credo che con la teoria della tecnica proposta da Heidegger si possa indagare
criticamente una fenomenologia della soggettività capitalistica, ossia i
processi inautentici d’individuazione che oggi mette in essere la produzione di
capitale: qual è la contemporanea caratterizzazione linguistico-computazionale
di una soggettività che, privata d’interiorità emozionale, partecipa, con
incolpevole consenso, ai processi del proprio svuotamento e della propria
eteronomia. Tale dialettica di svuotamento e insieme di partecipazione
compensativa di superficie può essere, a mio avviso, assai meglio spiegata con
la teoria marxiana del Capitale quale valore astratto in processo che non
attraverso una teorizzazione circa l’invio destinale dell’Essere.
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